Considerazioni sull’Istruzione
Universae Ecclesiae

di Giovanni Servodio




Premessa

In questi ultimi mesi si è discusso tanto sul tenore dell’Istruzione per l’applicazione del Motu Proprio Summorum Pontificum, che la Pontificia Commissione Ecclesia Dei avrebbe dovuto emanare già da tempo. In realtà le indiscrezioni, anche contrastanti, c’erano già state fin dal 2008, ma il continuo viaggiare della bozza tra un dicastero e l’altro ha sempre impedito di andare oltre la semplice illazione.
Con la pubblicazione di questa Istruzione, Universae Ecclesiae, vengono azzerate tutte le congetture e si comprende bene, dal testo stesso, che bisognava attendere lo scadere dei tre anni e l’esame delle deduzioni dei Vescovi, per definire un testo che dovrebbe valere per molti anni a venire.
La lettura del testo rivela subito una curiosità, forse di per sé indicativa della mens della Commissione che l’ha emanato e del Santo Padre che l’approvato.
Il documento, reso pubblico il 13 maggio 2011, porta la data del 30 aprile, “memoria di San Pio V”.
La scelta di questa data fa pensare che il richiamo a San Pio V per un’Istruzione del genere non può essere casuale. È verosimile che si sia voluto sottolineare il rapporto stretto esistente tra la S. Messa tradizionale o di San Pio V, il Motu Proprio Summorum Pontificum e la presente Istruzione applicativa di quest’ultimo. Questo denota una cura particolare della Commissione, unita però alla sottolineatura che il calendario di riferimento dev’essere quello moderno e non quello tradizionale: in effetti in quest’ultimo la memoria del santo Pontefice cade il 5 maggio.
Di per sé la cosa ha una sua logica, visto che il Motu Proprio intende sottolineare la extraordinarietà dell’uso della liturgia tradizionale, ma una logica che conferma certi aspetti controversi del documento, di cui parleremo più avanti.

Uno sguardo in generale

Come era prevedibile, il documento non apporta quasi niente di veramente nuovo, così che possiamo confermare tutte le considerazioni da noi espresse a suo tempo sul Motu Proprio, semmai si può dire che nel complesso sono presenti restrizioni e aperture che sembrano compensarsi, per la natura necessariamente compromissoria di questi documenti, dati i tempi. Lo stesso accadde col Motu Proprio. Insieme però si trovano alcuni punti che hanno un carattere restrittivo sorprendente e per certi aspetti pericoloso: li vedremo nel corso di queste considerazioni.
La prima cosa che si nota è che dopo tre anni di applicazione del Motu Proprio Summorum Pontificum, la questione della universalità dell’uso della liturgia tradizionale rimane irrisolta.
Nell’introduzione al documento viene ribadito che l’uso della liturgia tradizionale è legato, in primis, al fatto che si tratta di un “tesoro prezioso da conservare”, e questa conservazione viene affidata ai fedeli che intendono praticare tale liturgia. Nella logica dell’universalità della Chiesa è evidente che il permanere di questa visione parziale, un po’ sentimentale e un po’ personalistica,  costituisce una grossa lacuna.
Chi pensava che con questa Istruzione si sarebbero fatti dei passi avanti è rimasto deluso, anche se un po’ delusi sono ugualmente rimasti coloro che speravano che l’Istruzione comportasse chissà quali restrizioni. In realtà era difficile che si verificasse un qualche cambiamento importante, viste le intenzioni che il Santo Padre ha voluto esprimere in molte occasioni su questo e su altri argomenti connessi. In effetti, l’idea direttrice è di non mettere minimamente in dubbio quanto si è consolidato in questi anni a partire dal Concilio, pur avendo in vista quelli che il Papa ritiene essere i necessari correttivi. Il che comporta inevitabilmente che l’uso della liturgia tradizionale deve rimanere un elemento di contorno legato a particolari circostanze e a personali sensibilità, senza alcun rapporto con l’universalità della liturgia cattolica romana, che si conferma essere ritenuta altro dalla liturgia tradizionale.

L’Introduzione (1-8)

Notiamo subito che al n° 2 si ricorda che «Con tale Motu Proprio il Sommo Pontefice Benedetto XVI ha promulgato una legge universale per la Chiesa».
È evidente che tale sottolineatura è rivolta a tutti coloro che hanno osteggiato in tutti i modi il Motu Proprio e la sua applicazione, Vescovi in testa.

Si richiamano poi alcuni dati storici precedenti il Motu Proprio, ricordando (n° 4) un elemento rimasto sempre poco chiaro nel suo vero significato: il Missale Romanum «ha ricevuto nuovi aggiornamenti lungo il corso dei tempi fino al Beato Papa Giovanni XXIII». Cosa certamente vera, ma che lascia imprecisato il senso di tali cambiamenti, anche se dalla stessa formulazione della frase si può pensare che fino a Giovanni XXIII si sia trattato di “aggiornamenti” secondari. Solo per il Messale di Paolo VI, infatti, si parla di “nuovo”, suggerendo quindi l’idea che esso rappresenti non più un “aggiornamento”, ma una mutazione, di cui peraltro anche qui non si lascia intendere la portata.

Quando poi al n° 7 viene riportato un passo della Lettera di accompagnamento al Motu Proprio, si finisce col ribadire uno degli elementi controversi del Motu Proprio stesso: «Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso». Questa frase esprime un concetto sacrosanto, appunto, ma è in contraddizione con quanto detto appena prima: «Non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del Messale Romano. Nella storia della liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura».

