CALEPINO DEL DIRITTO CANONICO - II Parte
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(vai a: Calepino del Diritto Canonico I)
Nel nostro articolo precedente (sett. '95) abbiamo analizzato a grandi
linee i caratteri ed i fondamenti del diritto canonico. Proseguendo nella
illustrazione della materia, continuiamo il nostro viaggio nell'àmbito
canonistico, proponendoci di analizzare in queste pagine le problematiche
che il diritto liturgico ed i documenti conciliari suscitano relativamente
al tema della Messa e della sua celebrazione.
Il punto è quanto mai importante e dirimente. Esso infatti rappresenta
l'ubi consistam della nostra scelta, il discrimine che permette
tout
court di individuare posizioni realmente ed autenticamente "tradizionali"
da orientamenti solo strumentalmente tali, tendenti a esaltare settariamente
alcuni aspetti, a volte addirittura marginali, dei mores antiqui.
Si è già osservato come l'unico diritto riconosciuto ai
fedeli, pacificamente ammesso e tale da rappresentare l'unico dovere delle
autorità ecclesiastiche, è quello di ricevere le cose necessarie
al conseguimento della salvezza eterna. Strumenti fondamentali per il conseguimento
di quest'ultima sono sicuramente e specialmente i sacramenti, tra i quali
spicca, caput et fundamentum di ogni altro, l'Eucarestia
e la sua celebrazione.
Quante difficoltà, di ogni genere, incontrino i fedeli tradizionalisti
a sentir celebrata la S. Messa secondo il rito tradizionale, detto impropriamente
di S. Pio V, è, purtroppo, cosa nota e risaputa su cui non è
necessario soffermarci. Vi è, invece, un particolare segmento della
problematica religiosa post-conciliare che non viene valutato a sufficienza
e che invece potrebbe essere opportuno esaminare da un punto di vista canonistico:
ovverosia, quali siano le aspettative liturgico-giuridiche di noi tradizionalisti,
almeno come secundum leges ci dovrebbero essere riconosciute,
e, specularmente, le incongruità cui vanno incontro le autorità
ecclesiastiche nella regolamentazione della materia liturgica.
Il can. 214 del codice di diritto canonico sancisce il diritto comune
a tutti i fedeli di rendere a Dio un culto secondo le disposizioni del
proprio rito approvato dai legittimi pastori della Chiesa e di seguire
un proprio metodo di vita spirituale, conforme alla dottrina della Chiesa.
Se si riconosce, quindi, un diritto ad una propria spiritualità,
sia come singoli che come associati, ne consegue come corollario che l'uso
di un proprio specifico rito deve essere assicurato in quanto manifestazione
"esterna" di tale spiritualità: forse che la spiritualità
tradizionalista dovrebbe essere da meno di quella dei focolarini, dei neocatacumenali,
e via enumerando? Sempre il nuovo codice di diritto canonico, can. 928,
stabilisce che la celebrazione della santissima Eucarestia può avvenire
sia in latino che in altra lingua, purché il testo liturgico sia
legalmente approvato.
Senza addentrarci ora in considerazioni di natura teologica sulle differenze
tra rito tradizionale e nuovo rito, perché mai, ci si domanda, se
la nuova Messa può essere celebrata in latino questo non avviene
mai? Dove, in quale chiesa possiamo veder riconosciuto tale diritto esplicitamente
sancito e stabilito? A quanto ci consta, almeno in Italia, nessuna parrocchia
o chiesa celebra quotidianamente e pubblicamente messe in latino, sia pure
secondo il nuovo rito, di talché non si capisce come mai la Radio
Vaticana si ostini a trasmetterla ogni mattina, alle 7,30: forse per semplice
noblesseoblige?
Il canone 928 del nuovo codice, poi, non definisce quale rito debba
osservarsi nella celebrazione delle azioni liturgiche, ma si limita ad
indicare che il testo di queste ultime deve essere legalmente approvato.
