CALEPINO DEL DIRITTO CANONICO - II Parte
(3/96)

(vai a: Calepino del Diritto Canonico I)
 
 

Nel nostro articolo precedente (sett. '95) abbiamo analizzato a grandi linee i caratteri ed i fondamenti del diritto canonico. Proseguendo nella illustrazione della materia, continuiamo il nostro viaggio nell'àmbito canonistico, proponendoci di analizzare in queste pagine le problematiche che il diritto liturgico ed i documenti conciliari suscitano relativamente al tema della Messa e della sua celebrazione. 
Il punto è quanto mai importante e dirimente. Esso infatti rappresenta l'ubi consistam della nostra scelta, il discrimine che permette tout court di individuare posizioni realmente ed autenticamente "tradizionali" da orientamenti solo strumentalmente tali, tendenti a esaltare settariamente alcuni aspetti, a volte addirittura marginali, dei mores antiqui

Si è già osservato come l'unico diritto riconosciuto ai fedeli, pacificamente ammesso e tale da rappresentare l'unico dovere delle autorità ecclesiastiche, è quello di ricevere le cose necessarie al conseguimento della salvezza eterna. Strumenti fondamentali per il conseguimento di quest'ultima sono sicuramente e specialmente i sacramenti, tra i quali spicca, caput et fundamentum di ogni altro, l'Eucarestia e la sua celebrazione. 
Quante difficoltà, di ogni genere, incontrino i fedeli tradizionalisti a sentir celebrata la S. Messa secondo il rito tradizionale, detto impropriamente di S. Pio V, è, purtroppo, cosa nota e risaputa su cui non è necessario soffermarci. Vi è, invece, un particolare segmento della problematica religiosa post-conciliare che non viene valutato a sufficienza e che invece potrebbe essere opportuno esaminare da un punto di vista canonistico: ovverosia, quali siano le aspettative liturgico-giuridiche di noi tradizionalisti, almeno come secundum leges ci dovrebbero essere riconosciute, e, specularmente, le incongruità cui vanno incontro le autorità ecclesiastiche nella regolamentazione della materia liturgica. 
Il can. 214 del codice di diritto canonico sancisce il diritto comune a tutti i fedeli di rendere a Dio un culto secondo le disposizioni del proprio rito approvato dai legittimi pastori della Chiesa e di seguire un proprio metodo di vita spirituale, conforme alla dottrina della Chiesa. Se si riconosce, quindi, un diritto ad una propria spiritualità, sia come singoli che come associati, ne consegue come corollario che l'uso di un proprio specifico rito deve essere assicurato in quanto manifestazione "esterna" di tale spiritualità: forse che la spiritualità tradizionalista dovrebbe essere da meno di quella dei focolarini, dei neocatacumenali, e via enumerando? Sempre il nuovo codice di diritto canonico, can. 928, stabilisce che la celebrazione della santissima Eucarestia può avvenire sia in latino che in altra lingua, purché il testo liturgico sia legalmente approvato. 
Senza addentrarci ora in considerazioni di natura teologica sulle differenze tra rito tradizionale e nuovo rito, perché mai, ci si domanda, se la nuova Messa può essere celebrata in latino questo non avviene mai? Dove, in quale chiesa possiamo veder riconosciuto tale diritto esplicitamente sancito e stabilito? A quanto ci consta, almeno in Italia, nessuna parrocchia o chiesa celebra quotidianamente e pubblicamente messe in latino, sia pure secondo il nuovo rito, di talché non si capisce come mai la Radio Vaticana si ostini a trasmetterla ogni mattina, alle 7,30: forse per semplice noblesseoblige
Il canone 928 del nuovo codice, poi, non definisce quale rito debba osservarsi nella celebrazione delle azioni liturgiche, ma si limita ad indicare che il testo di queste ultime deve essere legalmente approvato. Sempre lo stesso codice di diritto canonico dichiara che mantengono il loro valore le norme precedenti, come tutte le norme canoniche anteriori all'emanazione del codice stesso, tranne che qualcuna di esse sia contraria a quanto si stabilisce nello stesso codice (can. 20). Perché mai, allora, il Papa che ha promulgato tale codice, concede l'indulto (vale a dire un privilegio accordato per specifica concessione, in quanto ritenuto discrezionalmente utile, senza nessuna garanzia di continuità temporale - cfr. il Motu Proprio Ecclesia Dei del 1988 e prima ancora l'autorizzazione alla celebrazione della Messa in latino concessa nel 1984) per la celebrazione della Messa secondo il rito tradizionale, quando per diritto generale nulla osterebbe a tale celebrazione in via pubblica ed universale? È forse tale rito, con cui buona parte dei Padri conciliari e il Papa stesso sono stati battezzati, confermati ed ordinati, contrario alle leggi della Chiesa e nefasto per la salvezza delle anime dei fedeli? 
Alla suprema autorità della Chiesa spetta l'adozione dei testi liturgici. Come prescrive il can. 838, infatti, la disciplina della liturgia è di competenza dell'autorità della Chiesa e precisamente della S. Sede e dei Vescovi diocesani. In particolare alla S. Sede spetta disciplinare la sacra liturgia della Chiesa Universale, pubblicare i libri liturgici (ad esempio: messali, rituali, breviari) e vigilare per la fedele osservanza delle norme liturgiche: ciò avviene in particolare attraverso le sacre Congregazioni per i Sacramenti e il Culto Divino. Le Conferenze Episcopali, invece, hanno il compito di preparare le eventuali versioni, nelle lingue correnti, dei libri liturgici e di curarne la pubblicazione, previa autorizzazione della S. Sede. Infine spetta al Vescovo diocesano, nei limiti della sua competenza, impartire norme in materia liturgica obbligatorie e vincolanti per tutti i fedeli della propria Chiesa particolare. 
Ora, non si capisce perché, in barba ai canoni 5 e 28, si impedisca la celebrazione della S. Messa in lingua latina con rito tradizionale, dato che tale rito è stato approvato a suo tempo dalle legittime autorità e confermato dalla consuetudine plurisecolare della Chiesa. A meno di non sostenere che paradossalmente ciò che per secoli era in uso nella cristianità, il messale tradizionale, cosiddetto di S. Pio V, adesso debba essere "autorizzato" in camera charitatis da qualche "generoso" Vescovo locale! 
Si obietterà: ma il Concilio Vaticano II ha innovato, modificato, aggiornato…! Tralasciamo per il momento ogni considerazione sul valore e l'obbligatorietà delle statuizioni di tale Concilio pastorale, che ci proponiamo di analizzare piú oltre, perché ben prima di tale problema bisogna domandarsi in ragione di quale titolo o particolare privilegio i piú fieri avversari della Messa tradizionale in nome del Concilio Vaticano II (di cui si è celebrato l'8 dicembre scorso il trentennio) siano poi i primi a non uniformarsi e a non rispettare le direttive conciliari in tale materia. Infatti, scorrendo la Costituzione conciliare sulla santa liturgia, Sacrosanctum Concilium, si può notare come le direttive ivi contenute siano alquanto distanti dalla pratica invalsa nell'uso e caldeggiata e "spacciata" come "conciliare". Tant'è che non ci pare esagerato parlare, in questa materia, di una vera e propria opera di "coonestamento" propalata ad arte in questi ultimi anni, tendente a giustificare una pratica per lo meno scorretta fornendone ragioni e spiegazioni solo in apparenza vere, tali però da farla apparire legittima e giustificata. 