Ora, se il Messale moderno, chiamato “forma ordinaria”, rappresenta una crescita e un progresso rispetto al Messale tradizionale, chiamato “forma extraordinaria”, logica vuole che quest’ultimo scompaia in quanto assorbito dal primo, tanto più che quest’ultimo non sarebbe in contraddizione con l’altro. È quello che fece in effetti Paolo VI.  Solo che qui si dice che quello tradizionale, per il suo essere sacro e grande, non può essere né “proibito del tutto” né “giudicato dannoso”. Ma è evidente che tale sacralità e grandezza non può che essere presente anche nel nuovo Messale, tale che l’antico sarà pure sacro e grande, ma a questo punto è inutile. Che senso ha quindi fare un Motu Proprio per permetterne ancora l’uso?
L’unica cosa logica che si può pensare è che i due Messali, pur volendoli considerare l’uno sviluppo dell’altro, sono talmente diversi da costringere a farli coesistere. E se il Messale tradizionale è sacro e grande, allora è ben possibile ritenere che il nuovo non lo sia, con tutte le conseguenze del caso. Se invece quest’ultimo lo fosse, ma al tempo stesso si riscontrasse la sua diversità rispetto al primo, ne deriverebbe che lo stesso concetto di “sacro e grande” sarebbe applicabile a due cose diverse.
Trattandosi però di due Messali, cioè del libro fondamentale della liturgia romana della Chiesa cattolica, il tutto non è più sostenibile. C’è un’evidente contraddizione.
Tale contraddizione è lievemente mascherata da quanto è stato più volte dichiarato negli ultimi 10 anni e che qui viene ribadito al punto 6: «Per il suo uso venerabile e antico, la forma extraordinaria deve essere conservata con il debito onore».
Ci si chiede: perché?
Non ha senso mantenere qualcosa di venerabile e antico solo per questo, si tratterebbe di mero estetismo, una venerabilità da museo, che solo la mentalità moderna trova apprezzabile. Soprattutto trattandosi di “cose di Dio”, una cosa “venerabile e antica” è da tenere in onore, non per questa sua qualità esteriore, ma per ciò che essa è intrinsecamente: per il suo valore liturgico e dottrinale, che non conosce né tempo né luogo, poiché è perenne come la Chiesa stessa. Dunque, non qualcosa da conservare, in modo più o meno onorevole, ma una cosa da praticare fino alla Parusia.
Se questa funzione la assolve il Messale moderno, il Messale tradizionale è inutile, se invece si sente il bisogno di mantenere il Messale tradizionale è perché il moderno non è idoneo alla bisogna.

Queste considerazioni, da noi espresse dal nostro punto di vista, vengono richiamate, da un altro punto di vista, al n° 8, ai punti a), b) e c).
Qui infatti è detto che il Messale tradizionale è “un tesoro prezioso da conservare”. Il che significa che è un pezzo da museo che non va dimenticato e che dev’essere tenuto sempre lustro e in bella vista, a memoria degli antichi splendori. E neanche si può pensare che definendolo così lo si voglia assimilare ad una reliquia, poiché in questo caso se ne dovrebbe raccomandare la “venerazione”, non la semplice conservazione.
Questo pezzo da museo, però, non è tale per certi fedeli cattolici che invece lo ritengono vivo e vitale, quindi si reputa opportuno «garantire e assicurare realmente a quanti lo domandano» il suo uso.
Perché?
Dal resto della frase (punto b) sembrerebbe che il motivo sia il “bene dei fedeli”, bene non meglio precisato. C’è da supporre che si tratti del bene supremo dei fedeli, la “salus animarum”, perché qualsiasi altro bene non giustificherebbe l’uso di una liturgia che non è più quella usata ordinariamente dalla Chiesa, si tratterebbe di una mera preferenza personale, del tutto ingiustificata in materia. Ma se si dà facoltà a questi fedeli di usare il Messale tradizionale per il bene della loro anima, è evidente che si ritiene inadatto a questo scopo il Messale moderno, chiamato “forma ordinaria”. Il che è davvero singolare per la Chiesa.
E non può non trattarsi di questo, poiché diversamente si dovrebbe constatare che la Chiesa darebbe facoltà ai fedeli di usare la liturgia che più loro aggrada, anzi stimolerebbe i fedeli a richiedere una diversa liturgia per quante sono le sensibilità e i gusti dei vari gruppi. Insomma, non sarebbe più la Chiesa a decidere qual è la liturgia più idonea per la salus animarum, ma i fedeli stessi, così che, seguendo questo filo logico, è plausibile supporre che in avvenire la Chiesa potrebbe ammettere tante “forme” della stessa liturgia romana, tutte ugualmente e inspiegabilmente riconducibili allo stesso principio della lex orandi lex credendi, richiamato anche qui.

D’altronde, è innegabile che per certi aspetti questo si verifica già in seno alla Chiesa, sia dal punto di vista della pratica liturgica sia in relazione alle autorizzazioni rilasciate dalla Santa Sede o dalle Conferenze episcopali - per tutte valga l’esempio dell’approvazione definitiva degli Statuti dei Neocatecumenali.

In questa ottica occorre considerare quello che sembrerebbe essere l’obiettivo ultimo del Papa: la cosiddetta “riforma della riforma”. Se è questo lo scopo ultimo della rimessa in auge della liturgia tradizionale si è costretti a chiedersi quale possa essere la sua sorte futura sulla base di quanto affermato nel Motu Proprio e ribadito in questa Istruzione.
Quale che sarà questa “riforma della riforma”, logica vuole che assolva ad un compito primario: ripristinare nella Chiesa una sola “forma” liturgica, ma questo significa mettere a punto un nuovo Messale che comprenda elementi di quello tradizionale e di quello moderno. A questo punto si delineano due sole possibilità: o il nuovo Messale della “riforma della riforma” verrà affiancato a quelli esistenti, costituendo una terza “forma” (che si potrebbe chiamare superordinaria), o verrà imposto come frutto dell’ulteriore crescita e sviluppo. Nel primo caso si confermerebbe quanto abbiamo appena accennato, nel secondo caso si porrebbe un problema di non poco conto.
Se il Messale tradizionale è necessario che oggi venga mantenuto perché “sacro e grande”, dovrà continuare ad essere mantenuto anche con la “riforma della riforma”, tale che quest’ultima si imporrebbe solo per il nuovo Messale, a significare che esso è inidoneo a costituire la liturgia romana.
Com’è dunque possibile che oggi lo si continui a considerare la “forma ordinaria”?
Fino alla “riforma della riforma” i fedeli avranno usufruito di uno strumento inidoneo per veicolare la Grazia… che ne è delle anime dei fedeli cattolici vissuti in questo periodo di vacanza (50, 60, 70 anni?).