Sempre lo stesso codice di diritto canonico dichiara che mantengono il
loro valore le norme precedenti, come tutte le norme canoniche anteriori
all'emanazione del codice stesso, tranne che qualcuna di esse sia contraria
a quanto si stabilisce nello stesso codice (can. 20). Perché mai,
allora, il Papa che ha promulgato tale codice, concede l'indulto (vale
a dire un privilegio accordato per specifica concessione, in quanto ritenuto
discrezionalmente utile, senza nessuna garanzia di continuità temporale
- cfr. il Motu Proprio Ecclesia Dei
del 1988 e prima ancora l'autorizzazione alla celebrazione della Messa
in latino concessa nel 1984) per la celebrazione della Messa secondo il
rito tradizionale, quando per diritto generale nulla osterebbe a tale celebrazione
in via pubblica ed universale? È forse tale rito, con cui buona
parte dei Padri conciliari e il Papa stesso sono stati battezzati, confermati
ed ordinati, contrario alle leggi della Chiesa e nefasto per la salvezza
delle anime dei fedeli?
Alla suprema autorità della Chiesa spetta l'adozione dei testi
liturgici. Come prescrive il can. 838, infatti, la disciplina della liturgia
è di competenza dell'autorità della Chiesa e precisamente
della S. Sede e dei Vescovi diocesani. In particolare alla S. Sede spetta
disciplinare la sacra liturgia della Chiesa Universale, pubblicare i libri
liturgici (ad esempio: messali, rituali, breviari) e vigilare per la fedele
osservanza delle norme liturgiche: ciò avviene in particolare attraverso
le sacre Congregazioni per i Sacramenti e il Culto Divino. Le Conferenze
Episcopali, invece, hanno il compito di preparare le eventuali versioni,
nelle lingue correnti, dei libri liturgici e di curarne la pubblicazione,
previa autorizzazione della S. Sede. Infine spetta al Vescovo diocesano,
nei limiti della sua competenza, impartire norme in materia liturgica obbligatorie
e vincolanti per tutti i fedeli della propria Chiesa particolare.
Ora, non si capisce perché, in barba ai canoni 5 e 28, si impedisca
la celebrazione della S. Messa in lingua latina con rito tradizionale,
dato che tale rito è stato approvato a suo tempo dalle legittime
autorità e confermato dalla consuetudine plurisecolare della Chiesa.
A meno di non sostenere che paradossalmente ciò che per secoli era
in uso nella cristianità, il messale tradizionale, cosiddetto di
S. Pio V, adesso debba essere "autorizzato" in camera charitatis
da qualche "generoso" Vescovo locale!
Si obietterà: ma il Concilio Vaticano II ha innovato, modificato,
aggiornato…! Tralasciamo per il momento ogni considerazione sul valore
e l'obbligatorietà delle statuizioni di tale Concilio pastorale,
che ci proponiamo di analizzare piú oltre, perché ben prima
di tale problema bisogna domandarsi in ragione di quale titolo o particolare
privilegio i piú fieri avversari della Messa tradizionale in nome
del Concilio Vaticano II (di cui si è celebrato l'8 dicembre scorso
il trentennio) siano poi i primi a non uniformarsi e a non rispettare le
direttive conciliari in tale materia. Infatti, scorrendo la Costituzione
conciliare sulla santa liturgia, Sacrosanctum Concilium,
si può notare come le direttive ivi contenute siano alquanto distanti
dalla pratica invalsa nell'uso e caldeggiata e "spacciata" come "conciliare".
Tant'è che non ci pare esagerato parlare, in questa materia, di
una vera e propria opera di "coonestamento" propalata ad arte in questi
ultimi anni, tendente a giustificare una pratica per lo meno scorretta
fornendone ragioni e spiegazioni solo in apparenza vere, tali però
da farla apparire legittima e giustificata.
Riportiamo letteralmente dalla Sacrosanctum Concilium,
l'unico documento conciliare, è bene ricordarlo, per cui le autorità
ecclesiastiche hanno ritenuto di dover emanare delle successive istruzioni
per la sua applicazione:
22.1 - Regolare la sacra liturgia compete unicamente all'autorità
della Chiesa, la quale risiede nella Sede Apostolica e, a norma di diritto,
nel Vescovo.
22.3 - Di conseguenza assolutamente nessun altro, anche se sacerdote,
osi, di sua iniziativa, aggiungere, togliere o mutare alcunché in
materia liturgica.
36.1 - L'uso della lingua latina, salvo diritti particolari,
sia conservato nei riti latini.
