Conferenza del Card. Walter Kasper
Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani

sul modo in cui perseguire lo scopo dell'ecumenismo

May They All Be One? But how?
A Vision of Christian Unity for the Next Generation

The Tablet, Saturday, 24 May 2003
(traduzione di Andrea Di Luzio)
 

Affinché tutti siano uno? Ma come?

Una visione dell'unità cristiana per la prossima generazione




Grazie a voi per il vostro caro invito, e grazie per il benvenuto.  Sono molto onorato, quantunque allo stesso tempo un po’ perplesso sul tema del quale mi avete chiesto di parlare: “Una visione dell'unità cristiana”. 
Sono un membro della tribù tedesca, chiamata gli Svevi, e siamo noti come un popolo sobrio con teste dure. Avere visioni non è nostro compito. Forse o probabilmente ho i miei sogni, ma quando mi sveglio al mattino, purtroppo li ho quasi dimenticati tutti. Perciò per uno psicologo sarei un caso senza speranza.   Eppure, rimanendo con i piedi per terra, siamo capaci di distinguere tra l’autentica speranza cristiana, che è sempre speranza sotto la Croce e quindi una speranza crocifissa, e sogni umani e visionarie aspettative utopistiche.

I.   Quando Gesù pronunciò le parole “affinché tutti siano uno”, esse in nessuna maniera rappresentavano una visione o un sogno.  Gesù disse queste parole alla vigilia della sua morte.Quello non era il tempo per utopie trionfali.  La primavera galileana, quando folle entusiastiche lo acclamavano, era finita. Essi non gridavano più “Hosanna!” ma “Crocifiggetelo!”.  Gesù era molto cosciente di questo, e predisse anche che i suoi discepoli non sarebbero stati uniti, e che si sarebbero dispersi.  Che altro poteva fare in questa situazione se non lasciare il futuro della sua opera nelle mani di suo Padre? Quindi, le parole “affinché tutti siano uno” sono una preghiera, una preghiera umanamente percepita in una situazione senza speranza.

Queste riflessioni mi portano al punto primo: la spiritualità ecumenica
L’entusiasmo ecumenico del decennio successivo al Concilio Vaticano II (1962-1965) è finito.  Molto progresso è stato fatto.  Le Chiese separate e i Cristiani non si incontrano più come nemici o concorrenti; è stata riscoperta la fraternità cristiana che esiste tra di noi.  Questo è un processo irreversibile, e in un mondo che diviene sempre più unito, non c’è un’alternativa realistica all’ecumenismo.  Al contrario, la nostra vergogna risiede nel fatto che continuiamo ad essere disubbidienti alla volontà del Signore “affinché tutti siano uno”.

Dopo la prima ondata di entusiasmo, c’è adesso molto disincanto nelle aspettative non realizzate.  Ancora non possiamo radunarci insieme al tavolo del Signore.  Il progresso ecumenico diventava lento, con chiese che sembravano spesso ritirarsi nel vecchio confessionalismo autosufficiente.  Non c’e più un “Naherwatung” escatologico.  Questo sviluppo diveniva ancora più evidente quando l’ecumenismo diventava la ragione per conflitti interni e separazioni all’interno delle stesse chiese.  La questione della loro identità veniva in primo piano e frequentemente produceva delimitazioni.  L’ecumenismo sembra essere in crisi.

Quando parliamo di una crisi ecumenica, il termine ‘crisi’ non dovrebbe essere inteso unilateralmente, nel senso negativo di un abbattimento o di un crollo di ciò che è stato costruito negli ultimi decenni ? quantunque ciò non sia affatto trascurabile.  Qui il termine ‘crisi’ va inteso nel senso originale della parola greca, una situazione nella quale le cose sono rimaste in sospeso, come su una lama di coltello; infatti, questo stato può essere sia positivo che negativo.  Entrambi i significati sono possibili.  Una situazione di crisi è una situazione nella quale le vie vecchie arrivano alla fine ma si aprono spazi per nuove possibilità.  Una situazione di crisi perciò, può presentarsi come una sfida e un momento per prendere decisioni.

