Intervista con Monsignor Fernando Arêas Rifan
Amministratore Apostolico 
dell'Amministrazione Apostolica Personale San Giovanni Maria Vianney 
di Campos in Brasile

(Abbiamo aggiunto in appendice il testo dei Canoni del Codice di Diritto Canonico 
che Mons. Rifan cita alla fine dell'intervista)



La Nef - maggio 2003

A cura di Christophe Geffroy

Bilancio positivo!

La Nef ­ E’ più di un anno che la vostra Amministrazione apostolica è stata eretta da Roma: qual è il primo bilancio che può fare?
Mons. Rifan ­ La crisi nella Chiesa continua e, in questo contesto in cui si tentano tutte le esperienze, Mons. Lefebvre aveva chiesto al papa di poter fare “l’esperienza della Tradizione”: è quello che noi facciamo con l’Amministrazione apostolica, in piena unione con Roma, e anche di più. Quindi il bilancio è positivo.

L. F. - Quali contatti e quali relazioni vi sono tra la diocesi di Campos e la vostra Amministrazione apostolica?
M. R. - Quantunque siamo ritualmente e giuridicamente indipendenti, ci troviamo nello stesso territorio della diocesi di Campos, vi è dunque la necessità di mantenere con la diocesi locale dei rapporti di buon vicinato e di convivialità, specialmente col suo vescovo Mons. Roberto Gomez Guimaraes, dal quale mi reco spesso in visita. D’altronde, Dom Roberto, che fu mio professore al seminario diocesano e che fu ordinato come me da Mons. De Castro Mayer, ha dato e dà tutto il suo appoggio all’Amministrazione apostolica e rispetta totalmente la nostra indipendenza e le nostre caratteristiche.

L. N. - Da quando lei è vescovo, che cos’è cambiato nel suo modo di guardare alla Chiesa?
M. R. - Forse oggi ho una visione più universale della Chiesa e una comprensione più esatta della crisi. Nonostante conservi i principi che ho sempre difeso e denunci gli errori che ho sempre combattuto, si sono rivelati necessari un certo esame di coscienza e la correzione di certi comportamenti, perché fossero più conformi ai principi che difendiamo. E’ una questione di coerenza.

L. N. - La “resistenza tradizionalista” è nata col concilio Vaticano II e si è sviluppata soprattutto in occasione della promulgazione del nuovo Ordo: come considera oggi questa resistenza?
M. R. - Questa “resistenza tradizionalista”, che è esistita ed esiste ancora, è accettabile quando è fatta in maniera costruttiva, piena d’amore per la Santa Chiesa e di rispetto per l’autorità costituita. Il concilio Vaticano II ha permesso al modernismo di rialzare la testa: in nome del concilio ­ divenuto “il” concilio, come se fosse il solo e come se la Chiesa avesse avuto inizio da quel momento -, e approfittando delle sue imprecisioni, si sono introdotte delle novità che hanno provato a distruggere il passato e la Tradizione della Chiesa e hanno causato molti danni. L’“aggiornamento” voluto dal beato Giovanni XXIII è stato particolarmente male interpretato e applicato. Paolo VI ha definito questa crisi «l’autodistruzione della Chiesa», ed ha affermato che «il fumo di Satana è entrato in mezzo al popolo di Dio» (29 giugno 1972). Anche Giovanni Paolo II ha deplorato che «sono state diffuse a piene mani e insegnate delle idee contrarie alla verità rivelata: si diffondono delle vere eresie in campo dogmatico e morale… Anche la liturgia è stata violata» (discorso al congresso delle missioni, 6 febbraio 1981). E’ chiaro che a queste derive dovevano prodursi la reazione o la resistenza.

L. N. - Lei ha dichiarato più volte di accettare il concilio Vaticano II a condizione che sia interpretato conformemente alla Tradizione: questo significa chiaramente che per lei il concilio non segna alcuna fondamentale rottura col Magistero della Chiesa?
M. R. - Come ho già spiegato, la nostra resistenza dev’essere costruttiva e non distruttiva. Diversamente: con una mano si costruisce e con l’altra si distrugge. Non si ha il diritto di combattere l’eresia cadendo nello scisma e viceversa. Nella nostra dichiarazione, in occasione della nostra intesa con la Santa Sede, noi abbiamo detto: «Riconosciamo il concilio Vaticano II come uno dei concili ecumenici della Chiesa cattolica, accettandolo alla luce della Sacra Tradizione». Giovanni Paolo II mostra l’esempio quando parla della «dottrina integrale del concilio» che, spiega, è la «dottrina compresa alla luce della Santa Tradizione e riferita al magistero costante della Chiesa» (discorso alla riunione del Sacro Collegio, 5 novembre 1979). Gli insegnamenti del concilio devono dunque essere accettati in accordo con l’insieme del Magistero della Chiesa e alla luce della Tradizione. Se vi sono delle critiche da fare, esse devono tenere conto dell’autorità del Magistero ed essere rispettose e costruttive, per non peccare contro l’indefettibilità della Chiesa. Dio, che permette queste crisi nella Chiesa, in questa stessa Chiesa ci dà, per mezzo del suo Magistero, i mezzi per risolverle. Nostro Signore è fedele alle sue promesse: “Le porte dell’Inferno non prevarrano contro di essa” (Mt 16, 18).

