Un importante aspetto della Liturgia della Chiesa

L'orientamento dell'Altare
del celebrante e dei fedeli 
 

La Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti 
ribadisce che la Chiesa prega rivolta al Signore e non al popolo






Quando ebbe inizio il processo di revisione dell’antica liturgia della Chiesa Cattolica, ancor prima del Vaticano II, si volle a tutti i costi sostenere la bontà del concetto che la S. Messa fosse un rito celebrato “in comunione” dal sacerdote e dai fedeli. I concetti di “mensa” e di “convivio”, che si facevano indebitamente risalire all’antica “àgape” fraterna, si pretendeva fondassero la strana ed eterodossa opinione che il Santo Sacrificio della Messa non fosse altro che una manifestazione comunitaria dei fedeli, nel corso della quale si poteva anche parlare del rinnovamento del Sacrificio della Croce, ma a patto che fosse chiaro che erano i fedeli a farne “memoria”. È evidente che si trattava di una opinione tipicamente protestante, ma molti cattolici ritennero di poter superare l’ostacolo semplicemente riaffermando la loro fede nella Presenza Reale e nella riattualizzazione del Sacrificio di nostro Signore.
Ovviamente le cose si svolsero in maniera piú complessa di come possiamo ricordare in questa sede, ma non v’è dubbio che la scelta operata dopo il Concilio, con particolare riguardo all’abolizione della lingua liturgica e della posizione del celebrante versus Deum, confermarono che, pur restando fermo il dogma della Presenza Reale e della riattualizzazione del Sacrificio, questi stessi venivano posti in secondo piano rispetto alla supremazia che si intendeva dare all’idea di incontro conviviale dei fedeli.

Nel corso del Concilio e soprattutto dopo il Concilio, le proteste furono tante, come si sa e come ormai hanno finito con l’ammettere chiaramente tanti convinti modernisti, e furono vibrate e teologicamente fondate, soprattutto in vista delle conseguenze dottrinali che una tale scelta poteva comportare.

Di fatto, fedeli e sacerdoti, in questi ultimi 30 anni, hanno finito col convincersi che la S. Messa è “innanzi tutto” una questione di “popolo”: l’elemento primario della celebrazione eucaristica  è costituito dall’assemblea dei fedeli; e lí ove si sia ancora conservato il senso del mistero che si compie nel corso della S. Messa, questo viene considerato come un accessorio: vero, reale, da rispettare, da tenere sempre presente con la dovuta devozione e riverenza, ma un accessorio.
Per quanto possa apparire una forzatura, questa nostra considerazione è precisamente fondata, non tanto sulle dichiarazioni verbali e magari convinte di tanti fedeli e di tanti preti, quanto sulla pratica della frequentazione della S. Messa. 

Chiunque può facilmente constatare, per esempio, come non vi sia piú nessuno che si inginocchi, 
o faccia un minimo cenno di riverenza quando il celebrante, rivolto ai fedeli e mostrando loro l’Ostia consacrata, che è realmente il Corpo di nostro Signore, dice in volgare: 
Ecco l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo. 
I fedeli non mutano per niente il loro atteggiamento, la loro postura, la loro attenzione. In questo frangente, anzi, con la pratica della frequentazione eucaristica indiscriminata, la navata della chiesa (per non dire dello stesso presbiterio) è sovraccarica di gente che si muove piú o meno compostamente per andare a “prendere la comunione”, magari sulla mano. 
Il fatto che nostro Signore sia realmente presente in mezzo a noi in Corpo, Sangue, Anima e Divinità, che venga distribuito ai fedeli che lo assumono per la salvezza della propria anima, che si stia compiendo il piú grande dei misteri della religione cattolica: tutto questo tocca i fedeli e i preti presenti solo in minima parte.

Peraltro, la famosa acclamazione che la moderna liturgia mette in bocca ai fedeli dopo la formula della consacrazione: Annunciamo la tua morte, o Signore, proclamiamo la tua Resurrezione, nell’attesa della tua venuta
serve a tutto, tranne che a ricordare che in quei momenti 
il Signore è “già” tra loro, è “già” tangibilmente presente tra loro, 
lo si può vedere e gustare ed assumere lí e súbito, sia pure sotto la specie del Pane Eucaristico.
Non v’è alcun dubbio che in queste condizioni credere nella Presenza Reale è, tutt’al piú, una questione intellettuale, poiché dal punto di vista della “pratica” religiosa non v’è piú alcun concreto elemento che possa indurre i fedeli a sentire e a vivere questa verità di fede, piuttosto che a pensarla semplicemente.