Riportiamo letteralmente dalla Sacrosanctum Concilium, l'unico documento conciliare, è bene ricordarlo, per cui le autorità ecclesiastiche hanno ritenuto di dover emanare delle successive istruzioni per la sua applicazione: 
22.1 - Regolare la sacra liturgia compete unicamente all'autorità della Chiesa, la quale risiede nella Sede Apostolica e, a norma di diritto, nel Vescovo.
22.3 - Di conseguenza assolutamente nessun altro, anche se sacerdote, osi, di sua iniziativa, aggiungere, togliere o mutare alcunché in materia liturgica.
36.1 - L'uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini.
36.2 - Dato però che, sia nella messa che nell'amministrazione dei sacramenti, sia in altre parti della liturgia, non di rado l'uso della lingua nazionale può riuscire di grande utilità per il popolo, si conceda alla lingua nazionale una parte piú ampia, specialmente nelle letture e nelle ammonizioni, in alcune preghiere e canti, secondo le norme fissate per i singoli casi nei capitoli seguenti… 
54 - Nelle messe celebrate con partecipazione di popolo si possa concedere una congrua parte alla lingua nazionale, specialmente nelle letture e nella “orazione comune” e, secondo le condizioni dei vari luoghi, anche nelle parti spettanti al popolo. - Si abbia cura però che i fedeli sappiano recitare e cantare insieme, anche in lingua latina, le parti dell'ordinario della messa che spetta ad essi. - Se poi in qualche luogo sembrasse opportuno un uso piú ampio della lingua nazionale nella messa, si osservi quanto prescritto in questa costituzione. 
101.1 - Secondo la secolare tradizione del rito latino, per i chierici sia conservata nell'ufficio divino la lingua latina. 
116 - La Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana; perciò nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale. 

