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Un importante aspetto della Liturgia della Chiesa L'orientamento dell'Altare,
La Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei
Sacramenti
Quando ebbe inizio il processo di revisione dell’antica liturgia della
Chiesa Cattolica, ancor prima del Vaticano II, si volle a tutti i costi
sostenere la bontà del concetto che la S. Messa fosse un rito celebrato
“in comunione” dal sacerdote e dai fedeli. I concetti di “mensa” e di “convivio”,
che si facevano indebitamente risalire all’antica “àgape” fraterna,
si pretendeva fondassero la strana ed eterodossa opinione che il Santo
Sacrificio della Messa non fosse altro che una manifestazione comunitaria
dei fedeli, nel corso della quale si poteva anche parlare del rinnovamento
del Sacrificio della Croce, ma a patto che fosse chiaro che erano i
fedeli a farne “memoria”. È evidente che si trattava di una opinione
tipicamente protestante, ma molti cattolici ritennero di poter superare
l’ostacolo semplicemente riaffermando la loro fede nella Presenza Reale
e nella riattualizzazione del Sacrificio di nostro Signore.
Nel corso del Concilio e soprattutto dopo il Concilio, le proteste furono tante, come si sa e come ormai hanno finito con l’ammettere chiaramente tanti convinti modernisti, e furono vibrate e teologicamente fondate, soprattutto in vista delle conseguenze dottrinali che una tale scelta poteva comportare. Di fatto, fedeli e sacerdoti, in questi ultimi 30 anni, hanno finito
col convincersi che la S. Messa è “innanzi tutto” una questione
di “popolo”: l’elemento primario della celebrazione eucaristica è
costituito dall’assemblea dei fedeli; e lí ove si sia ancora conservato
il senso del mistero che si compie nel corso della S. Messa, questo viene
considerato come un accessorio: vero, reale, da rispettare, da tenere sempre
presente con la dovuta devozione e riverenza, ma un accessorio.
o faccia un minimo cenno di riverenza quando il celebrante, rivolto ai fedeli e mostrando loro l’Ostia consacrata, che è realmente il Corpo di nostro Signore, dice in volgare: Ecco l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo. I fedeli non mutano per niente il loro atteggiamento, la loro postura, la loro attenzione. In questo frangente, anzi, con la pratica della frequentazione eucaristica indiscriminata, la navata della chiesa (per non dire dello stesso presbiterio) è sovraccarica di gente che si muove piú o meno compostamente per andare a “prendere la comunione”, magari sulla mano. Il fatto che nostro Signore sia realmente presente in mezzo a noi in Corpo, Sangue, Anima e Divinità, che venga distribuito ai fedeli che lo assumono per la salvezza della propria anima, che si stia compiendo il piú grande dei misteri della religione cattolica: tutto questo tocca i fedeli e i preti presenti solo in minima parte. Peraltro, la famosa acclamazione che la moderna liturgia mette in bocca
ai fedeli dopo la formula della consacrazione: Annunciamo la tua
morte, o Signore, proclamiamo la tua Resurrezione, nell’attesa della tua
venuta;
Tutto questo per ricordare l’importanza dei gesti, delle parole e delle posture nel corso della celebrazione del rito della S. Messa. Non si è mai trattato di “usi” e “costumi”, né di “sensibilità”, né di “comunicazione”, si è semplicemente trattato di elementi atti a far vivere il credo cattolico, ai fedeli e al celebrante, nella maniera piú immediata, piú concreta, piú convinta e piú tangibile; in una parola: nella maniera piú vera. Quando il sacerdote, secondo la liturgia tradizionale, volgeva le spalle
ai fedeli presenti nella navata, non faceva niente altro che quello che
tutti i fedeli facevano gli uni nei confronti degli altri: migliaia di
fedeli che volgevano le spalle a migliaia di altri; e non ci sembra che
la cosa possa essere minimamente presa in considerazione: poiché
l’unico modo per ovviare a questo inconveniente sarebbe quello di celebrare
la Santa Messa solo con una fila di fedeli posti in circolo intorno all’altare
(e anche qui almeno la metà di loro vedrebbero solo il dorso del
celebrante). Il che sarebbe semplicemente assurdo.