Ma la “riforma della riforma”, in quanto “crescita e progresso”, potrebbe invece richiedere la logica scomparsa del Messale tradizionale, assestando un colpo mortale a tutte le giustificazioni odierne circa la necessità del Motu Proprio. Non ci sarebbe più bisogno di conservare questo tesoro prezioso, facendo riflettere sulla serietà delle affermazioni attuali.

A tutto questo occorre aggiungere qualche considerazione sul terzo obiettivo del Motu proprio, qui indicato al punto c).
Quando si dice che questo Motu Proprio intende «favorire la riconciliazione in seno alla Chiesa», si afferma, forse senza volerlo, una cosa gravissima, poiché si sancisce che intorno all’uso di questo o di quel Messale è nata la discordia in seno alla Chiesa. Che tipo di discordia?
La prima cosa che viene in mente è proprio quanto affermato dal Papa nella Lettera ai Vescovi «Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso». Si potrebbe pensare che questa affermazione faccia riferimento alla ormai famosa “ermeneutica della rottura”, se non fosse che la pubblicazione della Costituzione Apostolica Missale Romanum del 3 aprile 1969 con la quale “viene promulgato il Messale Romano 
rinnovato per ordine 
del Concilio Ecumenico Vaticano II” non è opera di un ermeneuta sia pure autorevole, ma del Papa Palo VI.

Ora, né nel Motu Proprio né in questa Istruzione si trova un minimo cenno al fatto che Paolo VI abbia indebitamente causato la discordia nella Chiesa, né tampoco si trova il minimo richiamo al fatto che quel Papa commise un grave errore e un clamoroso abuso. Semmai si potrà far notare, come facciamo noi, che la colpevole responsabilità di Paolo VI sia semplicemente sottintesa. Ma questo aprirebbe un altro problema: se fu erronea la promulgazione del nuovo Messale, com’è possibile che esso venga ancora considerato la “forma ordinaria” della liturgia romana?
C’è qualcosa che non va!
Se invece dobbiamo tenere per corretta la promulgazione del nuovo Messale, questa frase non ha alcun senso, poiché è logico e inevitabile che la promulgazione del nuovo Messale, soprattutto per le sue caratteristiche ampiamente innovative, comportasse la proibizione dell’uso del vecchio. Questo non toglie nulla alla sacralità e alla grandezza di quest’ultimo, ma lo colloca al rango di reperto da museo, rendendo ingiustificato il Motu Proprio.

D’altronde, si potrebbe invece pensare che la discordia da superare con la “riconciliazione” qui indicata, non dev’essere fatta risalire alla promulgazione del Messale moderno, bensì alla posizione assunta da quei fedeli, chierici e laici, che non hanno accettato la nuova liturgia, ragion per cui il Motu Proprio intenderebbe sanare una ferita apertasi nella Chiesa per colpa di un gruppo di irriducibili resistenti. Resistenti ad una legittima decisione del Papa e quindi della Chiesa.
Ma anche così c’è qualcosa che non va!
Non è ammissibile che il rifiuto di una decisione del Papa, soprattutto in materia così grave, possa costituire un fattore legittimo, fino al punto da richiedere l’emanazione di un Motu Proprio che sancisca espressamente il bisogno di “garantire e assicurare realmente” a questi resistenti l’esercizio del loro diritto di rifiutare la decisione del Papa. Né si può pensare che questa macroscopica stortura canonica e teologica, possa essere raddrizzata dal richiamo alla necessità che questi resistenti sono legittimati a resistere solo a condizione che accettino la legittimità del Messale moderno. Si tratterebbe ancora di una impossibilità, poiché non si può stabilire la legittimità della resistenza a condizione che i resistenti accettino ciò che non vogliono accettare e che è la ragion d’essere della loro resistenza. La contraddizione è così palese che in alcun modo è possibile risolverla o camuffarla.

Vi è una sola via d’uscita: che i sostenitori della liturgia tradizionale devono essere considerati, ed essi stessi devono considerarsi, degli esteti a cui si riconosce la possibilità di coltivare la loro passione, fermo restando che la liturgia ordinaria della Chiesa è quella che a loro non piace, ma che per ubbidienza devono riconoscere come l’unica liturgia ordinaria.
È del tutto evidente che, in questo caso, il richiamo alla riconciliazione in seno alla Chiesa è un semplice modo di dire che, mentre non significa niente, vuole gettare fumo negli occhi cercando di accontentare tutti senza scontentare nessuno. Cosa invero molto politica… e molto poco cattolica.

Compiti della Pontificia Commissione Ecclesia Dei (9-11)

Questi tre punti completano in qualche modo quanto stabilito dal Motu Proprio. L’osservanza e l’applicazione del Motu Proprio sottostanno alla vigilanza della Commissione, che a questo scopo è stata già accorpata alla Congregazione per la Dottrina della Fede.
Questa decisione solleva invero qualche perplessità circa il legittimo rapporto che può esserci tra l’applicazione del Mou Proprio e la competenza della Congregazione, poiché il dicastero più idoneo a svolgere questa funzione sarebbe la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti. L’unica giustificazione per questa anomalia è che il Papa abbia inteso porre tutta la materia sotto la sua più immediata sorveglianza, tenuto conto che la Congregazione per la Dottrina della Fede, nonostante lo sconvolgimento della Curia operato da Paolo VI e da Giovanni Paolo II, tende oggi a riprendere l’antica connotazione che fu del Sant’Uffizio: la Congregazione del Papa.
In questa ottica, la Commissione diventa un tribunale d’appello a cui si può ricorrere avverso le decisioni degli Ordinari che “sembrino” contrari al Motu Proprio. Lasciamo ai canonisti il compito di addentrarsi nella intricata questione delle decisioni che “sembrano” e notiamo che, in ultima analisi, la decisione spetta al Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, così che si può ritenere che la competenza della Commissione si limiti in fondo alla pratica del semplice buon senso. Il che, pur con questi limiti, è un passo avanti rispetto alla situazione degli ultimi quattro anni.

