IL  MOTU PROPRIO
SUMMORUM PONTIFICUM CURA
compie un anno

Il testo del Motu Proprio
Considerazioni e commenti

[Il testo del Motu Proprio è riportato, per intero, in riquadri]



Il numero del giornale in pdf
L'articolo “Il Testo del Motu Proprio” in pdf

Presentazione
Le premesse
Una curiosa lettura del Breve esame critico
1988-2008 - un anniversario nell'annivesario
Il testo del Motu Proprio: considerazioni e commenti
Ci fu abrogazione ?
La lettera di accompagnamento: considerazioni e commenti
Le reazioni
Le obiezioni
L'applicazione
Le prospettive
Ultima ora
Appendice - Canon Missae
Appendice - Ritus romanus e Ritus modernus
Luoghi e orari della S. Messa
Istruzioni per l'uso


Il preambolo con cui il Papa apre il Motu Proprio Summorum Pontificum cura, inizia ricordando la “cura che i Sommi Pontefici”, appunto, hanno sempre messo nel mantenere una liturgia che permettesse di rendere a Dio un culto degno: " a lode e gloria del Suo nome " ed " ad utilità di tutta la sua Santa Chiesa ".
Tale primaria preoccupazione, con al centro Dio, viene poi ribadita ricordando che è tradizione della Chiesa (da tempo immemorabile) che le Chiese particolari (le diocesi) “debbano” essere concordi con la Chiesa universale, sia riguardo alla dottrina, sia riguardo ai sacramenti, sia riguardo agli usi consolidati nei secoli. Come un tempo, come ieri, così adesso, così per l’avvenire.
A titolo esemplare, tra i tanti Sommi Pontefici, Benedetto XVI ricorda San Gregorio Magno (VI secolo), a cui fa risalire lo splendore e la ricchezza liturgica dei secoli successivi, e San Pio V (XVI secolo), di cui ricorda l’opera di rinnovamento dei libri liturgici, condotta su " esortazione del Concilio di Trento " " secondo la norma dei Padri ".
Tra i diversi libri liturgici, dice il Papa, un’importanza particolare riveste il Messale Romano, che, fino ai tempi recenti (prima della riforma liturgica post-conciliare), mantenne la forma usata a Roma da sempre e ancora a Roma messa a punto nel corso dei secoli.

Viene poi ricordata la riforma e l’innovazione dei libri liturgici condotte da Paolo VI, " mosso dal desiderio del Concilio ". Punto su cui il Papa ritiene opportuno precisare che tali nuovi libri liturgici, tradotti nelle lingue del mondo, furono accolti di buon grado dai fedeli, chierici e laici.

Su questo punto pensiamo sia utile spendere qualche parola.
Il Papa dice che i libri riformati vennero accolti di “buon grado” (libenter) da tutti i fedeli. 
Ora è ben comprensibile che il Papa, in questo documento, non ritenga di essere più preciso, nonostante lo stupore e lo sgomento con cui in realtà i fedeli accolsero tali libri. Gli stessi vescovi avevano respinto appena due anni prima la famosa bozza di “Messa normativa” che due anni dopo diventerà il Novus Ordo Missae senza sostanziali cambiamenti; mentre i fedeli impiegarono anni per riaversi dallo choc prodotto dalla novità, nonostante non si fossero ritrovati dall’oggi al domani di fronte all’uso dei nuovi libri liturgici, poiché, molto scaltramente, si era provveduto ad introdurre tante innovazioni rivoluzionarie un poco la volta, a titolo sperimentale, si diceva, sia a partire dagli anni 50, prima del Concilio, sia mentre il Concilio era ancora in corso.
Bisogna dare atto, però, a Benedetto XVI che egli è stato prudente nell’uso dei termini. Egli parla infatti di accoglienza, evitando di ripetere il gratuito luogo comune in base al quale la riforma avrebbe corrisposto al desiderio di cambiamento nutrito e manifestato dai fedeli. E dice che tale accoglienza è stata “benevola”, cioè tutt’altro che entusiasta, come ci si sarebbe aspettato sulla base di quanto è stato raccontato dalla disinformazione diffusa a partire dal Concilio.

Subito dopo, nel paragrafo successivo, il Papa ricorda come tanti fedeli non accettarono questi nuovi libri liturgici, e lo ricorda precisando che essi intesero restare fedeli ai libri liturgici tradizionali " con tanto amore ed affetto ". 

È significativo il fatto che Benedetto XVI abbia volutamente usato questa forma espressiva. Anche a non volervi leggere alcun plauso nei confronti di questi fedeli, è del tutto evidente che il Papa abbia voluto segnare una netta differenza rispetto al linguaggio fin qui usato comunemente da tutta la Gerarchia cattolica e comportante sempre un giudizio critico e negativo nei confronti di tali fedeli.
Per di più il Papa sorvola su tutto il periodo davvero critico degli anni settanta e dei primi anni ottanta, vissuto pesantemente da questi fedeli, e giunge subito al 1984, anno del famoso indulto.

L’amore e l’affetto di questi fedeli per la liturgia tradizionale avrebbero indotto Giovanni Paolo II a concedere l’indulto del 1984 e a promulgare il Motu Proprio Ecclesia Dei Adflicta nel 1988.

Fa riflettere il fatto che Benedetto XVI abbia voluto comporre questo preambolo accostando all’attaccamento alla Tradizione di tutti i papi, che caratterizza la vita liturgica dei secoli passati, l’attaccamento alla Tradizione dei fedeli tradizionali odierni. 
La riflessione va condotta prescindendo dalla valenza giustificativa del richiamo ai fedeli tradizionali e tenendo presente soprattutto ciò che nel preambolo è solo accennato.

Notiamo per prima cosa che il Papa dice che Giovanni Paolo II " esortò i vescovi ad usare largamente e generosamente tale facoltà in favore di tutti i fedeli che lo richiedessero ". In realtà sappiamo che Giovanni Paolo II, con quel Motu Proprio, non esortò i vescovi, bensì “ stabilì in virtù della sua autorità apostolica” che i vescovi  “dovessero” rispettare l’animo di tutti coloro che si sentono legati alla tradizione liturgica latina  “mediante un’ampia e generosa applicazione delle direttive, già da tempo emanate dalla Sede  Apostolica …”
Questo elemento è di capitale importanza ai fini della corretta lettura del documento che stiamo esaminando, nonché ai fini di una seria interpretazione delle intenzioni di Benedetto XVI. 
Se si legge attentamente quel passo del Motu Proprio Ecclesia Dei adflicta (§ 6), si coglie una sfumatura parecchio rilevante. Giovanni Paolo II aveva presente il fatto che da quattro anni, dal 1984, i vescovi non avevano dato seguito al famoso indulto, anzi lo avevano combattuto. Con quel nuovo documento, allora, avocò a sé la decisione e impose ai vescovi un obbligo dal quale non potevano (o non avrebbero potuto) esimersi. Questa è indubbiamente l’indole del suo Motu Proprio, tenuto conto, peraltro, che esso era rivolto a tutti quei fedeli che, con lo stesso Motu Proprio venivano esortati e in parte obbligati ad abbandonare Mons. Lefebvre.
In effetti, contrariamente a quanto si crede con una certa leggerezza, il Motu Proprio Ecclesia Dei adflicta è stato promulgato, non per venire incontro alle richieste dei fedeli tradizionali, ma per condannare Mons. Lefebvre, Mons. De Castro Mayer e i nuovi vescovi da loro consacrati: Mons. Williamson, Mons. Tissier De Mallerais, Mons. De Galarreta e Mons. Fellay. E questa condanna non poteva non essere accompagnata dall’invito ai fedeli a prendere le distanze dalla Fraternità San Pio X, e questo invito non poteva non essere corredato da un forte pronuncia-mento papale che rassicurasse i fedeli contro la prepotenza che i vescovi avevano esercitato fino ad allora.
Tutt’altra cosa è il perché quel famoso pronunciamento papale non ebbe alcun seguito e, anzi, venne sempre letto in maniera del tutto riduttiva e canonicamente scorretta, tanto da permettere l’affermarsi di quella vulgata che qui è ripresa dallo stesso Benedetto XVI.
La questione aspetta ancora un adeguato approfondimento, poiché è certo che a partire dal 1988 quella affermazione perentoria del Papa non ebbe mai alcun seguito, anche in presenza di comportamenti perfino scandalosi di certi vescovi. 