Chiediamo scusa per queste lunghe citazioni, che sono però utilissime per valutare come gli innovatori, i conciliaristi ad oltranza, siano proprio i primi a non attenersi alle regole che loro stessi avevano invocato! 
Non è necessario rimarcare quanto la pratica quotidiana delle celebrazioni liturgiche sia lontana dalle prescrizioni che precedono, quante siano le innovazioni non autorizzate, ma messe in atto ad nutum da sacerdoti e semplici fedeli, quanta indolenza nel curarsi dell'istruzione liturgica dei fedeli e quanta solerzia, invece, nell'aver fatto diventare obbligatorio, generale, onnipresente l'uso della lingua nazionale, che a norma di Concilio doveva invece essere "concesso per singoli casi, secondo le condizioni ed opportunità". 
In base a quanto abbiamo sopra esposto, in sintesi la situazione attuale della Chiesa sembrerebbe essere quella di un gruppo ristretto di persone (i Pastori) che impongono ad un altro gruppo (i fedeli) di non poter usufruire di un diritto pur da loro stessi riconosciuto in via generale ed astratta (quello di poter celebrare e quindi ascoltare la Messa in latino, col rito tradizionale e/o nuovo), tutto questo in virtú di atti normativi (i princípi espressi nei testi conciliari sopra ricordati) che, però, loro stessi si guardano bene dal rispettare! (sic!) 
Viviamo, quindi, in un generalizzato stato di dissimulatio, per cui i superiori, per prudenza, opportunità o altro, fingono di ignorare l'inosservanza di statuizioni pur valide ed efficaci? Possibile che tutto questo continui a durare da piú di trent'anni senza che nessuno trovi nulla da eccepire, a meno di non voler cinicamente considerare il codice di diritto canonico ed i documenti conciliari come libri, provvidenzialmente ispirati, ma le cui regole devono essere osservate solo ed esclusivamente da una parte dei fedeli (i cosiddetti tradizionalisti), liberi gli altri di comportarsi come meglio credono? 
Fin qui le riflessioni sui documenti conciliari: ma quale valore giuridico rivestono tali documenti? Questo è un aspetto poco conosciuto del dibattito dottrinale post-conciliare, marginale anche nella pubblicistica tradizionalista, ma che invece finisce per rivestire una fondamentale importanza. Le norme conciliari che molti movimenti tradizionalisti contestano, vengono dai piú comunque ritenute valide, legittime e vincolanti: ma lo sono veramente, sempre in punto di diritto canonico? 
Su tale questione esiste e si è sviluppata una corposa dottrina canonistica per nulla univoca, che trascendendo da ogni considerazione teologica, ha analizzato e sviscerato il problema senza trovare una soluzione in grado di convincere tutti. Vi sono infatti canonisti che hanno creduto di poter negare valore giuridico alla totalità degli atti conciliari, questo muovendo dal presupposto che alla base del Concilio ci fosse stata una mera intenzione pastorale di “aggiornamento” della formulazione della fede, una volontà di dare un rivestimento letterario nuovo alle forme linguistiche e cultuali in cui venivano tradizionalmente espresse le verità cristiane (cfr. Petrocelli, Il diritto canonico dopo il Concilio Vaticano II, Napoli, 1969; Fedele, L'"ordinatio ad prolem" ed i fini del matrimonio, in Annali di dottrina e di giurisprudenza canonica, Città del Vaticano, 1968; Lo Castro, La qualificazione giuridica delle deliberazioni conciliari nelle fonti del diritto canonico, Milano, 1970). Secondo tali autori (il Petrocelli, in particolare, ritiene che gli atti conciliari "non hanno valore vincolante dal punto di vista giuridico") il Concilio Vaticano II non avrebbe fatto altro che esprimere in maniera letterariamente piú moderna e aggiornata le verità cristiane di sempre: nihil sub sole novi, quindi, eccetto la forma letteraria. 
E dunque, visto che l'esprit de finesse ed il bon ton non sono verità di fede, le statuizioni del Concilio Vaticano II, o per lo meno buona parte di queste, non obbligherebbero il fedele ad uniformarsi ad esse, pur meritando il rispetto e la deferenza dovuti a quell'Alto Consesso ed alle ispirate parole ivi pronunciate! Il fatto poi che gli atti conciliari siano presi nel rispetto delle regole formali di promulgazione delle leggi ecclesiastiche non risolve i dubbi sulla loro vincolatività: è infatti perfettamente concepibile un atto normativo che presenti tutte le caratteristiche proprie dell'atto legislativo canonico, ma poi, dal punto di vista sostanziale, sia dotato di diversa natura. La presenza degli indici formali del carattere canonico dell'atto [ovverosia: 1) emanato da soggetto competente; 2) promulgato dall'organo competente; 3) pubblicato a cura di quest'ultimo] riveste un carattere di individuabilità a contrario: vale a dire che se l'atto risulta sfornito di tali elementi, è escluso in radice che possa essere un atto normativo, ma se esso ne risulta fornito ciò non significa che lo si possa considerare, sotto il profilo sostanziale, un precetto giuridico. In sintesi, gli indici formali di cui sono dotati tutti gli atti del Concilio Vaticano II opererebbero come condizioni necessarie, ma non sufficienti a dimostrare la loro precettività giuridica. Tant'è che proprio per tradurre i princípi dichiarati dal Concilio in norme giuridiche di condotta, sarebbero state infatti successivamente emanate norme apposite di applicazione dei documenti conciliari. Tali norme, però, godendo di un potere di resistenza relativo, potrebbero essere agevolmente modificate dal legislatore ecclesiastico ordinario in ogni momento. 