Tutto questo per ricordare l’importanza dei gesti, delle parole e delle posture nel corso della celebrazione del rito della S. Messa. Non si è mai trattato di “usi” e “costumi”, né di “sensibilità”, né di “comunicazione”, si è semplicemente trattato di elementi atti a far vivere il credo cattolico, ai fedeli e al celebrante, nella maniera piú immediata, piú concreta, piú convinta e piú tangibile;  in una parola: nella maniera piú vera. 

Quando il sacerdote, secondo la liturgia tradizionale, volgeva le spalle ai fedeli presenti nella navata, non faceva niente altro che quello che tutti i fedeli facevano gli uni nei confronti degli altri: migliaia di fedeli che volgevano le spalle a migliaia di altri; e non ci sembra che la cosa possa essere minimamente presa in considerazione: poiché l’unico modo per ovviare a questo inconveniente sarebbe quello di celebrare la Santa Messa solo con una fila di fedeli posti in circolo intorno all’altare (e anche qui almeno la metà di loro vedrebbero solo il dorso del celebrante). Il che sarebbe semplicemente assurdo.
Si dice che seguendo l’antica posizione del celebrante verrebbe a mancare la “comunicazione” tra il celebrante stesso e i fedeli. Il che non solo è del tutto inesatto, poiché da sempre la liturgia della Chiesa ha previsto che nei momenti di “comunicazione” il celebrante si volgesse ai fedeli, ma è del tutto illogico e fuori luogo. 

La S. Messa non è composta essenzialmente e prevalentemente da momenti di “comunicazione” tra il celebrante e i fedeli, 
ma dalle preghiere rivolte a Dio. 
Se, con la nuova liturgia, si voleva ampliare o aumentare il numero dei momenti di “comunicazione”, 
pur volendo ammettere le nuove e spesso incoerenti giustificazioni, 
bastava farlo senza mutare per niente la prevalente posizione del celebrante che, insieme ai fedeli, si volgeva versus Deum.

Ed ecco che dopo 30 anni di novus ordo la Congregazione per il Culto Divino è costretta a ricordare che è tutta la Chiesa  ad essere «volta versus Deum, cosa questa che costituisce il suo primario moto spirituale» (si veda il testo del documento della Congregazione).

A leggere il documento, non si può fare a meno di notare che il quesito posto alla Congregazione è di per sé rivelatore del fatto che oggi sono rimasti in pochi i fedeli e i preti che sanno che cosa significhi volgersi versus Deum, ed essendo sorto in qualcuno un certo dubbio circa il significato della trentennale pratica del celebrante rivolto versus populum, ecco che chiede lumi per sapere se non vi sia la proibizione di rivolgersi a Dio.
Sul senso profondo di un quesito del genere si potrebbe scrivere un intero libro: non potendolo fare, in questa sede ci limiteremo agli aspetti piú importanti della risposta fornita dalla Congregazione.

«Innanzi tutto occorre ricordare che il termine expedit non costituisce una forma obbligatoria, ma un suggerimento, che riguarda sia la costruzione dell’altare a pariete seiunctum, sia la celebrazione versus populum. La clausola ubi possibile sit tiene conto di diversi elementi come, per esempio, la topografia del luogo, la disponibilità dello spazio, l’esistenza di un precedente altare di valore artistico, la sensibilità della comunità che partecipa alle celebrazioni nella chiesa in questione, ecc.»
Per prima cosa salta all’occhio come la Congregazione ricordi, in definitiva, che ognuno può fare come gli pare, poiché non v’è alcun obbligo nelle prescrizioni della Institutio Generalis: solo un suggerimento. Suggerimento che è legato, tra l’altro, alla sensibilità della comunità.

Fino a prova contraria, la S. Messa rimane ancora, anche per il clero modernista (almeno cosí si dice), la continuazione della tradizionale pratica rituale con la quale si rende a Dio il culto dovutoGli. Pratica rituale che, pur adattandosi inevitabilmente nel corso dei secoli, non può essere sostanzialmente che la medesima insegnata da Gesú Cristo agli Apostoli e da questi trasmessa ai loro successori. In tutto questo la “sensibilità della comunità” non ha alcun diritto attivo, semmai si dovrebbe affermare il contrario: che il culto reso a Dio, secondo gli insegnamenti di nostro Signore e la tradizione degli Apostoli, con i gesti, le parole, le posture, le preghiere, gli inni e i cantici, costituiscono un insieme che serve “anche a modellare” la “sensibilità della comunità” in senso cristiano ed ortodosso.