Fu irrefrenabile la forza di opposizione dei vescovi ? O fu strumentale l’apparente forza impositiva del Papa ? O si trattò della combinazione di entrambi questi fattori ?
In questa sede possiamo solo limitarci a porre questi interrogativi.
Quello che qui ci interessa segnalare è il fatto che questo richiamo di Benedetto XVI ha una importanza considerevole. Per un verso esso ricorda che quei fedeli non hanno mai avuto alcuna soddisfazione seria dai propri vescovi, per l’altro mette in evidenza la cattiva volontà e la prevenzione di questi stessi vescovi, che hanno dimostrato di non tenere in alcun conto la volontà del Sommo Pontefice. 
In un quadro siffatto sarebbe stato inutile riproporre un qualsivoglia documento che lasciasse ai vescovi un minimo di discrezionalità.
 

Articolo 1. Il Messale Romano promulgato da Paolo VI è la espressione ordinaria della “lex orandi” (“legge della preghiera”) della Chiesa cattolica di rito latino. Tuttavia il Messale Romano promulgato da san Pio V e nuovamente edito dal beato Giovanni XXIII deve venir considerato come espressione straordinaria della stessa “lex orandi” e deve essere tenuto nel debito onore per il suo uso venerabile e antico. Queste due espressioni della “lex orandi” della Chiesa non porteranno in alcun modo a una divisione nella “lex credendi” (“legge della fede”) della Chiesa; sono infatti due usi dell’unico rito romano.
Perciò è lecito celebrare il Sacrificio della Messa secondo l’edizione tipica del Messale Romano promulgato dal beato Giovanni XXIII nel 1962 e mai abrogato, come forma straordinaria della liturgia della Chiesa.

Questo articolo contiene cinque elementi di capitale importanza, che costituiscono la base di tutto il Motu Proprio. 
Il primo elemento è un inedito nella storia della Chiesa e della liturgia. Il Papa dice che “tuttavia” (e cioè, nonostante il Messale di Paolo VI sia l’espressione ordinaria della “lex orandi”) il Messale di San Pio V deve essere considerato " espressione straordinaria della stessa “lex orandi” ".
Difficile comprendere che cosa intenda affermare esattamente il Papa, ma la frase successiva aiuta a capire una cosa importantissima. 
Il Papa dice che in forza del " suo uso venerabile e antico " il Messale di San Pio V deve essere tenuto nel debito onore. Questa espressione va necessariamente compresa alla luce di quello che il Papa ha detto nel preambolo, e cioè che quel " Messale Romano, …si sviluppò nella città di Roma, e col passare dei secoli a poco a poco prese forme che hanno grande somiglianza con quella vigente nei tempi più recenti ", cioè fino a prima del Concilio. Ora, quando il Papa parla di forme “somiglianti” è evidente che si riferisce al fatto che l’architettura dell’Ordo Missae, come si presentava fino al 1962, risale ai primi secoli. Lo stesso dicasi per la parte sostanziale del Messale, e cioè per la liturgia, la teologia e la dottrina sottese, come indicato in un altro passo del preambolo: San Pio V " curò l’edizione dei libri liturgici, emendati e “rinnovati secondo la norma dei Padri” ", cioè secondo la norma dei Padri apostolici.
Insomma, questo onorevole Messale non può smettere di essere il Messale della Chiesa cattolica, e il fatto che questo possa essere accaduto per quarant’anni (grazie a Dio non completamente, per il sacrificio di tanti chierici benemeriti) è cosa implicitamente deplorata.
Oggi, dopo che ormai è in vigore il Messale di Paolo VI, non potendosi questo abrogare (almeno per ora), non per impossibilità canonica, ma per mera opportunità politica, il Messale di San Pio V deve essere “comunque” usato come “espressione straordinaria” del credo cattolico. 
Vi è una curiosa combinazione linguistica in questo termine extraordinaria (expressio). Per un verso esso indica chiaramente che si tratta di qualcosa di fuori dall’ordinario, nel senso di eccezionale, per l’altro suggerisce l’idea di superlativo, proprio in chiave figurata, idea ben sostenuta dalla necessità del doversi tenere " nel debito onore per il suo uso venerabile e antico ".

Il secondo elemento è costituito dall’affermazione che i due Messali " non porteranno in alcun modo a una divisione nella “lex credendi” ".
Questo passo si presta ad una lettura complessa. 
Per un verso sembra esprimere una preoccupazione: i due Messali possono generare due focalizzazioni, tanto da mettere in luce differenze sia di forma sia di sostanza. Il Papa dice che essi “non porteranno in alcun modo ad una divisione”. Ora, in effetti, la questione non si pone in termini futuri, ma in termini attuali, poiché i due Messali non coesisteranno a partire da oggi, ma coesistono già da tempo, e la loro coesistenza non ha prodotto serie valutazioni di equivalenza. Sulla base dell’esperienza di questi quarant’anni, i due Messali non sono percepiti come equivalenti, né tampoco come interscambiabili, e questo non per l’apprezzamento personale o di gruppo degli interessati, ma per motivi che potremmo chiamare tecnici. I due Messali sono come due compendi diversi di liturgia, di catechesi e di dottrina. 
Non porteranno ad una divisione, dice il Papa, poiché (infatti) si tratta di “due usi dell’unico rito romano”. Ma questa non è una caratteristica “a priori”, intrinseca, dei due Messali, bensì una statuizione a posteriori, fissata proprio qui e adesso dal Motu Proprio.
Intendiamo dire che l’impossibilità di generare divisione nella “lex credendi” non scaturisce spontaneamente dall’uso contemporaneo dei due Messali nella Chiesa, ma viene ordinata adesso dal Motu Proprio, forse sulla base della consapevolezza che il rischio di divisione è, non solo possibile, ma già in atto.
Per altro verso, questo passo sembra esprimere un voto di Benedetto XVI, che considera la convivenza dei due Messali come punto di partenza per una futura simbiosi tra di essi, sia dal punto di vista dell’architettura, sia dal punto di vista dei contenuti.

Il terzo elemento è strettamente connesso al secondo. Si tratta dell’espressione “due usi”. 
Intanto c’è da dire che siamo al cospetto di una novità che darà filo da torcere ai liturgisti, ai canonisti e ai teologi. Due “usi” di un unico rito è una cosa difficile da intendere, innanzi tutto perché non si comprende la sua necessità. Un rito, per sua natura, è regola a sé stesso, non può quindi ammettere una varietà di “usi”: equivarrebbe semplicemente ad una varietà di riti. 
Vi è poi da considerare che tali usi diversi, non potendo essere ricondotti ad àmbiti in qualche modo differenziati, sarebbero inspiegabilmente relativi ad un unico àmbito. E tale stranezza non sembra potersi chiarire anche adottando l’equivalenza tra “uso” e “forma”, termine che il Papa utilizza nel paragrafo successivo. Due “forme” dello stesso rito incontrano le stesse difficoltà dei “due usi”.
In definitiva, in questo passo del Motu Proprio si rimane perplessi di fronte al generoso tentativo del Papa di evitare il vero scoglio, e cioè la grande differenza qualitativa, nella forma e nella sostanza, tra il Messale tradizionale che risale a San Pio V e a San Gregorio Magno, che si attennero “alla norma dei Padri”, e quello moderno promulgato da Paolo VI “mosso dal desiderio del Concilio”. Perfino tra queste due espressioni usate dallo stesso Benedetto XVI vi è una differenza qualitativa.