ma dalle preghiere rivolte a Dio. Se, con la nuova liturgia, si voleva ampliare o aumentare il numero dei momenti di “comunicazione”, pur volendo ammettere le nuove e spesso incoerenti giustificazioni, bastava farlo senza mutare per niente la prevalente posizione del celebrante che, insieme ai fedeli, si volgeva versus Deum. Ed ecco che dopo 30 anni di novus ordo la Congregazione per il Culto Divino è costretta a ricordare che è tutta la Chiesa ad essere «volta versus Deum, cosa questa che costituisce il suo primario moto spirituale» (si veda il testo del documento della Congregazione). A leggere il documento, non si può fare a meno di notare che
il quesito posto alla Congregazione è di per sé rivelatore
del fatto che oggi sono rimasti in pochi i fedeli e i preti che sanno che
cosa significhi volgersi versus Deum, ed essendo sorto in qualcuno
un certo dubbio circa il significato della trentennale pratica del celebrante
rivolto versus populum, ecco che chiede lumi per sapere se non vi
sia la proibizione di rivolgersi a Dio.
«Innanzi tutto occorre ricordare che il termine expedit non costituisce una forma obbligatoria, ma un suggerimento, che riguarda sia la costruzione dell’altare a pariete seiunctum, sia la celebrazione versus populum. La clausola ubi possibile sit tiene conto di diversi elementi come, per esempio, la topografia del luogo, la disponibilità dello spazio, l’esistenza di un precedente altare di valore artistico, la sensibilità della comunità che partecipa alle celebrazioni nella chiesa in questione, ecc.»Per prima cosa salta all’occhio come la Congregazione ricordi, in definitiva, che ognuno può fare come gli pare, poiché non v’è alcun obbligo nelle prescrizioni della Institutio Generalis: solo un suggerimento. Suggerimento che è legato, tra l’altro, alla sensibilità della comunità. Fino a prova contraria, la S. Messa rimane ancora, anche per il clero modernista (almeno cosí si dice), la continuazione della tradizionale pratica rituale con la quale si rende a Dio il culto dovutoGli. Pratica rituale che, pur adattandosi inevitabilmente nel corso dei secoli, non può essere sostanzialmente che la medesima insegnata da Gesú Cristo agli Apostoli e da questi trasmessa ai loro successori. In tutto questo la “sensibilità della comunità” non ha alcun diritto attivo, semmai si dovrebbe affermare il contrario: che il culto reso a Dio, secondo gli insegnamenti di nostro Signore e la tradizione degli Apostoli, con i gesti, le parole, le posture, le preghiere, gli inni e i cantici, costituiscono un insieme che serve “anche a modellare” la “sensibilità della comunità” in senso cristiano ed ortodosso. Non è il fedele che fa la liturgia, ma è la liturgia che
si offre al fedele come esempio, insegnamento ed edificazione. Nessuno
ha mai sostenuto che il fedele pregando con la sua sensibilità fondasse
il credo, bensí che il credo e la preghiera fossero in perfetto
unisono, cosí che il credo fosse evidente e manifesto nella preghiera
del fedele.
Qui si dice “sembra”, ed è certo curioso e oltremodo interessante che non si dica “è”. E per di piú essa “sembra piú conveniente nella misura in cui rende piú facile la comunicazione.” Sarà cosí, da oggi in poi? Ma, ciò nonostante, l’equivoco rimane. Quale comunicazione?