Tra le competenze della Commissione si precisa (n° 11) che rientrano quelle relative alla cura di nuove edizioni dei libri liturgici della liturgia tradizionale.
La cosa è singolare per due motivi.
Il primo è che ancora una volta si vuole confermare la “straordinarietà” di questa liturgia e dello stesso Motu Proprio che ha inteso regolarne l’uso. La competenza in materia liturgica, infatti, è ordinariamente della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, ma evidentemente la liturgia tradizionale ha poco a che vedere con la liturgia della Chiesa.
Il secondo motivo è che questo punto 11 solleva un interrogativo di una rilevanza straordinaria. Prima ancora che l’uso della liturgia tradizionale trovi la sua definitiva regolamentazione, ci si preoccupa di precisare che essa è destinata a subire delle variazioni, in tutti i suoi aspetti, per mano, non di una commissione di liturgisti, canonisti e teologi appositamente designata per la bisogna, ma di una Commissione speciale che non si comprende bene come farebbe a curare seriamente l’edizione di nuovi libri liturgici che comporterebbero il cambiamento di quel “tesoro prezioso” fin qui ribadito come intangibile.

Questo punto molto discutibile adombra la volontà di muoversi verso la cosiddetta “riforma della riforma”, trasformando la liturgia di Paolo VI, e contemporaneamente la liturgia tradizionale, in modo tale da giungere gradatamente alla ambivalenza delle due “forme”, tale da richiederne la cancellazione e la sostituzione con una nuova liturgia che le compendii entrambe.
Non è esagerato ritenere che in queste condizioni la liturgia tradizionale dovrà subire tutte le trasformazioni richieste sia dalle istanze che portarono alla liturgia moderna, sia dalle nuove istanze che vanno continuamente sorgendo in termini di “crescita e progresso”, che è risaputo oggi si muovono con un ritmo accelerato e con lo scopo di instaurare una nuova concezione del sacro che risponda alle esigenze dell’uomo più che alle esigenze di Dio.

Norme specifiche (12)

Competenza dei Vescovi diocesani (13-14)

Questi due punti ricordano da un lato la responsabilità dell’Ordinario in materia liturgica e dall’altro assegnano al Vescovo il compito di garantire l’applicazione del Motu Proprio in accordo con la mens del Sommo Pontefice, ripetendo che in caso di controversia o dubbio fondato interverrà il giudizio della Commissione.
Nulla è detto, anche larvatamente, in riferimento alla notissima e plateale opposizione dei Vescovi. Sarà pure una questione di prudenza, ma certo è che innanzi tutto è questione di collegialità, per cui il Papa propone e i Vescovi dispongono, in coerente applicazione dei principi introdotti dal Vaticano II.

I fedeli (15-19)

L’Istruzione intitola questa parte coetus fidelium, essa comprende diverse disposizioni riguardanti più soggetti interessati all’uso della liturgia tradizionale.

Il punto 15 precisa e amplia il significato di “gruppo di fedeli” indicato nell’art. 5 del Motu Proprio. Si tratta indubbiamente di un chiarimento necessario che definisce il senso dell’espressione “gruppo di fedeli” sulla base dell’esperienza di questi quattro anni. In questo caso è stato apportato un importante miglioramento alla generica definizione contenuta nel Motu Proprio, procurando nel contempo diverse nuove questioni.
Per gruppo di fedeli esistente stabilmente (stabiliter exsistens) si deve intendere l’insieme di “alcune” persone riunite “in ragione della loro venerazione” per la liturgia tradizionale. Per la prima volta viene usato il termine “venerazione”, che, essendo riferito ai fedeli, sta a significare che questa liturgia, dalla Chiesa “considerata tesoro prezioso da conservare”, può essere oggetto di venerazione da parte di certi fedeli. Una sottile precisazione che conferma il concetto di “liturgia per pochi”, ai quali si dà facoltà di praticarla.
Il termine “alcune” finirà per suscitare nuove cavillose discussioni, ma sembra evidente che in questo caso può essere valido solo il richiamo alle parole del Signore: «Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt. 18, 20).
Un significativo passo avanti, rafforzato dal fatto che i fedeli in questione possono appartenere a parrocchie o diocesi differenti.
Tuttavia è indicato uno strano vincolo. Quando si dice dei fedeli “che a tal fine si riuniscano in una determinata chiesa parrocchiale o in un oratorio o cappella”, non si comprende esattamente cosa si intenda. Sembrerebbe che si debba dimostrare che questi fedeli abbiano ricevuto preventiva accoglienza, in quanto “veneratori” della liturgia tradizionale, in una chiesa parrocchiale, oratorio o cappella, il che è quanto meno strano, poiché una cosa del genere non è praticabile. Se un tale gruppo di fedeli, per questa sua specifica qualità, ha ricevuto accoglienza in uno di questi luoghi, si dovrebbe ritenere automatico l’uso della liturgia tradizionale, così da potersi considerare inutile il richiamo all’art. 5 del Motu Proprio. Tanto più che questa “riunione” di fedeli appartenenti anche a Diocesi diverse è cosa talmente impropria che solo un motivo importantissimo potrebbe giustificarla.  Si potrebbe forse aggiungere che, dal momento che non si precisa l’esatta natura dell’oratorio o della cappella, si potrà anche trattare di un luogo privato, ma in questo caso la precisazione è pressoché inutile.

Comunque, aldilà di queste sottili questioni, che abbiamo richiamato solo sulla base dell’esperienza circa il modus operandi di tanti parroci e Vescovi, questa precisazione del punto 15 risolve egregiamente tante controversie innescate da questi ultimi.

Il punto 16 sembra essere più perentorio sulla disponibilità che devono dimostrare i responsabili nell’accogliere delle celebrazioni occasionali nelle loro chiese parrocchiali o oratori, fermo restando che l’avverbio “occasionalmente” continuerà a creare problemi di interpretazione soprattutto se i responsabili interporranno le esigenze di programmazione delle celebrazioni liturgiche. Tanto più se si considera quanto stabilito al paragrafo 1 del punto 17, secondo cui il tutto dovrà sottostare alla “prudenza” dei responsabili, che dovranno lasciarsi “guidare da zelo pastorale e spirito di generosa accoglienza”. Solo che in questo caso la prudenza è quasi certo che significherà “discrezione”, soprattutto per coloro che non sono d’accordo con l’uso della liturgia tradizionale; né può considerarsi un correttivo il richiamo allo zelo pastorale e allo spirito di generosa accoglienza, poiché è proprio in forza di tale zelo che tanti preti si rifiutano di accogliere le celebrazioni tradizionali.