Non è il fedele che fa la liturgia, ma è la liturgia che si offre al fedele come esempio, insegnamento ed edificazione. Nessuno ha mai sostenuto che il fedele pregando con la sua sensibilità fondasse il credo, bensí che il credo e la preghiera fossero in perfetto unisono, cosí che il credo fosse evidente e manifesto nella preghiera del fedele.
Nostro Signore non raccomandò agli Apostoli di pregare a seconda della loro sensibilità (e ci sarebbe tanto da dire circa l’abisso che separa la sensibilità degli Apostoli e dei primi cristiani dalla sensibilità comune dell’uomo del nostro tempo), ma disse loro: Pregate cosí: Pater noster…

 
«Si ricorda che la posizione versus populum sembra la piú conveniente nella misura in cui rende piú facile la comunicazione (cfr. l’editoriale di Notitiae n° 29 (1993), pp. 245-249), ma questo non esclude l’altra possibilità.»
Qui si dice “sembra”, ed è certo curioso e oltremodo interessante che non si dica “è”.
E per di piú essa “sembra piú conveniente nella misura in cui rende piú facile la comunicazione.” 
Cosí che la “piú facile comunicazione” dovrebbe essere l’unico elemento giustificativo, e tutte le argomentazioni inventate in questi trent’anni dovrebbero decadere.
Sarà cosí, da oggi in poi?

Ma, ciò nonostante, l’equivoco rimane. Quale comunicazione? 
Nella S. Messa la comunicazione principale legata alla natura stessa del rito è quella che si instaura tra la Chiesa militante, i fedeli vivi, la Chiesa purgante, i fedeli morti, la Chiesa trionfante, i Santi, e i cori angelici, tutti insieme mossi dall’unico atteggiamento accettabile e gradito a Dio: renderGli grazie sempre e dovunque e cantare senza fine l’inno della Sua gloria.
È questo che si recita o si canta nel prefazio, anche secondo la liturgia moderna. Non v’è traccia nella millenaria tradizione della Chiesa di una presunta comunicazione tra il celebrante e i fedeli, cosí importante, cosí urgente, cosí indispensabile da suggerire la convenienza che il celebrante offici addirittura l’intera S. Messa rivolto versus populum

Che avranno mai da comunicarsi i fedeli e il celebrante nel corso della S. Messa?
Se si legge il testo dell’ordo missae, anche quello moderno, si trova prevalentemente una serie di preghiere rivolte a Dio, che il celebrante recita per suo conto e per conto dei fedeli: non v’è alcuna comunicazione che il celebrante deve fare ai fedeli, né i fedeli al celebrante. 
Perché allora questa scusante per giustificare una presunta “convenienza” della posizione del celebrante versus populum?

Ormai si usa dire che, in ogni caso, questa stessa posizione, 
rendendo piú immediatamente percettibili i gesti e le parole del celebrante, 
costituisca di per sé una piú ampia “comunicazione” da cui deriverebbe una maggiore comprensione dei fedeli 
e, quindi, una loro maggiore “partecipazione”.

Ora, a parte il fatto che si continua ad alimentare lo strumentale equivoco che per quasi duemila anni nelle SS. Messe celebrate secondo il rito tradizionale i fedeli non abbiamo mai capito appieno di che cosa si trattasse: cosa questa che è sicuramente offensiva nei confronti dei nostri padri, ma piú ancora è blasfema nei confronti di nostro Signore, degli Apostoli e di tutti i Santi che cosí hanno celebrato in ogni parte del mondo; c’è da chiedersi che cosa ci sia da capire nella celebrazione S. Messa.
Se la S. Messa è, per definizione, la celebrazione dei santi misteri, pur con la piú profonda delle comprensioni razionali umane circa questo o quell’aspetto esteriore del rito, l’essenziale, il mistero, rimarrà sempre tale, e come tale incompreso perché incomprensibile.
Tranne che non si voglia sostenere che, ai giorni nostri, l’accresciuta “sensibilità” dei fedeli, la loro supposta ampliata capacità di comprensione, il loro poter osservare nei particolari i gesti del celebrante, abbiano finito col condurre questi stessi fedeli alla comprensione dei sacri misteri. 
Se cosí fosse, non vi sarebbero piú misteri da celebrare, ed ogni fedele sarebbe Messa a sé stesso. 
È quello che, in altre parole, sostengono i miscredenti, gli eretici e i senza Dio, e siamo certi che la Congregazione per il Culto Divino non può nemmeno lontanamente essere sfiorata da una infinitesima parte di un sospetto del genere. Ed allora?

