INTERVISTA CONCESSA DA MONS. BERNARD FELLAY,
SUPERIORE GENERALE DELLA FRATERNITÀ SAN PIO X,
Alla PUBBLICAZIONE RELIGIOSA "PACTE"

 n. 56, estate 2001

(le sottolineature sono nostre)





Monsignore, qual è lo stato attuale dei negoziati con Roma?

Attualmente siamo ad un punto morto, una sorta di vicolo cieco. Penso che questo blocco derivi dalle stesse basi sulle quali si è impostato il dialogo. In ogni caso bisogna riconoscere che in qualche modo, il fallimento odierno ci permette di ritrovare gli elementi che ci caratterizzano: oggi riascoltiamo da Roma lo stesso linguaggio abituale della Roma conciliare, ritroviamo gli stessi e abituali modi di pensare, le abituali limitazioni nel dialogo che si stabilisce con noi. La situazione in cui ci troviamo oggi la conoscevamo già bene, ritroviamo l’eterno dilemma che ci si impone: o ritornate nel circuito della Chiesa, vi si mette in una gabbia, vi si impedisce di parlare, o rimarrete fuori. Questo dilemma entro il quale ci si vuole nuovamente costringere, noi lo rifiutiamo. È piú che chiaro che noi non siamo fuori, e non ci lasceremo mettere in gabbia. Constatare che dopo sei mesi di negoziati ci si trovi nuovamente al cospetto di una posizione romana dura nei nostri confronti, ci permette, a mio avviso, di ritrovare i nostri elementi caratteristici.

Insomma, Monsignore, voi dite che su questi negoziati si è fatto tanto rumore per nulla…

Non per nulla, al contrario. Indiscutibilmente qualche cosa è accaduto, qualcosa che modifica stabilmente il clima dei nostri rapporti futuri. Ci troviamo in un momento di recesso, è vero, perché Roma non vuol discutere sulle questioni di fondo, ma, al tempo stesso, si è verificato qualcosa di nuovo. Innanzi tutto, l’autunno scorso, Roma ci ha interpellati in maniera del tutto nuova e ci ha fatto delle proposte che ancora oggi è difficile valutare completamente nella loro portata reale. In effetti, giuridicamente, non si erano mai viste tante facilitazioni. Mai avremmo immaginato che Roma potesse presentarci una proposta simile. Senza dubbio avrete sentito parlare dell’idea di una amministrazione apostolica. La Fraternità San Pio X sarebbe stata integrata in una amministrazione apostolica. Che significa? L’amministrazione apostolica, ordinariamente, è una struttura diocesana, o quasi, in una data situazione di crisi, su un territorio determinato. Ebbene, per noi questo territorio sarebbe stato il mondo intero. In altre parole ci è stata offerta una struttura che coprirebbe il mondo intero, una specie di diocesi personale…

Scusate l’interruzione, Monsignore, intendete parlare di una prelatura personale?

Non esattamente. L’amministrazione apostolica è piú di una prelatura personale. Innanzi tutto la prelatura personale non è necessariamente governata da un vescovo. L’amministrazione apostolica invece, che è quasi una diocesi, abitualmente lo è. Poi, e soprattutto, l’amministrazione apostolica non è limitata ai suoi membri. L’Opus Dei, che è la prelatura personale oggi esistente, non è sottomessa la vescovo locale solo per tutto ciò che concerne i suoi membri, ma non può agire all’esterno senza l’accordo del vescovo. Con l’amministrazione apostolica noi sfuggiremmo a questa restrizione. Potremmo condurre un’azione apostolica autonoma senza bisogno di chiedere alcuna autorizzazione al vescovo diocesano, poiché saremmo una vera diocesi la cui particolarità è quella di estendersi nel mondo intero. È molto importante che sia stata avanzata questa proposta, essa potrà rappresentare, da un punto di vista giuridico, un punto di riferimento, un elemento di comparazione. Tanto piú che tale proposta è stata offerta alla Fraternità San Pio X, il che dimostra quanto Roma prenda sul serio la nostra resistenza. Non è per gloriarci che lo dico, mi creda: simbolicamente (non è certo una questione di numeri) noi rappresentiamo qualche cosa di importante per Roma, e anche questa è una novità.

Monsignore, se questa proposta è cosí straordinaria, ed effettivamente cosí sembra, viene da chiedersi: ma perché non avete accettato immediatamente questo accordo pratico che vi è stato offerto su un piatto d’argento?