Il paragrafo 2 dello stesso punto 17, esprime poi una curiosa precisazione.
Il punto 16 parla di “un sacerdote” che si presenta “con alcune persone”, cioè con un numero minimo, il paragrafo 2 del punto 17 distingue tra “alcune persone” e “gruppi numericamente meno consistenti”, che in questo caso dovranno rivolgersi all’Ordinario. Salta all’occhio che la sequenza dal punto 16 al punto 18 è un po’ sconnessa. Ognuno di questi punti a chi si riferisce?
Inspiegabilmente sembrerebbe che i parroci o i rettori dovranno limitarsi a tenere conto di gruppi consistenti, sia per le celebrazioni occasionali, sia per quelle regolari, quando invece si tratterà di gruppi meno consistenti occorrerà rivolgersi all’Ordinario. Logica vorrebbe che fosse esattamente al contrario, non solo, ma che significa gruppo consistente? Qui si passa da “alcune persone” a “gruppi”, per poi distinguere tra gruppi consistenti e gruppi esigui. Inevitabile il pasticcio interpretativo che ne deriverà, tale che in definitiva si continuerà a verificare che ognuno dei responsabili scaricherà sull’altro l’onere della decisione, favorendo quanto accaduto fino ad ora e cioè che prima ancora di scaricarsi la responsabilità si metteranno d’accordo per dire di no, facendo finta di non poter decidere.

Al punto 18, si nota una precisazione un po’ capziosa, da leggere insieme alla precisazione del punto 19: la questione dell’idoneità del sacerdote. Vedremo più avanti cosa intende l’Istruzione per “sacerdote idoneo”, qui ci limitiamo a porre la domanda: un sacerdote che porta in pellegrinaggio i suoi fedeli quale qualifica potrebbe avere se non quella di idoneo?

E veniamo al punto 19, che introduce inaspettatamente una polemica che si pensava fosse stata superata dal Motu Proprio.
L’articolo 1 del Motu Proprio stabiliva che “Le condizioni per l’uso di questo Messale stabilite dai documenti anteriori “Quattuor abhinc annos” e “Ecclesia Dei”, vengono sostituite come segue”. In quello che seguiva non si ponevano condizioni limitative legate alle intenzioni dei fedeli o alle loro frequentazioni materiali o intellettuali. Ma ciò che era uscito dalla porta del Motu Proprio eccolo rientrare dalla finestra di questa Istruzione.

I fedeli che “venerano” la liturgia tradizionale non «devono in alcun modo sostenere o appartenere a gruppi che si manifestano contrari alla validità o legittimità della Santa Messa o dei Sacramenti celebrati nella forma ordinaria e/o al Romano Pontefice come Pastore Supremo della Chiesa universale».

Ci sembra opportuno ricordare qui la condizione simile presente nel famoso “indulto” del 1984 (Quattuor abhinc annos), poi richiamato dal Motu Proprio Ecclesia Dei (Art. 6 e nota 9):
«a) Con ogni chiarezza deve constare anche pubblicamente che questi sacerdoti ed i rispettivi fedeli in nessun  modo condividano le posizioni di coloro che mettono in dubbio la legittimità e l'esattezza dottrinale del  Messale Romano promulgato dal Papa Paolo VI nel 1970».

Se si confrontano le due condizioni, si constata che la condizione posta da questa Istruzione è più specifica, più restrittiva e più esigente della precedente. La cosa non è solo sorprendente, ma perfino pericolosa per le sue implicazioni.
La condizione del 1984 aveva in vista la posizione critica dei fedeli a riguardo del nuovo Messale, cosa che la Santa Sede riteneva inammissibile poiché il nuovo Messale doveva ritenersi totalmente esente da critiche in quanto espressione della volontà del Sommo Pontefice.
Cos’ha in vista la condizione attuale?
Sembrerebbe la stessa cosa, ma ci sono delle distinzioni importanti.

La prima distinzione è che oggi i fedeli possono condividere qualsiasi posizione, ma possono farlo senza “sostenere o appartenere a gruppi”, e questo sembra essere coerente con il Motu Proprio, poiché è la sua stessa natura che comporta la critica alla liturgia moderna. Non si comprenderebbe infatti come questi fedeli possano “venerare” la liturgia tradizionale senza considerare quella nuova inidonea e perfino pericolosa. Tranne che, ancora una volta, non si volesse sostenere che a tali fedeli si permette l’uso della liturgia tradizionale solo sulla base della loro piacevolezza, perfino spinta fino alla venerazione.

Qui invece l’inciampo sta nel loro voler giungere fino a condividere o appartenere a gruppi contrari. Ma quali sarebbero questi gruppi?
Fino a prova contraria non esiste alcun gruppo che si manifesta contrario “alla validità o legittimità” della liturgia moderna, ed è notorio che perfino la Fraternità San Pio X non ne mette in dubbio la validità. Semmai si potrà dire che vengono avanzate riserve, e da più parti, circa la necessaria efficacia della liturgia moderna in vista della salvezza delle anime, tali che si parla di equivocità e di pericolosità di questa liturgia. Ma questo aspetto non viene preso in considerazione dall’Istruzione… quindi?
Quindi è stata “reintrodotta” questa condizione per permettere ai Vescovi di segnare a fuoco tutti coloro che chiedono la celebrazione tradizionale, che notoriamente loro non condividono. Permettendo, tra l’altro, che qualunque ricorso alla Commissione Ecclesia Dei possa essere dichiarato irricevibile per questo vizio che i Vescovi si premureranno di evidenziare.

Sembra incredibile, ma quello che il Motu Proprio pareva aver superato, eccolo nuovamente in auge: ogni Vescovo potrà indicare uno o più fedeli come non meritevoli di poter usufruire del Motu Proprio perché amici di chi, secondo gli stessi Vescovi, è contrario alla validità o legittimità della liturgia tradizionale. 1984-2011, 27 anni trascorsi invano.