Se, invece, riferendoci ad altra parte dottrinaria, si volesse riconoscere alle norme conciliari un solo valore programmatico e/o direttivo, ne deriverebbe comunque la non immediata precettività e quindi obbligatorietà delle stesse. Rahner, noto esponente di questo orientamento dottrinario, rileva che le costituzioni pastorali conterrebbero «istruzioni, raccomandazioni, consigli, ammonizioni, incoraggiamenti che la Chiesa rivolge a sé stessa, ai cristiani e a tutti gli uomini». Da ciò ne deriva che il carattere di obbligatorietà di una istruzione «non è quello proprio di una norma o di una legge» (cfr. Rahner, La problematica teologica di una costituzione pastorale, La Chiesa nel mondo contemporaneo, 2a ed., Brescia, 1967). D'altronde, per spingersi ancora oltre, anche il profeta del modernismo Jacques Maritain auspicava una interpretazione del Concilio "tutta spirituale" (cfr. Maritain, Le paysan de la Garonne, Paris, 1966): criterio interpretativo quanto mai evanescente, ci permettiamo di ricordare, ma che si presta mirabilmente alla giustificazione del brocardo latino, sintesi e delizia di ogni autorità che non ammette discussione: quod principi placuit, lege habet vigorem, (ciò che piace a chi comanda, ha di per sé forza e valore di legge). 
D'altro canto, il Concilio Vaticano II è sempre stato definito dalle stesse autorità ecclesiastiche come un "Concilio pastorale" (cosí il Papa nella allocuzione di apertura del Concilio in data 11.10.62, Gaudet Mater Ecclesia: «Altra è la sostanza dell'antica dottrina del depositum fidei, ed altra la formulazione del suo rivestimento: ed è di questo che devesi - con pazienza se occorre - tenere gran conto, tutto misurando nelle forme e proporzioni di un magistero a carattere prevalentemente pastorale»; cfr. Encicliche e discorsi di S. S. Giovanni XXIII, 4, Roma, 1964, pp. 368-369). 
L'ultimo Concilio infatti non ha definito ulteriori verità di fede, come è avvenuto in quasi tutti gli altri Concilii della storia della Chiesa: anche la Lumen Gentium e la Dei Verbum, i due documenti conciliari definiti rispettivamente constitutio dogmatica "de Ecclesia" e "de Divina Rivelatione", sono tali non perché si stabiliscano nuovi dogmi, ma perché essi trattano questioni dogmatiche già precedentemente definite dalla Chiesa di Roma. 
Per di piú, la stessa Commissione dottrinale del Concilio, formalmente interpellata sulla questione, aveva ribadito esplicitamente "il fine pastorale del presente concilio" (cfr. Dichiarazione 6.3.64, in Concilio Ecumenico Vaticano II, Milano, ed. Àncora, 1966, pp. 191 ss.). 
Da queste premesse deriverebbe la non vincolatività delle deliberazioni conciliari, in quanto queste ultime non andrebbero a integrare le verità di fede, il depositum fidei, cui i fedeli debbono obbligatoriamente attenersi quando queste vengono esplicitamente stabilite dalla suprema autorità della Chiesa in virtú del potere attribuitole da Gesú Cristo. Le decisioni del Concilio Vaticano II, quindi, seppure pubblicate negli Acta Apostolicæ Sedis, non muterebbero la loro natura di atti privi di vis obligandi dal punto di vista giuridico, in quanto esprimenti solo direttive ai fedeli perché uniformino la loro sensibilità a quella della Chiesa. Senza obbligarli, s'intende, a tale revirement spirituel, squisitamente prudenziale, anche perché non si sarebbe potuto forzosamente pretendere che il pruritus innovationum che aveva investito buona parte dei Padri conciliari, finisse alla fine per contagiare anche l'intera comunità dei fedeli. E che si tratti di veri e propri revirement, di mutamenti di rotta rispetto al passato, peraltro assolutamente improvvisi, basterebbe pensare alla completa incongruità tra la Veterum Sapientia, la costituzione apostolica del 22.2.62 di S. S. Giovanni XXIII, in cui si esalta il latino glorificandolo come lingua della Chiesa e perfetto veicolo dell'insegnamento nei seminari, e i successivi barbari attacchi alla "latinità" nel suo insieme, avvenuti durante i lavori conciliari di pochi mesi successivi. 
Per concludere su questo punto, infine, bisogna considerare come la tesi secondo cui i documenti conciliari non si tradurrebbero in norme giuridiche vincolanti, ma in semplici direttive, troverebbe ulteriore conferma proprio nella lettura dell'atto conclusivo del Concilio, In Spiritu Sancto, che afferma testualmente: «…tutto ciò che è stato stabilito sinodalmente (quindi in Concilio, ndr) venga religiosamente (e non obbligatoriamente, ndr) osservato dai fedeli». 