Ci sono due pericoli da evitare.  In primo luogo il dialogo ecumenico rischia di diventare un mero lavoro accademico.  Sono l’ultimo a negare l’importanza della teologia per il dialogo ecumenico; poiché l’ecumenismo può essere tale solo nella verità e non un ecumenismo di sola emozione.  Per l’ecumenismo è quindi indispensabile un lavoro teologico molto serio.  I teologi tedeschi, in particolare, si contraddistinguono dal fatto che ognuno di loro si sente più intelligente degli altri colleghi, ognuno è così intelligente da avere sempre un argomento con cui controbattere ciò che l’altro ha detto.  Questi dialoghi puramente accademici sono un esercizio escatologico.  I fedeli “normali” non possono parteciparvi, si alienano e si infastidiscono.

C’è anche un altro pericolo: imbarcarsi in un attivismo puramente ecumenico con una serie interminabile di conferenze, simposi, commissioni, incontri, sessioni, progetti ed eventi spettacolari, la continua ripetizione degli stessi argomenti, stesse preoccupazioni, stessi problemi e lamentele.  Può essere utile tener presente che i documenti ecumenici degli ultimi decenni a livello internazionale, tralasciando i molti documenti regionali e locali, riempirebbero due grossi volumi.  Chi può leggere tutto questo, ovvero, chi ne ha voglia? La maggior parte di questi documenti non è realmente recepita nelle chiese, e questo accade a qualsiasi livello gerarchico.  Spesso sono destinati semplicemente agli scaffali, e posso ben capire i laici che chiedono con disappunto: “quali sono e dove sono le conseguenze concrete, e qual è il risultato visibile delle vostre illuminate discussioni e dei vostri documenti?”.

In una situazione del genere dovremmo riguardare la preghiera di Gesù “affinché tutti siano uno”, che indica proprio il cuore di un giusto ecumenismo: l’ecumenismo spirituale e la spiritualità ecumenica.  Questo vuol dire innanzitutto la preghiera, senza la quale non possiamo costruire o organizzare l’unità della Chiesa; l’unità è un dono dello Spirito di Dio, l’unico che può aprire i cuori alla conversione e alla riconciliazione.  E non c’è ecumenismo senza conversione e rinnovamento, senza la purificazione delle memorie e senza il perdono.  L’ecumenismo spirituale vuol dire inoltre lettura comune della Bibbia, scambio di esperienze spirituali, collaborazione nel servire i poveri, gli ammalati, i reietti e tutti coloro i quali soffrono.

L’unità della Chiesa si può compiere soltanto attraverso una rinnovata Pentecoste; ma come la prima Pentecoste, quando Maria e i discepoli erano radunati in preghiera per l’avvento dello Spirito (Atti 1, 12-14), allo stesso modo, anche noi dobbiamo ritrovarci insieme a pregare per la sua effusione.

Questo tipo di ecumenismo non è ristretto al regno di selezionati esperti; infatti, esso è accessibile ed obbligatorio per tutti.  Quando si parla di preghiere, tutti sono esperti, o, piuttosto, tutti dovrebbero esserlo.  Soltanto dando una maggiore importanza alla dimensione spirituale, sarà possibile rendere comprensibile ciò di cui si dibatte nei nostri dialoghi.  Molte persone non capiscono più la nostra terminologia scolastica; per loro perfino concetti centrali sono divenuti senza significato e senza senso. E’ nostro dovere riempirli di esperienze; questo vuol dire che dobbiamo tradurre tali concetti non solo in un linguaggio moderno ma anche in esperienza e vita quotidiana.

Il Consiglio Pontificio per l’Unita dei Cristiani avrà la prossima Plenaria proprio sul tema dell’ecumenismo spirituale.  In preparazione di essa stiamo raccogliendo una serie di testimonianze sull’ecumenismo spirituale concreto e vissuto con lo scopo di fornire modelli di ispirazione ed esempi incoraggianti.  Siamo rimasti stupiti davanti ai tanti esempi già esistenti.  Essi rappresentano un aspetto largamente dimenticato e trascurato della dimensione ecumenica che deve essere reso noto e dare i sui frutti.  Questo è l’aspetto più urgente poiché, se da un lato c’è una forte disaffezione nei confronti delle istituzioni, in contrasto c’è un nuovo desiderio e una brama profonda per la spiritualità che dovrebbe inspirare e definire la prossima fase del movimento ecumenico.