Vi è un altro punto di vista dal quale si può considerare questa conclamata “comunicazione”.
Dal punto di vista del fedele che assiste alla S. Messa è possibile che si determinino considerazioni del genere che segue. 

Seguendo appieno i gesti del celebrante e ascoltando le parole che egli pronuncia ad alta voce, il fedele può ritenere di comprendere meglio come si svolge il rito della S. Messa e può ritenere di sentirsi piú vicino al celebrante che invoca Iddio anche a suo nome. Al momento della consacrazione può pensare di comprendere meglio l’accadimento di duemila anni fa, e se è fermamente e pienamente convinto del dogma della transustanziazione può pensare di cogliere meglio che sta per determinarsi la Presenza Reale del Signore sotto le specie eucaristiche. 
Ma perché avvenga tutto questo è necessario che il fedele si disponga a seguire la S. Messa innanzi tutto con le orecchie e con gli occhi, per poi elaborare con la ragione ciò che ha veduto e ciò che ha udito.
Ora, ancorché, in linea teorica, questo possa accettarsi come possibile, è anche necessario che si dia per scontato che “ogni” fedele abbia una fede certa e solidamente fondata, che su questa fede poggi inequivocabilmente la sua razionalità, che la sua capacità raziocinante  sia il piú possibile ampia e articolata e strettamente connessa con la sua percezione interiore, tanto da conciliare gesti e parole “esteriori” con tutto quello che di inesprimibile e di appena intuibile esse suggeriscono.

È questa la vera condizione dell’uomo moderno e del fedele dei nostri giorni?
Lasciamo la risposta all’onestà intellettuale di chi ci legge.

Ma anche a voler concedere, senza ammetterlo, che le cose stiano cosí, è evidente che si è giunti ad un capovolgimento dell’intima realtà della religione.
Qual’è il primo comandamento? 
Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente (Mt, 22, 37).
Certo, sappiamo bene che molti “esegeti” moderni non riusciranno mai ad accettare il ragionamento che stiamo per proporre, ma è necessario dire subito che la dottrina millenaria della Chiesa non può dipendere dalle velleità intellettuali di un pugno di uomini inorgoglitisi in questi ultimi cento anni a causa del diffondersi dell’illuminismo e dell’ateismo.

Per quanto ci riguarda, quando ascoltiamo la lettura del Vangelo, la Chiesa ci propone a credere che quanto abbiamo udito è Parola di Dio, e non ci viene proposta alcuna riserva o alcuna speciale raccomandazione circa il significato razionale di quanto abbiamo ascoltato. 
Ora, se il Vangelo è Parola di Dio, come lo è, non v’è dubbio che tale Parola è pregna di tutti i significati apparenti e non, di tutti i sensi percettibili ed anche impercettibili, di tutte le implicazioni immediate e mediate, e questo non solo in relazione a ciò che è detto, ma anche in relazione a come è detto. Diversamente non sarebbe Parola di Dio. E questo fattore è vero per noi esattamente come era vero per coloro stessi che hanno compilato il testo evangelico, tanto piú che tale compilazione è stata realizzata su ispirazione dello Spirito Santo.
Il testo che abbiamo citato ha una sua precisa e voluta formulazione, tale da insegnare che il vero fedele deve amare Iddio “prima di tutto” con tutto il suo cuore, “secondo poi” con tutta la sua anima, e “quindi” con tutta la sua mente, e questo lo si dice presentando questi tre elementi secondo un andamento discendente che va dal piú interiore al piú esteriore, definendo una scala gerarchica ove in cima sta il cuore e in basso la mente.
Con tutto il suo cuore significa che il fedele deve amare Iddio “a priori”, a prescindere da ogni comprensione umana e da ogni ragionamento, a prescindere dai sensi, a prescindere financo dal suo io, poiché qui il cuore dell’uomo è con tutta evidenza il ricettacolo della scintilla divina. Con tutto il suo cuore, significa allora con tutto il suo essere, cioè con tutta la sua essenza primaria: che è quell’immagine e somiglianza di Dio che nessuna comprensione, nessuna capacità raziocinante, nessuna attenzione umana, nessuna “comunicazione” potranno mai neanche suggerire.
Con tutta la sua anima significa che il fedele deve amare Iddio con tutta la potenza del suo essere, che è quell’elemento che fa di un uomo ciò che esso è; e anche qui deve amarLo “a priori”, senza che sia ancora in giuoco la sua comprensione umana e razionale.
Con tutta la sua mente è l’unico richiamo che si riconduca alla capacità raziocinante del fedele, la quale agisce all’unisono con i suoi sensi. Ma questo richiamo non è il primo, bensí il terzo, venendo a significare chiaramente che l’amore di Dio nutrito a partire dalle orecchie, dagli occhi e dal ragionamento, legato quindi alla supposta “comunicazione”, è l’ultimo dei richiami contenuti nell’insegnamento del Signore Gesú.

