Conciliarismo alla riscossa

A proposito di un libro di Don Pietro Cantoni
(Riforma nella continuità. Vaticano II e anticonciliarismo)

prima parte

vai alla seconda parte
vai alla terza parte

di Belvecchio

Viviamo ormai in un mondo nel quale imperversano gli “ismi”, con tutto quello che di negativo comporta l’uso di questo suffisso.
Da “illuminismo” a “laicismo” troviamo tutta una serie di termini che esprimono una concezione distorta rispetto a quella espressa dal termine che fa da radice. Dai “lumi” che dovrebbero indicare una qualche chiarezza rispetto al buio e alla confusione, si passa ad una concezione della illuminazione che restringe la visuale alla sola capacità di comprensione della mera ragione umana, fino alla sua assolutizzazione. Dalla “laicità” che dovrebbe indicare la visione naturale del laico, diversa da quella del chierico, si passa alla invadenza di tale visione come fosse l’unica seria in grado di normare tutta la vita, di guidare ogni componente dell’esistenza, compresa quella spirituale, per di più dimenticando che il termine “laicità”, lungi dall’indicare una qualche realtà, di fatto designa una mera opinione: la realtà vera, infatti, è solo religiosa.

Adesso scopriamo anche che esiste il termine “conciliarismo”, chiaramente derivato da “conciliare”: ciò che attiene ad un concilio, che nel nostro caso sarebbe il Concilio Vaticano II.
Quando ci è stato gentilmente fornito il libro Riforma nella continuità. Vaticano II e anticonciliarismo di Don Pietro Cantoni, perché lo leggessimo, la cosa che ci colpì immediatamente fu questo confronto tra Vaticano II e “anti-conciliarismo”. Perché “anti”? Evidentemente perché esiste un “conciliarismo” che come ha dei difensori, così trova delle opposizioni.
Con questo titolo e con la relativa trattazione, l’Autore sembra voler dichiarare: io difendo il “conciliarismo”, sono un “conciliarista”. Cosa invero un po’ curiosa, poiché non si capisce bene come si possa menar vanto di qualcosa che, di per sé, ha una valenza negativa. Sostenere il Concilio Vaticano II o quanto meno attenersi ad una logica che tiene il Concilio come guida, ad una logica conciliare, è cosa comprensibile ed anche giustificata, come peraltro cerca di dimostrare l’Autore, ma dichiararsi “conciliarista”, sostenere il “conciliarismo” significa solo collocarsi tra coloro che hanno fatto del Concilio un punto di riferimento per far passare la loro particolare visione delle cose, una visione che assolutizza a tal punto le indicazioni conciliari da farne come dei dogmi. Ciò che con altre parole è stato chiamato, a ragione o a torto: “lo spirito del Concilio”. Il Concilio visto come una tendenza, come una visione del mondo, come una concezione guida: il Conciliarismo.
Ovviamente, stando così le cose, ciò che l’Autore chiama “anti-conciliarismo”, non solo ha una sua legittimità, ma soprattutto risponde alla necessità di fugare ogni confusione e ogni equivoco derivati dal “conciliarismo”, appunto.

Un vecchio professore di critica letteraria, per aiutarsi a comprendere il tenore di uno scritto, raccomandava che per prima cosa si leggessero il titolo, l’indice e la conclusione. Questi elementi aiutano quasi a fissare la disposizione d’animo dell’Autore. Seguendo il suo consiglio, abbiamo letto la conclusione e abbiamo trovato una cosa curiosa.
«Chi si stupisce davanti alla ritrosia della Chiesa a ricorrere al modo straordinario di esercizio del magistero, dovrebbe riflettere di più sul fatto che alla Chiesa – a cui la finalità pastorale appartiene intrinsecamente – non interessa tanto che le cose siano chiarite sulla carta, ma nei cuori degli uomini». E chiarisce il suo pensiero parafrasando Luca 16, 29-30: «Se non avete ascoltato quello che ho così frequentemente ripetuto con il mio magistero ordinario, neppure se definissi infallibilmente tutto sareste mai convinti» (pp. 115-116).
La conclusione dell’Autore rientra nella sua preoccupazione di dimostrare che qualsivoglia interrogativo sulla coerenza dottrinale dei documenti del Concilio, che in questi ultimi anni ha prodotto articoli, libri e convegni, è del tutto ingiustificata, poiché il Concilio stesso e le sue applicazioni sono del tutto chiare, coerenti e inappuntabili.
Francamente è come dire che nessuno ha capito niente, per durezza di comprendonio, tranne l’Autore stesso e i suoi sodali difensori del conciliarismo. Un po’ troppo, in verità, e tale da rivelare quel vizio di fondo che vuol fare del proprio punto di vista l’unico serio e sostenibile.