Il quarto elemento è costituito dalla novità della liceità della celebrazione del Santo Sacrificio della Messa “secondo l’edizione tipica del Messale Romano promulgato dal beato Giovanni XXIII nel 1962”.
Questa celebrazione, secondo il Papa, è lecita sulla base di quanto è detto prima. 
" Perciò è lecito ", dice il Papa. Il che significa che la celebrazione con l’uso del Messale tradizionale non è una facoltà che scaturisce dall’attuale decisione del Papa, bensì un diritto oggettivo del celebrante in quanto sacerdote cattolico di Rito Romano. Il Papa qui si limita a ricordarlo. E, ancora una volta, tale diritto oggettivo del celebrante di Rito Romano, sulla base di quanto detto prima, è dato dalle qualità intrinseche dello stesso Messale: il debito onore in cui esso va tenuto “per il suo uso venerabile e antico.”
Tale puntualizzazione avrà delle conseguenze notevoli sui giudizi che si porteranno a partire da oggi sull’azione di governo di Paolo VI e, quindi, sulla riforma liturgica da lui sostenuta ed avallata. 
Si dovranno inoltre riesaminare tutti i contenziosi sorti in questi quarant’anni intorno all’uso del Messale tradizionale; contenziosi instaurati sia dai vescovi, o a causa loro, sia dalla stessa Santa Sede, dai Dicasteri, in particolare dalla Congregazione per i Vescovi, dalla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti e dal Pontificio Consiglio per l’Interpretazione dei Testi Legislativi.
Non v’è dubbio che uno degli scopi del presente Motu Proprio è di azzerare tutti i contenziosi e le controversie, ed è lodevole l’intenzione di Benedetto XVI, ma questo non risolve tutte le conseguenze che tali contenziosi e tali controversie hanno generato e che sussistono tutt’ora.

Il quinto elemento è costituito dall’affermazione che il Messale del 1962 non è mai stato abrogato. 
Questa affermazione, da un lato rafforza la questione della liceità, dall’altro tocca in maniera controversa la questione della obrogazione, sollevata da tanti modernisti.
L’uso del Messale tradizionale, dice il Papa, è lecito, non solo e principalmente perché questo resta sempre il principale libro liturgico della Chiesa, “per il suo uso venerabile e antico”, ma anche perché non è mai stato abrogato. Fatto, questo, che andrà a rafforzare la questione della necessaria cassazione di tanta giurisprudenza recente.

Resta da capire se anche l’obrogazione è fuori causa.
L’affermazione: “e mai abrogato” sembra proprio che debba intendersi nel senso che il Messale tradizionale non è mai stato né abrogato, né obrogato. Diversamente tutto il Motu Proprio sarebbe senza fondamento.

Ora, si ha abrogazione quando la legge attuale lo dichiara espressamente menzionando la legge precedente che intende abrogare: non è questo il caso del Messale di Paolo VI.  A questo proposito, nel 2004, in una lettera al Prof. Dante Pastorelli, il Card. Medina Estevez, Prefetto emerito della Congregazione per il Culto Divino, scrisse: “posso aggiungere che nel Decreto, da me firmato, per la promulgazione della III edizione tipica del Messale Romano [anno 2000], non c’è alcuna clausola di abrogazione della forma antica del Rito romano. […] E poi posso aggiungere che l’assenza di qualsiasi clausola di abrogazione non è casuale, né frutto di dimenticanza, ma voluta” (Una Voce Dicentes, bollettino interno della sezione fiorentina di “Una Voce”, Anno III, n° 2, luglio-dicembre 2004). Non v’è dubbio che, canonicamente, si tratta della semplice opinione personale del Cardinale, ma la cosa curiosa, che dà una particolare forza alla dichiarazione, è che si tratta dello stesso prelato che negli anni ottanta si era battuto per l’inserimento della clausola in questione nella II edizione tipica dello stesso Messale.

Si parla invece di obrogazione, o abrogazione tacita, quando la legge attuale è manifestamente contraria o riordina totalmente la materia della legge precedente. 
È questo il caso del Messale riformato? 
Per gli aspetti particolari di questa questione rimandiamo al riquadro che abbiamo appositamente preparato [Ci fu abrogazione?], qui ci limitiamo a far notare che il Messale moderno è stato preparato, promulgato, presentato, spiegato, usato e applicato in maniera tale da segnare una netta discontinuità col Messale tradizionale, tanto che si è parlato di “nuova ecclesiologia”, di “nuova pastorale”, di “nuova catechesi”, non solo in termini teorici, ma in termini di pratica quotidiana della fede; e i cambiamenti che si sono via via presentati, sulla base delle vedute più diverse e perfino eterodosse, sono sempre stati avallati dalle autorità competenti, o in corso d’opera o a posteriori; giungendo perfino a legittimare successivamente quanto prima era stato dichiarato illegittimo.

Tale stato di cose porta necessariamente a concludere che vi fu sicuramente volontà di obrogazione, sia nelle intenzioni del legislatore, i papi, sia nelle intenzioni dell’esecutore, i vescovi. 
Tale volontà, però, si accompagnava alla consapevolezza che era impossibile abrogare la liturgia tradizionale e, a maggior ragione, era impossibile obrogarla, in quanto “uso venerabile e antico”, uso immemorabile risalente ai Padri Apostolici e allo stesso Signore Gesù. Si giunse quindi alla determinazione di evitare accuratamente di parlare di abrogazione del Messale tradizionale, operando però in modo da riuscire a cambiare tutto pur dichiarando ad ogni passo di non voler cambiare nulla. 

Nell’intenzione dei riformatori il tempo avrebbe fatto accettare uno stato di fatto che, secondo la moderna logica conciliare, poteva essere presentato come la “tradizione rinnovata”, a cui avrebbe fatto da sostegno il moderno concetto di “tradizione vivente”.
È del tutto evidente la contraddizione presente in espressioni come queste, ancora oggi usate e abusate, ma essa non meraviglia ove si pensi che non si ebbero remore nell’attuare il tentativo di obrogare una legge della Chiesa che per sua stessa natura non è possibile abrogare. 
Certo, una impossibilità logica e perfino tecnica, ma non necessariamente per i moderni riformatori, avvezzi a sostenere con convinzione la correttezza di una cosa e anche del suo esatto contrario.
Per quanto possa sembrare paradossale, se nessuno avesse più parlato di liturgia tradizionale, se nessuno si fosse opposto al tentativo di farla sparire dalla vita della Chiesa, oggi, dopo quarant’anni, quasi tutti avrebbero ritenuto normale questa abnorme anormalità. Senza i fedeli tradizionali, senza i chierici e i laici che hanno protestato e si sono opposti, resistendo a tutte le pressioni e le condanne, oggi, dopo quarant’anni, non sarebbe stato neanche possibile parlare, come ha fatto il Santo Padre, di due  ermeneutiche del Concilio. 
È vero, infatti, che anche questa questione dell’abrogazione o meno del Messale tradizionale cambia a seconda che si usi l’ermeneutica della continuità o l’ermeneutica della discontinuità, come dice Benedetto XVI; ma è necessario precisare, anche qui, che non si trattò, e non si tratta, solo di interpretazione, di ermeneutica, ma della precisa volontà di operare una rivoluzione nella vita della Chiesa e nella Religione, e se oggi si può parlare di mera ermeneutica è perché il tentativo di distruggere la liturgia tradizionale non è andato in porto come volevano in tanti e come vogliono ancora tanti altri.
A questo punto sorge un problema: se, usando l’ermeneutica della continuità, si conclude per la continua vigenza del Messale tradizionale, ne deriva la sconfessione di tanti atti dello stesso magistero e di quarant’anni di post-concilio, e visto che  è su questo assunto implicito che si fonda il Motu Proprio che stiamo esaminando, si dovrà gioco forza ritenere che Benedetto XVI abbia inteso operare una svolta rispetto alle intenzioni dei suoi predecessori, evitando però di pronunciarsi in modo esplicito e fidando nella forza delle argomentazioni implicite nelle sue decisioni, al di là delle conseguenze che possono ricadere e che ricadranno sull’operato dei papi precedenti.
 