36.2 - Dato però che, sia nella messa che nell'amministrazione
dei sacramenti, sia in altre parti della liturgia, non di rado l'uso della
lingua nazionale può riuscire di grande utilità per il popolo,
si conceda alla lingua nazionale una parte piú ampia, specialmente
nelle letture e nelle ammonizioni, in alcune preghiere e canti, secondo
le norme fissate per i singoli casi nei capitoli seguenti…
54 - Nelle messe celebrate con partecipazione di popolo si possa
concedere una congrua parte alla lingua nazionale, specialmente nelle letture
e nella “orazione comune” e, secondo le condizioni dei vari luoghi, anche
nelle parti spettanti al popolo. - Si abbia cura però che i fedeli
sappiano recitare e cantare insieme, anche in lingua latina, le parti dell'ordinario
della messa che spetta ad essi. - Se poi in qualche luogo sembrasse opportuno
un uso piú ampio della lingua nazionale nella messa, si osservi
quanto prescritto in questa costituzione.
101.1 - Secondo la secolare tradizione del rito latino, per i
chierici sia conservata nell'ufficio divino la lingua latina.
116 - La Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio
della liturgia romana; perciò nelle azioni liturgiche, a parità
di condizioni, gli si riservi il posto principale.
Chiediamo scusa per queste lunghe citazioni, che sono però utilissime
per valutare come gli innovatori, i conciliaristi ad oltranza, siano proprio
i primi a non attenersi alle regole che loro stessi avevano invocato!
Non è necessario rimarcare quanto la pratica quotidiana delle
celebrazioni liturgiche sia lontana dalle prescrizioni che precedono, quante
siano le innovazioni non autorizzate, ma messe in atto ad nutum
da sacerdoti e semplici fedeli, quanta indolenza nel curarsi dell'istruzione
liturgica dei fedeli e quanta solerzia, invece, nell'aver fatto diventare
obbligatorio, generale, onnipresente l'uso della lingua nazionale, che
a norma di Concilio doveva invece essere "concesso per singoli casi, secondo
le condizioni ed opportunità".
In base a quanto abbiamo sopra esposto, in sintesi la situazione attuale
della Chiesa sembrerebbe essere quella di un gruppo ristretto di persone
(i Pastori) che impongono ad un altro gruppo (i fedeli) di non poter usufruire
di un diritto pur da loro stessi riconosciuto in via generale ed astratta
(quello di poter celebrare e quindi ascoltare la Messa in latino, col rito
tradizionale e/o nuovo), tutto questo in virtú di atti normativi
(i princípi espressi nei testi conciliari sopra ricordati) che,
però, loro stessi si guardano bene dal rispettare! (sic!)
Viviamo, quindi, in un generalizzato stato di dissimulatio,
per cui i superiori, per prudenza, opportunità o altro, fingono
di ignorare l'inosservanza di statuizioni pur valide ed efficaci? Possibile
che tutto questo continui a durare da piú di trent'anni senza che
nessuno trovi nulla da eccepire, a meno di non voler cinicamente considerare
il codice di diritto canonico ed i documenti conciliari come libri, provvidenzialmente
ispirati, ma le cui regole devono essere osservate solo ed esclusivamente
da una parte dei fedeli (i cosiddetti tradizionalisti), liberi gli altri
di comportarsi come meglio credono?
Fin qui le riflessioni sui documenti conciliari: ma quale valore giuridico
rivestono tali documenti? Questo è un aspetto poco conosciuto del
dibattito dottrinale post-conciliare, marginale anche nella pubblicistica
tradizionalista, ma che invece finisce per rivestire una fondamentale importanza.
Le norme conciliari che molti movimenti tradizionalisti contestano, vengono
dai piú comunque ritenute valide, legittime e vincolanti: ma lo
sono veramente, sempre in punto di diritto canonico?