Se andiamo a leggere il brano del Vangelo di San Luca qui citato, troviamo che si tratta del dialogo tra Abramo e il ricco crapulone finito all’Inferno. Al ricco che si è reso conto dei suoi errori in vita e desidera prevenire i suoi fratelli ancora viventi dal commettere gli stessi errori, Abramo risponde: «Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi». Brano che si accosta a quello del Vangelo di San Giovanni (6, 47), dove è Gesù stesso che ammonisce: «Ma se non credete ai suoi scritti [di Mosè], come potete credere alle mie parole?».
Non sembri irriverente, ma è evidente che questa parafrasi proposta dall’Autore non ha niente a che vedere con i dubbiosi sulla coerenza dottrinale dei documenti del Concilio, l’Autore non se ne sarà reso conto – cosa che capita spesso quando si ragiona per preconcetti – ma in realtà i due brani del Vangelo si adattano molto di più ai conciliaristi che agli “anti-conciliaristi”. In essi infatti si ricorda che la guida prima di ogni corretto sentire è la dottrina insegnata dai profeti e non certo quella elaborata dagli esegeti, dagli interpreti nella continuità, dai teologi giustificazionisti. Per essere applicato agli anticonciliaristi, nel Vangelo si doveva trovare il riferimento ai dottori della Legge e non alla Legge direttamente. Costoro infatti fanno sempre riferimento alle precisazioni magisteriali, trascurando la dottrina insegnata da sempre e creduta da tutti ovunque.

L’autore sembra voler sostenere che dal Concilio in poi gli insegnamenti del Magistero sono così chiari e definiti che ogni attuale richiesta di precisazione, in forma definitiva (modo straordinario di esercizio del magistero – dice l’Autore), da parte dello stesso Magistero sarebbe inutile, se non addirittura dannosa e pericolosa per la salute spirituale delle anime. Egli ricorda infatti che non è con l’intelligenza che vanno capite le cose insegnate dal magistero, ma col cuore. Non possiamo dilungarci su questo aspetto, ma è necessario ricordare che un certo linguaggio moderno che sottopone le istanze dell’intelligenza e della volontà a quelle del cuore è figlio di quella mentalità che vede nella professione di fede, non tanto una adesione dell’intelligenza, quanto un trasporto sentimentale mosso dall’esperienza religiosa.
Parafrasando il Vangelo, come fa l’Autore, si potrebbe dire: “Non posso credere ascoltando Mosè e i Profeti, tranne che non venga a dirmelo qualcuno che risuscitato dai morti dimostrasse con questo il valore dell’insegnamento di Mosè”.