Avete ragione, si tratta di una proposta straordinaria, e se Roma volesse veramente una riforma si tratterebbe della strada che occorrerà intraprendere, cosí come l’abbiamo descritta prima. Ma è necessaria una vera volontà di riforma. Per adesso è molto difficile sapere con esattezza a cosa ci avrebbe condotto la firma di un accordo del genere. Una cosa è certa: gli elementi esterni conosciuti non erano favorevoli alla conclusione di un rapido accordo, senza alcuna precauzione. Questi elementi sono, prima di tutto, la maniera con cui Roma si è comportata nei confronti della Fraternità San Pietro, imponendo il principio della celebrazione della nuova messa, contro le costituzioni della Fraternità e contro il diritto che Roma stessa aveva concesso dieci anni fa a questa società religiosa.
Del resto, un certo numero di preti della Fraternità San Pietro sono venuti a trovarci, dicendoci: non accettate questa soluzione, non firmate, sarebbe la vostra fine… Per di piú, abbiamo avuto subito sotto gli occhi la reazione di un certo numero di vescovi e di cardinali: furiosi, e lo erano fino al punto che alcuni (parlo dei vescovi francesi) hanno minacciato la disobbedienza. E questo è niente: la Francia, per mezzo del cardinale, ha minacciato apertamente Roma di entrare in disubbidienza… Quale sarebbe stata la reazione di Roma? Si sarebbe determinata una battaglia formidabile, e noi avremmo potuto condurla solo se Roma ci avesse chiaramente sostenuti. È in questa ottica che abbiamo proposto due condizioni preliminari, che consideriamo come i due indispensabili elementi significativi del sostegno romano. Propriamente parlando, non si trattava di due condizioni preliminari, come è stato detto e scritto: un cattolico non può sottomettersi a Roma “a condizione”! No, si trattava semplicemente di ottenere, in vista della battaglia che si sarebbe immancabilmente scatenata,  un chiaro segno di adesione di Roma alla sua Tradizione.
Ed allora abbiamo chiesto questi due segni, da un lato il ritiro della scomunica, dall’altro il permesso per tutti i preti di rito latino, senza distinzione, di celebrare la messa tradizionale…
Credo che queste due misure fossero di natura tale da provocare un vero cambiamento nel clima della Chiesa universale.

E per un momento avete creduto che queste due richieste avrebbero potuto essere accettate, malgrado i motivi che vi rendevano circospetti, come avete appena detto?

Innanzi tutto non eravamo sotto pressione. E peraltro è questa la grande differenza col 1988: allora, Mons. Lefebvre doveva assicurare rapidamente l’avvenire della sua opera. Oggi, questo avvenire non è piú un interrogativo, ma il nostro presente: abbiamo dimostrato che da piú di dieci anni esso è assicurato.
Potevamo dunque valutare, avere il tempo di studiare le proposte che ci erano state fatte. È vero, c’è stato un momento che abbiamo creduto ad un vero cambiamento da parte di Roma. E bisogna dire che in ciascuno dei nostri incontri era percettibile un cambiamento di linguaggio. Il 13 marzo, per esempio, ci è stato detto: “Il papa conta su questa soluzione (la soluzione giuridica che abbiamo indicato prima), non bisogna aver paura. La Chiesa ha bisogno di voi e vi chiede di aiutarla nella sua battaglia contro il liberalismo, il modernismo, la massoneria; non bisogna rifiutare di aiutarla”. Certo! Erano parole, e ci siamo sempre chiesti se le medesime parole significavano la stessa cosa per il Vaticano e per noi. Penso di no.

Avete appena parlato dei negoziati di Mons. Lefebvre con Roma nel 1988. Si può fare un paragone con quelli di oggi?

Non hanno niente in comune. Nel 1988 Mons. Lefebvre, sentendo prossima la sua fine, desiderava prima di ogni cosa assicurare la perennità della sua Fraternità. Roma voleva evitare le consacrazioni conferite senza il suo avallo e desiderava ottenere da Mons. Lefebvre, attraverso una formula ambigua, un riconoscimento del concilio. La discussione, frettolosa, era dunque in parte dottrinale. Quello che è accaduto oggi è tutt’altra cosa. Ci sono venuti a cercare e fin dall’inizio il problema dottrinale è stato scartato. Roma non ha voluto parlare di dottrina.

Potete descriverci brevemente lo svolgimento di questi negoziati?

