Conciliarismo alla riscossa

A proposito di un libro di Don Pietro Cantoni
(Riforma nella continuità. Vaticano II e anticonciliarismo)

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di Belvecchio

Nel primo capitolo: Un discorso ininterrotto, l’Autore fa notare come il discorso alla Curia di Benedetto XVI, del 22 dicembre 2005, si collochi su una linea continua di richiamo alla necessità di mantenere il collegamento fra la Tradizione e i documenti del Concilio Vaticano II. Richiamo espresso da Paolo VI già nel 1966 e da lui ribadito nel 1972, ripreso poi da Giovanni Paolo II, indirettamente nel 1985 e direttamente nel 2000. In questo modo l’Autore intende far notare che la preoccupazione per il mantenimento della continuità con la Tradizione e insieme per il rifiuto della rottura sia stata una costante del Magistero: come se tale costante fosse sufficiente a stabilire che effettivamente ci fu continuità e non rottura. In realtà, ricordare che già Paolo VI, addirittura a ridosso della chiusura del Concilio, sentì il bisogno di parlare di errore nel “supporre che il Concilio… rappresenti una rottura con la tradizione dottrinale… che lo precede”, significa confessare che già nel 1966 tale errore era tanto diffusamente praticato da richiedere l’intervento dello stesso Papa.
Da ciò si possono trarre due indicazioni più che importanti relative a questa problematica della continuità e della rottura.

La prima è dettata dal semplice buon senso: se subito dopo il Concilio venne praticata la rottura con la Tradizione, questo fu possibile solo sulla base dei documenti del Concilio, che costituivano la causa prima di tale rottura. Non sarebbe stato possibile a teologi, vescovi e cardinali praticare tale rottura senza il richiamo ai documenti conciliari. Che poi si sia parlato di “spirito del Concilio”, come se questo aleggiasse nonostante il Concilio, è cosa che attiene al piacere tutto moderno di trasformare i discorsi semplici in complicati. Che questo piacere si chiami dialettica o ermeneutica.

La seconda è costituita dalla elementare constatazione che se a 45 anni dal quel 1966 siamo ancora qui a parlare di continuità e di rottura è perché gli stessi papi non sono riusciti a porre fine alla confusione e all’errore.
Con buona pace dell’Autore che, lodevolmente, ma teoricamente, continua ad appellarsi all’insegnamento magisteriale.

L’Autore segnala poi che Benedetto XVI non si è limitato a precisare i termini della continuità e della rottura, ma ha praticato la continuità con la Tradizione con la promulgazione del Motu Proprio Summorum Pontificum.
Dice l’Autore: «il porre due liturgie… l’una accanto all’altra in piena legittimità… costituisce una sanzione più efficace e profonda di qualunque altra della falsa contrapposizione tra passato e presente che è sottesa ad ogni ermeneutica della discontinuità o della rottura» (p. 15).
Che l’Autore sia convinto di ciò che dice è implicito, ma da questo non può derivate automaticamente una ineluttabile coerenza logica.
Se ci fosse continuità tra la Messa tradizionale e quella riformata, non si comprende a che titolo la stessa liturgia romana sia stata costretta a non essere unica, ma duplice, cosa mai vista e di fatto quasi impossibile da praticare.
Lo stesso Pontefice ha voluto precisare che l’unica liturgia romana “ordinaria” è quella riformata, mentre la liturgia tradizionale è un’eccezione, è straordinaria. Se vi fosse continuità la liturgia riformata sarebbe inevitabilmente tutt’uno con la liturgia tradizionale: ma è lo stesso Papa che dice che non è così, tanto da vedersi costretto a sancire la convivenza di due cose diverse tra loro.
Si potrà pure affermare, a posteriori, che ciò nonostante la liturgia riformata non sia in rottura con la Tradizione, ma bisognerebbe spiegare allora perché a priori il Papa ha ritenuto necessario mantenerle entrambe, permettendo addirittura che parte della Chiesa, sia pure di gran lunga minoritaria, possa usare esclusivamente la liturgia tradizionale.
È sempre possibile scrivere diecine di volumi per dimostrare che non v’è rottura tra la liturgia riformata e la Tradizione, ma l’anomalia rimane: se non v’è rottura vi è continuità e se vi è continuità il ripristino della liturgia tradizionale è una anomalia. È inutile continuare a sostenere che si è trattato di un atto di generosità del Papa, perché questo non sana l’anomalia.
Certo vi sono dei cattolici che hanno gioito per il ripristino della liturgia tradizionale ed hanno dato atto al Pontefice di essere stato generoso e coraggioso (cosa paradossale, peraltro), ma questi non lo hanno fatto convinti della continuità tra liturgia tradizionale e liturgia riformata, anzi lo hanno fatto proprio sulla base del convincimento che tale continuità non esiste, mentre esiste la rottura, e lo hanno fatto sperando in cuor loro che con passi successivi si potrà arrivare, prima a stabilire che la liturgia “ordinaria” è quella tradizionale e la straordinaria è quella riformata, poi all’abrogazione della liturgia riformata.
D’altronde, la stessa tendenza alla “riforma della riforma” che cos’è se non il tentativo di conferire alla liturgia riformata tutti quegli elementi di continuità che le mancano e senza i quali resta una liturgia della rottura?
Come si vede, non è certo elogiando il Summorum Pontificum che si può dimostrare che vi è continuità tra la liturgia nata a partire dal Concilio e la Tradizione.