 

Le condizioni per l’uso di questo Messale stabilite dai documenti anteriori “Quattuor abhinc annos” e “Ecclesia Dei”, vengono sostituite come segue:

Art. 2. Nelle Messe celebrate senza il popolo, ogni sacerdote cattolico di rito latino, sia secolare sia religioso, può usare o il Messale Romano edito dal beato Papa Giovanni XXIII nel 1962, oppure il Messale Romano promulgato dal Papa Paolo VI nel 1970, e ciò in qualsiasi giorno, eccettuato il Triduo Sacro. Per tale celebrazione secondo l’uno o l’altro Messale il sacerdote non ha bisogno di alcun permesso, né della Sede Apostolica, né del suo Ordinario.

In questo articolo troviamo due elementi degni di nota. 
Il primo, e più importante, è che ogni sacerdote è libero di celebrare col Messale tradizionale, senza bisogno di alcun permesso, di nessuno. 
Questa facoltà è esattamente la stessa concessa da San Pio V: i sacerdoti cattolici possono celebrare col Messale tradizionale anche contro il parere del proprio vescovo [si veda la bolla Quo primum tempore]. 
La cosa non è di poco conto, poiché il parallelismo tra le due facoltà rimanda inevitabilmente al parallelismo tra le due situazioni vigenti nella Chiesa. Ieri vi era il rischio della deriva protestante, oggi vi è il rischio di confermare la deriva modernista, che è poi la figlia incestuosa di certo movimento liturgico moderno. Ieri si sollecitò tutta la Chiesa ad usare il Messale della Curia romana, risalente al tempo degli Apostoli, contro le tentazioni rivoluzionarie, oggi si stimola tutta la Chiesa a ritornare all’uso dello stesso Messale, contro le tentazioni progressiste.
È eccessivo affermare che a fronte delle gravi crisi che affliggono la Chiesa vi è un solo rimedio: la S. Messa di sempre?

Quello che lascia perplessi è l’espressione iniziale: " Nelle Messe celebrate senza il popolo ".
Questa, che sembra essere una semplice restrizione, di fatto si rivela essere una contraddizione, poiché, se si esclude che il sacerdote possa celebrare “per conto suo”, ogni celebrazione è al tempo stesso sine populo e cum populo, specialmente per quanto riguarda la Messa tradizionale, nella quale è del tutto assente la differenza organizzativa subentrata solo adesso, col Novus Ordo. In quest’ultimo, la differenza tra Missa sine populo e Missa cum populo consiste nel diverso svolgimento della stessa, per il fatto che ci siano o meno dei fedeli presenti; mentre per la Messa in sé anche col N. O. non cambia nulla. Il Rito tradizionale non conosce neanche questa distinzione “tecnica”, la Messa è sempre la Messa: che ci sia o meno il popolo essa è sempre celebrata per tutti i fedeli presenti o assenti, vivi o morti, proprio perché il rinnovamento del Sacrificio della Croce si realizza in ogni celebrazione, certo per la salvezza dei fedeli, ma indipendentemente dal fatto che essi siano presenti o meno. 
La precisazione contenuta in questo articolo, quindi, non solo non ha ragion d’essere, ma non riguarda affatto la Messa tradizionale. Piuttosto, visto che essa è posta all’inizio dell’articolo o è superflua e quindi insignificante, o è esclusiva e quindi annulla parzialmente tutto l’articolo.

Visto che per la Messa non cambia niente, che ci sia o no il popolo, qual è lo scopo di questa distinzione ? Quando realmente ogni sacerdote cattolico può usare il Messale tradizionale?
Sorge il sospetto che ci si trovi di fronte ad una delle possibili aggiunte posticce sopraggiunte a seguito delle terribili pressioni esercitate dai vescovi. Come dire che se vi è la presenza del popolo il sacerdote deve astenersi dal celebrare col Messale tradizionale, perché il popolo non deve subire un tale cattivo esempio! Sembra una forzatura nostra, ma non riusciamo a trovare altra spiegazione plausibile.
Del resto, come non cogliere anche il pregiudizio, duro a morire, che in fondo questa Messa antica potrà essere richiesta solo da quattro gatti, un po’ cultori eccentrici del latinorum?

Guardiamo infine alla contraddizione.
Se nell’articolo 1 si dice che il Messale tradizionale non è mai stato abrogato, com’è impossibile sostenere subito dopo che non si possa usare, in questa o in quella occasione? Se il Messale non è mai stato abrogato significa che è sempre in vigore, che ogni sacerdote cattolico di rito romano poteva usarlo, può usarlo e potrà usarlo, fino a quando non verrà abrogato. Questo articolo 2 è allora interamente superfluo. 
L’unica sua giustificazione è legata alla continua vigenza del Messale nuovo, vigenza che impone una qualche regolamentazione in attesa che questo stesso Messale scompaia, ma allora la precisazione iniziale è del tutto fuori luogo.
 

Art. 3. Le comunità degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica, di diritto sia pontificio sia diocesano, che nella celebrazione conventuale o “comunitaria” nei propri oratori desiderano celebrare la Santa Messa secondo l’edizione del Messale Romano promulgato nel 1962, possono farlo. Se una singola comunità o un intero Istituto o Società vuole compiere tali celebrazioni spesso o abitualmente o permanentemente, la cosa deve essere decisa dai Superiori maggiori a norma del diritto e secondo le leggi e gli statuti particolari.

Anche in questo articolo è presente la contraddizione di prima, che ritroveremo ovunque e quindi non ricorderemo più. 
Qui viene trattata la possibilità che un Istituto possa decidere di usare solo il Messale tradizionale, e l’articolo dice che questo sarà possibile solo col consenso dei Superiori Maggiori, cioè col consenso di tutti gli altri Istituti, il che, in pratica, a tutt’oggi, equivale ad un no. Una tale possibilità allora resta solo per quegli Istituti che nascono con questa specifica prerogativa, salvo le problematiche legate ai loro rapporti con le Chiese locali e con i vescovi.
 
 

Art. 4. Alle celebrazioni della Santa Messa di cui sopra all’art. 2, possono essere ammessi ? osservate le norme del diritto ? anche i fedeli che lo chiedessero di loro spontanea volontà.