II.  Ma ? e questo è il mio secondo punto ? mi chiedo se sia utile in questo momento ricordare a noi stessi che lo Spirito Santo può non essere l’ente ingenuo che molti suppongono.  Lo Spirito Santo come pioniere del movimento ecumenico ci chiama a riflettere sulla natura del nostro viaggio, poiché lo Spirito è dinamico, è vita, è libertà.  Lo Spirito Santo ci può sempre sorprendere.  In questa prospettiva, non è possibile tracciare una copia fotografica della futura unità della Chiesa.  La luce emanata dallo Spirito Santo è simile a quella di una lanterna che illumina il nostro prossimo passo e che risplende soltanto se proseguiamo il nostro cammino.

Questo non vuol dire che lo Spirito ci rende partecipi di un’avventura alla cieca.  Non siamo lasciati senza una bussola.  Lo Spirito, come ci dice San Paolo, è di ordine e non di confusione (cfr.  Cor 14, 33).  I teologi di tutte le principali tradizioni della Chiesa sono sempre stati assai cauti nel distanziare se stessi dagli entusiasti e dai loro sogni utopistici e non raramente caotici.  Nella teologia seria, in accordo con la Bibbia, lo Spirito è lo Spirito di Gesù Cristo (Rom.  8, 9; 1 Cor 12, 3) e lo Spirito del Figlio (Gal 4, 5).  Nella persona e nell’opera di Gesù, l’azione salvifica dello Spirito giunse alla sua pienezza; quindi la missione dello Spirito è ricordare, far presente e far universale ciò che in Gesù Cristo accadde una volta per tutti (Giov 14,26; 16,13 f.).  Non dovremmo perdere di vista questa dimensione incarnata dello Spirito.

Perciò, lo Spirito che testimonia l’unico Dio e l’unico Salvatore Gesù Cristo, salvaguarda anche l’unica santa Chiesa che noi confessiamo insieme nel Simbolo Apostolico .  Questa unità della Chiesa che confessiamo e nella quale speriamo è un’unità visibile e non soltanto un’unità spirituale, che è nascosta dietro alle diverse chiese separate.  Ci sono criteri visibili per l’unità: unità nella stessa fede, unità negli stessi sacramenti e unità nel ministero ecclesiastico, cioè nel ministero episcopale, nella successione apostolica.  Non ci può essere unità ecclesiastica finchè rimangono anatemi di una Chiesa contro l’altra, sia essa quella chiesa che dichiara che l’altra pecca di defectus perché nega gli articoli della fede fondati sulla Scrittura e sulla tradizione, o che pecca di excessus, perché ammette formule di credo addizionali alla rivelazione una?volta?per?sempre.

L’unità ecclesiastica è impossibile con contraddizioni, e le chiese non possono o non dovrebbero entrare in accordi contraddittori con partner diversi.  La capacità di comprendere è una buona cosa, ma non si dovrebbe esagerare, e il pluralismo non dovrebbe divenire una nuova beatitudine aggiunta al Sermone del Monte.  L’identità e la coerenza interiore della Chiesa deve essere chiara ad intra e ad extra.  “Ogni regno che è diviso al suo interno cadrà a pezzi” e “non potrà durare” (Mt 12, 25).

C’è bisogno di tale unità nella dimensione sincrona e in quella diacronica.  La Chiesa è la stessa in tutti i secoli; oggi non possiamo costruire una nuova Chiesa in contraddizione con la sua tradizione.  Non possiamo essere così superbi da credere di avere più Spirito dei nostri padri predecessori, di tutti i padri della Chiesa e dei grandi teologi del passato.  Lo Spirito Santo che era al lavoro nel passato non opera nel presente in contraddizione con se stesso.  Lo Spirito è fedele, ed opera richiamando e preservando la verità.