Nel capitolo secondo: L’intervento di Mons. Brunero Gherardini, l’Autore svolge una critica delle argomentazioni di quest’ultimo. La cosa non è particolarmente interessante, anche perché, lo abbiamo detto prima, non siamo noi i difensori di Mons. Gherardini, né spetta a noi ricordare che i suoi scritti sono stati accolti come un’opportuna chiarificazione sia dai “tradizionalisti” come li chiama l’Autore, sia dai non tradizionalisti, tanto da suscitare la critica e perfino l’ostilità dei “conciliaristi”, come è il caso del nostro Autore.
Ci soffermeremo quindi su quei passi che sembrano avere una valenza meno particolare.

Quando l’Autore precisa: «Quello che non si può assolutamente accettare è il mettere la norma remota come ultimo criterio di validità della norma prossima: questo infatti significa invertire i ruoli e vanificare proprio quello che la formula, felice o infelice che sia, intende salvaguardare», è chiaro che intende sostenere che la “norma prossima”, cioè il magistero attuale, Concilio compreso, non può essere soggetto a verifica sulla base della “norma remota”, cioè della Tradizione o, se si vuole, dell’insegnamento millenario e costante della Chiesa, poiché, secondo lui, si ricadrebbe nell’errore dei protestanti che facevano e fanno della Scrittura il “criterio di giudizio a proposito di qualunque insegnamento della Chiesa”.
Detto in altri termini, l’Autore ritiene che giudicare un documento del Concilio Vaticano II sulla base dell’insegnamento anteriore risalente all’insegnamento costante della Chiesa, sia una pretesa insostenibile, poiché la “norma prossima” non sarebbe altro che l’esplicitazione della “norma remota” attuata oggi dalla Chiesa, che va accolta come la legittima predicazione della Chiesa che: “mi dice qual è, com’è e mi interpreta l’insegnamento di sempre”.
Chiarissimo! Tanto da poter scherzosamente affermare che perfino questo scritto che stiamo esaminando è una inutile perdita di tempo, perfino sospetto di amplificare immeritatamente le proposizioni protestanti, e quindi eretiche, di Mons. Gherardini e di tutti quelli che stoltamente ne condividono le posizioni.

Peccato però che il nostro Autore, conducendosi per sentieri scoscesi, finisce inevitabilmente con lo scivolare, facendosi anche male.
Se la “norma prossima” non è suscettibile di verifica sulla base della “norma remota”, rimangono solo due possibilità: o si inverte il rapporto, per cui sarà la “norma prossima” la base per verificare la “norma remota”, cioè sarà il Concilio Vaticano II la base per verificare l’insegnamento anteriore della Chiesa, esattamente come è accaduto in questi ultimi 45 anni; o la “norma remota” non ha mai alcun valore di riferimento poiché è sempre contenuta nella “norma prossima”, il che significa che lo stesso assunto, ripetuto fino allo spasimo, dell’eodem sensu eademque sententia (nello stesso senso e nel medesimo significato), sarebbe un mero orpello stilistico ad uso degli amanti dell’eleganza verbale.
Accade però che se si è sempre raccomandato che ogni insegnamento successivo conservi sempre lo stesso significato è perché questo potrebbe anche non verificarsi, nonostante sia sempre in giuoco il magistero. Se invece si verifica e se ne parla per 45 anni, non basta una semplice petizione di principio, è necessaria una verifica e, ove occorra una correzione.
In questo non v’è nulla di scandaloso, né alcunché che faccia venire meno l’ossequio al magistero. Senza contare che una tale verifica non passa solo per le accademie dei teologi, ma anche per le parrocchie, poiché non è ammissibile che i fedeli percepiscano un insegnamento attuale come contrario all’insegnamento di sempre, posto che la preoccupazione prima del magistero dev’essere rivolta innanzi tutto alla capacità di comprensione dei fedeli.  Invece, in questi 45 anni è accaduto che tra liturgia riformata, ecumenismo conciliare, pastorale moderna ed esempi della Gerarchia, i fedeli si sono convinti che la Chiesa moderna è cambiata rispetto alla Chiesa di prima, che addirittura la Chiesa di prima era spesso in errore rispetto alla Chiesa moderna che, a detta di se stessa, sarebbe più vicina al Vangelo. Innescando un inevitabile processo di continuo “aggiornamento” che vanifica ogni insegnamento, anche quello conciliare.
Di questo dovrebbero seriamente preoccuparsi i teologi, non solo delle diatribe accademiche sul vero significato di questa o di quella espressione. Il vero insegnamento trasmesso dalla Chiesa non è quello dei documenti, ma quello percepito e praticato dai fedeli. Tranne che non si voglia sostenere che mentre il magistero continua ad insegnare impeccabilmente, i fedeli sarebbero tutti degli eretici e dei protestanti.