L. N. - Prima di quest’accordo con Roma, eravate molto vicini alla fraternità San Pio X (FSPX): quali sono da allora i vostri rapporti con essa?
M. R. - Noi abbiamo cercato di essere i più cordiali possibili con la FSPX e i suoi superiori, ma dopo che li abbiamo informati che avevamo delle serie ragioni per proseguire i contatti con Roma che loro non avevano intenzione di mantenere, hanno cominciato a criticarci severamente, cercando anche di disonorarci mettendo in dubbio le nostre intenzioni e provando a creare delle divisioni tra i nostri fedeli. Dopo il nostro riconoscimento da parte della Santa Sede, i dirigenti della FSPX hanno tolto il nostro nome dalle liste delle messe tradizionali e hanno cominciato a promuovere delle messe nelle zone dove celebriamo noi. Significherebbe che la messa tradizionale è buona solo quando è separata dalla Gerarchia? Ma, grazie a Dio, i nostri fedeli distinguono l’amore per la Messa tradizionale da questa cattiva attitudine che fa della Messa una bandiera contro la Gerarchia. Mons. Williamson (uno dei quattro vescovi della FSPX), in una lettera pubblica agli amici e benefattori, ha affermato che «Campos è caduta… nelle grinfie della Roma neo-modernista… è affondata nelle acque dell’apostasia… I preti di Campos perderanno la loro salute mentale e piomberanno nella follia e nel tradimento di Roma». L’abbé de Tanoüarn, di Saint-Nicolas du Chardonnet, ha scritto che la nostra Amministrazione apostolica «è stata concepita in maniera diabolica, come una riserva indiana». Questi attacchi sono deplorevoli e non servono alla causa che pretendono di difendere.

L. N. - Come vede l’avvenire della FSPX, le sembra sempre possibile un accordo con Roma?
M. R. - Certi preti della FSPX si augurano un accordo con Roma, ma chiaramente non i responsabili. Sfortunatamente la FSPX ha cercato di conservare la sua unità con la paura. Certi preti, che ci approvano, ci scrivono, lo fanno in segreto perché è molto pericoloso essere in disaccordo con i superiori della Fraternità. Si può criticare tranquillamente il papa, ma non i superiori della Fraternità… E vi sono delle punizioni per tutti coloro che, pubblicamente, escono da questa linea ufficiale: l’abbé Aulagnier è stato ridotto al silenzio completo ed esiliato in Canada, per aver approvato la nostra Amministrazione apostolica e per aver assistito alla mia ordinazione episcopale.
L’opposizione contro la Santa Sede è sempre più dura e radicale. Mons. Williamson ha scritto che non si deve rendere culto ufficiale o pubblico a san Padre Pio, per non fornire alcun credito alle canonizzazioni fatte da Giovanni Paolo II (lettera pubblica del dicembre 2002). E l’abbé Peter Scott, rettore del seminario della FSPX in Australia, in u«a lettera pubblica del 1 novembre 2002, ha scritto agli amici e benefattori a proposito dei misteri luminosi proposti dal papa: «Se volete rimanere cattolici e se volete perseguire la vera vita interiore soprannaturale, io vi chiedo di non pensare neanche di pregare questi misteri».
Lungo questa linea i più logici arrivano al sedevacantismo, come mi ha scritto l’abbé Basilio Meramo, priore della FSPX di Bogotà: «Giovanni Paolo II, con i suoi errori e le sue eresie, con tutto il suo modo d’azione dottrinale e di governo, non dà la garanzia di essere il legittimo successore della Cattedra di Pietro, al contrario… Com’è possibile che si debba disobbedire al papa per rimanere fedeli a Cristo e alla nostra Madre Chiesa, quando è proprio il papa che ha il compito di confermarci nella nostra Fede? Di conseguenza, la spiegazione che meglio si adatta teologicamente… è quella di un papa illegittimo, di un antipapa…» (lettera del 2 maggio 2002). Per avere un’idea del “clima diplomatico” in cui si muove il dialogo o l’accordo, basta leggere la lettera del 29 maggio 2001 di Mons. Williamson al cardinale Castrillon: «Eminenza, se all’inizio del nostro dialogo non avessi dichiarato di avere solo un’infima, se non nessuna, speranza di lanciare un ponte sull’abisso che separa i nostri due piani mentali, potrei e dovrei dirle che lei è una vittima in fase terminale del neomodernismo, a causa di un “diabolico disorientamento” (suor Lucia), mentre la FSPX è cattolica, per grazia di Dio e mai senza di essa (I Cor 10, 12). Che Dio le conceda i suoi lumi…». Insomma, Mons. Williamson afferma che «la Fraternità San Pio X si mantiene nella Verità via via che Roma se ne allontana» (lettera agli amici e benefattori, febbraio 2001). Con questo atteggiamento di completa rottura è molto improbabile che si giunga ad un accordo con Roma.