Su tale questione esiste e si è sviluppata una corposa dottrina
canonistica per nulla univoca, che trascendendo da ogni considerazione
teologica, ha analizzato e sviscerato il problema senza trovare una soluzione
in grado di convincere tutti. Vi sono infatti canonisti che hanno creduto
di poter negare valore giuridico alla totalità degli atti conciliari,
questo muovendo dal presupposto che alla base del Concilio ci fosse stata
una mera intenzione pastorale di “aggiornamento” della formulazione della
fede, una volontà di dare un rivestimento letterario nuovo alle
forme linguistiche e cultuali in cui venivano tradizionalmente espresse
le verità cristiane (cfr. Petrocelli, Il diritto canonico dopo
il Concilio Vaticano II, Napoli, 1969; Fedele, L'"ordinatio ad prolem"
ed i fini del matrimonio, in Annali di dottrina e di giurisprudenza
canonica, Città del Vaticano, 1968; Lo Castro, La qualificazione
giuridica delle deliberazioni conciliari nelle fonti del diritto canonico,
Milano, 1970). Secondo tali autori (il Petrocelli, in particolare, ritiene
che gli atti conciliari "non hanno valore vincolante dal punto di vista
giuridico") il Concilio Vaticano II non avrebbe fatto altro che esprimere
in maniera letterariamente piú moderna e aggiornata le verità
cristiane di sempre: nihil sub sole novi, quindi, eccetto
la forma letteraria.
E dunque, visto che l'esprit de finesse ed il bon ton
non sono verità di fede, le statuizioni del Concilio Vaticano II,
o per lo meno buona parte di queste, non obbligherebbero il fedele ad uniformarsi
ad esse, pur meritando il rispetto e la deferenza dovuti a quell'Alto Consesso
ed alle ispirate parole ivi pronunciate! Il fatto poi che gli atti conciliari
siano presi nel rispetto delle regole formali di promulgazione delle leggi
ecclesiastiche non risolve i dubbi sulla loro vincolatività: è
infatti perfettamente concepibile un atto normativo che presenti tutte
le caratteristiche proprie dell'atto legislativo canonico, ma poi, dal
punto di vista sostanziale, sia dotato di diversa natura. La presenza degli
indici formali del carattere canonico dell'atto [ovverosia: 1) emanato
da soggetto competente; 2) promulgato dall'organo competente; 3) pubblicato
a cura di quest'ultimo] riveste un carattere di individuabilità
a
contrario: vale a dire che se l'atto risulta sfornito di tali elementi,
è escluso in radice che possa essere un atto normativo, ma se esso
ne risulta fornito ciò non significa che lo si possa considerare,
sotto il profilo sostanziale, un precetto giuridico. In sintesi, gli indici
formali di cui sono dotati tutti gli atti del Concilio Vaticano II opererebbero
come condizioni necessarie, ma non sufficienti a dimostrare la loro precettività
giuridica. Tant'è che proprio per tradurre i princípi dichiarati
dal Concilio in norme giuridiche di condotta, sarebbero state infatti successivamente
emanate norme apposite di applicazione dei documenti conciliari. Tali norme,
però, godendo di un potere di resistenza relativo, potrebbero essere
agevolmente modificate dal legislatore ecclesiastico ordinario in ogni
momento.
Se, invece, riferendoci ad altra parte dottrinaria, si volesse riconoscere
alle norme conciliari un solo valore programmatico e/o direttivo, ne deriverebbe
comunque la non immediata precettività e quindi obbligatorietà
delle stesse. Rahner, noto esponente di questo orientamento dottrinario,
rileva che le costituzioni pastorali conterrebbero «istruzioni, raccomandazioni,
consigli, ammonizioni, incoraggiamenti che la Chiesa rivolge a sé
stessa, ai cristiani e a tutti gli uomini». Da ciò ne deriva
che il carattere di obbligatorietà di una istruzione «non
è quello proprio di una norma o di una legge» (cfr. Rahner,
La
problematica teologica di una costituzione pastorale, La Chiesa nel mondo
contemporaneo, 2a ed., Brescia, 1967). D'altronde, per spingersi ancora
oltre, anche il profeta del modernismo Jacques Maritain auspicava una interpretazione
del Concilio "tutta spirituale" (cfr. Maritain, Le paysan de la Garonne,
Paris, 1966): criterio interpretativo quanto mai evanescente, ci permettiamo
di ricordare, ma che si presta mirabilmente alla giustificazione del brocardo
latino, sintesi e delizia di ogni autorità che non ammette discussione:
quod
principi placuit, lege habet vigorem, (ciò che piace a chi
comanda, ha di per sé forza e valore di legge).