Nel capitolo terzo: Una molteplice rottura, l’Autore si sofferma su alcuni punti specifici.
Inizia, al punto 1, trattando del problema della Costituzione Pastorale Gaudiumet spes, considerando se “obbedisca ai principi della divina Rivelazione e della Fede o ai principi antropologici che appartennero al secolo dei lumi”, come ha scritto Mons. Gherardini.
Ovviamente, egli non ammette che si possa porre un simile interrogativo, che definisce “pesante e gravido di conseguenze” e risponde subito affermando che: «Oggi la Chiesa, in particolare con il Concilio ecumenico Vaticano II, ha accolte le istanze legittime che venivano dall’Illuminismo, la sua anima di verità (peraltro di origine cristiana) ed ha posto le basi – di fronte alle derive irrazionaliste che incombono – di una vera conciliazione tra Chiesa e modernità». Asserzione che egli basa su certe dichiarazioni di Benedetto XVI.
In effetti, forse senza volerlo, l’Autore non fa altro che rispondere all’interrogativo di Mons. Gherardini, chiarendo che la Gaudium et spes obbedisce ai principi dell’Illuminismo e non ai principi della Rivelazione e della Fede.
A nulla valgono le puntualizzazioni circa la supposta “anima di verità” dell’Illuminismo, che sarebbe il fondamento delle “istanze legittime” di questo, perché ciò che rimane nella sostanza è la “vera conciliazione tra Chiesa e modernità”. Il Concilio, insomma, avrebbe legittimamente superato tre secoli di lotta alla Chiesa condotta dai Lumi di tutte marche e tre secoli di condanne dei Papi e del Magistero che, sembra lecito supporre, non avrebbero per niente capito che i nemici della Chiesa e di Dio possedessero un’“anima di verità, peraltro di origine cristiana”, sulla quale fondavano delle “istanze legittime”.
Ci rendiamo conto che c’è una certa differenza tra il terrore della Rivoluzione Francese e la laicità attuale, ma solo un cieco può non accorgersi che il bisogno di nuova evangelizzazione di cui parla anche Benedetto XVI non è forse la diretta conseguenza dell’Illuminismo del ‘700 e dell’800, ma di certo è la conseguenza della di lui progenie, allattata con la medesima “anima di verità… di origine cristiana” tanto cara al nostro Autore.
 
Leggendo però tra le righe si comprende che l’Autore ha coscienza della insostenibilità della tesi appena enunciata, infatti mette le mani avanti ricordando che “la categoria «Illuminismo»” dev’essere intesa alla maniera del Card. Ratzinger, poiché “accanto all’Illuminismo del XVIII secolo” occorre considerare “l’illuminismo greco” e “l’illuminismo ebraico”, tale che il termine «illuminismo prende grosso modo il senso di un movimento culturale caratterizzato da una particolare stima della ragione».
Sarà una precisazione importante e culturalmente profonda, ma a noi sembra che la pezza sia peggiore del buco, poiché, non solo da tre secoli non si tratta di questo, bensì di una lotta senza quartiere a Dio e alla Sua Chiesa, ma perfino la particolare stima della ragione non basta a giustificare il bisogno del Vaticano II di conciliare la Chiesa con la modernità.

Il termine “conciliazione” indica il dato implicito della lotta, dell’opposizione: ci si concilia dopo un dissidio. Quindi anche il Concilio riconosceva che vi era stato un dissidio tra la Chiesa e la modernità, ma tale dissidio era tra Dio e i nemici di Dio e non potendosi sostenere che esso potesse aver avuto origine da Dio è evidente che era stato iniziato dai nemici di Dio, come accade fin dalla creazione. Ne deriva, inevitabilmente, che ogni conciliazione dovrà essere unilaterale al pari del dissidio: si giunge alla conciliazione quando i nemici di Dio si conciliano con Lui. Col Vaticano II invece ci si convinse che la conciliazione doveva compiersi da ambo le parti, poiché in qualche modo vi sono state le colpe della Chiesa al pari delle colpe dei nemici della Chiesa, quasi come dire che vi sono state le colpe di Dio al pari della colpe dei nemici di Dio.
Si badi bene… però! - dice l’Autore - perché qui è il Card. Ratzinger che parla, oggi Benedetto XVI… quindi! … Ah! Poveri noi! Quando ci libereremo da certa inguaribile piaggeria!
Quando oggi si sostiene, da parte di certi irriducibili cattolici tradizionali, dall’Autore assimilati ai protestanti, che il Vaticano II ha messo l’uomo al posto di Dio, non si è certo lontani dalla realtà, poiché solo umanizzando Dio ed elevando l’uomo al livello di Dio è possibile parlare di conciliazione tra la Chiesa e la modernità.