Volentieri… Innanzi tutto l’origine di questi negoziati: l’iniziativa è venuta da Roma. Ricevo una lettera del cardinale Castrillon Hoyos in data 18 novembre, che è un invito (in seguito all’intervista pubblicata in 30 Giorni) a incontrarlo per preparare una visita al Santo Padre. Questo incontro ha avuto luogo il 29 dicembre… Il 30 vi è stato l’incontro col papa, molto breve a causa di una mancanza di coordinamento: a dire il vero non vi è stato alcun incontro…

L’Agenzia del Vaticano, Zenit, ha detto che avete assistito alla messa del papa…

È una frottola. Ho visto il papa, ma per qualcosa come 5 minuti tutto compreso, e per un buon istante siamo rimasti nella sua cappella privata, in silenzio. Poi il papa si è alzato, mi ha augurato un buon anno, l’ho salutato, ed egli ha chiesto se ci eravamo parlati. Il cardinale Hoyos ha risposto di sí. Sono contento, ha detto. Ci ha dato un rosario, ci ha benedetti e ce ne siamo andati…

Quindi non v’è stata al cuna conseguenza immeditata…

No. Semplicmente, il 13 gennaio, ho convocato il consiglio generale, con gli assistenti, i vescovi e un prete della diocesi di Campos, in Brasile, il padre Rifan, in rappresentanza di Mons. Rangel. Il 16 gennaio, ho comunicato oralmente la nostra decisione al cardinale Hoyos: chiediamo due condizioni preliminari, il ritiro del decreto di scomunica e la messa per tutti i preti di rito latino.
Il 12 febbraio, il padre Simoulin, che è il Superiore della Fraternità in Italia, viene informato che non ci si potevano accordare queste due richieste come erano state avanzate, ma che bisognava avere fiducia nel Santo Padre.
Il 19 febbraio, in seguito a questa risposta, ho delegato il padre Sélégny, co-autore del recente libro sulla Riforma liturgica, per riferire che ci saremmo saremmo ritirati, visto che la nostra richiesta non veniva accettata. Al tempo stesso, egli ha consegnato il libro, appena pubblicato, al cardinale Hoyos, per sollecitarlo a trovare un altro terreno di discussione, piú dottrinale. Si può dire che da allora le discussisoni non sono state veramente riprese, ognuno è fermo sulle sue posizioni…
Il 13 marzo, nuovo scambio telefonico tra il cardinale e il padre Simoulin, all’indomani di una riunione plenaria della Commissione Ecclesia Dei, che si occupa della Fraternità San Pietro. È mio convincimento che da allora tutti i giuochi erano stati fatti. Si annuncia una plenaria della Curia (una riunione dell’insieme dei cardinali romani) che tratterà esclusivamente del nostro caso. Il cardinale Hoyos afferma che ci si accorderà tutto contemporaneamente, senza alcunché di preventivo: “Il papa parlerà della messa, ma unicamente al momento del (nuovo) Motu proprio, per far sí che scoppi una bomba alla volta”.
Il 19 marzo, gli scrivo per confermargli la necessità delle richieste preventive, come segni inequivocabili della benevolenza di Roma, sottolineando che una soluzione puramente pratica, che non trattasse delle differenze dottrinali, sarebbe impossibile.
Il Venerdí Santo, il 13 aprile, il padre Simoulin riceve una telefonata con la quale gli viene confermato che non è possibile accordare la richiesta sulla messa: “Non è possibile sconfessare l’opera del Concilio e di Paolo VI, concedendo la totale libertà alla messa tradizionale”. “Le opposizioni dei cardinali sono troppo forti, il papa non può non tenerne conto”. Certi tradizionalisti “possono avanzare degli appunti teologici su dei punti particolari”, ma la critica del Concilio non è permessa.
A partire da quel momento i discorsi cambiano…
Vi è un cambiamento di tono, e credo che la ragione profonda sia proprio il rifiuto dei cardinali (fino alla pubblica disobbedienza s’è necessario, come ho già detto). Nel corso di una visita di cortesia, il 2 maggio, il padre Rifan e il padre Simoulin hanno ascoltato queste strane parole, che fanno quanto meno riflettere sulla stato della Chiesa: “Come la Fraternità non vuole dividersi, cosí il papa non può dividere i suoi cardinali…”. Credo veramente che questa frase ci faccia toccare con mano il fondo del problema: un buon accordo non dipende solo dalla buona volontà degli uni e degli altri. Le strutture della Chiesa conciliare sono molto forti e l’ostilità feroce di un certo numero di cardinali impedisce a Roma di considerare una vera riforma della Chiesa.
Oggi, in ogni caso, la speranza si allontana…
Il cardinale Hoyos, rifiutando le due condizioni preliminari, ci domanda la fiducia: “il caso della messa sarà simultaneamente regolato con quello della Fraternità, bisogna avere fiducia”. Il che significa: niente preliminari, vi si darà tutto contemporaneamente. Tutto il problema, per noi, era di sapere se dietro le parole si fosse veramente d’accordo; alla lettura dell’ultima lettera del cardinale, datata 7 maggio e vistata da tutti i cardinali dell’Ecclesia Dei, era chiaro come non si fosse d’accordo. Per esempio, a proposito della messa tradizionale, si prenda questo giudizio del cardinale Hoyos col quale si giustifica l’impossibilità di poter accordare il permesso per tutti i preti di rito latino: “Per quanto concerne la prima condizione, un certo numero di cardinali, vescovi e fedeli ritengono che un tale permesso non debba essere concesso”. Questa reticenza mi ha sorpreso, perché noi non abbiamo parlato con un certo numero di cardinali, di vescovi e di fedeli, ma con lo stesso cardinale Hoyos. Ed ecco cosa ci si risponde. All’inizio si diceva: il Papa è d’accordo, accorderà tutto. Poi piú niente è possibile. Ed allora non si sa piú chi governa la Chiesa.
E poi, sempre nella stessa lettera, ecco un’altra formulazione: “Questo permesso potrebbe creare una confusione nello spirito di molte persone, che la intenderebbero come un deprezzamento del valore della santa messa che la Chiesa celebra oggi”. E qui si ritrova, come dicevo prima, il discorso classico del Vaticano quando si affronta il problema della messa tradizionale. “Non è possibile sconfessare l’opera del Concilio, concedendo la totale libertà alla messa tradizionale” (cardinale Hoyos).
Ed ecco un altro passaggio sul Concilio: “Non possiamo cadere nell’errore che consiste nel farne una libera lettura o nel ricorrere a delle interpretazioni non autorizzate. Il linguaggio del concilio si perfeziona e si precisa in diversi punti grazie in particolare agli interventi e agli insegnamenti del papa Giovanni Paolo II”. Vi è dunque una maniera autorizzata di comprendere il concilio, non alla luce della Tradizione, ma alla luce dell’insegnamento del papa attuale. E in risposta ho allora detto: “Ebbene, se si seguono le sua autentiche interpretazioni si finisce ad Assisi, nel bel mezzo del consesso inter-religioso, o nelle foreste sacre del Togo, nella sinagoga o nella moschea, che so io. Se sono queste le precisazioni che ci si deve aspettare…”
E in questa lettera si trova espresso perfino il famoso rimprovero del “Motu proprio” del 1988, presentato certo in maniera piú bonaria, ma in definitiva si dice sempre: “Sono sicuro - scrive il cardinale Hoyos - che su questo punto [cioè sull’interpretazione del Concilio], possiamo giungere ad un accordo quando comprenderemo le necessità piú profonde della chiesa [quindi adesso non sono comprese], necessità che occorre comprendere a partire da una prospettiva storica piú ampia”. Egli cita san Vincenzo di Lerino e l’idea del progresso della tradizione. In altre parole, secondo Roma, noi non abbiamo un sano concetto della Tradizione, ne conserviamo una concezione bloccata, e l’accordo si potrà fare solo quando essa si sarà… sbloccata, se mi permettete l’espressione. Il che significa che il Concilio bisogna comprenderlo bene, e Roma lo comprende bene, mentre noi lo comprendiamo male. Ecco cosa ci scrive il cardinale. E questo perché si leggono degli autori che non sono buoni (che sono proscritti dalla Chiesa conciliare)? E questo perché non si è compreso che vi è una evoluzione del tutto legittima del pensiero? In ogni caso, in quest’ultima lettera, la nostra critica del Vaticano II si trova squalificata in abbondanza.