Ora, se la liturgia della S. Messa è il rendimento di grazie a Dio e l’inno di lode alla Sua gloria, essa dovrà permettere in primo luogo l’esercizio dell’amore del cuore del fedele, cosí che ogni elemento che lo distragga da questa compunzione del cuore debba essere scartato. Essa deve anche permettere l’esercizio dell’amore dell’anima del fedele, cosí che, anche qui, non sono in causa né i sensi né la ragione; semmai si potrebbe parlare delle sensazioni dell’uomo, che attengono alla sfera psichica piuttosto che a quella fisica e sensoriale. 

È solo in ultima istanza che entrano in giuoco i sensi e la ragione.

Ora, indubbiamente, percepire attraverso il sensibile e la ragione è tipico dell’uomo, quindi si potrebbe affermare che, dal suo punto di vista, quelli che sembrerebbero essere giustamente i fattori ultimi, per lui divengono necessariamente i primi. Questo è verissimo, ma solo nei termini in cui siano presi in considerazione dall’uomo stesso per quello che realmente sono: dei punti di appoggio atti a permettergli di sollevarsi “su” di loro per volgersi in alto, a Dio.
Se tutto il creato narra la gloria di Dio, se ogni elemento sensibile è simbolo della onnipotenza e della magnificenza di Dio, il loro valore è mediato e relativo, guai a scambiarlo per qualcosa con valore primario, si scadrebbe subito nell’idolatria, scambiando, anche inavvertitamente, il simbolo col simboleggiato.
La Chiesa ha sempre insegnato che è la fede a dare fondamento alla ragione, poiché la ragione senza la fede è quantomeno fuorviante.

In questa ottica, allorché nella S. Messa si vuol dare prevalenza ai fattori sensibili e razionali, si verificano due gravi inconvenienti.
Il primo, di immediata comprensione, è costituito dalla “distrazione”: con i sensi tesi alla percezione e con la ragione tesa all’elaborazione, la compunsione del cuore e la sensazione del mistero vengono ad occupare un posto di gran lunga secondario, cosí che ogni S. Messa diviene un fattore eminentemente razionale e soggiacente alla mera comprensione umana.
Il secondo, poco piú complesso, è costituito dal determinarsi di una tendenza che induce il fedele a voler misurare anche la S. Messa con i parametri della sua umanità e della sua razionalità (quello che la Congregazione chiama “sensibilità della comunità”), che lo porta inevitabilmente a pretendere una S. Messa a misura della sua piccolezza umana, o a misura dei limiti umani della comunità. 
Da qui al convincimento che dovrebbero esserci diverse SS. Messe per diverse comunità, fino al paradosso inevitabile di diverse SS. Messe per diversi fedeli, il passo è breve e del tutto inavvertito.
In ultima analisi, il risultato è un cambiamento della S. Messa col conseguente cambiamento della dottrina: per il fedele, la scomparsa della religione cattolica.

C’è da chiedersi che cosa abbia finito col significare di diverso l’applicazione tutta moderna della famosa “inculturazione della fede”, l’uso indiscriminato della lingua volgare, la disastrosa moltiplicazione dei vari “modi per celebrare la S. Messa”, l’assurda sollecitazione che il sacerdote infarcisca l’ordo missae con continue esposizioni personali, a seconda della “sensibilità della comunità” del momento.