Alla luce di tutto ciò si può affermare che le posizioni tradizionaliste in campo liturgico, e non solo, sono pienamente legittime, e legittime sono le richieste alle autorità della Chiesa per una rilettura globale, in senso critico, delle innovazioni conciliari. D'altronde, ancora una volta, è lo stesso codice di diritto canonico a riconoscere ai fedeli il diritto di manifestare ai Pastori della Chiesa le proprie necessità, soprattutto spirituali, ed i propri desideri, nonché il proprio pensiero sulle questioni che concernono il bene comune della Chiesa (can. 212). Malgrado ciò, quante volte come tradizionalisti abbiamo incontrato nelle autorità ecclesiastiche poca paterna benevolenza e disponibilità, se non inspiegabile acrimonia verso le nostre richieste, per tacere delle volte in cui non abbiamo potuto far altro che necessariamente adeguarci all'indicazione delle Scritture: ubi non est auditus, noli effundere sermonem (quando non c'è nessuno che ascolta, non c'è bisogno di fare discorsi). 
Non pare neppure comprensibile l'atteggiamento di chi considera il Concilio Vaticano II come un corpus inattaccabile ed immutabile di norme, orientamenti, atteggiamenti. Infatti, non sarebbe la prima volta nella storia della Chiesa in cui le decisioni di un Concilio, anche in campo teologico, vengono ribaltate e condannate in un altro. Basti pensare al famoso "ladrocinio di Efeso", quando il Concilio Ecumenico, ivi convocato nel 449 d. C., dichiarò come ortodossa la dottrina monofisita del monaco Eutiche, che il Papa S. Leone Magno aveva già precedentemente condannato. Grazie però alle influenti manovre dell'imperatore Teodosio II, l'epistola scritta dal Papa ai Padri conciliari non venne letta, la corte imperiale riuscí ad influenzare la maggioranza dei Vescovi e a manovrare le fasi del Concilio, mentre i legati del Papa furono trattati in maniera ostile e minacciati. Le cronache dell'epoca ricordano che le discussioni tra i Padri conciliari erano talmente accese che per diverse volte fu necessario far intervenire le guardie. Di fronte alle proteste di Flaviano, patriarca di Costantinopoli, fedele al Papa ed ostile ad Eutiche, i monofisiti passarono alle vie di fatto, malmenandolo e ferendolo; messosi in salvo con i suoi dopo una fortunosa fuga, scrisse un appello al Papa. Il Concilio di Efeso, comunque, assolse Eutiche dall'accusa di eresia; i Vescovi rimasti, infatti, volenti o nolenti, firmarono gli atti di quel Concilio che finí per svolgersi a porte chiuse. Tale deliberazione conciliare venne poi rovesciata dal successivo Concilio di Calcedonia, del 451, che accolse la posizione patrocinata da S. Leone Magno: per ben tre anni, però, l'eresia monofisita, che pretendeva che la natura umana del Cristo fosse stata assorbita, dopo l'unione, dalla natura divina, fu apparentemente legittimata come verità di fede.