Al punto 2 l’Autore affronta l’infelice espressione del n. 22 della Gaudium et spes in cui si dice che “con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo”. Espressione in cui Mons. Gherardini coglie un errore di fede, poiché nonostante la cautela dell’“in certo modo” è chiaro l’intento del Concilio di far passare l’idea che ogni uomo sia stato redento dall’Incarnazione. Ovviamente l’Autore si affretta a presentare distinguo e precisazioni, a posteriori, ma non dice nulla sulla specificità della formulazione. In effetti, delle due l’una, o il testo è chiaro e quindi esprime un concetto non cattolico e non vero, o il testo vuole dire qualcosa di cattolico e di vero ed allora non è chiaro.
È inevitabile considerare che se il testo fu formulato in quel modo è perché i Padri conciliari ritennero che esprimesse inequivocabilmente ciò che intendevano dire e non furono neanche sfiorati dall’idea che potesse essere inteso in maniera diversa dalla loro, tale che ne deriva che intendessero esattamente affermare che il Figlio di Dio si è unito ad ogni uomo, aggiungendo “in certo modo” per impedire che si potesse pensare che tale unione fosse non solo logica, ma anche ontologica. Se così non fosse non sarebbe nata dopo il Concilio e a seguito di esso la concezione della salvazione universale derivata direttamente dall’Incarnazione di Cristo.
Il ragionamento dell’Autore, come sempre accade in questi casi, prescinde dalla comprensione dei fedeli, poiché si ferma alla disputa teologica, dimenticando che il Concilio Vaticano II, che si volle espressamente pastorale, aveva lo scopo di esporre “la dottrina certa e immutabile della Chiesa secondo quanto richiesto dai nostri tempi” (Cfr. Discorso di apertura del Concilio, di Giovanni XXII, dell’11 ottobre 1962), il che significa che i suoi testi dovevano essere facilmente comprensibili anche dai semplici fedeli, ormai in grado di accedere facilmente a tutti i documenti ufficiali della Chiesa.
I Padri conciliari questo lo sapevano e scrissero i documenti in modo che fossero chiari per tutti e non perché fossero compresi solo dopo una approfondita disputa teologica. D’altronde, se la chiarificazione dell'Autore fosse fondata, oggi, dopo 45 anni, non si parlerebbe più di argomenti come questo, poiché i dubbi sarebbero stati fugati da tempo, se invece se ne parla ancora è perché la sostanza dell’affermazione del Concilio è cosa ben diversa dagli aggiustamenti a posteriori dell’Autore, che in questo modo dimostra non di voler fare chiarezza, ma di voler difendere a tutti i costi il Concilio anche là dov’è indifendibile.

Ed eccoci al punto 3, ove l’Autore cerca di dimostrare che l’ecumenismo partorito dai documenti del Concilio, come Unitatis redintegratio, è direttamente legato al convincimento, qui ribadito, che “solo per mezzo della cattolica chiesa di Cristo, che è lo strumento generale della salvezza, si può ottenere tutta la pienezza dei mezzi di salvezza… al quale bisogna che siano incorporati tutti quelli che già in qualche modo appartengono al popolo di Dio”. Citazione che smonterebbe l’impressione dell’ammucchiata e del guazzabuglio che Mons. Gherardini ricava dai documenti conciliari. Insomma, dice l’Autore, il Concilio ha ribadito che tutti i cristiani devono tornare alla Chiesa cattolica, al “solo collegio apostolico con a capo Pietro… a cui il Signore ha affidato tutti i beni della nuova alleanza”.
Non diciamo di no. È possibile che Mons. Gherardini non sappia leggere i documenti del Concilio o, se li sa leggere non riesca a capirli. È possibile. Leggiamoli noi, allora… non perché siamo più intelligenti, ma perché non siamo né cretini, né minorati mentali.
In questa Chiesa di Dio […] nei secoli posteriori sono nate dissensioni più ampie, e comunità considerevoli si staccarono dalla piena comunione della Chiesa cattolica, talora per colpa di uomini di entrambe le parti. Quelli poi che ora nascono e sono istruiti nella fede di Cristo in tali comunità, non possono essere accusati di peccato di separazione, e la Chiesa cattolica li circonda di fraterno rispetto e di amore, (UR, 3) [traduzione: Lutero si staccò dalla Chiesa di Cristo anche per colpa del Papa… morto Lutero e cambiato il Papa, la Chiesa cattolica rispetta e ama i suoi figli eretici!].
Coloro infatti che credono in Cristo ed hanno ricevuto validamente il battesimo, […] sono incorporati a Cristo e perciò sono a ragione insigniti del nome di cristiani, e dai figli della Chiesa cattolica sono giustamente riconosciuti quali fratelli nel Signore (UR 3), [traduzione: tutti i battezzati sono fratelli in Cristo, sia che siano stati battezzati dal Vicario di Cristo, sia che siano stati battezzati dal nemico del Vicario di Cristo: l’amore umano è più forte della Chiesa di Cristo].
Perciò queste Chiese e comunità separate, quantunque crediamo abbiano delle carenze, nel mistero della salvezza non son affatto spoglie di significato e di valore. Lo Spirito di Cristo infatti non ricusa di servirsi di esse come di strumenti di salvezza, la cui forza deriva dalla stessa pienezza della grazia e della verità, che è stata affidata alla Chiesa cattolica (UR 3), [traduzione: La Chiesa è l’unica barca per la salvezza, ma per quest’ultima lo Spirito di Cristo si serve anche dei navigli corsari che la bombardano da 5 secoli].
Né si deve dimenticare che quanto dalla grazia dello Spirito Santo viene compiuto nei fratelli separati, può pure contribuire alla nostra edificazione (UR 4), [traduzione: va bene il catechismo della Chiesa cattolica, ma non trascuriamo di seguire l’esempio degli eretici].
Anche delle colpe contro l'unità vale la testimonianza di san Giovanni: « Se diciamo di non aver peccato, noi facciamo di Dio un mentitore, e la sua parola non è in noi» (1 Gv 1,10). Perciò con umile preghiera chiediamo perdono a Dio e ai fratelli separati, come pure noi rimettiamo ai nostri debitori (UR 7), [traduzione: non bisogna dimenticare che San Giovanni raccomanda a noi cattolici di chiedere perdono agli eretici perché hanno peccato contro lo Spirito per colpa nostra].
In alcune speciali circostanze, come sono le preghiere che vengono indette « per l'unità » e nelle riunioni ecumeniche, è lecito, anzi desiderabile, che i cattolici si associno nella preghiera con i fratelli separati. […] Tuttavia, non è permesso considerare la « communicatio in sacris » come un mezzo da usarsi indiscriminatamente per il ristabilimento dell'unità dei cristiani. Questa «communicatio » […] la necessità di partecipare la grazia talvolta la raccomanda. Circa il modo concreto di agire […] decida prudentemente l'autorità episcopale del luogo  (UR 8) [traduzione: dobbiamo pregare insieme agli eretici, però la «communicatio in sacris» con gli eretici non deve essere usata indiscriminatamente, ma con giudizio e attenzione… essa è però raccomandata…, ma decidano i vescovi. - La chiarezza di questa prosa è talmente abbagliante che diventa allucinante! -]
Bisogna conoscere l'animo dei fratelli separati. A questo scopo è necessario lo studio, e bisogna condurlo con lealtà e benevolenza. I cattolici debitamente preparati devono acquistare una migliore conoscenza della dottrina e della storia, della vita spirituale e liturgica, della psicologia religiosa e della cultura propria dei fratelli (UR 9) [traduzione: per essere fedeli al mandato del Signore, i cattolici devono studiare scrupolosamente e diligentemente i pensieri, le parole e le opere degli eretici: non si può essere veri cattolici se non si è ferrati in eresia].