Comunque, l’unità bisogna anche distinguerla dall’uniformità.  Lo Spirito dispensa i suoi doni in gran varietà e ricchezza (cfr.  1 Cor 12, 4), e gli esseri umani, le culture umane sono così diverse tra di loro che qualsiasi uniformità imposta non solo non soddisfarà i cuori ma diminuirà la ricchezza e la cattolicità propria della Chiesa.  E’ soltanto quando la Chiesa sarà entrata in tutte le culture e avrà fatta propria la ricchezza di tutti i popoli e di tutte le nazioni che avrà raggiunto la sua piena cattolicità.  Lo Spirito ci guiderà nella verità intera (Giov 16, 12) attraverso l’incontro con nuove culture, nuove situazioni, nuove sfide, nuove esperienze e nuovi bisogni, così come attraverso l’incontro e il dialogo ecumenici.  In questo modo lo Spirito mantiene la tradizione una-volta-e-per-sempre perennemente giovane e fresca.  Esso è lo Spirito del rinnovamento permanente della verità rivelata una-volta-e-per-tutti-i-secoli.

III.  Questo concetto di pluriformità all’interno dell’unità ha conseguenze per la nostra visione ecumenica.  In primo luogo, ha conseguenze sul nostro intendere l’unità nella fede.  Professare la stessa fede non vuol dire necessariamente confessare la stessa formula di credo.  Uno dei più significativi passi avanti nel dialogo ecumenico degli ultimi decenni è stato fatto con le vecchie chiese orientali, le quali si separarono nel lontano quinto secolo poiché non potevano accettare il dogma stabilito dal Concilio Ecumenico Quarto di Calcedonia (451), vale a dire Gesù Cristo, due nature in una sola persona (hypostasis).  Con San Cirillo di Alessandria esse confessano la natura unica (una physis) del Logos incarnato.  Per cui, attraverso i secoli sono state riconosciute come monofisite.  Soltanto in tempi recenti abbiamo scoperto che l’aspetto cruciale non è consiste nel confessare una fede diversa, ma nell’uso di una differente terminologia filosofica per esprimere la fede che in sostanza è uguale alla nostra.  Esse intendono diversamente i termini “natura” e “persona” (hypostasis).  Quindi noi non imponemmo su di loro le nostre formule, ma mediante accordi formali tra il Papa e i rispettivi Patriarchi, riconoscemmo la nostra unità nella fede, una unità in una pluriformità di espressioni.

Una decisione simile fu presa nella Dichiarazione congiunta sulla Giustificazione tra la Chiesa Cattolica e la Federazione Mondiale Luterana, firmata ufficialmente nel 1999 ad Asburgo.  Anche in questo caso venne raggiunto soltanto un cosiddetto consenso differenziato, cioè un consenso sulle questioni fondamentali.  Essenzialmente si affermò che mentre i problemi insoluti rimanevano aperti, non esisteva più nessuna differenza che avrebbe potuto dividere la Chiesa al riguardo della questione della giustificazione.  Quindi, contraddizioni divisorie che esistevano in precedenza, furono trasformate e riconciliate in asserzioni, espressioni, sollecitudini e trattative complementari.

Né uniformità è più richiesta nella dimensione sacramentale della Chiesa.  E’ ben noto che la vita sacramentale si può esprimere attraverso diversi riti, e che dall’Est all’Ovest tali riti sono davvero piuttosto differenti.  Ma la differenza può essere ancora più profonda.  La Chiesa Assiriana, che si separò nel quarto secolo, dopo il terzo Concilio Ecumenico di Efeso (381), e che per molto tempo fu accusata di essere nestoriana, usa come anafora (preghiera eucaristica) l’anafora di Adai e Mari, senza le parole di istituzione in una forma narrativa.  Probabilmente è la più antica anafora che conosciamo, risalente al secondo secolo e scritta in linguaggio aramaico, il linguaggio dello stesso Gesù.  Questa Chiesa, che possiede un episcopato indubbiamente valido, confessa la stessa nostra fede eucaristica.  E’ inimmaginabile ed impensabile che essa abbia celebrato nei secoli un’Eucaristia non valida.  Perciò due anni fa la validità di questa anafora fu ufficialmente riconosciuta dalla Chiesa Cattolica.