D'altro canto, il Concilio Vaticano II è sempre stato definito
dalle stesse autorità ecclesiastiche come un "Concilio pastorale"
(cosí il Papa nella allocuzione di apertura del Concilio in data
11.10.62, Gaudet Mater Ecclesia: «Altra è
la sostanza dell'antica dottrina del depositum fidei, ed altra la formulazione
del suo rivestimento: ed è di questo che devesi - con pazienza se
occorre - tenere gran conto, tutto misurando nelle forme e proporzioni
di un magistero a carattere prevalentemente pastorale»; cfr.
Encicliche
e discorsi di S. S. Giovanni XXIII, 4, Roma, 1964, pp. 368-369).
L'ultimo Concilio infatti non ha definito ulteriori verità di
fede, come è avvenuto in quasi tutti gli altri Concilii della storia
della Chiesa: anche la Lumen Gentium e la Dei Verbum,
i due documenti conciliari definiti rispettivamente constitutio dogmatica
"de Ecclesia" e "de Divina Rivelatione", sono tali
non perché si stabiliscano nuovi dogmi, ma perché essi trattano
questioni dogmatiche già precedentemente definite dalla Chiesa di
Roma.
Per di piú, la stessa Commissione dottrinale del Concilio, formalmente
interpellata sulla questione, aveva ribadito esplicitamente "il fine pastorale
del presente concilio" (cfr. Dichiarazione 6.3.64, in Concilio
Ecumenico Vaticano II, Milano, ed. Àncora, 1966, pp. 191 ss.).
Da queste premesse deriverebbe la non vincolatività delle deliberazioni
conciliari, in quanto queste ultime non andrebbero a integrare le verità
di fede, il depositum fidei, cui i fedeli debbono obbligatoriamente
attenersi quando queste vengono esplicitamente stabilite dalla suprema
autorità della Chiesa in virtú del potere attribuitole da
Gesú Cristo. Le decisioni del Concilio Vaticano II, quindi, seppure
pubblicate negli Acta Apostolicæ Sedis, non muterebbero la
loro natura di atti privi di vis obligandi dal punto di vista giuridico,
in quanto esprimenti solo direttive ai fedeli perché uniformino
la loro sensibilità a quella della Chiesa. Senza obbligarli, s'intende,
a tale revirement spirituel, squisitamente prudenziale, anche perché
non si sarebbe potuto forzosamente pretendere che il pruritus innovationum
che aveva investito buona parte dei Padri conciliari, finisse alla fine
per contagiare anche l'intera comunità dei fedeli. E che si tratti
di veri e propri revirement, di mutamenti di rotta rispetto al passato,
peraltro assolutamente improvvisi, basterebbe pensare alla completa incongruità
tra la Veterum Sapientia, la costituzione
apostolica del 22.2.62 di S. S. Giovanni XXIII, in cui si esalta il latino
glorificandolo come lingua della Chiesa e perfetto veicolo dell'insegnamento
nei seminari, e i successivi barbari attacchi alla "latinità" nel
suo insieme, avvenuti durante i lavori conciliari di pochi mesi successivi.
Per concludere su questo punto, infine, bisogna considerare come la
tesi secondo cui i documenti conciliari non si tradurrebbero in norme giuridiche
vincolanti, ma in semplici direttive, troverebbe ulteriore conferma proprio
nella lettura dell'atto conclusivo del Concilio, In Spiritu Sancto,
che afferma testualmente: «…tutto ciò che è stato
stabilito sinodalmente (quindi in Concilio, ndr) venga religiosamente
(e non obbligatoriamente, ndr) osservato dai fedeli».
Alla luce di tutto ciò si può affermare che le posizioni
tradizionaliste in campo liturgico, e non solo, sono pienamente legittime,
e legittime sono le richieste alle autorità della Chiesa per una
rilettura globale, in senso critico, delle innovazioni conciliari. D'altronde,
ancora una volta, è lo stesso codice di diritto canonico a riconoscere
ai fedeli il diritto di manifestare ai Pastori della Chiesa le proprie
necessità, soprattutto spirituali, ed i propri desideri, nonché
il proprio pensiero sulle questioni che concernono il bene comune della
Chiesa (can. 212). Malgrado ciò, quante volte come tradizionalisti
abbiamo incontrato nelle autorità ecclesiastiche poca paterna benevolenza
e disponibilità, se non inspiegabile acrimonia verso le nostre richieste,
per tacere delle volte in cui non abbiamo potuto far altro che necessariamente
adeguarci all'indicazione delle Scritture: ubi non est auditus, noli
effundere sermonem (quando non c'è nessuno che ascolta,
non c'è bisogno di fare discorsi).