Dunque la vostra opinione è che non possiamo fare evidentemente tali concessioni dottrinali?

Occorre cominciare dall’inizio: perché ci troviamo nella situazione attuale? Roma si è rivolta a noi dicendo: sentite, voi avete un problema, occorre regolarlo. Voi siete fuori, bisogna che rientriate, a certe condizioni. E noi non possiamo che rispondere: non è cosí. Se ci troviamo nella situazione in cui siamo attualmente (che è una situazione di esclusione e di persecuzione), non siamo noi la causa. La causa è a Roma, è perché Roma ha delle gravi deficienze che Mons. Lefebvre ha dovuto prendere delle posizioni di distacco, delle posizioni che permettono di conservare certi beni della Chiesa che si correva il rischio compromettere. Adesso Roma si presenta con bonarietà, quand’è proprio da Roma che dovrebbe venire un “mea culpa” per questa terribile crisi interna che lacera la Chiesa. Roma ha commesso un’ingiustizia e mette la colpa a noi. La soluzione, evidentemente, non è dalla nostra parte che occorre cercarla, ma da parte di Roma. Occorre che Roma rimetta le cose a posto, ritorni alla Tradizione. Allora tutto si muoverà da solo. Non vi sarà piú un problema della Fraternità.
“Noi dobbiamo conservare la nostra libertà d’azione in tutta la Chiesa”.