«Tuttavia, quale che sia la posizione del celebrante, è chiaro che il Sacrificio Eucaristico è offerto a Dio Uno e Trino, e che il prete principale, Sovrano ed Eterno, è Gesú Cristo. È Lui che opera attraverso il ministero del prete che presiede visibilmente come Suo strumento. L’assemblea liturgica partecipa alla celebrazione in virtú del sacerdozio comune dei fedeli, e quest’ultimo, per esercitarsi nella Sinassi Eucaristica, ha bisogno del ministero del prete ordinato.»
D’altronde, è la stessa Congregazione che ricorda come il Sacrificio Eucaristico sia l’elemento prevalente, ove è lo stesso Gesú Cristo ad essere il vero Prete: cioè il Sacrificato e il Sacrificatore per eccellenza.
Ma quando si dice che questo è vero “quale che sia la posizione del celebrante”, ci si dimentica che il quesito posto alla Congregazione è scaturito proprio dalla posizione del celebrante versus populum, sottacendo cosí che è proprio questa posizione la causa delle incomprensioni, dei malintesi e delle deviazioni. 
E corre allora l’obbligo di ribadire che le parole, i gesti e le posture del rito tradizionale non sono degli elementi casuali o semplicemente dettati dagli “usi” o dalle “sensibilità”, bensí degli elementi che hanno dei validissimi e giustificatissimi motivi dottrinali ed edificatorii per i credenti, e per gli stessi preti.
Il quesito e la risposta della Congregazione ce ne danno ampiamente atto.
 
«È necessario distinguere la posizione fisica, particolarmente relativa alla comunicazione tra i diversi membri dell’assemblea, dall’orientamento spirituale e interiore di tutti. Sarebbe un grave errore supporre che l’azione sacrificale sia orientata principalmente alla comunità. Se il prete celebra versus populum, cosa legittima e spesso consigliata, il suo atteggiamento spirituale deve sempre essere rivolto versus Deum per Iesum Christum, in rappresentanza dell’intera Chiesa. È la stessa Chiesa, che assume la sua forma concreta nell’assemblea dei partecipanti, ad essere tutta volta versus Deum, cosa questa che costituisce il suo primario moto spirituale.»
Tuttavia, il seguito della risposta della Congregazione pone degli altri problemi.
È indubbio che l’orientamento spirituale e interiore del celebrante e dei fedeli, al pari di quello di tutta la Chiesa, debba essere volto versus Deum, e dovrebbe far riflettere parecchio il fatto che la Congregazione si veda costretta a ribadirlo dopo 30 anni di postconcilio e dopo 30 anni di conclamata “piú ampia comunicazione” e piú “profonda partecipazione”. Ma è altrettanto indubbio che si commette una grave leggerezza quando si afferma che, a tal fine, la posizione del celebrante sia influente.

Si può avere tutta la buona volontà di questo mondo, si possono fare tutti gli sforzi di questo mondo, ma quando il fedele è costretto a guardare in faccia il celebrante, quando sente la sua voce tonante, quando segue i suoi gesti tutti rivolti nella sua direzione, sfidiamo chiunque, che non sia un santo, a dimostrare che non sia il celebrante stesso al centro della celebrazione, piuttosto che la croce e l’altare. E questo esser divenuto centro trasforma il celebrante nell’unico agente attivo di tutta la celebrazione, con l’aggravante che il fedele finisce col concedere eccessivo spazio all’idea che, in fondo, in tutta la S. Messa, non v’è un gran che di misterioso: ogni cosa cade sotto i suoi sensi, attrae la sua attenzione, lo distrae da ogni possibile concentrazione; determinando uno stato d’animo e una disposizione di spirito nei quali l’orientamento spirituale ed interiore divengono davvero una cosa del tutto relativa e residua, ancorché possibile.
Per quanto riguarda il celebrante, poi, non v’è alcun dubbio che subisca una prepotente stimolazione a confrontarsi con gli astanti. Egli si trova al cospetto di una vasta platea multiforme e variegata, composta peraltro anche da persone, in carne ed ossa, di cui conosce aspettative e disposizioni mentali. E tutta questa platea egli la osserva senza neanche il conforto di potersi rivolgere alla sola croce, che nella migliore delle ipotesi gli sta di fianco; e da questa platea spesso fluttuante, e colorita, e bisbigliante egli non può impedire di rimanere condizionato, nei suoi gesti, nel tono della sua voce, perfino nelle espressioni del suo viso.
È quasi inevitabile che egli inavvertitamente tenda a recitare in favore del suo pubblico, non tanto per compiacerlo, come tante volte purtroppo accade, ma anche solo per non dispiacerlo: mandando cosí in soffitta ogni sforzo possibile in vista del suo “orientamento” versus Deum.