Abbiamo colto solo alcuni elementi qua e là, perché non è questa l’occasione per una disamina di Unitatis Redintegratio, ma crediamo che bastino per dare l’idea della diversità che esiste tra il reale contenuto del documento e l’ideale immaginario dell’Autore che quasi vorrebbe far credere che in esso si ribadisca l’antico insegnamento: extra Ecclesiam nulla salus. Senza contare che si rimane stupiti di fronte al fatto che l’Autore faccia finta di non sapere come i fedeli, in questi 45 anni, hanno assimilato la concezione e la pratica ecumenica nata col Concilio, fino alla partecipazione dei loro vescovi alla communicatio in sacris in occasione dell’ordinazione delle donne nella cristianissima prassi liturgica dei protestanti fratelli in Cristo.

Ovviamente, al punto 4, non poteva mancare la precisazione circa la dichiarazione di Gaudium et spes al n. 24: L’uomo, sulla terra, è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa. Dichiarazione che si dice poggi su quanto affermato da San Tommaso al cap, 112 della sua Summa contra Gentes. Tralasciamo l’analisi approfondita del testo della GS e di San Tommaso e ci limitiamo a considerare due cose:
a) San Tommaso parla di nature intelligenti in rapporto alle nature non intelligenti, ove le prime sono volute-governate per se stesse, mentre le seconde sono volute-governate per le prime;
b) non può dirsi “creatura” e poi sostenere che Dio l’abbia potuto volere per se stessa mentre continua ad essere sempre una creatura. Per definizione, solo Dio può volersi per se stesso, se così si può dire, poiché Egli è l’Essere sussistente in se stesso e per se stesso, la creatura può essere voluta solo per Dio, poiché priva di questa relazione essa non potrebbe sussistere in alcun modo. D’altronde, se così non fosse, l’uomo sarebbe una creatura autosufficiente anche rispetto a Dio che l’ha creato, il che è una contraddizione sia in principio sia in atto.
Ancora una volta, quindi, ci troviamo al cospetto di una dichiarazione conciliare che, seppure passibile di dialettica teologica, agli occhi del fedele si presenta in una maniera talmente impropria e scorretta da far pensare che il Concilio abbia voluto semplicemente ricalcare uno dei tanti luoghi comuni illuministici per fare bella figura agli occhi del mondo, lasciando poi ai teologi il compito di divertirsi con mille precisazioni per spiegare che la dichiarazione conciliare, in realtà, intende dire il contrario di ciò che dice.
Mons. Gherardini, che è un ecclesiastico e un vecchio uomo perbene, parla di guazzabuglio, noi, che siamo dei laici un po’ beceri e un po’ irriverenti, ci permettiamo termini come “pasticciaccio brutto”.

Ed eccoci al punto 5, dove si discetta sulla dichiarazione della Lumen Gentium, al n. 1. “la Chiesa è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano”.
E i teologi si accapigliano. Il semplice fedele, invece, legge con chiarezza che il Concilio afferma che la Chiesa è, in Cristo, sacramento di salvezza dei fedeli e sacramento di unità del genere umano. Cosa che, tradotta in termini più semplici, sta a significare che il Figlio di Dio si è incarnato sia per la salvezza dei peccatori, previa la conversione, sia per l’unione planetaria del genere umano, che per sua natura prescinde dalla conversione.
Possiamo dirlo anche così: l’Incarnazione ha lo scopo di salvare l‘anima del fedele divenuto figlio di Dio per mezzo di Cristo e insieme lo scopo di realizzare il governo universale di tutti i popoli della terra che conservano la ricchezza della diversità delle religioni e degli dei nell’unità meramente umana. E potremmo dirlo in mille altri modi diversi sempre usando il linguaggio conciliare e postconciliare.
Cos’era la Cristianità, si chiede l’Autore, se non l’ideale dell’unione degli uomini in nome di Cristo? Quindi, perché scandalizzarsi?
È vero, ma la Lumen Gentium non dice questo, dice che gli ideali sono due: l’intima unione con Dio e l’unità del genere umano. Se fosse come dice l’Autore, espresso il primo, il secondo sarebbe in esso implicito, ma LG distingue e afferma che la Chiesa è sacramento di salvezza dell’uomo e sacramento di unione degli uomini. Non dice degli uomini che si sono convertiti al vero Dio. Dice “dell’unità di tutto il genere umano”, e lo dice nello spirito pastorale e quindi pratico-operativo che ha animato il Concilio fin dal suo nascere. Certo, secondo lo spirito cattolico tutti i fedeli di Cristo formano per ciò stesso una unità di principio, anche se nemmeno la Cristianità riuscì effettivamente a tanto, ma questo significa che l’unità di tutto il genere umano si realizza o si potrebbe realizzare solo dopo che tutti gli uomini sono diventati seguaci di Cristo. Ma non è questo che dice LG, in essa anzi si afferma il contrario.