In fondo chiedete un pentimento?

Si può parlare di pentimento?  Ma di quello vero allora… che presuppone un dialogo teologico. Vedete, io credo che nei recenti negoziati si è girato a vuoto perché la premessa (non espressa come tale) che Roma ci ha imposta è stata “niente teologia”. Un accordo pratico, una soluzione giuridica subito, per la teologia si vedrà dopo. Noi diciamo invece: la dottrina governa la nostra pratica e fin dall’inizio. E sono convinto che è giunto il momento di parlare di dottrina anche a molti giovani preti, e a quei fedeli che prendono coscienza della gravità della crisi della Chiesa. In particolare vi è un movimento a favore della messa antica che occorre nutrire, che bisogna sostenere. Dobbiamo accogliere e formare tutti coloro che lo chiedono. E tuttavia, per adesso, bisogna favorire il movimento induttivo che raccoglie molto dal mondo della Tradizione a partire dai problemi concreti (messa, ecumenismo,…)
Sulla messa, molta gente è pronta a recepire le nostre analisi. Roma non è pronta per un dibattito approfondito? Non vuole discutere con noi? Ebbene, occorre che noi si lanci il dibattito nei confronti di coloro che comprendono che non è possibile chiudere gli occhi e fare come se niente accada, mentra la barca fa acqua da tutte le parti.

Monsignore, voi parlate dei fedeli che devono tornare alla Tradizione, ma che ne è degli stessi tradizionalisti, di coloro che sono già a casa? Hanno compreso la vostra linea?

Vi ringrazio per questa domanda, e vi devo dire che in questi ultimi mesi, molto spesso, prima che abbia avuto modo di parlare, mi sono trovato al cospetto di una incomprensione da parte di certi fedeli che immaginavano che la nostra fosse una linea di compromesso, mentre questa non è stata mai nelle mie intenzioni. Noi siamo in guerra con tutti i mezzi, con tutte le armi, convenzionali e non. Non si tratta di concessioni, né di compromessi, neanche di espedienti, noi non negoziamo una ricomposizione, ma proviamo a realizzare tutto ciò che possiamo per una vera riforma della Chiesa e, nell’attesa, visto che questa riforma non dipende da noi, vogliamo salvare tutto quello che può essere salvato utilizzando tutti i mezzi che il Buon Dio mette a nostra disposizione. In questa prospettiva, penso che in questi ultimi mesi abbiamo messo a segno molti punti. Bisogna continuare, è per questo che non voglio parlare di rottura. Noi abbiamo potuto constatare invece che vi è una mutua attesa, ma che si muove su due lunghezze d’onda diverse.

E per l’avvenire, Monsignore?

Vorrei ricorrere ad un paragone audace: la Chiesa conciliare è come un termitaio che si rode dall’interno. Dopo 30 anni e piú, vengono applicati gli stessi principi, con una coerenza impertubabile, malgrado i loro frutti catastrofici. Questi negoziati hanno suscitato, all’interno della stessa Chiesa conciliare, delle grandi speranze nell’ànimo di coloro, sempre piú numerosi, che ormai vogliono voltare la pagina della Rivoluzione conciliare. In questo contesto, le proposte che ci sono state fatte sei mesi fa lasciavano pensare che tutto sarebbe stato facile. Andando un po’ piú in là, abbiamo visto che in effetti si trattava di una gabbia dorata, poiché le nostre critiche non venivano ammesse e addirittura venivano considerate illegittime nella Chiesa. Allora preferiamo conservare la nostra libertà d’azione in tutta la Chiesa, senza lasciare che ci mettano in isolamento nello zoo della Tradizione. Occorre soccorrere il mondo cattolico che si assopisce nel letargo post-conciliare, occorre rilanciare il dibattito, ma senza i limiti imposti da un accordo unicamente pratico. Si tratta certo di un lavoro lungo, di cui non si vedono immediatamente i frutti, ma è necessario mettere in essere ogni cosa perché cambi il clima, l’ambiente, perché la Tradizione ritrovi il suo diritto a Roma, perché Roma ritorni alla sua Tradizione.




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