Si tratta di un’articolo dal sapore compensativo. Visti i problemi sollevati dalla precisazione dell’articolo 2, per evitare che questo si possa interpretare come esclusivo delle celebrazioni con la presenza dei fedeli, ecco che questo articolo “aggiunge” che, nonostante i fedeli non debbano esserci, se vogliono possono esserci.
Un po’ di confusione, insomma.
Per di più si dice che i fedeli possono essere presenti se lo chiedono di loro spontanea volontà.
È evidente che qualcuno ha suggerito o ha ipotizzato, in fase di stesura, che potrebbero esserci dei fedeli che lo chiedono dietro suggerimento o pressioni indebite o suggestione o subornazione o minaccia grave. Resta da capire come sarà possibile verificare che si tratti di una volontà spontanea o di una volontà indotta.
In ogni caso sembra implicitamente chiarito un aspetto problematico dell’articolo 2.
Se i fedeli possono essere ammessi a queste celebrazioni, questo significa che l’articolo 2, com’è formulato, esclude che le celebrazioni di cui si tratta si svolgano in presenza dei fedeli. In pratica è vietato ai sacerdoti celebrare liberamente, senza permesso alcuno, se vi sono dei fedeli presenti.
Ora, accade stranamente che a fronte di un implicito divieto per il celebrante si ponga un esplicito permesso per i fedeli, per cui potrebbe accadere che un sacerdote che sta celebrando quasi segretamente la Messa tradizionale, vedendo giungere dei fedeli, debba subito interrompere la celebrazione o debba far finta che essi non ci sono. Ovviamente questo non significa che non possa allontanarli, poiché l’articolo dice “possono” essere ammessi, non “debbono” essere ammessi.
Non che non si comprenda a sufficienza la reale intenzione del legislatore, che vuole espressamente che i fedeli partecipino a tutte le Messe celebrate col Vetus Ordo e che i celebranti celebrino col Vetus Ordo in presenza dei fedeli… è che si rimane perplessi di fronte all’uso di alchimie lessicali come queste: ingiustificate e pericolose.

Resta solo da capire come i fedeli possano venire a conoscenza della celebrazione quasi segreta di questa Messa. È inevitabile pensare che solo il sacerdote potrà informarli e, successivamente, essi potranno informare altri fedeli, e così via; tanto che si deve ritenere che se si vuole che i due articoli abbiano un senso, queste Messe, buttate lì come fossero catacombali, dovranno essere pubblicizzate ancor più e ancor meglio delle altre.
 
 

Art. 5. § 1. Nelle parrocchie, in cui esiste stabilmente un gruppo di fedeli aderenti alla precedente tradizione liturgica, il parroco accolga volentieri le loro richieste per la celebrazione della Santa Messa secondo il rito del Messale Romano edito nel 1962. Provveda a che il bene di questi fedeli si armonizzi con la cura pastorale ordinaria della parrocchia, sotto la guida del Vescovo a norma del can. 392, evitando la discordia e favorendo l’unità di tutta la Chiesa.

Ed eccoci al paragrafo più strano. In esso sono dette tante di quelle cose che si potrebbe instaurare un contenzioso interminabile. Come non sospettare che anche in questo caso ci si trovi al cospetto di volute complicazioni ove invece sarebbero bastate poche parole?
Andiamo con ordine.

È possibile che esista qualche parrocchia che abbia un gruppo di fedeli tradizionali, ma è certo che nelle altre parrocchie, quasi in tutte, tale gruppo non esiste e non potrebbe esistere. Sia per l’oggettiva situazione di fatto di questi quarant’anni: 
chi tocca i fili della Tradizione muore! 
Vuoi la Messa antica? Sei fuori dalla Chiesa! 
Sia per la natura stessa dei semplici fedeli.
Chi ha scritto questo articolo ha senz’altro immaginato una realtà inesistente e impossibile da esistere. Nella realtà vera si trovano in seno alle parrocchie, perché in esse vivono i cattolici, solo singoli fedeli, più o meno numerosi, più o meno noti tra di loro, più o meno organici tra di loro, che vogliono o desiderano o aspirano alla Messa tradizionale. Sono essi che l’articolo avrebbe dovuto ricordare, non i gruppi. Poiché è impensabile che una disposizione canonica come il Motu Proprio possa supporre un diverso trattamento tra un gruppo di cattolici e un singolo cattolico o una singola famiglia. Il diritto a poter usufruire della Messa tradizionale non può darsi ad un gruppo sì e ad un singolo no. Sarebbe come dire che quando i cattolici sono da soli non sono cattolici. Il che è una assurdità.

Tanto più che, anche se il Motu Proprio non lo dice espressamente, la liceità della celebrazione del Sacrificio della Messa col Messale tradizionale, di cui all’articolo 1, non può essere relativa solo al celebrante, ma è conseguentemente e inevitabilmente relativa anche ai fedeli. La S. Messa è della Chiesa, non dei soli sacerdoti. Come dalla liceità della celebrazione tradizionale scaturisce un diritto per il celebrante, senza bisogno di alcun permesso, così da questa stessa liceità scaturisce un diritto per il fedele: universale il primo, universale il secondo. 
Ogni altra considerazione è davvero infondata, ed è lesiva, prima che della dignità dei fedeli, della dignità della stessa S. Messa.
Se a questo si aggiunge che il Messale non è stato mai abrogato, ogni fattore limitativo è come inesistente.

Resta da capire in che modo possa essere applicato questo disposto.
Non spetta a noi formulare indicazioni operative o interpretazioni applicative del Motu Proprio, ma in fondo noi siamo tra quelli interessati, quindi non è fuori luogo se avanziamo qualche suggerimento.
La cosa migliore sarebbe eliminare il richiamo al gruppo, ma visto che ormai c’è, ci sembra che l’unica soluzione possibile, atta anche ad evitare malevoli interpretazioni vanificanti, sia quella di precisare che quando si dice stabilmente, si intende parlare del gruppo che potrà formarsi e stabilizzarsi una volta che abbia avuto inizio la celebrazione tradizionale anche su richiesta di un solo fedele. In pratica significa che l’esistenza del gruppo e della sua stabilità dovrà essere valutata solo sulla base del vero rapporto conoscitivo tra i fedeli della parrocchia e la Messa tradizionale. Se in una data parrocchia si desse inizio alla celebrazione della Messa tradizionale ed essa non fosse seguita da nessun fedele, in quel caso la celebrazione si potrebbe sospendere, perché quasi inutile. E diciamo “si potrebbe” a ragion veduta, poiché resta sempre la possibilità che la celebrazione venga portata avanti dal solo celebrante, e questo, da solo, potrebbe e dovrebbe bastare.

Non si può negare, ovviamente, che dei veri problemi ci sono, e ci sono principalmente dal punto di vista pratico. Quarant’anni di sistematica demolizione di tanti capisaldi cattolici non è stata vana.
Per esempio, difficile trovare un parroco, oggi, che abbia ancora dimestichezza col latino, mentre quasi tutti i giovani preti non lo conoscono neanche. Senza parlare del complesso di posture, di gesti e di intima disposizione connessi alla celebrazione della Messa tradizionale, oggi andati persi o del tutto sconosciuti. Se il parroco non sa celebrare la Messa tradizionale non potrà neanche “accogliere volentieri” le richieste dei fedeli.
Qui il Motu Proprio avrebbe dovuto necessariamente prevedere che i parroci hanno il dovere morale e religioso di armarsi di buona volontà per “accogliere volentieri” le richieste dei fedeli. Insomma, se non sanno celebrare la Messa tradizionale, che la imparino.

Altra cosa è se non “vogliono” celebrare la Messa tradizionale. Qui, effettivamente, non c’è niente da fare. Anzi. Se un parroco non vuole celebrare la Messa tradizionale, è molto meglio che non la impari neanche, poiché non sarebbe accettabile che qualcuno celebri una S. Messa in cui non crede: si tratterebbe di una blasfemia e la Messa sarebbe invalida.