Uno dei più rinomati liturgisti ha espresso l’opinione che questa decisione è la più importante decisione ecumenica dopo il Concilio Vaticano Secondo, perché tocca proprio il cuore della Eucaristia e perciò è di fondamentale significato per il concetto di pluriformità all’interno dell’unità.

Il nodo centrale per questo concetto e questa visione ? e il punto d’adesione nella questione di come la pluriformità sia possibile ? deve essere ricercato nell’aspetto del ministero ecclesiastico.  Attualmente, il dialogo ecumenico sembra essere bloccato su questo tema.  Quindi, qui tocchiamo uno dei punti più sensibili del dibattito ecumenico in corso.  Questo è l’aspetto più rilevante di come il mutuo riconoscimento del ministero sia di fondamentale importanza per la condivisione eucaristica.

C’è stato un sostanziale progresso tra la Comunità Anglicana e la Chiesa Cattolica.  Un accordo sul sacerdozio e sull’Eucaristia fu già realizzato nella prima fase dell’ARCIC.  Fummo anche d’accordo sulla struttura episcopale del ministero ecclesiastico.  Nel frattempo la maggior parte delle chiese ha riconosciuto che episcope (sorveglianza) è costitutivo per la chiesa stessa, e che effettivamente delle forme di episcope possono essere rintracciate in ogni chiesa. Ma i Protestanti da una parte, e Cattolici e Ortodossi insieme con Anglicani dall’altra parte, differiscono sul fatto che tale episcope debba essere eseguita da un episcopos che ha il suo fondamento in una successione storica apostolica.  I Protestanti vedono in questo lo spazio per diverse forme di episcope che, essendo equivalenti, possono riconoscersi reciprocamente; per loro l’episcopato nella successione storica apostolica è solo una delle forme possibili, e nel migliore dei casi è un segno per il benessere della Chiesa, ma non per il suo essere.  Qualche chiesa Luterana in anni recenti si è aperta alla visione Anglicana attraverso concordati come ad esempio Provoo Statement (1992) o Called to Common Mission (2001), ma lo ha fatto non senza resistenza da parte degli altri Luterani e specialmente da parte delle chiese Riformate.  Come possiamo superare questa problema? Secondo me il problema, e la sua possibile soluzione, non è una questione di successione apostolica nel senso di una catena storica di imposizione delle mani che va indietro nei secoli fino a risalire ad uno degli apostoli; questa sarebbe una visione assai meccanica e individualistica la quale, potrebbe difficilmente essere provata ed accertata dal punto di vista storico.  La visione Cattolica è diversa da tale approccio individualistico e meccanico.  Il suo punto di partenza è il collegium degli apostoli nell’insieme; essi ricevettero insieme la promessa che Gesù Cristo sarebbe stato con loro fino al fine del mondo (Mt 28,20).  Quindi, dopo la morte degli apostoli storici, dovettero cooptare altri che svolgessero alcune delle loro funzioni apostoliche.  In questo senso tutto l’episcopato sta in successione a tutto il collegium degli apostoli.

Stare nella successione apostolica non è una questione di una catena storica individuale ma di appartenenza collegiale ad un collegium, il quale nell’insieme torna indietro agli apostoli attraverso la condivisione della stessa fede apostolica e la stessa missione apostolica.  Da questo punto di vista, l’imposizione delle mani è un segno di cooptazione in un collegium.

Questo ha conseguenze che arrivano lontano per quel che riguarda il riconoscimento della validità dell’ordinazione episcopale di un’altra Chiesa.  Tale riconoscimento non è una questione di una catena ininterrotta ma di una ininterrotta condivisione di fede e di missione, e come tale è una questione di comunione nella stessa fede e nella stessa missione.