Ormai si usa dire che, in ogni caso, questa stessa posizione,
Ora, a parte il fatto che si continua ad alimentare lo strumentale equivoco
che per quasi duemila anni nelle SS. Messe celebrate secondo il rito tradizionale
i fedeli non abbiamo mai capito appieno di che cosa si trattasse: cosa
questa che è sicuramente offensiva nei confronti dei nostri padri,
ma piú ancora è blasfema nei confronti di nostro Signore,
degli Apostoli e di tutti i Santi che cosí hanno celebrato in ogni
parte del mondo; c’è da chiedersi che cosa ci sia da capire nella
celebrazione S. Messa.
Vi è un altro punto di vista dal quale si può considerare
questa conclamata “comunicazione”.
Ma perché avvenga tutto questo è necessario che il fedele si disponga a seguire la S. Messa innanzi tutto con le orecchie e con gli occhi, per poi elaborare con la ragione ciò che ha veduto e ciò che ha udito. Ora, ancorché, in linea teorica, questo possa accettarsi come possibile, è anche necessario che si dia per scontato che “ogni” fedele abbia una fede certa e solidamente fondata, che su questa fede poggi inequivocabilmente la sua razionalità, che la sua capacità raziocinante sia il piú possibile ampia e articolata e strettamente connessa con la sua percezione interiore, tanto da conciliare gesti e parole “esteriori” con tutto quello che di inesprimibile e di appena intuibile esse suggeriscono. È questa la vera condizione dell’uomo moderno e del fedele dei
nostri giorni?
Ma anche a voler concedere, senza ammetterlo, che le cose stiano cosí,
è evidente che si è giunti ad un capovolgimento dell’intima
realtà della religione.
Per quanto ci riguarda, quando ascoltiamo la lettura del Vangelo, la
Chiesa ci propone a credere che quanto abbiamo udito è Parola di
Dio, e non ci viene proposta alcuna riserva o alcuna speciale raccomandazione
circa il significato razionale di quanto abbiamo ascoltato.
Ora, se la liturgia della S. Messa è il rendimento di grazie a Dio e l’inno di lode alla Sua gloria, essa dovrà permettere in primo luogo l’esercizio dell’amore del cuore del fedele, cosí che ogni elemento che lo distragga da questa compunzione del cuore debba essere scartato. Essa deve anche permettere l’esercizio dell’amore dell’anima del fedele, cosí che, anche qui, non sono in causa né i sensi né la ragione; semmai si potrebbe parlare delle sensazioni dell’uomo, che attengono alla sfera psichica piuttosto che a quella fisica e sensoriale. Ora, indubbiamente, percepire attraverso il sensibile e la ragione è
tipico dell’uomo, quindi si potrebbe affermare che, dal suo punto di vista,
quelli che sembrerebbero essere giustamente i fattori ultimi, per lui divengono
necessariamente i primi. Questo è verissimo, ma solo nei termini
in cui siano presi in considerazione dall’uomo stesso per quello che realmente
sono: dei punti di appoggio atti a permettergli di sollevarsi “su” di loro
per volgersi in alto, a Dio.
In questa ottica, allorché nella S. Messa si vuol dare prevalenza
ai fattori sensibili e razionali, si verificano due gravi inconvenienti.