Questo libro risulta finito di stampare a settembre 2011. Questo significa che a quella data l’Autore l’aveva già finito e rivisto. Sfortunatamente per lui, il 14 settembre 2011 è stata pubblicata una nota della Congregazione per la Dottrina della Fede che manda in frantumi la sua conclusione e, con essa, tutto il suo argomentare.
Alla fine dell’incontro tra il Prefetto della stessa Congregazione, il Card. William Levada, e il Superiore Generale della Fraternità San Pio X, Mons. Bernard Fellay, è stato emesso un comunicato ufficiale nel quale si dice: «Tale Preambolo enuncia alcuni principi dottrinali e criteri di interpretazione della dottrina cattolica, necessari per garantire la fedeltà al Magistero della Chiesa e il “sentire cum Ecclesia”, lasciando nel medesimo tempo alla legittima discussione lo studio e la spiegazione teologica di singole espressioni o formulazioni presenti nei documenti del Concilio Vaticano II e del Magistero successivo».
Questa dichiarazione afferma che, dopo un anno e mezzo di colloqui “dottrinali”, la Santa Sede riconosce, per l’avvenire, la legittimità di una ulteriore discussione per lo studio e la spiegazione teologica di “espressioni o formulazioni presenti nei documenti del Concilio Vaticano II e del Magistero successivo”. Della necessità, quindi, di studiare e di spiegare non solo i documenti del Concilio, ma anche i successivi documenti del Magistero, ivi compresi quelli che spiegano e chiariscono i primi.
Questo comunicato non è certo un atto del Magistero, ma non è neanche una chiacchiera da bar. Vista l’importanza della questione dibattuta, che ha prodotto anche il libro che stiamo esaminando, è evidente a chiunque, mosso che sia dall’intelligenza o dal cuore, che il Concilio continua ad  essere legittimamente discutibile e con esso il Magistero successivo. Con buona pace dei conciliaristi e del nostro Autore.

A questo punto il libro dovrebbe essere riscritto, quantomeno per tutto ciò che riguarda la sua impostazione critica nei confronti dei critici del Concilio, ormai ulteriormente legittimati dalla stessa Santa Sede e quindi in grado di trascurare interamente le posizioni partigiane dei conciliaristi, come si definisce l’Autore.
Per quanto ci riguarda, potremmo anche finirla qui, ma, dopo averlo chiamato così in causa, mancheremmo di cortesia nei confronti dell’Autore. Vedremo allora di soffermarci su alcuni punti salienti.

Innanzi tutto va detto che il libro, più che rivolgersi esclusivamente all’anticonciliarismo, come parrebbe doversi credere dal titolo, si rivolge polemicamente a Mons. Brunero Gherardini. Una cosa un po’ strana, in verità, ma non inusuale per certi ambienti super legittimisti che amano colpire più le persone che i loro argomenti.
Non ci soffermeremo però su questo aspetto, poiché il Reverendo Monsignore sa ben difendersi da solo e con più validi argomenti di quanto possiamo fare noi, da semplici fedeli quali siamo.

L’autore introduce il suo libro dicendo che la sua preoccupazione è di contribuire ad impedire che si facciano dei danni irreparabili colpendo, non singoli o gruppi, ma la Chiesa stessa, infatti criticando il Magistero si commette un “danno terribile”, poiché in realtà «il magistero della Chiesa non è il problema, ma la soluzione!». Ed avalla questa sua convinzione ricordando che in “questa battaglia della notte”, condotta dagli altri, “si accavallano “mille suggestioni”, viziate da una “apparente semplicità”: “Se tanti sono i danni, tanto grave dev’essere la causa”; “Non è sufficiente incolpare l’interpretazione del concilio, per venirne a capo: il male deve risiedere nei documenti.” «Così si dimentica che anche i documenti più santi […] cioè le Sacre Scritture, hanno dato origine ad una varietà inconcepibile di interpretazioni […] Si dimentica che qualunque documento, anche il più chiaro, necessita di una interpretazione vivente, tale da adattare con sicurezza quello che dice alla situazione presente sempre mutevole.» (Introduzione, pp. 7-8).
Presentazione francamente affatto inedita e poco chiara, poiché non si capisce bene cosa sia l’interpretazione vivente, né chi dovrebbe condurla. In qualche modo, l’Autore glissa, perché si fa sfuggire due elementi che non dovrebbe essere difficile cogliere per un pastore d’anime che vive ogni giorno in seno alla compagine ecclesiale.
Se i danni fossero da ricondurre semplicemente all’interpretazione dei documenti del Concilio, e non al Magistero, si dovrà necessariamente ritenere che una cosa è l’interpretazione, fatta non si capisce bene da chi, altra cosa è il Magistero. Il che, non solo è insostenibile, ma falso, perché è stato il Magistero a fornire l’interpretazione che ha prodotto i danni.
Il nostro non è ovviamente un discorso “teologico”, che lasciamo volentieri agli addetti ai lavori chiusi nelle loro roccaforti accademiche, ma è un discorso terra terra, il discorso del semplice fedele che vive da 45 anni la moderna esperienza ecclesiale sulla propria pelle, sia con l’intelligenza sia col cuore. Il discorso del semplice fedele che sa leggere e scrivere e che, se occorre, va a consultare i documenti della Chiesa. E in questi documenti trova cose come quelle che seguono.
Facciamo solo due esempi, ovviamente, poiché non possiamo scrivere qui un trattato sulle deviazioni del Magistero prodottesi in questi 45 anni a partire dal Concilio Vaticano II.