E per il celebrante la cosa è ancora piú grave che per i fedeli, perché egli “deve” svolgere la funzione di strumento di Cristo, “deve” assolvere al suo ufficio in perfetta aderenza col canone della S. Messa e “deve” officiare con le stesse intenzioni della Santa Chiesa. 
Si può affermare, in tutta coscienza, che la posizione versus populum gli sia d’aiuto in questo senso? 
Non ci risulta, e vorremmo sbagliarci, che nei nuovi seminarii si seguano degli appositi corsi di estraneazione dall’influenza della folla, anzi ci risulta che vada molto di moda la psicologia del profondo, la stessa che studiano alacremente i capi popolo, gli imbonitori e i persuasori occulti, comunque li si voglia chiamare.
Dobbiamo confessare che non riusciamo a cogliere alcun nesso serio tra tutto questo e il doveroso orientamento spirituale e interiore di cui parla giustamente la Congregazione.
 

«Comunque la si voglia giudicare, l’antica tradizione, anche se non fu unanime, prevedeva che il celebrante e la comunità in preghiera si volgessero versus orientem, punto da cui proviene la luce, che è il Cristo. Non sono rare le chiese antiche la cui costruzione è “orientata” in maniera tale che il prete e il popolo, nel corso della preghiera pubblica, si volgessero versus orientem.»
Non possiamo fare a meno di far notare che, tra le altre cose, la Congregazione, mentre ricorda finalmente e giustamente che la tradizione della Chiesa ha sempre voluto il celebrante e i fedeli rivolti versus Deum, si sofferma poi ad avallare certe letture storico-liturgiche del tutto moderne e del tutto arbitrarie. Fin dai primi tempi i cristiani hanno sempre pregato rivolti versus Deum, perfino nelle loro case, e si sa benissimo, per chi voglia saperlo, che era in uso disegnare una croce sul muro interno volto ad Oriente di un qualunque locale di preghiera, foss’anche privato (esattamente come porre un Crocifisso sulla parete di casa). 
Non si può dire che “non sono rare le chiese antiche…”, perché è precisamente vero che “tutte le chiese antiche” erano orientate, tranne poche eccezioni, e che esse sono state costruite con l’abside ad Oriente fino a tempi relativamente recenti.

Perché non ci si sofferma invece sul significato di una simile pratica liturgica che, fondata peraltro sulle stesse parole del Signore, è stata poi praticata scrupolosamente per circa quindici secoli?
Se non si vuole sostenere, come fa la saccenteria di tanti supposti ricercatori ed esegeti moderni, che si trattò di una pratica al limite della superstizione, è inevitabile concludere che essa dovesse avere una sua intrinseca e legittima ed edificante giustificazione. Qual’è questa giustificazione?

È anche possibile che nel corso del tempo certe cose siano andate dimenticate, ma non per questo si è autorizzati a tacciare di pochezza ciò che i nostri padri hanno fedelmente seguito per diecine di secoli.

La verità è che l’orientamento del corpo è figlio diretto dell’orientamento dello spirito, ed ogni gesto, ogni postura, se attentamente osservate, aiutano a disporsi correttamente sia dal punto di vista esteriore sia dal punto di vista interiore.
A tanti sapienti di psicologia possiamo ricordare che la sollecitazione di una data attitudine fisica induce, per similitudine, a disporsi secondo una attitudine psichica corrispondente, mentre inversamente ogni attitudine psichica tende a sollecitare una corrispondente attitudine fisica: che oggi si usa chiamare somatizzazione.

Ma, gli approcci psicologici, ancorché azzeccati, non possono certo spiegare alcunché, se non nell’ordine di certi effetti sensibili e senza la minima comprensione delle cause vere di tali effetti. 
Vi è infatti di piú.

Fino a dopo il Concilio Vaticano II, per quasi duemila anni, prima della recita o del canto del Prefatio  il sacerdote nell’esortare i fedeli dicendo: sursum corda, elevava le mani, assumendo una posizione corrispondente alle sue parole, come se il suo petto si alzasse a simboleggiare il volgersi del suo cuore a Dio. Súbito dopo la risposta dei fedeli (habemus ad Dominum), congiungeva le mani sul petto, chinava il capo e diceva: gratias agamus Domino Deo nostro, assumendo anche qui una posizione corrispondente alle parole con le quali esortava tutti a rendere grazie al nostro Dio.

Nella nuova liturgia è sparito il gesto di sottomissione, il chinare del capo, che accompagnava le parole di rendimento di grazie: il sacerdote allarga semplicemente le mani. Perché?