C’è da chiedersi che cosa abbia finito col significare di diverso l’applicazione tutta moderna della famosa “inculturazione della fede”, l’uso indiscriminato della lingua volgare, la disastrosa moltiplicazione dei vari “modi per celebrare la S. Messa”, l’assurda sollecitazione che il sacerdote infarcisca l’ordo missae con continue esposizioni personali, a seconda della “sensibilità della comunità” del momento. «Tuttavia, quale che sia la posizione del celebrante, è chiaro che il Sacrificio Eucaristico è offerto a Dio Uno e Trino, e che il prete principale, Sovrano ed Eterno, è Gesú Cristo. È Lui che opera attraverso il ministero del prete che presiede visibilmente come Suo strumento. L’assemblea liturgica partecipa alla celebrazione in virtú del sacerdozio comune dei fedeli, e quest’ultimo, per esercitarsi nella Sinassi Eucaristica, ha bisogno del ministero del prete ordinato.»D’altronde, è la stessa Congregazione che ricorda come il Sacrificio Eucaristico sia l’elemento prevalente, ove è lo stesso Gesú Cristo ad essere il vero Prete: cioè il Sacrificato e il Sacrificatore per eccellenza. Ma quando si dice che questo è vero “quale che sia la posizione del celebrante”, ci si dimentica che il quesito posto alla Congregazione è scaturito proprio dalla posizione del celebrante versus populum, sottacendo cosí che è proprio questa posizione la causa delle incomprensioni, dei malintesi e delle deviazioni. E corre allora l’obbligo di ribadire che le parole, i gesti e le posture del rito tradizionale non sono degli elementi casuali o semplicemente dettati dagli “usi” o dalle “sensibilità”, bensí degli elementi che hanno dei validissimi e giustificatissimi motivi dottrinali ed edificatorii per i credenti, e per gli stessi preti. Il quesito e la risposta della Congregazione ce ne danno ampiamente atto. «È necessario distinguere la posizione fisica, particolarmente relativa alla comunicazione tra i diversi membri dell’assemblea, dall’orientamento spirituale e interiore di tutti. Sarebbe un grave errore supporre che l’azione sacrificale sia orientata principalmente alla comunità. Se il prete celebra versus populum, cosa legittima e spesso consigliata, il suo atteggiamento spirituale deve sempre essere rivolto versus Deum per Iesum Christum, in rappresentanza dell’intera Chiesa. È la stessa Chiesa, che assume la sua forma concreta nell’assemblea dei partecipanti, ad essere tutta volta versus Deum, cosa questa che costituisce il suo primario moto spirituale.»Tuttavia, il seguito della risposta della Congregazione pone degli altri problemi. È indubbio che l’orientamento spirituale e interiore del celebrante e dei fedeli, al pari di quello di tutta la Chiesa, debba essere volto versus Deum, e dovrebbe far riflettere parecchio il fatto che la Congregazione si veda costretta a ribadirlo dopo 30 anni di postconcilio e dopo 30 anni di conclamata “piú ampia comunicazione” e piú “profonda partecipazione”. Ma è altrettanto indubbio che si commette una grave leggerezza quando si afferma che, a tal fine, la posizione del celebrante sia influente. Si può avere tutta la buona volontà di questo mondo, si
possono fare tutti gli sforzi di questo mondo, ma quando il fedele è
costretto a guardare in faccia il celebrante, quando sente la sua voce
tonante, quando segue i suoi gesti tutti rivolti nella sua direzione, sfidiamo
chiunque, che non sia un santo, a dimostrare che non sia il celebrante
stesso al centro della celebrazione, piuttosto che la croce e l’altare.
E questo esser divenuto centro trasforma il celebrante nell’unico agente
attivo di tutta la celebrazione, con l’aggravante che il fedele finisce
col concedere eccessivo spazio all’idea che, in fondo, in tutta la S. Messa,
non v’è un gran che di misterioso: ogni cosa cade sotto i suoi sensi,
attrae la sua attenzione, lo distrae da ogni possibile concentrazione;
determinando uno stato d’animo e una disposizione di spirito nei quali
l’orientamento spirituale ed interiore divengono davvero una cosa del tutto
relativa e residua, ancorché possibile.
E per il celebrante la cosa è ancora piú grave che per
i fedeli, perché egli “deve” svolgere la funzione di strumento
di Cristo, “deve” assolvere al suo ufficio in perfetta aderenza
col canone della S. Messa e “deve” officiare con le stesse intenzioni
della Santa Chiesa.