A proposito del Santissimo Sacramento
«L'adeguamento liturgico delle chiese esistenti, mirante a esaltare il primato della celebrazione eucaristica e quindi la centralità dell'altare, deve riconoscere anche la funzione specifica della riserva eucaristica. Si ritiene necessario, perciò, che, in occasione dell'intervento di adeguamento sia dedicata una particolare cura al “luogo” e alle caratteristiche della riserva eucaristica… Anche la localizzazione e l'eventuale realizzazione di una nuova custodia eucaristica devono essere parte integrante del progetto globale di adeguamento liturgico e dovranno tener conto di una sua facile individuazione, di un accesso diretto, di un ambiente raccolto e favorevole all'adorazione personale. In ogni caso si ricordi che in ciascuna chiesa il tabernacolo per la riserva eucaristica deve essere unico e che l'altare della celebrazione non può ospitare la custodia eucaristica». (Conferenza Episcopale Italiana – Commissione Episcopale per la liturgia - L'adeguamento delle chiese secondo la riforma liturgica - Roma, 31 maggio 1996, n° 20, La custodia eucaristica).

Si tratta di un documento del Magistero, ove si notano alcuni elementi che non riguardano l’interpretazione, ma l’applicazione della Sacrosanctum Concilium, la Costituzione conciliare sulla Sacra Liturgia.
Il Santissimo Sacramento non è più tale, poiché, dicono, col cambiare dei tempi e con il progredire della conoscenza della dottrina Esso è diventato semplicemente “la riserva eucaristica”.
Neologismo? No, la chiara intenzione di ridurre il Santissimo Sacramento dell’altare a mero componente delle suppellettili liturgiche.
Lettura forzata? No, perché il testo dice che bisogna “esaltare il primato della celebrazione eucaristica e quindi della centralità dell’altare”, il quale “non può ospitare la custodia eucaristica”.
Il centro della celebrazione non è più Cristo, presente sull’altare, ma l’altare stesso. Ma l’altare rappresenta Cristo! Infatti, lo rappresenta solamente, ma non è Cristo.
Cristo, in Corpo, Anima e Divinità, dev’essere riposto da parte in “un ambiente raccolto e favorevole all’adorazione personale.” Il che significa che il Santissimo Sacramento dev’essere oggetto di adorazione per i singoli fedeli che ne sentono il bisogno e non più per la Chiesa. Questo è ciò che la Chiesa insegna e pratica oggi in seguito al Concilio Vaticano II.
Qui non v’è interpretazione di questo o di quello, non v’è interpretazione della riforma: qui c’è la riforma, la riforma della liturgia che comporta, in tutta consapevolezza, la riforma della dottrina. Qui non si tratta più di “incolpare l’interpretazione del concilio, per venirne a capo”, come critica l’Autore, ma di leggere i documenti del Magistero e capire esattamente che “il male risiede nei documenti”.

A proposito di apostasia
«La libertà religiosa è, in questo senso, anche un’acquisizione di civiltà politica e giuridica. Essa è un bene essenziale: ogni persona deve poter esercitare liberamente il diritto di professare e di manifestare, individualmente o comunitariamente, la propria religione o la propria fede, sia in pubblico che in privato, nell’insegnamento, nelle pratiche, nelle pubblicazioni, nel culto e nell’osservanza dei riti. Non dovrebbe incontrare ostacoli se volesse, eventualmente, aderire ad un’altra religione o non professarne alcuna.» (Benedetto XVI, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace per l’anno 2011, Libertà religiosa, via della pace, § 5)
Apostatare la fede è cosa lecita e legittima, dice il Papa, e “anche un’acquisizione di civiltà politica e giuridica”. Un cattolico “non dovrebbe incontrare ostacoli se volesse, eventualmente, aderire ad un’altra religione o non professarne alcuna”, questo lo dice il Papa regnante in un documento del Magistero, che non sarà pure dogmatico, ma che impone al fedele “religioso ossequio interno ed esterno”.

