Vaticano II, un dibattito tra Romano Amerio, Mons. Gherardini e Mons. Pozzo

Commento del quindicinale DICI (n° 220 del 7 agosto 2010)
della Fraternità San Pio X
sulla conferenza di Mons. Pozzo del 2 luglio 2010





Il 2 luglio, Mons. Pozzo, Segretario della Pontificia Commissione Ecclesia Dei ha tenuto una conferenza presso il seminario della Fraternità San Pietro a Wigratzbad, dal titolo «Aspetti dell’ecclesiologia cattolica nella recezione del Concilio Vaticano II». Egli ha affermato che
«se il Santo Padre parla di due interpretazioni o chiavi di lettura divergenti, una della discontinuità o rottura con la Tradizione cattolica, e una del rinnovamento nella continuità (nel discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005, ndr.), ciò significa che la questione cruciale o il punto veramente determinante all’origine del travaglio, del disorientamento e della confusione che hanno caratterizzato e ancora caratterizzano in parte i nostri tempi non è il Concilio Vaticano II come tale, non è l’insegnamento oggettivo contenuto nei suoi Documenti, ma è l’interpretazione di tale insegnamento. (sottolineato nel testo, come tutti i passi in neretto che seguono, ndr).

L’analisi di Mons. Pozzo sull’influenza del para-concilio.

Mons. Pozzo intende provare che, su due punti controversi (uno: l’unità e l’unicità della Chiesa cattolica, con la questione del subsistit in di Lumen Gentium 8; due: i rapporti della Chiesa cattolica con le altre religioni, col dialogo ecumenico e interreligioso), «l’autentico annuncio della Chiesa in relazione alla sua pretesa di assolutezza non è sostanzialmente cambiato dopo l’insegnamento del Vaticano II».

Allora, ci si deve chiedere perché dei documenti conciliari così chiaramente conformi alla Tradizione, secondo Mons. Pozzo, abbiano dato luogo ad una interpretazione talmente contraria.
Il prelato romano si pone l’interrogativo e risponde:
«Che cosa sta all’origine dell’interpretazione della discontinuità o della rottura con la Tradizione? Sta ciò che possiamo chiamare l’ideologia conciliare, o più esattamente para-conciliare, che si è impadronita del Concilio fin dal principio, sovrapponendosi a esso. Con questa espressione, non si intende qualcosa che riguarda i testi del Concilio, né tanto meno l’intenzione dei soggetti, ma il quadro di interpretazione globale in cui il Concilio fu collocato e che agì come una specie di condizionamento interiore nella lettura successiva dei fatti e dei documenti. Il Concilio non è affatto l’ideologia paraconciliare, ma nella storia della vicenda ecclesiale e dei mezzi di comunicazione di massa ha operato in larga parte la mistificazione del Concilio, cioè appunto l’ideologia paraconciliare. Perché tutte le conseguenze dell’ideologia paraconciliare venissero manifestate come evento storico, si dovette verificare la rivoluzione del ’68, che assume come principio la rottura con il passato e il mutamento radicale della storia. Nell’ideologia paraconciliare il ’68 significa una nuova figura di Chiesa in rottura con il passato».

E Mons. Pozzo conclude che bisogna utilizzare «l’ermeneutica della riforma nella continuità», preconizzata da Benedetto XVI per «affrontare i punti controversi, liberando, per così dire, il Concilio dal para-concilio che si è mescolato ad esso, e conservando il principio dell’integrità della dottrina cattolica e della piena fedeltà al deposito della fede trasmesso dalla Tradizione e interpretato dal Magistero della Chiesa».

Al termine di questa esposizione, resta un interrogativo: il para-concilio denunciato dal Segretario della Commissione Ecclesia Dei, si identifica col post-concilio?
Si sarebbe tentati di rispondere affermativamente, se si considera che questo para-concilio si sarebbe sforzato di far coincidere dei documenti redatti tra il 1962 e il 1965 con lo spirito della rivoluzione del maggio ’68.
Ma è anche detto che «l’ideologia conciliare, o più esattamente para-conciliare, […] si è impadronita del Concilio fin dal principio, sovrapponendosi a esso».
Questa sovrapposizione «fin dal principio» non ha avuto alcuna influenza sulla redazione dei testi conciliari?
Mons. Pozzo ritiene che l’ideologia para-conciliare non abbia intaccato i testi del Concilio, né l’intenzione degli autori, ma ha fornito solo «il quadro di interpretazione globale in cui il Concilio fu collocato e che agì come una specie di condizionamento interiore nella lettura successiva dei fatti e dei documenti».
L’ideologia para-conciliare sarebbe dunque un quadro esterno condizionante dall’interno la lettura dei documenti! Appare più semplice considerare un’influenza estranea alla Tradizione che interviene direttamente sulla loro redazione.