Facciamo un esempio, per essere pratici e chiari: se un fedele fa notare al parroco o al Vescovo che la liturgia moderna a cui assiste nella sua parrocchia o nella parrocchia vicina è scomposta o impropria o respingente o perfino scandalosa, da quel giorno il fedele verrà segnato sul libro nero dei reprobi. Se poi si venisse a sapere che questo fedele si è espresso favorevolmente nei confronti della liturgia tradizionale celebrata in una cappella, per esempio, della Fraternità San Pietro o dell’Istituto del Buon Pastore, dove ha anche ascoltato una omelia di cui ha apprezzato i contenuti, da quel giorno il fedele verrà considerato un reietto e non verrà scomunicato solo per opportunità pastorale… cioè per evitare che diventi un esempio da imitare.

È chiaro che esageriamo, ma è parimenti chiaro che questa è la mens dell’Istruzione.
Sono passati 33 anni dalla morte di Paolo VI, ma sembra che certa mentalità discriminatoria sia dura a morire, nonostante tutte le aggiornate ermeneutiche di questo mondo.

Questo punto, però, aggiunge un elemento che neanche Paolo VI si era permesso di concepire. Il reato di lesa maestà.
I fedeli di cui si tratta non «devono in alcun modo sostenere o appartenere a gruppi che si manifestano contrari alla validità o legittimità… [del] Romano Pontefice come Pastore Supremo della Chiesa universale».

Si tratta chiaramente di una colossale forzatura e di un espediente molto più pericoloso della vecchia mentalità discriminatoria e vessatoria.
Subito bisogna dire che, come per la liturgia moderna, non esiste nessun gruppo che metta in dubbio la validità o la legittimità del Pontefice.
Ciò a cui si riferirebbe l’Istruzione è semplicemente inesistente… tranne che non si volesse sostenere che dopo quattro anni di applicazione del Motu Proprio qualcuno, a Roma, illuminato chissà da che, si sarebbe accorto della terribile incombente pericolosità dei cosiddetti “sedevacantisti”, tanto da sentire l’impellente bisogno di premunirsi contro costoro (senza peraltro nominarli), ormai ritenuti pervadere tutto il mondo tradizionale e tutta la Chiesa. La formuliamo, questa ipotesi, per evidenziare l’enormità della condizione esposta nell’Istruzione e per far emergere il suo vero motivo.

Fermo rimanendo il fatto che per un cattolico è semplicemente inconcepibile che si possa mettere in dubbio la validità o la legittimità del Romano Pontefice, occorre tenere presente che da qualche anno è invalsa l’abitudine di difendere ed esaltare il Papa ad ogni costo, anche quando si sentisse il bisogno di criticare certe sue decisioni o posizioni.
Il Papa va difeso comunque, sia ad extra sia ad intra, non importa cosa dica o faccia, perché pare che ubi Petrus, ibi Ecclesia, debba coniugarsi indipendentemente dallo stato della Chiesa, della Santa Religione, della Fede stessa. Ciò che dice e fa il Papa è pari al Vangelo, anche quando si ha la netta sensazione che contrasti il Vangelo.
Questo fideismo papista si è accentuato soprattutto in ambito tradizionale, dove molti si vanno sempre più convincendo che difendere la Tradizione significhi innanzi tutto difendere il Papa, sostenendolo in tutte le sue iniziative, in tutti i suoi discorsi, in tutte le sue dichiarazioni.
Magari con qualche mugugno, ma avendo cura di non darlo a vedere.

È in questa ottica che l’Istruzione specifica e amplifica la vecchia condizione imposta da Giovanni Paolo II nella Quattuor abhinc annos, e lo fa riferendosi esattamente ai fedeli che “venerano” la liturgia tradizionale, quasi come dire: se siete veramente fedeli alla Tradizione dovete essere manifestamente sottomessi al Papa.
Un ragionamento che sicuramente ha fatto gioire i Vescovi, ansiosi di dimostrare che i fedeli tradizionali rifiutano la liturgia moderna, il Concilio e il Papa, cioè la Chiesa stessa.

Una sorta di ricatto intellettuale, messo in essere allo scopo di costringere i fedeli tradizionali ad accettare la logica della intangibilità del Concilio e delle sue riforme, la logica del progresso del magistero, la logica dell’aggiornamento continuo della pastorale, il tutto per amore della S. Messa. E questo ricatto viene attuato avendo in vista degli obiettivi precisi: i fedeli, se vogliono fruire della liturgia tradizionale, devono sostenere e difendere il Papa quando difende ed esalta il Concilio, quando dichiara che ognuno è libero di professare la religione che vuole e perfino di cambiare religione, quando invita gli eretici protestanti a collaborare con i dicasteri vaticani, quando apre un dialogo fraterno e paritario con gli Ebrei, quando si industria per stabilire rapporti fraterni con i musulmani, quando istituisce tavoli di incontro dialogante con tutte le false religioni, quando invita ogni specie di religione e di pseudo religione a pregare ad Assisi, quando incarica un cardinale espressamente nominato ad aprire un dialogo stabile, formale e pubblico con gli atei e con i nemici della Chiesa cattolica, quando fa tutto questo allo scopo di giungere ad un reciproco arricchimento, quando fa tutto questo per perseguire quella che è ormai diventata la nuova legge della Chiesa: la pace nel mondo, auspicabilmente unificato in un unico consorzio umano dove ognuno crede al dio che vuole o anche a nessun dio.

Questo è quello che si chiede in pratica, perché diversamente… niente liturgia tradizionale!

Tutto questo è paradossale, ma è anche estremamente ridicolo, poiché la condizione imposta dall’Istruzione è passibile di un’altra lettura.
Se essa è rivolta ai fedeli che chiedono l’uso della liturgia tradizionale, è evidente che esclude tutti quelli che non la chiedono, compresi coloro che “venerano” questa liturgia, ma non ne chiedono l’uso. Tutti costoro sono lasciati liberi di essere «contrari alla validità o legittimità della Santa Messa o dei Sacramenti celebrati nella forma ordinaria e/o al Romano Pontefice come Pastore Supremo della Chiesa universale». Essi non sono sottoposti ad alcuna condizione, possono essere contrari, dissentire, disconoscere, essi rimangono esemplari fedeli sudditi di Santa Romana Chiesa, sottomessi al Romano Pontefice. E sarebbe vano richiamarsi al Codice di Diritto Canonico, poiché non v’è un documento della Santa Sede in cui si faccia un discorso simile nei confronti dei fedeli, dei preti, dei Vescovi e dei Cardinali che nel mondo intero non seguono le direttive della Santa Sede, dissentono dalle decisioni del Papa e scrivono, parlano e predicano perfino contro il Vangelo, gli articoli di Fede, la transustanziazione e la Resurrezione.