E Benedetto XVI non è stato il solo a parlare in questo senso, poiché già Giovanni Paolo II, nel 1999, affermava che «La libertà religiosa costituisce, pertanto, il cuore stesso dei diritti umani. Essa è talmente inviolabile da esigere che alla persona sia riconosciuta la libertà persino di cambiare religione, se la sua coscienza lo domanda.” (Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace per l’anno 1999).
La sostanza è la medesima, il documento è del medesimo tenore, la continuità è innegabile: sempre fondata sull’elogio dell’apostasia e sulla sollecitazione a praticarla sulla base del valore della libertà personale e del suggerimento della coscienza.

Sia chiaro che noi non ci poniamo in cattedra come fossimo dei fini teologi, che non siamo affatto, ci manteniamo invece al nostro modesto posto di semplici fedeli, che ascoltano e leggono le parole e gli scritti proposti dal Papa per l’edificazione di tutti, e da questo posto molto periferico ci confrontiamo col problema che sorge alla nostra coscienza quando leggiamo che apostatare la fede è cosa, non solo legittima, ma perfino benemerita e lodevole.
Qualche teologo sentirà come un groppo alla gola per l’indignazione, nel leggere queste nostre considerazioni, che riterrà superficiali e dettate dall’ignoranza, e ci rimprovererà di non aver consultato un buon teologo prima di avventurarci in giudizi avventati.
E avrebbe ragione il teologo in questione, non l’abbiamo consultato, ma insieme avrebbe torto, doppiamente torto, perché dopo la tanto vantata rivalutazione del ruolo dei laici operata a partire dal Concilio, non si può ritenere un laico incapace di leggere e di comprendere i messaggi dei Papi, tanto più che essi sono rivolti al mondo intero e quindi formulati in maniera la più semplice e più comprensibile possibile. Né si può pretendere che centinaia di migliaia di cattolici perplessi e spesso sconcertati debbano e possano ricorrere a migliaia di teologi chiarificatori, magari intavolando una interminabile controversia che non porterebbe ad alcuna conclusione. È compito del Magistero insegnare ai fedeli e rassicurarli, è compito dei Papi confermare i fedeli nella fede, e nel far questo è compito loro essere semplici, precisi e inequivoci, se invece il Magistero e i Papi ingenerano dubbi, perplessità, incomprensione e perfino indignazione, di chi è la colpa? Certo non del fedele che non si rivolge a qualche teologo.

Questa prospettiva del semplice fedele è quella che informa le nostre considerazioni. I fatti che sono sotto gli occhi di tutti sono forse troppo bruti e troppo elementari perché si colga con facilità tutta la distorsione mentale, tutta la falsa ermeneutica che sta dietro di essi. Se è di questo che si tratta. Ma la pratica della fede non è fatta di continui seminari teologici e catechetici, essa si sviluppa con l’esempio, con la frequenza dei sacramenti, con l’ascolto dei pastori d’anime, con la immediata percezione dei semplici. Praticare la fede significa vivere tutti i giorni nelle nostre chiese, ascoltare i sermoni domenicali, partecipare agli incontri ecumenici e assimilare tutti i giorni concetti e idee che ci servono per condurre una vita veramente cristiana. Ed è con questa pratica che a partire dal Concilio Vaticano II sono fuggiti dalle chiese milioni di fedeli, dai conventi centinaia di migliaia di religiosi, dalle Curie centinaia di migliaia di chierici.

Ed è in questa prospettiva che continueremo a leggere alcuni passi dell’Autore che ci sono apparsi più rilevanti.

(segue)

vai alla seconda parte
vai alla terza parte




novembre 2011

AL SOMMARIO ARTICOLI DIVERSI