La testimonianza di Mons. Lefebvre



È quello che dichiarava schiettamente Mons. Lefebvre in Lo hanno detronizzato: «È certo che con i 250 Padri conciliari del Coetus (Coetus Internationalis Patrum, gruppo di vescovi conservatori fondato da Mons. Lefebvre, Mons. Carli e Mons. Proença-Sigaud, ndr) abbiamo provato con tutti i mezzi a nostra disposizione ad impedire che gli errori liberali si esprimessero nei testi del Concilio; cosa che ha permesso, quantomeno, di limitare i guasti, cambiare  tali affermazioni inesatte o tendenziose, aggiungere tal’altre frasi per rettificare una proposizione tendenziosa, una espressione ambigua.
«Ma, devo confessare che non siamo riusciti a purificare il Concilio dallo spirito liberale e modernista che impregnava la maggior parte degli schemi. I redattori, in effetti, erano proprio degli esperti e i Padri erano contaminati da questo spirito. Ora, che volete, quando un documento, nel suo insieme complessivo, è redatto con uno spirito falso, è praticamente impossibile purgarlo da tale spirito; bisognerebbe ricomporlo interamente per ridargli uno spirito cattolico.
«Con i modi che abbiamo presentato, tutto quello che abbiamo potuto fare è aggiungere degli incisi negli schemi, e questo si vede molto bene: basta confrontare il primo schema sulla libertà religiosa con il quinto che fu redatto – poiché questo documento fu rigettato cinque volte e ritornò cinque volte sul tappeto – per accorgersi che si è riusciti quanto meno ad attenuare il soggettivismo che infettava le prime redazioni. Lo stesso dicasi per Gaudium et spes, si vedono molto bene i paragrafi che sono stati aggiunti su nostra richiesta, e che sono, direi, come delle pezze apposte su un vecchio abito: non si legano insieme; non v’è più la logica della redazione originaria; le aggiunte fatte per attenuare o controbilanciare le affermazioni liberali sono là come dei corpi estranei. (…)
«Ma la cosa seccante è che anche i liberali praticavano lo stesso sistema con i testi degli schemi: l’affermazione di un errore o di un’ambiguità o di un orientamento pericoloso e poi, immediatamente dopo o prima, un’affermazione in senso contrario, destinato a rassicurare i Padri conciliari conservatori.» (Il l’ont découronné, Clovis, pp. 193-194, [Lo hanno detronizzato, Ed. Amicizia Cristiana, Chieti, 2009 – per avere il libro).


Romano Amerio e il suo discepolo Enrico Maria Radaelli denunciano «un abissale rottura della continuità».



Un’eco della testimonianza di Mons. Lefebvre la si può trovare nell’ultimo volume delle opere complete di Romano Amerio, Zibaldone, edito dalla Lindau, Torino. Il titolo, che riprende quello di un’opera del poeta Giacomo Leopardi, significa raccolta composta senza un ordine preciso di: « brevi pensieri, aforismi, racconti, citazioni di classici, dialoghi morali, commenti a fatti quotidiani» come ha scritto, il 12 luglio, il vaticanista Sandro Magister sul suo sito chiesa.espresso.repubblica.it.



Magister presenta così l’opera di Amerio:
« Da questa sua analisi fortemente critica, che egli applicava anche al Concilio Vaticano II, Amerio ricavava quello che Enrico Maria Radaelli, suo fedele discepolo e curatore della pubblicazione delle opere del maestro, chiama il “gran dilemma giacente al fondo della cristianità d’oggi”». Questo dilemma consiste nel sapere se tra il magistero della Chiesa, anteriore al Vaticano II e quello di dopo il concilio vi sia continuità o rottura.
«Proprio questa, infatti, a giudizio di Amerio e Radaelli, è la causa della crisi della Chiesa conciliare e postconciliare, una crisi che l’ha portata vicinissima alla sua “impossibile ma anche quasi avvenuta” perdizione: l’aver voluto rinunciare a un magistero imperativo, a definizioni dogmatiche “inequivoche nel linguaggio, certe nel contenuto, obbliganti nella forma”, come ci si aspetta siano almeno gli insegnamenti di un Concilio».
«La conseguenza, secondo Amerio e Radaelli, è che il Concilio Vaticano II è pieno di asserzioni vaghe, equivoche, interpretabili in modi difformi, alcune delle quali, anzi, in sicuro contrasto col precedente magistero della Chiesa. (la sottolineatura è nostra). E questo ambiguo linguaggio pastorale avrebbe aperto la strada a una Chiesa oggi “percorsa da mille dottrine e centomila nefandi costumi”. Anche nell’arte, nella musica, nella liturgia.
«Che fare per porre rimedio a questo dissesto? La proposta che fa Radaelli va oltre quella fatta di recente – a partire da giudizi critici altrettanto duri – da un altro stimato cultore della tradizione cattolica, il teologo tomista Brunero Gherardini, 85 anni, canonico della basilica di San Pietro, professore emerito della Pontificia Università Lateranense e direttore della rivista “Divinitas”.