Siamo davvero al ridicolo, se non fosse che è questa la realtà oggettiva della Chiesa odierna.

Chissà se tanti amici tradizionali si rendono conto di questo pericoloso andamento della politica del Papa.

Andiamo oltre.

Il sacerdote idoneo (20-23)

Tre punti, sufficientemente semplici. Non essere canonicamente impediti, conoscere le basi del latino, aver celebrato col Messale tradizionale, ovviamente anche se solo in privato. Ciò che solleva qualche perplessità è proprio questa elencazione: i sacerdoti che si offrono per la celebrazione della liturgia tradizionale o chiedono di celebrarla, saranno sottoposti a verifica? E da chi?
Avendo coscienza dello stato della preparazione dei preti odierni, l’Istruzione chiede agli Ordinari di “offrire” al clero la possibilità di prepararsi per celebrare con i libri liturgici tradizionali, estendendo l’invito anche per i seminari, per i quali però si dice che l’Ordinario “dovrà provvedere”, imponendogli dunque un obbligo, ma sempre che “le esigenze pastorali lo suggeriscono”, togliendo quindi l’obbligo appena imposto.
In caso di penuria di sacerdoti idonei, gli Ordinari potranno ricorrere agli Istituti Ecclesia Dei, sia per celebrare sia per istruire.

Il punto 23 ribadisce poi che ogni sacerdote può celebrare liberamente (senza il popolo) senza bisogno di alcun permesso del Vescovo. Perché questa ripetizione, quando la disposizione, chiaramente espressa, era proprio il punto di partenza dello stesso Motu Proprio? Evidentemente perché in questi quattro anni i Vescovi hanno attuato ogni tipo di dissuasione, di pressione e di minaccia nei confronti dei loro preti, ma allora, perché non si è provveduto a stabilire una qualche limitazione all’abuso dei Vescovi, magari invitando formalmente gli interessati a ricorrere alla Commissione oppure ad una Congregazione?

La disciplina liturgica ed ecclesiastica (24-28)

Cinque punti in cui si ribadisce che i libri liturgici del 1962 devono essere seguiti fedelmente, ma si aggiunge, fin d’ora, che il Messale, “dovrà” essere cambiato, cominciando con l’aggiunta di nuovi Santi e di nuovi prefazi, come stabilirà la Commissione.
Intendiamoci, questa questione non solleva alcuna perplessità, nel metodo, poiché ci sembra logico che si possa aggiornare il Santorale o si possa aggiungere qualche prefazio, è nel merito che bisognerà vedere quali Santi verranno introdotti e quali espunti o declassati, tenuto anche conto del fatto che le canonizzazioni di questi ultimi 30 anni hanno superato tutte le precedenti. Lo stesso dicasi per i prefazi.

Cresima e Ordine sacro (29-31)

Questi tre articoli confermano l’impianto del Motu Proprio per quanto riguarda la distinzione tra uso del Messale e uso degli altri libri liturgici. A suo tempo facemmo notare come uno dei difetti del Motu Proprio fosse il mancato riconoscimento del “diritto” dei fedeli di poter fruire dell’intera liturgia tradizionale. L’art. 9 del Motu Proprio si esprimeva in maniera concessiva ed eccezionale riguardo al Battesimo, al Matrimonio, alla Confessione e all’Estrema Unzione, rimettendo tutto alla totale discrezione del parroco. L’Istruzione, ancorché qua e là parli di “libri liturgici”, non parla di questi Sacramenti, ragion per cui si deve ritenere che continui a valere la totale discrezione del parroco. Lo stesso dicasi per la Cresima, rimessa alla discrezione del Vescovo.
Ma l’Istruzione fa delle precisazioni che rivelano la mens della Commissione e del Santo Padre.

Nel Motu Proprio non si parlava dell’Ordine sacro, l’art. 9 dava facoltà ai chierici di usare il Breviario tradizionale, era quindi logico che di fronte a questa lacuna l’Istruzione desse delle indicazioni, tenuto conto dell’esperienza di questi quattro anni e della crescita di richieste di diversi seminaristi.
Le indicazioni ci sono (punti 30 e 31), ma escludono l’uso del Pontificale nelle Diocesi, il che significa che in pratica escludono la possibilità che i fedeli che “venerano” la liturgia tradizionale, una volta diventati seminaristi possano beneficiare completamente dell’uso di essa. Questo è permesso solo agli Istituti Ecclesia Dei e a quelli assimilabili. Per di più, anche per questi Istituti si introduce la limitazione dell’incardinazione possibile solo per i diaconi, a norma del nuovo Codice di Diritto Canonico, escludendo così la valenza canonica della tonsura, degli ordini minori e del suddiaconato.

Salta all’occhio una palese contraddizione. Per questi Istituti si ribadisce l’uso dei libri liturgici tradizionali, ma aggiornati in base al nuovo Codice di Diritto Canonico. Ora, il punto 28 di questa Istruzione dice che «in forza del suo carattere di legge speciale, nell’ambito suo proprio, il Motu Proprio Summorum Pontificum, deroga a quei provvedimenti legislativi, inerenti ai sacri Riti, emanati dal 1962 in poi ed incompatibili con le rubriche dei libri liturgici in vigore nel 1962».
Qualcuno dovrà pur spiegare cosa significhino le espressioni “sacri Riti”, “libri liturgici”, “provvedimenti legislativi”, perché se l’italiano non è un’opinione è evidente che qui si parla o si parlerebbe di libri liturgici, tutti, da usare derogando dal nuovo Codice di Diritto Canonico.
Perché quindi queste precisazioni dei punti 30 e 31?