Per finire il nostro excursus nell'àmbito del diritto liturgico ci sia consentita una citazione ad uso dei tanti innovatori che esaltano la Chiesa post-conciliare e, biascicando invettive contro la Tradizione, si vantano di aver lottato per ricreare una Chiesa piú vicina alle comunità dei primi cristiani. 
Cosí profeticamente Papa Pio VI, alla fine del '700, stigmatizzava chi allora, nel Concilio di Pistoia promosso dal Vescovo Scipione Ricci, prima di essere cacciato a furor di popolo dalla sua sede episcopale, ed oggi invece predicato dai pulpiti e dalle curie, chiedeva liturgie in volgare, semplificazione iconoclastica dei riti, altari spogli e modernizzazione ad oltranza: «La proposizione con la quale si mostra di desiderare che siano eliminate le cause per cui è stata in parte provocata la dimenticanza dei princípi che riguardano l'ordine della liturgia, “riconducendola ad una maggiore semplicità dei riti, proponendola in lingua volgare e proclamandola ad alta voce”, come se l'ordinamento vigente della liturgia, dalla Chiesa ricevuto e riconosciuto, derivasse per qualche parte da una dimenticanza dei princípi dai quali essa dev'essere retta: è temeraria, offensiva per le orecchie pie, oltraggiosa verso la Chiesa e favorisce le invettive degli eretici contro di Essa… La proposizione che asserisce che “è contro la prassi apostolica e i progetti di Dio se non vengono predisposte per il popolo vie piú facili per unire la sua voce con la voce di tutta la Chiesa”, intesa riguardo all'uso della lingua volgare da introdurre nelle preghiere liturgiche: è falsa, temeraria, turbativa dell'ordinamento prescritto per la celebrazione dei misteri, facile generatrice di molti mali.» (Pio VI, Bolla dogmatica Auctorem fidei, 1794).

(vai a: Calepino del Diritto Canonico I)

Luc de Pollien



 ALLA PRIMA PAGINA (Home)
AL SOMMARIO GENERALE
AL SOMMARIO PER ARGOMENTI