Ci rendiamo conto che l’Autore fa il suo mestiere di conciliarista, ma non è inutile ricordare che l’unità del genere umano, così com’esso è, è il sogno della Massoneria e della modernità, e lo è perché è l’obiettivo dell’Anticristo, che dovrà scimmiottare la cattolicità della Chiesa con la cattolicità o universalità umana della quale lui sarà l’illusorio realizzatore.
Ci rendiamo anche conto che questa è la posizione del Vaticano, che auspica un governo mondiale, una giustizia mondiale, una legge mondiale, non cattoliche, ma mondiali (Cfr. Nota del Pontificio Consiglio, della Giustizia e della Pace, Per una riforma del sistema finanziario e monetario internazionale 
nella prospettiva di un’autorità pubblica a competenza universale, del 24.10.2011), ma questo non significa che Lumen Gentium sia nel giusto, semmai conferma che il Vaticano segue più che fedelmente il Concilio e lo spirito del mondo a prescindere dalla dottrina cattolica.

Il punto 6 è di relativo interesse, poiché tratta del famoso subsistit in di LG n. 8, del quale si è discusso così tanto e in modo così approfondito, ai livelli più diversi, che ognuno è rimasto sulle sue posizioni, a riprova del fatto che ancora dopo 45 anni e nonostante le supposte chiarificazioni della Congregazione per Dottrina della Fede, la soluzione ribadita dallo stesso Autore non  risolve alcunché. In realtà, il punto dolente è questo: se il subsistit in equivale all’est, perché non si è usato “est”? Qui l’Autore stesso ricorda che non può non essere così, data la qualità dei teologi che appoggiarono questa scelta, precisando che l’“est” fu scartato perché “sembrava non dare sufficiente ragione della presenza di elementi parzialmente ecclesiali anche al di fuori dei limiti visibili della Chiesa cattolica”.  Il che significa che la preoccupazione prima del Concilio non fu di esprimere la dottrina cattolica piena ed intera in termini più comprensibili per i nostri tempi, quanto quella di dare risposte soddisfacenti alle esigenze del moderno ecumenismo di origine protestante, anche a costo di creare dei problemi nell’esposizione della dottrina. Nessun compromesso o equivoco per l’affermazione dell’ecumenismo, tutti i compromessi e gli equivoci… lasciamoli alla dottrina cattolica.

Che dire poi della collegialità, trattata dall’Autore al punto 7, se non che essa dev’essere intesa non tanto come sostiene l’Autore stesso, e cioè come uno sviluppo di ciò che non espresse il Vaticano I (concetto invero un po’ troppo ermetico e del tutto gratuito proprio perché fondato sull’inesistente), quanto come è stata praticata dai vescovi in questi 45 anni con l’avallo di Roma: centinaia di documenti romani glissati e contraddetti dalle Diocesi e dalle Conferenze episcopali. Colpa dell’ermeneutica della rottura, dirà qualcuno, compreso l’Autore, ma di fatto con l’avallo, col beneplacito e comunque mai con la correzione di Roma. Questa è la collegialità voluta dal Concilio e a nulla valgono i richiami alla sacramentalità, perché delle due l’una: o i vescovi hanno il potere di santificare, di insegnare e di governare al pari del Papa ed allora è sacrosanto che ognuno faccia come meglio crede o questi poteri sono retti in primis dal Papa ed allora questa collegialità è anticattolica, al pari dei mancati interventi correttivi di Roma.

Quando poi, al punto 8, l’Autore si sofferma sul problema della inerranza del testo sacro, sorto dalla lettura della Dei Verbum, e sciorina una argomentazione che rivela, in tutta chiarezza, come questi documenti siano stati redatti in maniera che si “debba” interpretarli. Anziché presentarsi con la chiarezza necessaria per la comprensione dei fedeli, i documenti sono stati redatti in modo che, come dice l’Autore, “ogni corretta ermeneutica deve salvare la coerenza del testo”, di modo che può accadere, com’è accaduto in questi 45 anni, che la coerenza del testo vista da Caio legga nel documento l’inerranza di tutto il testo sacro, mentre la coerenza del testo vista da Sempronio vi legga l’inerranza solo relativamente a ciò che attiene alla nostra salvezza. Senza contare che, essendo i documenti del Concilio rivolti alla comprensione del mondo intero, un Protestante vi possa leggere una cosa, mentre un Cattolico ve ne possa leggere un’altra, magari diversa da quella che vi legge un catto-modernista. E dopo 45 anni siamo ancora qui a cercare di chiarire il vero significato di testi che si erano voluti più chiari e più rispondenti alla comprensione del semplice fedele.
Un Concilio svoltosi invano se era vera l’istanza espressa dal suo promotore, Giovanni XXII.