Discutere cosa una tale visione significhi per una rivalutazione della Apostolicae curae (1896) di papa Leone XIII che dichiarò gli ordini Anglicani nulli ed inefficaci, decisione questa che ancora è presente tra le nostre Chiese, è al di fuori dello scopo di questo nostro contesto.  Senza dubbio tale decisione, come il Cardinale Willebrands aveva già affermato, deve essere intesa nel nostro nuovo contesto ecumenico nel quale la comunione nella fede e nella missione è considerevolmente cresciuta.  Un soluzione finale si può trovare soltanto nel più grande contesto di una piena comunione nella fede, nella vita sacramentale e nella missione apostolica condivisa.

Prima di avventurarmi oltre su questo punto decisivo per la visione ecumenica, cioè una rinnovata ecclesiologia communio, dovrei prima parlare di un altro blocco d’inciampo o meglio, il blocco d’inciampo dell’ecumenismo: il primato del vescovo di Roma, o come diciamo noi oggi, il ministero Pietrino.  Questo aspetto fu il punto della discordia nella separazione tra Canterbury e Roma nel sedicesimo secolo ed è ancora l’oggetto di appassionanti controversie.

Un significativo progresso è stato raggiunto su questo tema delicato nell’ambito dei dialoghi Anglicani-Romani Cattolici, specialmente nell’ultimo documento dell’ARCIC “The Gift of Authority” (1998).  Il problema, comunque, è che le cose che in questo documento andavano bene ai Cattolici non sempre piacevano a tutti gli Anglicani, e punti importanti per l’autocomprensione anglicana non sempre erano ripagati dalla benevolenza cattolica.  Perciò abbiamo ancora un problema di ricezione e una sfida per un ulteriore lavoro teologico.

È stato Papa Giovanni Paolo II che ha aperto la porta alla discussione futura su questo tema.  Nella sua Enciclica “Ut unum sint” (1995) ha esteso un invito a un dialogo fraterno su come esercitare il ministero Pietrino in un modo che sia più accettabile ai Cristiani non-Cattolici.  Fu una sorgente di piacere per noi constatare che fra le altre la comunità Anglicana rispose ufficialmente a questo invito.  Il Concilio Pontificale per l’Unità Cristiana ha raccolto le tante risposte, ha analizzato i dati, e ha mandato le sue conclusioni alle chiese che avevano risposto.  Speriamo in questo modo di aver iniziato una seconda fase di un dialogo che sarà decisivo per il futuro dell’avvicinamento ecumenico.

Nessuno poteva ragionevolmente attendersi che avremmo potuto raggiungere fin dall’inizio una fase di consenso; ma ciò che abbiamo raggiunto non è trascurabile.  Era evidente che esistevano un’atmosfera nuova e un clima nuovo.  Nella nostra situazione di un mondo globalizzato i testimoni biblici su Pietro e sulla tradizione Pietrina di Roma si leggono con occhi nuovi perché in questo nuovo contesto la questione di un ministero di unità universale, un punto di riferimento comune e una voce comune della chiesa universale, diviene urgente.  Vecchie formule di polemica sono in opposizione a questa urgenza; relazioni fraterne sono divenute la norma.  E’ stata intrapresa una estesa ricerca che ha messo in risalto le differenti tradizioni esistenti tra l’Est e l’Ovest già nel primo millennio, e ha tracciato lo sviluppo nel capire e nel praticare il ministero Pietrino attraverso i secoli.  Ma oltre, la condizionalità storica del dogma del Concilio Vaticano Primo (1869/70), che si deve distinguere dal suo contenuto rimanente obbligatorio, è divenuta chiara.  Questo sviluppo storico non ha avuto termine con i due Concili Vaticani, ma va avanti, e perciò anche nel futuro il ministero Pietrino si dovrà esercitare in linea con il cambiamento delle necessità della Chiesa.