L. N. - Come fare per migliorare le relazioni fra la Gerarchia e i fedeli legati alla messa detta “tradizionale”?
M. R. - Sfortunatamente, nel passato, certe radicalizzazioni da entrambi i lati hanno creato un clima di sfiducia. Nel periodo critico di autodistruzione postconciliare, dal momento che i tradizionalisti sono stati maltrattati e perseguitati, essi hanno reagito con forza, e questo ha provocato una radicalizzazione ancora più forte dalla parte opposta. Mi sembra che i cattolici tradizionali dovrebbero mostrare ai vescovi che sono delle persone normali, rispettose della gerarchia, che amano la Chiesa e il papa, difendono la Fede, e che la loro adesione alla Tradizione liturgica e dottrinale è perfettamente legittima, come ha detto Giovanni Paolo II. Da parte loro, i vescovi non devono forzare la coscienza dei fedeli e devono rispettare la loro posizione perfettamente cattolica.
Per di più, se si considera che il rito romano antico è perfettamente legittimo nella Chiesa, conformemente ai recenti documenti del Magistero, il Codice di Diritto Canonico fornisce le basi per una soluzione: il canone 213 dà ai fedeli il diritto di ricevere dai loro pastori i sacramenti, il canone 214 dà loro il diritto al rito proprio e alla loro specifica spiritualità, il canone 923 permette ai fedeli di assistere alla messa in qualunque rito, il canone 383 § 2 incarica i vescovi di soddisfare ai bisogni spirituali dei fedeli di altri riti, e il canone 518 permette la creazione di parrocchie personali in ragione del rito; con la buona volontà, la comprensione e lo spirito cattolico da ambo le parti avremo la soluzione del problema. Ma io ricordo ai fedeli che noi dobbiamo conservare la liturgia tradizionale come la nostra autentica professione di fede cattolica, in perfetta comunione con il Santo Padre e la gerarchia cattolica, e non in opposizione a loro.

L. N. - Come considera l’avvenire della questione liturgica nella Chiesa latina? Che pensa delle analisi del cardinale Ratzinger che raccomanda una “riforma della riforma” per giungere all’unità liturgica del rito romano?
M. R. - E’ chiaro che noi aspiriamo ad una liturgia che sia la chiara e autentica espressione della nostra fede cattolica: lex credendi legem statuat suplicandi. Anche conservando, con la facoltà concessaci dal Santo Padre, il rito romano classico come rito proprio della nostra Amministrazione, in perfetta comunione con la cattedra di Pietro, l’amore cha abbiamo per la Santa Chiesa ci induce a desiderare la riforma della riforma liturgica, poiché le imprecisioni di quest’ultima possono lasciare àdito a molti abusi e anche a degli errori dottrinali. In questo senso noi appoggiamo vivamente gli sforzi del cardinale Ratzinger, i quali, se veramente ben seguiti, possono condurre la liturgia del rito romano alla desiderata unità.



Appendice

Canoni richiamati da Mons. Rifan.

Can. 213 ­ I fedeli hanno il diritto di ricevere dai sacri Pastori gli aiuti derivanti dai beni spirituali della Chiesa, soprattutto dalla parola di Dio e dai sacramenti.

Can. 214 ­ I fedeli hanno il diritto di rendere culto a Dio secondo le disposizioni del proprio rito approvato dai legittimi Pastori della Chiesa e di seguire un proprio metodo di vita spirituale, che sia però conforme alla dottrina della Chiesa.

Can. 923 ­ I fedeli possono partecipare al Sacrificio eucaristico e ricevere la sacra comunione in qualunque rito cattolico, fermo restando il disposto del can. 844.
(Can. 844 - § 2 ­ Ogniqualvolta una necessità lo esiga o una vera utilità spirituale lo consigli e purché sia evitato il pericolo di errore o di indifferentismo, è lecito ai fedeli, ai quali sia fisicamente o moralmente impossibile accedere al ministro cattolico, ricevere i sacramenti della penitenza, dell’Eucarestia e dell’unzione degli infermi da ministri non cattolici, nella cui Chiesa sono validi i predetti sacramenti.)

Can. 383 ­ § 1 - Nell’esercizio del suo ufficio di pastore, il Vescovo diocesano si mostri sollecito nei confronti di tutti i fedeli che sono affidati alla sua cura, di qualsiasi età, condizione o nazione, sia di coloro che abitano nel territorio sia di coloro che vi si trovano temporaneamente, rivolgendosi con animo apostolico anche verso coloro che per la loro situazione di vita non possono usufruire sufficientemente della cura pastorale ordinaria, come pure verso quelli che si sono allontanati dalla pratica religiosa.
§ 2 ­ Se ha nella propria diocesi fedeli di rito diverso, provveda alle loro necessità spirituali sia mediante sacerdoti o parrocchie del medesimo rito, sia mediante un Vicario episcopale.

Can. 518 ­ Come regola generale, la parrocchia sia territoriale, tale cioè che comprenda tutti i fedeli di un determinato territorio; dove però risulti opportuno, vengano costituite parrocchie personali, sulla base del rito, della lingua, della nazionalità dei fedeli di un territorio, oppure anche sulla base di altri criteri.
 





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