Singolare è il richiamo alla concordia che chiude questo paragrafo. Già non si capisce che cosa si voglia intendere quando si invita il parroco a provvedere perché il bene dei fedeli tradizionali si armonizzi con la cura pastorale. Qui si potrebbe ipotizzare qualsiasi cosa. 
Si potrebbe ipotizzare, per esempio, che per il bene di questi fedeli la cura pastorale della parrocchia assuma una valenza tradizionale, che in definitiva potrebbe rivelarsi un bene per tutti i fedeli. 
Si tratterà di questo?
Si potrebbe ipotizzare, per esempio, che per il bene di questi fedeli la cura pastorale della parrocchia si volga a distoglierli dal continuare a seguire la celebrazione della Messa tradizionale. 
Si tratterà  di questo?
La cosa è alquanto misteriosa. E si complica ulteriormente quando si legge che in questa cura il parroco deve evitare la discordia e favorire l’unità. 
Ci si chiede, chi ha parlato di discordia fino ad ora? Se non i preti e i vescovi contrari al ritorno alla liturgia tradizionale?

Questo richiamo non avrebbe dovuto far parte del testo del Motu Proprio, poiché è intrinsecamente contrario alla sua natura.
Mentre si potrebbe supporre che sia stato inserito per ammonire i preti e i vescovi a non creare discordia, si potrebbe ugualmente supporre che il suo inserimento sia stato dettato dalla necessità di venire incontro alle pretese dei preti e dei vescovi che accusano i fedeli tradizionali di voler dividere la Chiesa.
Comunque sia, questa intera frase svilisce il Motu Proprio e la sua portata.
 
 

Art. 5. § 2. La celebrazione secondo il Messale del B. Giovanni XXIII può aver luogo nei giorni feriali; nelle domeniche e nelle festività si può anche avere una celebrazione di tal genere.

Va tutto bene. Ma perché questa distinzione, o ripetizione? Ecco un altro esempio di complicazione non necessaria e importuna.
Se la celebrazione è lecita è ovvio che si tratterà di una celebrazione giornaliera: “in qualsiasi giorno” come dice l’articolo 2. Che bisogno c’era di questo paragrafo? 
Non siamo noi che esasperiamo, è il Motu Proprio che contiene delle stranezze e delle contraddizioni.
In sostanza qui si dice una cosa sola con chiarezza, che nelle parrocchie, nelle Domeniche e nelle festività, la Messa tradizionale può essere celebrata solo una volta.
È lecito chiedersi perché?! 
E se in quella parrocchia tutti i fedeli volessero sempre e solo la Messa tradizionale? 
Visto che è un loro diritto come dice l’articolo 1? 
Con questo paragrafo, significa che sarebbe proibito? 
Che sarebbe proibito ai fedeli e al sacerdote cattolici esercitare un loro diritto?
 

Art. 5. § 3. Per i fedeli e i sacerdoti che lo chiedono, il parroco permetta le celebrazioni in questa forma straordinaria anche in circostanze particolari, come matrimoni, esequie o celebrazioni occasionali, ad esempio pellegrinaggi.

Certo che sarebbe stato veramente incredibile che una Messa che può celebrarsi lecitamente tutti i giorni non potesse essere celebrata in circostanze particolarmente care ai fedeli. L’inserimento di questo paragrafo rivela anch’esso l’aspra lotta che si è dovuta combattere prima della promulgazione del Motu Proprio. 
Perché inserire questo paragrafo se non per evitare che qualche prete o qualche vescovo attuasse un divieto incredibile e provocatorio?
Ma, come sempre, quando la legge è inutilmente troppo specifica, corre il rischio di essere riduttiva, poiché i malevoli saranno tentati sempre di rispettarla talmente alla lettera da renderla ridicola. Per esempio, le nozze d’argento non sono citate, significa che il parroco potrebbe dire di no!?
 
 

Art. 5. § 4. I sacerdoti che usano il Messale del B. Giovanni XXIII devono essere idonei e non giuridicamente impediti.

Questo paragrafo  continua a riferirsi alle celebrazioni che si svolgono in parrocchia, per cui ne deriva che la richiesta di idoneità si riferisca ai sacerdoti che celebrano in parrocchia. Quando invece le celebrazioni non si svolgono in parrocchia, ma in una chiesa non parrocchiale, i celebranti non sono obbligati a possedere i requisiti richiesti.
La cosa sembra strana, poiché non si riesce a capire quale possa essere la differenza tra celebrare in questa chiesa o celebrare in quella accanto, che non è parrocchia.
Piuttosto, il requisito sembra doversi riferire a tutti i sacerdoti e in tutte le celebrazioni. Per quale misterioso arcano, allora, è stato inserito in questo articolo 5, dove si parla delle parrocchie?
Senza contare che l’uso del termine “idonei” lascia adito a molteplici interpretazioni e conseguenti problemi applicativi, compresa la possibilità di contenziosi interminabili.
Qualcuno dice che questo paragrafo avrebbe in vista i sacerdoti della Fraternità San Pio X e in verità, seppur plausibile, ci sembra bizzarro, poiché i sacerdoti della Fraternità San Pio X non hanno niente a che vedere col Motu Proprio.
Ma, se così fosse, torniamo a quanto detto prima. Se un sacerdote  della Fraternità San Pio X chiedesse di celebrare in parrocchia gli si potrebbe dire di no, ma se chiedesse di celebrare nella chiesa accanto gli si dovrebbe dire di sì.
Ma sarà poi così?
 
 

Art. 5. § 5. Nelle chiese che non sono parrocchiali né conventuali, è compito del Rettore della chiesa concedere la licenza di cui sopra.

La licenza di cui si parla è quella del paragrafo 1. Si conferma così una cosa che fin qui non abbiamo detto, ma che è rilevante ai fini dell’applicazione del Motu Proprio.
Nonostante qua e là si richiami l’autorità del vescovo, visto anche quanto previsto dal Codice di Diritto Canonico, la possibilità di celebrare usando il Messale tradizionale è totalmente sottratta al beneplacito del vescovo. Essa si fonda sul diritto personale di ogni sacerdote cattolico di Rito Romano e, a livello giurisdizionale, sull’autorità del parroco o del rettore. E se non si richiede più il beneplacito del vescovo è del tutto evidente e inevitabile che il vescovo non ha alcuna facoltà né di vietare né di regolamentare, e meno che mai di prescrivere in maniera anche minimamente restrittiva riguardo all’applicazione di questo Motu Proprio.
Una certa idea che comunque bisognerebbe rivolgersi al vescovo è canonicamente del tutto infondata, si può solo parlare di opportunità e di buon comportamento, così che non c’è neanche ragione di ricordarlo. Ma se ci si trovasse al cospetto di un vescovo che in modo diretto o indiretto ostacolasse l’applicazione del Motu Proprio, è evidente che si tratterebbe di un duplice abuso, uno contro una legge della Chiesa, un altro contro la carità pastorale. Abuso aggravato dalla posizione autorevole ricoperta. Un tal vescovo è passibile delle sanzioni canoniche previste dal Codice, a norma dello stesso.
 
 

Art. 6. Nelle Messe celebrate con il popolo secondo il Messale del B. Giovanni XXIII, le letture possono essere proclamate anche nella lingua vernacola, usando le edizioni riconosciute dalla Sede Apostolica.

Ed eccoci al primo cenno sulla possibilità di modificare il Messale tradizionale.
Innanzi tutto va notato che qui si dice che le letture “possono”, non “debbono”, e non si specifica se la proclamazione delle letture in lingua vernacola escluda o meno la previa lettura in latino.
Secondo la più elementare delle logiche, dovrebbe essere evidente che tale bisogno dell’uso del volgare scaturisca dalla opportunità che i fedeli ascoltino e subito comprendano le letture, anche se a digiuno di latino, come è il caso della maggior parte di essi. E questo non richiede minimamente che si evitino di leggere o di cantare le letture in latino. La lettura in volgare potrà essere fatta dallo stesso celebrante o dal diacono subito dopo la lettura o il canto in latino. Non v’è nulla di strano, né si deve pensare ad un artificio complicato o ad un allungamento del tempo della celebrazione. Non è mai troppo il tempo passato al cospetto del Signore.
D’altronde, l’articolo dice: " Nelle Messe celebrate con il popolo "; il che significa che nelle Messe in cui non sono presenti i fedeli l’uso del volgare non è permesso. A riprova della intangibilità della struttura tradizionale della Messa che non può essere intaccata, da essa si può solo derogare, come permette l’articolo.