Lo stesso dicasi per il punto 9, ove si tratta delle fonti della Rivelazione, per le quali col Vaticano II si passa da Scrittura e Tradizione all’insieme delle due col Magistero, così da determinare una serie di confusioni che si risolvono solo col ricorso ultimativo al Magistero, cosa che in questi 45 anni ha permesso di insegnare tutto e il contrario di tutto, poiché com’è ovvio, per i conciliaristi, il Magistero è tale solo se è vivente, cioè solo se ubbidisce alla stessa legge del divenire della caducità della vita umana. Però, dice l’Autore, il testo della Dei Verbum è chiaro e non può essere interpretato in modo diverso da come l’interpreta lui. Peccato che se questo accade è evidente che il testo non è affatto chiaro, tranne che egli non voglia operare una distinzione tra lettori illuminati e ottenebrati o conciliaristi e anticonciliaristi.

Il problema si ripresenta pari pari per ciò che si è usato chiamare, con una espressione contraddittoria, progresso dogmatico, trattato al punto 10. Il Concilio ha introdotto il concetto secondo il quale l’approfondimento del dogma comporterebbe inevitabilmente l’emergere di nuovi dogmi, che non sono cose diverse dai primi, ma le stesse cose viste da punti di vista diversi, poiché, come dice l’Autore “una realtà può essere accostata da punti di vista diversi e – soprattutto – può essere sempre approfondita”.
Qui in effetti ci si dimentica che la Rivelazione e i dogmi con cui essa si presenta non sono una realtà pari a tutte le altre, cioè una realtà in divenire, ma una realtà soprannaturale che è immutabile al pari del suo Autore. Data la Rivelazione, una volta per tutte con la morte dell’ultimo Apostolo [concetto scomparso dai documenti del Vaticano II] ciò che rimane è la deficienza e i limiti della comprensione umana, tale che ogni tanto, come spesso nei primi secoli, la Chiesa si vede costretta, sulla base della Tradizione, a porre degli ulteriori punti fermi, a fissare dei dogmi, che non sono nuovi o sviluppi dei dogmi precedenti, ma sono le stesse verità contenute nella Rivelazione e al momento bisognose di essere ribadite in relazione alla incomprensione o alla distorsione dei fedeli, semplici e dotti. Il dogma dell’Immacolata Concezione della Vergine Maria, per esempio, non fu nulla di nuovo, ma precisò di cosa si trattasse realmente, vista la distorsione che si era prodotta nei secoli secondo la non nuova mentalità evolutiva tipica dell’uomo ordinario.

L’Autore riserva un capitolo a sé al problema della libertà religiosa,
Il caso serio della libertà religiosa e lo sviluppo della dottrina cristiana, cap. IV. Ove, fin dal titolo indica il modo di procedere e il convincimento di base: la dottrina cristiana è in perenne sviluppo.
Invero un “caso serio”, come dice l’Autore, poiché si presta alla dottrina la natura della vita ordinaria: lo sviluppo. In questa concezione si dà per implicito che sviluppo corrisponda a crescita e a miglioramento, dimenticando che l’accezione di sviluppo è suscettibile di essere inteso da due punti di vista diversi: uno soprannaturale e uno naturale, il primo attinente propriamente alla dottrina, il secondo alla mera esistenza.
Nel primo caso si parlerà di “sviluppo” di tutto ciò che è contenuto ab inizio, come un rotolo di carta che è uno e uno solo all’inizio e continua a rimanere sempre lo stesso solo e unico nonostante lo si srotoli per tutta la sua lunghezza: è questo il caso della dottrina espressa dalla divina Rivelazione, il cui sviluppo non implica né crescita né miglioramento.
Nel secondo caso, quello dell’esistenza, lo sviluppo obbedisce alla stessa logica, ma con una cosa in più: è ad esaurimento, poiché lo sviluppo intero di una vita porta ineluttabilmente alla morte, tale che anziché crescita e miglioramento, tale sviluppo comporta diminuzione, deperimento e morte: è questo il caso dello sviluppo evolutivo divenuto il dogma laico, e poi cattolico [dopo il Vaticano II], della modernità. Secondo tale dogma moderno, il meglio non sta all’inizio, per poi semmai affievolirsi col tempo, ma alla fine, soprattutto se l’inizio lo si consideri come uno zero, un vuoto, un nulla. E dire che basterebbe la lettura attenta del libro della Genesi per rifuggire da certe perniciose teorie suggerite dal Principe di questo mondo.