Queste intuizioni hanno condotto a una re-interpretazione del dogma del primato Romano.  Ciò non vuole dire in ogni senso che non ci sono ancora enormi problemi nel modo in cui tale ministero di unità dovrebbe apparire, come dovrebbe essere amministrato, se e a quale grado dovrebbe avere giurisdizione e se sotto certe circostanze potesse fare affermazioni infallibili allo scopo di assicurare l’unità della chiesa e allo stesso tempo la legittima pluralità delle chiese locali.  Ma almeno c’è un largo consenso sul comune problema centrale, che tutte le Chiese devono risolvere: come le tre dimensioni, messe già in risalto nei documenti di Lima su “Baptism, Eucharist and Ministry” (1982), vale a dire unità attraverso primato, collegialità attraverso sinodalità, e comunanza di tutti i fedeli e i loro doni spirituali, ci può portare ad una sintesi convincente.

Perciò siamo uniti almeno in un problema comune, sebbene le risposte ancora differiscano.  Trovare una risposta comune è uno dei problemi principali con cui abbiamo a che fare e una sfida che richiede ulteriore chiarificazione.

IV.  Attraverso tale esposizione dei differenti aspetti della pluriformità all’interno dell’unità e dell’unità nella pluriformità, giungiamo al concetto inanellante per una visione dell’unità Cristiana: il concetto di comunione.

Perfino uno sguardo superficiale ai molti documenti di dialogo degli ultimi decenni, rileva che in un modo totalmente imprevisto, communio emerge come il termine chiave e il comune denominatore per le diverse visioni dell’unità Cristiana.  Communio è già stato il concetto ecclesiologico centrale del Concilio Vaticano Secondo, che fece suo un termine biblico e la stessa ecclesiologia di communio dei Padri della Chiesa.  Perciò, communio / koinonia è centrale anche per le Chiese Ortodosse.  Infine il dialogo Anglicano-Romano Cattolico ha sottolineato questo concetto nel documento “Church as Communion” (1990).  Nell’ultima Plenaria del nostro Concilio Pontificale per l’Unità Cristiana meditammo sulla ecclesiologia di communio e orientammo in questa direzione il nostro futuro lavoro.

C’è un largo consenso sul fatto che la communio ecclesiale sia radicata e abbia il suo più alto modello nella communio Trinitaria di Padre, Figlio e Spirito Santo: un unico Dio in tre persone, un’unità nella pluralità.  La Chiesa è, per così dire, l’icona della Trinità.

Attraverso i nostri dialoghi abbiamo avuto un significativo progresso nell’approfondire e nel fortificare quella communio di cui facciamo parte per mezzo del battesimo.  Siamo giunti ad una situazione intermedia di communio cresciuta ma non ancora piena e ad una missione già condivisa.  Una delle conseguenze di questa fase intermedia è che nessuna Chiesa dovrebbe prendere alcuna decisione importante senza tenere in considerazione le ripercussioni che ciò avrebbe sulle altre chiese e senza alcun contatto e nessuna consultazione con esse. 

L’esperienza di questa communio e di questa missione fu la spingente e sopravvincente esperienza del nostro incontro Anglicano-Romano Cattolico a Toronto nel 2000, e fummo dell’opinione che sulla base di una tale crescita di communio avremmo potuto fare molto di più per far progredire la nostra comune missione.  Spero che la Commissione IARCCUM che iniziammo a Toronto sarà capace di formulare il grado estensivo della communio e della missione ormai raggiunte e che nello svolgimento di tale compito contribuirà a fare di questa comunione una realtà ancor più vissuta e recepita nelle nostre chiese.

Se il processo IARCCUM condurrà a risultati positivi, ciò rappresenterà il prossimo passo importante nelle nostre relazioni.  Ma non sarà la conclusione e ancora non coincide con la mia visione finale dell’unità dei cristiani.  Prendendo spunto dai miei commenti precedenti, la formulerei così:

Attraverso e perfino in linguaggi, forme culturali, formulazioni, espressioni, accenti, preoccupazioni ed approcci diversi tra di loro, io vedo la comunione come una partecipazione alla stessa fede, una partecipazione agli stessi sacramenti e in special modo come una condivisione allo stesso tavolo del Signore; e vedo comunione anche attraverso il mutuo riconoscimento del ministero di episcope in successione apostolica e in comunione con il ministero Pietrino, la comprensione e la pratica dogmatica di ciò che è reinterpretato e ricevuto di nuovo alla luce dell’intera tradizione della Chiesa e dei suoi attuali bisogni.  In questo modo le chiese rimangono tali in una legittima diversità e conservano il meglio delle loro tradizioni prima ancora di diventare un’unica Chiesa che loda Dio con una sola voce e dà una testimonianza unanime al mondo per la giustizia, la riconciliazione e la pace.