Detto questo, è opportuno tenere presente quanto abbiamo già detto a proposito della Missa sine polulo, del tutto inesistene nel Rito tradizionale.
Intendiamoci, non si può pensare che vi sia alcunché di scomposto o di disordinato nell’introduzione del volgare in qualche momento della celebrazione della Messa, ma si deve anche evitare che tale introduzione, accompagnandosi con l’esclusione del latino, finisca col produrre anche il disordine che non vorrebbe. Questi ultimi quarant’anni dovrebbero pur aver insegnato qualcosa.
Una precisazione è necessaria.
Già al Concilio di Trento si discusse dell’uso del volgare nelle celebrazioni, anche perché era divenuto inevitabile, vista la polemica dei protestanti contro il latino incomprensibile (niente di nuovo sotto il sole!). Se ne discusse, e vi furono anche dei pareri favorevoli. Non se ne fece niente, però, neanche dopo il Concilio, nei successivi cinque secoli. E il motivo è molto semplice, e chi è addentro alla materia lo conosce bene: vi è il rischio che l’uso del volgare e l’esclusione del latino, finisca col tradursi nella banalizzazione e nello stravolgimento della dottrina, nonché nella interferenza di chiunque nel Rito.
Si potrebbe dire: mondo protestante docet o, se si vuole, quarant’anni di nuova Messa docent.
 
 

Art. 7. Se un gruppo di fedeli laici fra quelli di cui all’art. 5 § 1 non abbia ottenuto soddisfazione alle sue richieste da parte del parroco, ne informi il Vescovo diocesano. Il Vescovo è vivamente pregato di esaudire il loro desiderio. Se egli non vuole provvedere per tale celebrazione, la cosa venga riferita alla Commissione Pontificia “Ecclesia Dei”.

Perché non si creino equivoci, è bene dire innanzi tutto che l’espressione “Se egli non vuole provvedere”, riferita al Vescovo, è quella della versione ufficiale pubblicata negli Acta Apostolicae Sedis, fascicolo dell’11 giugno 2007, pp. 777-781, diffuso i primi di marzo di quest’anno. Nel testo del 7 luglio stava scritto: “Se egli non può provvedere”.

Sorvoliamo sulla questione del gruppo di fedeli, di cui ci siamo occupati prima.
Possiamo dire subito che in questo articolo è scritto a chiare lettere che il Vescovo non esercita la sua giurisdizione nei confronti del Motu Proprio. Tanto che può disinteressarsi perfino del rifiuto del parroco.
Chiunque si fermi a riflettere con un minimo di buon senso, dovrà riconoscere che la situazione è tale che il Vescovo non ha alcun diritto di interferire nell’applicazione del Motu Proprio. In nessun senso. In questa materia a lui resta solo il dovere di essere il Pastore di tutti i fedeli affidati alla sua cura.
Ma le cose non sono così semplici. Purtroppo.
Intanto bisognerà aspettare che la Commissione Ecclesia Dei venga investita dei poteri di cui si parla all’art. 12. A tutt’oggi questa Commissione non ha alcun potere nei confronti delle Chiese particolari e, nel caso specifico, nei confronti dei parroci.
Poi, occorre guardare all’aspetto pratico: come farà un parroco a decidere in piena autonomia se sa che il suo vescovo è contrario all’applicazione del Motu Proprio? Vero è che il Vescovo, in teoria, non può essere contrario all’applicazione del Motu Proprio, ma è anche vero che noi viviamo in questo mondo e non nel Paese delle Meraviglie di Alice.
Anche se la Commisione Ecclesia Dei potesse imporre il rispetto della richiesta dei fedeli, che razza di Chiesa particolare sarebbe mai quella in cui i pastori sono obbligati contro la loro volontà e i fedeli sono costretti a subire la soddisfazione delle proprie legittime richieste insieme all’ostilità del parroco e del Vescovo? 
Ci vorranno anni e provvedimenti a pioggia come questo Motu Proprio per sperare che le cose cambino e la Santa Chiesa superi la crisi attuale e torni ad una vera vita cattolica.
 
 

Art. 8. Il Vescovo, che desidera rispondere a tali richieste di fedeli laici, ma per varie cause è impedito di farlo, può riferire la questione alla Commissione “Ecclesia Dei”, perché gli offra consiglio e aiuto.

Questo articolo è talmente sibillino che ci si chiede a cosa serva e cosa voglia dire.
Un dubbio ci viene, però. Se un vescovo “per varie cause” è impedito, come fa a passare la patata bollente alla Commissione Ecclesia Dei ? Si intende forse dar vita ad una nuova Congregazione con poteri superiori a quelli dei vescovi e con apposita giurisdizione su di essi per l’uso della liturgia tradizionale.
Sembra un paradosso. 
E in effetti non pare proprio che si tratti di questo. 
Se il vescovo è impedito, dice questo articolo, “può riferire”, non dice “deve riferire”. Nell’articolo precedente era parso di capire che il vescovo che non “vuole”, “deve  riferire” alla Commissione; qui invece si dice dell’altro: il vescovo che desidera, ma non può, se vuole può riferire alla Commissione. La sfumatura è talmente sottile che confermiamo la prima impressione: sibillino.
Se fossimo dei vescovi, visto questo articolo e l’uso diffuso in questi quarant’anni, potremmo rispondere così ai fedeli che desiderano seguire la liturgia tradizionale: 

Cari figli, sono contento per la Vostra richiesta e per il Vostro attaccamento alla Messa di San Pio V, e ben volentieri vi verrei incontro, purtroppo, però, ci sono cause che mi impediscono di farlo, né, per il momento, ritengo opportuno riferire la questione alla Commissione Ecclesia Dei. Sono certo che la Vostra filiale devozione e il Vostro sentire cum Ecclesia, vi porterà ad accettare con la consueta comprensione e con la dovuta obbedienza questa dolorosa decisione del Vostro Vescovo.
Volentieri imparto a Voi e alle Vostre famiglie la mia benedizione. 
Vostro in Cristo…
Art. 9 § 1. Il parroco, dopo aver considerato tutto attentamente, può anche concedere la licenza di usare il rituale più antico nell’amministrazione dei sacramenti del Battesimo, del Matrimonio, della Penitenza e dell’Unzione degli infermi, se questo consiglia il bene delle anime.

Alla formulazione di questo paragrafo manca la semplicità e l’immediatezza appropriate.
Con questo paragrafo il Motu Proprio afferma chiaramente che il suo scopo non è solo quello di ripristinare l’uso del Messale tradizionale, ma anche quello di ripristinare tutti i rituali tradizionali della Chiesa, compresi i Sacramenti.
Il fatto che si sia volutamente evitato di usare una formulazione semplice, come per l’uso del Messale (Art. 1), fa capire come ancora sussistano tanti impedimenti e tante resistenze. È da essi che sembra scaturire la formulazione equivoca di questo paragrafo.
La condizione " se questo consiglia il bene delle anime ", è chiaramente una tautologia per i fedeli tradizionali ed un contentino e una scappatoia per i parroci contrari alla Tradizione. 
Possiamo impedirci di considerare che formulazioni come queste finiscono col vanificare ogni buona intenzione del legislatore?
 
 

Art. 9 § 2. Agli Ordinari viene concessa la facoltà di celebrare il sacramento della Confermazione usando il precedente antico Pontificale Romano, qualora questo consigli il bene delle anime.