«Comunque la si voglia giudicare, l’antica tradizione, anche se non fu unanime, prevedeva che il celebrante e la comunità in preghiera si volgessero versus orientem, punto da cui proviene la luce, che è il Cristo. Non sono rare le chiese antiche la cui costruzione è “orientata” in maniera tale che il prete e il popolo, nel corso della preghiera pubblica, si volgessero versus orientem.»Non possiamo fare a meno di far notare che, tra le altre cose, la Congregazione, mentre ricorda finalmente e giustamente che la tradizione della Chiesa ha sempre voluto il celebrante e i fedeli rivolti versus Deum, si sofferma poi ad avallare certe letture storico-liturgiche del tutto moderne e del tutto arbitrarie. Fin dai primi tempi i cristiani hanno sempre pregato rivolti versus Deum, perfino nelle loro case, e si sa benissimo, per chi voglia saperlo, che era in uso disegnare una croce sul muro interno volto ad Oriente di un qualunque locale di preghiera, foss’anche privato (esattamente come porre un Crocifisso sulla parete di casa). Non si può dire che “non sono rare le chiese antiche…”, perché è precisamente vero che “tutte le chiese antiche” erano orientate, tranne poche eccezioni, e che esse sono state costruite con l’abside ad Oriente fino a tempi relativamente recenti. Perché non ci si sofferma invece sul significato di una simile
pratica liturgica che, fondata peraltro sulle stesse parole del Signore,
è stata poi praticata scrupolosamente per circa quindici secoli?
È anche possibile che nel corso del tempo certe cose siano andate dimenticate, ma non per questo si è autorizzati a tacciare di pochezza ciò che i nostri padri hanno fedelmente seguito per diecine di secoli. La verità è che l’orientamento del corpo è figlio
diretto dell’orientamento dello spirito, ed ogni gesto, ogni postura, se
attentamente osservate, aiutano a disporsi correttamente sia dal punto
di vista esteriore sia dal punto di vista interiore.
Vi è infatti di piú. Fino a dopo il Concilio Vaticano II, per quasi duemila anni, prima della recita o del canto del Prefatio il sacerdote nell’esortare i fedeli dicendo: sursum corda, elevava le mani, assumendo una posizione corrispondente alle sue parole, come se il suo petto si alzasse a simboleggiare il volgersi del suo cuore a Dio. Súbito dopo la risposta dei fedeli (habemus ad Dominum), congiungeva le mani sul petto, chinava il capo e diceva: gratias agamus Domino Deo nostro, assumendo anche qui una posizione corrispondente alle parole con le quali esortava tutti a rendere grazie al nostro Dio. Nella nuova liturgia è sparito il gesto di sottomissione, il chinare del capo, che accompagnava le parole di rendimento di grazie: il sacerdote allarga semplicemente le mani. Perché? Non v’è dubbio che prima il sacerdote era indotto a disporsi
tutto intero in maniera da esprimere la sua sottomissione, proprio perché
implorare e ringraziare il Signore comporta il riconoscimento della nostra
piccolezza.
Un altro esempio: nel recitare il Sanctus, prima del secondo
versetto (Benedictus qui venit in nomine Domini), il sacerdote
si segnava: esattamente come avrebbe potuto fare se proprio in quel momento
stesse passando il Signore nel giorno delle Palme.
Ultimo esempio (ne potremmo fare a diecine). Quando il sacerdote congiungeva
le mani doveva tenere i pollici incrociati, con il destro sopra il sinistro,
a modo di croce. Oggi nessun celebrante lo fa piú.
ma a patto che si leghi a questi elementi e li tenga sempre presenti: è questo che si chiama propriamente adattamento nel tempo. Diversamente non si ha adattamento e cambiamento legittimo, ma solo irruzione dell’errore, sia esso dovuto a cattiva volontà o semplicemente alla dimenticanza di questi elementi. Per concludere ricordiamo che l’eccessiva fiducia nella cosiddetta comunicazione
è tutta figlia del nostro tempo.
Il tanto tristemente famoso cogito ergo sum, non è
un insegnamento di San Tommaso o degli Apostoli, ma il disgraziato parto
di un certo Cartesio che credeva di aver capito tutto dopo aver invertito
i veri valori di riferimento.
Giovanni Servodio
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