«Monsignor Gherardini ha avanzato la sua proposta in un libro uscito a Roma lo scorso anno dal titolo: “Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare”. Il libro si conclude con una “Supplica al Santo Padre”. Al quale viene chiesto di sottoporre a riesame i documenti del Concilio, per chiarire una volta per tutte “se, in che senso e fino a che punto” il Vaticano II sia o no in continuità con il precedente magistero della Chiesa.
«Ebbene, nella sua postfazione a “Zibaldone” di Romano Amerio, il professor Radaelli accoglie la proposta di monsignor Gherardini, ma “solo come un utile primo gradino per ripulire l’aia da molti, da troppi fraintendimenti”. Chiarire il senso dei documenti conciliari, infatti, a giudizio di Radaelli non basta, se tale chiarimento viene poi anch’esso offerto alla Chiesa con il medesimo, inefficace stile d’insegnamento “pastorale” entrato in uso con il Concilio, propositivo invece che impositivo.
«Se l’abbandono del principio di autorità e il “discussionismo” sono la malattia della Chiesa conciliare e postconciliare, per uscire da lì – scrive Radaelli – è necessario agire all’opposto. La somma gerarchia della Chiesa deve chiudere la discussione con un pronunciamento dogmatico “ex cathedra”, infallibile e obbligante. Deve colpire con l’anatema chi non obbedisce e benedire chi obbedisce.
«E Radaelli cosa si aspetta che decreti la suprema cattedra della Chiesa? Alla pari di Amerio, egli è convinto che in almeno tre casi vi sia stata “un’abissale rottura di continuità” tra il Vaticano II e il precedente magistero: là dove il Concilio afferma che la Chiesa di Cristo “sussiste nella” Chiesa cattolica invece di dire che “è” la Chiesa cattolica; là dove asserisce che “i cristiani adorano lo stesso Dio adorato da ebrei ed islamici”; e nella dichiarazione “Dignitatis humanæ” sulla libertà religiosa.»

L’ermeneutica della riforma nella continuità è un rimedio sufficiente?

Al termine del suo articolo, Sandro Magister dimostra che la critica del concilio avanzata da Romano Amerio e da Mons. Gherardini non è affatto ricevibile agli occhi del Papa:
«In Benedetto XVI, sia Gherardini che Amerio-Radaelli riconoscono un papa amico. Ma che egli esaudisca i loro voti è da escludersi. Anzi, sia nell’insieme che su alcuni punti controversi papa Joseph Ratzinger ha già fatto capire di non condividere affatto le loro posizioni.
«Ad esempio, sulla continuità di significato tra le formule “è” e “sussiste nella” si è espressa la Congregazione per la Dottrina della Fede nell’estate del 2007, affermando che “il Concilio Ecumenico Vaticano II né ha voluto cambiare né di fatto ha cambiato la precedente dottrina sulla Chiesa, ma ha voluto solo svilupparla, approfondirla ed esporla più ampiamente”.
«Quanto alla dichiarazione “Dignitatis humanæ” sulla libertà religiosa, Benedetto XVI in persona ha spiegato che se essa si è distaccata da precedenti indicazioni “contingenti” del magistero, lo ha fatto proprio per “riprendere nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa”.
«Il discorso nel quale Benedetto XVI ha difeso l’ortodossia della “Dignitatis humanæ” è quello da lui rivolto alla curia vaticana alla vigilia del primo Natale del suo pontificato, il 22 dicembre 2005, proprio per sostenere che tra il Concilio Vaticano II e il precedente magistero della Chiesa non c’è rottura ma “riforma nella continuità”.»
E Sandro Magister conclude «Papa Ratzinger non ha finora convinto i lefebvriani, che proprio su questo punto cruciale si mantengono in stato di scisma. (l’affermazione di una discontinuità o di una rottura in rapporto alla Tradizione, costituisce uno scisma? O non è piuttosto la rottura stessa che può essere sinonimo di scisma? Ndr). Ma non ha convinto – a quanto scrivono Radaelli e Gherardini – nemmeno alcuni suoi figli “obbedientissimi in Cristo”.

Da un lato, Mons. Pozzo propone di liberare il Concilio dal para-concilio e dall’altro Amerio e Radaelli chiedono che il magistero romano la smetta di «pastoralizzare», per dogmatizzare chiaramente. 
Questo è il cuore del dibattito sul Vaticano II, di cui Mons. Gherardini afferma che è un «discorso da fare». Imperativamente.







agosto 2010

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