Questa contraddizione, però, è una chiarificazione implicita, poiché essa sancisce che il Motu Proprio non intende ripristinare, sia pure in parte, l’uso dei libri liturgici tradizionali, ma solo l’uso del Messale, confermando che nulla dev’essere cambiato dell’impianto uscito dal Concilio.

Ci rendiamo perfettamente conto che l’espressione “uso dei libri liturgici” non potrebbe comportare lo stravolgimento dell’ordinamento attuale della Chiesa, ma invitiamo a riflettere sulle implicazioni di questo aspetto, alla luce di questa Istruzione.

Se un fedele tradizionale vuole entrare in seminario dovrà sottostare alla nuova normativa e, soprattutto, all’intero impianto moderno, dall’istruzione alla liturgia. Le uniche cose che gli sono permesse sono l’uso del Breviario e possibilmente l’apprendimento della celebrazione della S. Messa tradizionale, sempre che questo sia possibile per volontà dei Superiori e del Vescovo.
Diversamente non può fare altro che rivolgersi ad un Istituto Ecclesia Dei, sottostando alla difficile situazione esistente di fatto: a) questi Istituti non sono in grado di assicurare l’accesso in seminario a tutti i fedeli che ne fanno richiesta e che sono idonei – in Italia, per esempio, non esiste un solo seminario – b) i sacerdoti ordinati da questi Istituti non possono accedere alla cura delle anime nelle parrocchie, tranne i casi eccezionali stabiliti da qualche Vescovo. Quanti aspiranti seminaristi rimarranno tali?
Ora, se questo ragionamento lo si applica a tutto l’impianto del Motu Proprio, diventa evidente che il Santo Padre non ha inteso e non intende ripristinare l’uso della liturgia tradizionale, come primo passo per il recupero anche della dottrina e della catechesi. Egli ha inteso ripristinare l’uso della sola S. Messa, nell’ottica, dichiarata, di giungere al “reciproco arricchimento” delle due “forme” in vista della “riforma della riforma”. Arricchimento che, in termini pratici, significa solo incremento del nuovo rito della Messa con elementi della S. Messa tradizionale… e successiva abolizione di quest’ultima.
Nessuna illusione, dunque, circa possibili recuperi di altra natura. Il Concilio e il post Concilio non si toccano, solo dove è necessario si mettono a punto, usando qualcosa del vecchio, che sarà pure un “tesoro prezioso”, ma proprio per questo è destinato a finire in uno scaffale in formalina.


Breviario Romano (32)

Si ribadisce quanto disposto dall’art. 9 del Motu Proprio, ma stranamente si aggiunge un chiarimento che sinceramente fa sorridere. «Esso va recitato integralmente e in lingua latina».
Domanda: perché si potrebbe recitare diversamente?
Per quanto riguarda la lingua latina è evidente la riserva mentale che fa dire, al paragrafo b) del punto 20, che ogni sacerdote che vuole celebrare secondo il rito tradizionale deve conoscere il latino. La riserva mentale è di tipo snobistico: se si vuole la liturgia tradizionale si deve dimostrare di conoscere il latino: discorso più volte fatto da diversi Vescovi, non solo ai sacerdoti, ma anche ai fedeli, e a cui ha accennato lo stesso Benedetto XVI nella sua lettera ai Vescovi.
Per quanto riguarda la recita “per intero” è chiarissimo il richiamo alla cattiva abitudine dei preti moderni di accorciare la recita del Breviario moderno, abitudine che evidentemente la Commissione conosce molto bene.

Triduo sacro (33)

Questa è una precisazione importante che fa giustizia di quanto stabilito all’art. 2 del Motu Proprio, era infatti incomprensibile che i fedeli potessero usare la liturgia tradizionale tutti i giorni tranne il Triduo. Resta però la limitazione per i sacerdoti che celebrano “senza popolo”, visto che questo punto 33 parla solo dei fedeli, mentre per il sacerdote, che è ovviamente indispensabile per la celebrazione, si introduce una precisazione a doppio taglio. La celebrazione del Triduo potrà essere ripetuta, una volta col rito moderno e un’altra col rito tradizionale, ma dal momento che tutto questo è affidato alla discrezione del parroco o del Vescovo, nulla impedisce che la cosa diventi praticamente impossibile.

Riti degli Ordini Religiosi (34)

 È permesso l’uso dei libri liturgici propri degli Ordini religiosi in vigore nel 1962.


Pontificale e Rituale Romano (35)

Il punto 31 riserva l’uso del Pontificale agli Istituti Ecclesia Dei e a quelli assimilabili, tale uso esclusivo viene qui ribadito, mentre si permette l’uso del Rituale e del Cerimoniale dei Vescovi. In pratica i Vescovi potranno celebrare la S. Messa tradizionale col Cerimoniale antico, ma non potranno compiere con esso uno dei più importanti atti loro propri: il conferimento dell’Ordine.
Sembra logico dedurne che siano stati proprio i Vescovi a pretendere e ad ottenere l’uso esclusivo del Pontificale moderno, e si comprende la loro pretesa se si considera che diversamente in una stessa Diocesi vi sarebbero stati due tipi di ordinati, quasi a fissare due categorie di sacerdoti.
La cosa fa un po’ sorridere, perché è come se loro stessi temessero che gli ordinati col Pontificale tradizionale potessero essere considerati, e potessero considerarsi, ordinati di serie A, rispetto ai più “ordinari” ordinati di serie B, a conferma che in cuor loro il Pontificale tradizionale ha qualcosa in più rispetto a quello moderno. In qualche modo si tratta della riprova che persiste la consapevolezza che la liturgia tradizionale abbia un valore superiore a quella riformata, nonostante si continui a ripetere che si equivalgano e che costituiscano due “forme” della stessa lex orandi.

Con questo si conferma il convincimento che abbiamo espresso prima a più riprese: che l’uso della liturgia tradizionale viene pensato come un requisito da circoscrivere il più possibile: tra i laici, solo a quelli che ne fanno richiesta, tra i chierici, solo a quelli che hanno già deciso o decideranno di vivere ai margini della vita ecclesiale e comunque lontani dalle parrocchie e dalla cura ordinaria delle anime.


Giovanni Servodio






maggio 2011

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