Non v’è dubbio che prima il sacerdote era indotto a disporsi tutto intero in maniera da esprimere la sua sottomissione, proprio perché implorare e ringraziare il Signore comporta il riconoscimento della nostra piccolezza. 
Oggi il celebrante non china piú il capo nel ringraziare il Signore, dando per scontato che egli semplicemente “senta” quella deferenza che una volta esprimeva con la mente, con le parole e col corpo. 
È proprio cosí? 
Oppure non c’è da ritenere che venendo a mancare il gesto del corpo è già andata perduta anche la sollecitazione all’attitudine mentale e interiore?

Un altro esempio: nel recitare il Sanctus, prima del secondo versetto (Benedictus qui venit in nomine Domini), il sacerdote si segnava: esattamente come avrebbe potuto fare se proprio in quel momento stesse passando il Signore nel giorno delle Palme. 
Oggi non se ne parla neanche: il celebrante recita solo una preghiera, che sia questa o quella non cambia nulla nella sua attitudine. 
È davvero credibile che tutti i celebranti moderni in quel momento, col venir meno del gesto, non abbiano perduto di vista il fatto che il Cristo stesso stia per accostarsi al momento del suo Sacrificio supremo, oggi come allora?

Ultimo esempio (ne potremmo fare a diecine). Quando il sacerdote congiungeva le mani doveva tenere i pollici incrociati, con il destro sopra il sinistro, a modo di croce. Oggi nessun celebrante lo fa piú.
Eccesso di prescrizioni, si dice, e la stessa Congregazione raccomanda per ultimo di non “assolutizzare” certi elementi.
Ma qui c’è poco da assolutizzare: le palme delle mani congiunte sono il segno tangibile dell’unità di mente, corpo e anima che caratterizza l’attitudine del celebrante e dello stesso fedele, mentre i sovrastanti pollici incrociati a modo di croce sono il segno che questa unità sottostà alla potestà della Croce, vive sotto il segno della Croce; segno della Croce che vede il pollice destro sovrastare il sinistro perché la destra è la mano benedicente e la sinistra è la mano maledicente, perché la destra è il lato degli eletti e la sinistra è il lato dei dannati, perché la destra è la collocazione del Cristo trionfante che sovrasta e domina ogni cosa e ogni essere.
Perfino quando il celebrante o il fedele dimenticassero o sconoscessero i significati di questi gesti, essi rimarrebbero validi di per sé e, quindi, insopprimibili elementi del rito. 
È da qui che derivava l’obbligo di seguire fedelmente il rituale prescritto, come per esempio l’obbligo di seguire il testo della S. Messa sul Messale, anche quando il celebrante lo conoscesse a memoria, perché né un gesto, né una parola fossero diversi da quelli prescritti e ripetuti per secoli e secoli. Altro che rubricalismo!

Ogni altra considerazione è possibile, 
ma a patto che si leghi a questi elementi e li tenga sempre presenti: è questo che si chiama propriamente adattamento nel tempo. 
Diversamente non si ha adattamento e cambiamento legittimo, 
ma solo irruzione dell’errore, sia esso dovuto a cattiva volontà o semplicemente alla dimenticanza di questi elementi.

Per concludere ricordiamo che l’eccessiva fiducia nella cosiddetta comunicazione è tutta figlia del nostro tempo. 
Chi ha o ha avuto dei figli sa benissimo che, per educarli, non basta fare loro dei bei discorsi, che molto spesso finiscono anche con l’annoiare ed entrare da un orecchio per uscire subito dall’altro. 
La Santa Madre Chiesa, al pari di una semplice madre di famiglia, non si è mai illusa di “istruire” i proprii figli con la comunicazione: anzi, per molti secoli è sempre stata molto parca di parole. Come un amoroso ed attento genitore ha sempre curato i gesti, l’attitudine, l’esempio e, quando necessario, ha prudentemente e sapientemente usato il silenzio, la reprimenda, il castigo.

Il tanto tristemente famoso cogito ergo sum, non è un insegnamento di San Tommaso o degli Apostoli, ma il disgraziato parto di un certo Cartesio che credeva di aver capito tutto dopo aver invertito i veri valori di riferimento. 
I nostri padri, che secondo molti modernisti erano dei poveri disgraziati dal punto di vista intellettuale, ricordavano invece che se prima non fossimo uomini (a immagine e somiglianza di Dio) non potremmo neanche pensare, né inventarci neppure gli errori e le eresie.

Giovanni Servodio


(12/2000)



 

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