Come giungiamo a questa visione? Non attraverso l’imposizione di una visione sull’altra, non attraverso la soppressione ma attraverso il fraterno scambio di doni.  Ogni chiesa ha la sua ricchezza, che non possiede soltanto per se stessa ma che dovrebbe condividere con tutte le altre.  Questo non comporta l’unione nel minimo di ciò che ci accumuna; l’ecumenismo non vuol dire relativismo e indifferentismo riguardo ad una propria tradizione.  L’ecumenismo non è contrassegnato da perdita ma da un mutuo arricchimento, l’autentica comprensione del quale è che non ci convertiamo all’altra Chiesa ma che tutti si convertono a Cristo; e in lui, che è la nostra unità e la nostra pace, saremo veramente un tutt’uno.  Perciò noi non evochiamo un ecumenismo di ritorno.  L’ecumenismo non è un modo di ritornare indietro; è una via che va avanti nel futuro.  L’ecumenismo è un’espressione di una Chiesa pellegrina, del popolo di Dio, che nel suo cammino è guidato, inspirato e sostenuto dallo Spirito, il quale ci guida alla verità intera (Gio 16,13).  Un tale ecumenismo e una tale visione ecumenica ? e qui ritorno indietro a ciò che ho detto all’inizio ? non solo è un compito istituzionale ma è anche uno sforzo spirituale.  Abbiamo bisogno di una nuova spiritualità di comunione, che Papa Giovanni Paolo II nella sua Lettera Apostolica “Tertium millenium ineunte” (2001) ha descritto nel seguente modo:
“Una spiritualità di comunione significa una capacità di pensare ai nostri fratelli e alle nostre sorelle di fede nella profonda unità del Corpo Mistico, e perciò come " coloro che sono una parte di me ".  Questo ci rende capaci di condividere le loro gioie e le loro sofferenze, intuire i loro desideri e fare attenzione alle loro necessità, e di offrire loro una profonda e genuina amicizia.  Una spiritualità di comunione implica anche la capacità di vedere ciò che di positivo c'è negli altri per accoglierlo e valorizzarlo come un dono di Dio: un dono non soltanto per quel fratello o quella sorella che lo hanno direttamente ricevuto, ma vederlo anche come un " dono per me ".  Una spiritualità di comunione significa, infine, sapere come " fare spazio " ai nostri fratelli e alle nostre sorelle, portando " gli uni i pesi degli altri " (Gal 6,2) e resistendo alle tentazioni egoistiche che costantemente ci insidiano e generano competizione, carrierismo, diffidenza e gelosia.”

Il Papa conclude: “Non facciamoci illusioni: se non seguiamo questo cammino spirituale, a ben poco servirebbero gli strumenti esteriori della comunione.  Essi diventerebbero un meccanismo senz'anima, " maschere " di comunione piuttosto che il significato della sua espressione e della sua crescita.”

Posso riassumere la mia visione con le parole del famoso teologo del diciannovesimo secolo Johann Adam Möhler della scuola di Tübingen, dalla quale io provengo.  Johann Adam Möhler ha splendidamente catturato il senso della ecclesiologia di communio nelle seguenti parole:

“Due estremi sono comunque possibili nella vita della Chiesa, ed entrambi sono egoismo; in primo luogo quando ogni persona o una persona vuole essere tutto; in secondo luogo, il vincolo di unità diviene così stretto e l’amore così ardente che è inevitabile il soffocamento; nel primo caso tutto cade a pezzi a tale livello e diviene così freddo da congelarsi; un tipo di egoismo genera l’altro; ma non c’è la necessità per una persona o per ogni persona di voler diventare tutto; soltanto tutti insieme si può essere tutto e l’unità di tutti un solo insieme.  Questa è l’idea della Chiesa Cattolica.”

 
 
 




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