Lo stesso dicasi per questo secondo paragrafo. 
Trattandosi qui dei vescovi, è il caso di notare che, così formulato, questo paragrafo sembra essere rivolto esclusivamente ai vescovi favorevoli all’uso della liturgia tradizionale. Quasi per dar loro una copertura canonica nei confronti dei confratelli nell’episcopato.
Piuttosto, sempre a proposito dei vescovi, si nota una clamorosa lacuna, quella relativa al Sacramento dell’Ordine. 
Come mai, dei sette Sacramenti, il Sacramento dell’Ordine è l’unico a non essere contemplato in questo documento?
Qualcuno potrebbe obiettare che il Motu Proprio ha principalmente a cuore le istanze dei fedeli tradizionali, ma non si può certo dimenticare che anche i seminaristi e tutti gli aspiranti sacerdoti sono dei fedeli e, potenzialmente, dei fedeli tradizionali.
Basta leggere il paragrafo successivo per convenire sulla correttezza di questa osservazione.
In ogni caso, non è possibile considerare che questo Motu Proprio non debba avere e non abbia primariamente in vista il bene della Chiesa e guardi solo alle  esigenze di una parte dei fedeli cattolici. In questa ottica, l’unica praticabile nella Chiesa, il Sacramento dell’Ordine è di un’importanza enorme, poiché i nuovi sacerdoti sono il futuro della Chiesa. Amministrare il Sacramento dell’Ordine seguendo la liturgia tradizionale significa rivolgere lo sguardo anche ai seminari e alla qualità di ciò che vi si insegna e vi si pratica. E Dio solo sa quanto bisogno hanno i nostri seminari di ritornare alla primaria cura della formazione di veri sacerdoti cattolici. Una buona occasione clamorosamente mancata per dare inizio a quel necessario e inderogabile cambiamento di rotta più volte auspicato, che dovrebbe portare ad una rinnovata spiritualità. 
Per completezza dobbiamo segnalare che, a questo proposito, in Vaticano si assicura che il disposto combinato di questo articolo e del successivo, includerebbe nella “concessione” anche la celebrazione del Sacramento dell’Ordine, sia in forza del diritto, sia in forza dell’uso, visto il buon numero di vescovi che continua ad ordinare nuovi sacerdoti secondo il Pontificale tradizionale. E questo nonostante la mancanza di un documento ufficiale, per quanto ne sappiamo.
 
 

Art. 9 § 3. Ai chierici costituiti “in sacris” è lecito usare il Breviario Romano promulgato dal B. Giovanni XXIII nel 1962.

Questo paragrafo conferma quanto abbiamo detto sul primo, e sottolinea la correttezza dell’osservazione che abbiamo fatto prima sulla mancata presa in considerazione del Sacramento dell’Ordine. 
La sua formulazione è semplice e immediata,  e spiace che non sia stata usata anche nei paragrafi precedenti. 
D’altronde… come si dice… non si può avere tutto.
La giusta e puntuale considerazione che qui si dimostra per la quotidiana vita religiosa dei chierici, sarebbe stato bene dimostrarla anche per la religiosa vita quotidiana dei laici, che non necessariamente recitano il breviario, ma sentono sicuramente il bisogno di mezzi di santificazione giornalieri e non saltuari: settimanali o occasionali. 
 
 

Art. 10. L’Ordinario del luogo, se lo riterrà opportuno, potrà erigere una parrocchia personale a norma del can. 518 per le celebrazioni secondo la forma più antica del rito romano, o nominare un cappellano, osservate le norme del diritto.

Questo articolo è decisamente un notevole passo avanti rispetto alla situazione pastorale in atto prima della promulgazione del Motu Proprio. 
Era inevitabile che una volta sancito il libero uso di tutta la liturgia tradizionale, si giungesse alla erezione di parrocchie personali. 
Pensavamo a questo quando abbiamo parlato della questione del gruppo di fedeli.
I fedeli tradizionali non sono concentrati in una parrocchia, per adesso. Essi sono sparsi in tutte le parrocchie, è inevitabile quindi che si pensi ad erigere delle parrocchie personali perché possano praticare la Fede in comunità composte in maniera omogenea: dal curato al più piccolo dei fedeli.
Se non fosse per la grave crisi che vive oggi la compagine cattolica, e a cui abbiamo accennato qua e là, la cosa dovrebbe essere addirittura salutata con piacere dagli stessi vescovi. Per svariati motivi.
Qui preme ricordare che l’erezione delle parrocchie personali è un passo importante per la vita dei cattolici tradizionali. In esse si potrà sviluppare una pastorale più intimamente connessa con tutta la liturgia tradizionale, con benefici che si rifletteranno su tutta la Chiesa. Pensiamo alla catechesi, alla cura dei fanciulli e delle fanciulle, alle famiglie, agli anziani. Siamo certi che in queste parrocchie sarà più facile veder fiorire le vocazioni religiose.
In Italia non abbiamo esempi del genere, ma all’estero le parrocchie personali per i fedeli tradizionali hanno dato dei frutti notevoli. 
D’altronde, per avere un’idea di come possa condursi la vita informata dalla Tradizione, basta guardare all’esempio della Fraternità San Pio X.
Detto questo, va subito precisato che questo è l’unico articolo in cui ritorna vistosamente la giurisdizione vincolante del vescovo. La qual cosa appare come un’anomalia rispetto a tutto l’impianto del Motu Proprio. Per di più, l’inciso: “se lo riterrà opportuno ”, del tutto normale in altre circostanze, oggi, alla luce dell’esperienza degli ultimi 40 anni, si rivela come un’arma pericolosa in mano a quei vescovi per i quali già lo stesso Motu Proprio sarebbe del tutto inopportuno e dannoso per la Chiesa.
Questa considerazione va valutata tenendo presente che, nella Ecclesia, la possibilità di condurre una vera vita cattolica è direttamente  legata all’esistenza di una compagine umana la più armonica ed omogenea possibile dal punto di vista della Fede: e tale compagine, immediatamente dopo la famiglia, è quella costituita proprio dalla parrocchia. 
Ne deriva che la costituzione della parrocchia avrebbe dovuto figurare tra le prime preoccupazioni. Aver relegato questa preoccupazione all’art. 10, il second’ultimo, è indice di poca attenzione nei confronti di quest’aspetto importantissimo della vita cattolica. 
 

Art. 11. La Pontificia Commissione “Ecclesia Dei”, eretta da Giovanni Paolo II nel 1988, continua ad esercitare il suo compito. Tale Commissione abbia la forma, i compiti e le norme, che il Romano Pontefice le vorrà attribuire.

Art. 12. La stessa Commissione, oltre alle facoltà di cui già gode, eserciterà l’autorità della Santa Sede vigilando sulla osservanza e l’applicazione di queste disposizioni.

Questi due articoli prevedono delle disposizioni che  al momento in cui scriviamo non sono state ancora emanate. Quando lo saranno capiremo qual è il tenore dei compiti e delle facoltà assegnate alla Commissione. Soprattutto in relazione alla sorveglianza richiamata dall’articolo 12. Oggi possiamo dire che, dall’esperienza di quest’anno, ma lo si sapeva già dall’esperienza degli anni scorsi, la vita della Commissione sarà problematica, e sarà dura anche per i fedeli che saranno costretti a rivolgersi ad essa.

Ma non disperiamo. 
Per intanto, con l’aiuto di Dio e l’azione meritoria del Santo Padre Benedetto XVI, abbiamo questo Motu Proprio, a riprova del fatto che Dio vede e provvede. Domani questo Motu Proprio potrebbe essere migliorato  e, perché no, anche superato. A Dio piacendo.
 
 


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L'articolo “Il Testo del Motu Proprio” in formato pdf

(Ottobre 2008)


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