Non pare neppure comprensibile l'atteggiamento di chi considera il
Concilio Vaticano II come un corpus inattaccabile ed immutabile
di norme, orientamenti, atteggiamenti. Infatti, non sarebbe la prima volta
nella storia della Chiesa in cui le decisioni di un Concilio, anche in
campo teologico, vengono ribaltate e condannate in un altro. Basti pensare
al famoso "ladrocinio di Efeso", quando il Concilio Ecumenico, ivi convocato
nel 449 d. C., dichiarò come ortodossa la dottrina monofisita del
monaco Eutiche, che il Papa S. Leone Magno aveva già precedentemente
condannato. Grazie però alle influenti manovre dell'imperatore Teodosio
II, l'epistola scritta dal Papa ai Padri conciliari non venne letta, la
corte imperiale riuscí ad influenzare la maggioranza dei Vescovi
e a manovrare le fasi del Concilio, mentre i legati del Papa furono trattati
in maniera ostile e minacciati. Le cronache dell'epoca ricordano che le
discussioni tra i Padri conciliari erano talmente accese che per diverse
volte fu necessario far intervenire le guardie. Di fronte alle proteste
di Flaviano, patriarca di Costantinopoli, fedele al Papa ed ostile ad Eutiche,
i monofisiti passarono alle vie di fatto, malmenandolo e ferendolo; messosi
in salvo con i suoi dopo una fortunosa fuga, scrisse un appello al Papa.
Il Concilio di Efeso, comunque, assolse Eutiche dall'accusa di eresia;
i Vescovi rimasti, infatti, volenti o nolenti, firmarono gli atti di quel
Concilio che finí per svolgersi a porte chiuse. Tale deliberazione
conciliare venne poi rovesciata dal successivo Concilio di Calcedonia,
del 451, che accolse la posizione patrocinata da S. Leone Magno: per ben
tre anni, però, l'eresia monofisita, che pretendeva che la natura
umana del Cristo fosse stata assorbita, dopo l'unione, dalla natura divina,
fu apparentemente legittimata come verità di fede.
Per finire il nostro excursus nell'àmbito del diritto
liturgico ci sia consentita una citazione ad uso dei tanti innovatori che
esaltano la Chiesa post-conciliare e, biascicando invettive contro la Tradizione,
si vantano di aver lottato per ricreare una Chiesa piú vicina alle
comunità dei primi cristiani.
Cosí profeticamente Papa Pio VI, alla fine del '700, stigmatizzava
chi allora, nel Concilio di Pistoia promosso dal Vescovo Scipione Ricci,
prima di essere cacciato a furor di popolo dalla sua sede episcopale, ed
oggi invece predicato dai pulpiti e dalle curie, chiedeva liturgie in volgare,
semplificazione iconoclastica dei riti, altari spogli e modernizzazione
ad oltranza: «La proposizione con la quale si mostra di desiderare
che siano eliminate le cause per cui è stata in parte provocata
la dimenticanza dei princípi che riguardano l'ordine della liturgia,
“riconducendola ad una maggiore semplicità dei riti, proponendola
in lingua volgare e proclamandola ad alta voce”, come se l'ordinamento
vigente della liturgia, dalla Chiesa ricevuto e riconosciuto, derivasse
per qualche parte da una dimenticanza dei princípi dai quali essa
dev'essere retta: è temeraria, offensiva per le orecchie pie, oltraggiosa
verso la Chiesa e favorisce le invettive degli eretici contro di Essa…
La proposizione che asserisce che “è contro la prassi apostolica
e i progetti di Dio se non vengono predisposte per il popolo vie piú
facili per unire la sua voce con la voce di tutta la Chiesa”, intesa riguardo
all'uso della lingua volgare da introdurre nelle preghiere liturgiche:
è falsa, temeraria, turbativa dell'ordinamento prescritto per la
celebrazione dei misteri, facile generatrice di molti mali.»
(Pio VI, Bolla dogmatica Auctorem fidei, 1794).
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