Ma veniamo al punto dolente della libertà religiosa.
Com’era inevitabile, l’Autore presenta un’intera pagina di testi a sostegno della tesi che, in tema di libertà religiosa, il Vaticano II sarebbe in continuità con la Tradizione della Chiesa. Testi che il solito cattivello Mons. Gherardini avrebbe ignorato.
È curioso come talvolta le persone intelligenti si perdano in un bicchiere d’acqua: se Mons. Gherardini non ha utilizzato questi testi, ci sarà pure un motivo, che non spetta a noi spiegare, un motivo, per esempio, legato al fatto che, come tutti sanno, le tesi di laurea si compilano partendo dalle dispense del professore e attingendo dalla bibliografia fornita dal professore. Non che manchino tesi di laurea pregevoli e di raffinata fattura, in grado di trasformarsi a loro volta in libri di testo, ma nel caso della libertà religiosa, più testi si leggono e più diventa facile prevedere quello che sta scritto nella pagina successiva. Senza contare che se per dimostrare la continuità tra la Dignitatis humanae e l’insegnamento di sempre è stato necessario compilare, fino ad ora, quasi un’intera biblioteca, è più che evidente che o questa continuità non è affatto così palese come si dice o non c’è alcuna continuità e quindi bisogna riversare nel crogiuolo tonnellate di carta per nascondere il buco vuoto che sta in fondo.
Lo stesso accade al nostro Autore, che riserva 23 delle sue 153 pagine a questa evidentissima continuità della libertà religiosa conciliare con l’insegnamento di duemila anni della Chiesa. La tesi è risaputa: il Concilio ha insegnato la dottrina di sempre aggiornandola ai tempi e seguendo lo sviluppo, la stessa sostanza presentata in forma aggiornata… e giù richiami ed esempi.
Abbiamo avuto modo di scrivere a più riprese su questa problematica, facendo notare come la dottrina del Vaticano II contrasta non solo con la dottrina della Chiesa, ma anche col semplice buon senso, quindi qui ci soffermeremo solo sui due punti richiamati dall’Autore con l’appoggio delle dichiarazioni di Benedetto XVI.
Il primo punto è costituito dalla ormai diffusa leggenda che «i martiri della Chiesa primitiva sono morti per la loro fede in quel Dio che si era rivelato in Gesù Cristo, e proprio così sono morti anche per la libertà di coscienza e per la libertà di professione della propria fede» (p. 59).
Certo che dopo l’illuminazione del Vaticano II non potevamo che leggere assurdità come queste.
Chi abbia avuto la ventura di scorrere anche superficialmente i resoconti storici di quegli accadimenti, sa benissimo che se c’era qualcuno che praticava scrupolosamente e strutturalmente la libertà religiosa, questi non erano i martirizzati, ma i martirizzatori. Il Pantheon è ancora lì a testimoniare della liberalità dei Romani: avete un Dio anche voi… beh! Mettetelo nel Pantheon… c’è posto per tutti!
Furono i Cristiani che si rifiutarono di considerare il vero Dio come un dio e si rifiutarono di usufruire della libertà religiosa, e per questo rifiuto furono martirizzati.
Iddio ci ha creati liberi, non di praticare qualsivoglia religione, ma di praticare la vera religione o di non praticarla. Nel primo caso l’uomo si assicura la vita eterna, nel secondo caso la morte eterna. I primi Cristiani preferirono la morte terrena alla morte eterna, poiché sapevano benissimo che usando della libertà religiosa si sarebbero preclusi la vita eterna. Solo il veleno del Vaticano II poteva far dimenticare questa evidenza e poteva far sì che uomini di Chiesa potessero indicare gli integralisti Cristiani dei primi secoli come portatori della libertà religiosa.
I primi Cristiani  morirono non “per la libertà di coscienza e per la libertà di professione della propria fede”, come afferma impunemente l’Autore, ma per rimanere fedeli al vero Dio, cosa che non nasceva dalla loro coscienza e dal loro libero culto, ma dalla necessità di ubbidire totalmente, fino all’effusione del sangue, all’unico vero Dio rivelato loro da Nostro Signore Gesù Cristo. Non una libera scelta, non un dettato della loro coscienza umana, ma una scelta obbligata in vista della vera vita, della vita eterna, al di là della coscienza individuale, al di là della libertà religiosa.
Chi oggi insegna che i Martiri Cristiani morirono al grido di: viva la coscienza, viva la libertà religiosa, è lo stesso che insegna che si può cambiare religione quando si vuole, che si può apostatare la fede in Dio se la coscienza lo comanda.

Il secondo punto è costituito da uno degli amori del cattolicesimo moderno: l’esaltazione della cosiddetta “laicità buona”, l’ultimo ritrovato in tema di abdicazione del munus docendi.
Dal momento che “la rivoluzione americana aveva offerto un modello di Stato moderno diverso da quello teorizzato dalle tendenze radicali emerse nella seconda fase della rivoluzione francese… [e] uomini di Stato cattolici avevano dimostrato che può esistere uno Stato moderno laico… che vive attingendo alle grandi fonti etiche aperte dal cristianesimo” – dice Benedetto XVI nel discorso alla Curia del 22.12.2005 -, ne consegue – dice l’Autore – che «la libertà religiosa è un principio essenziale dello Stato moderno e la Chiesa lo fa suo se, e solo se, non è espressione dell’incapacità dell’uomo di trovare la verità… ma piuttosto una necessità derivante dalla convivenza umana…» (p. 61).
Traduzione: dal momento che esiste l’esempio luminoso dello stato laico americano che si abbevera alle fonti etiche aperte dal cristianesimo, il Vaticano II non poteva non far sua la libertà religiosa praticata del moderno Stato laico che oggi non pratica più gli eccidi della Vandea.
Invero una prova di sudditanza psicologica e intellettuale nei confronti del mondo moderno, immaginato come esempio di tutte le libertà e di tutte le virtù civili: lì dove non riuscì la Cristianità ecco che oggi è riuscito il mondo fondato dai Padri Pellegrini… poteva la Chiesa del Vaticano II non accodarsi?
Vi è un esempio interessante che aiuta a capire il senso del buono “Stato moderno laico di ascendenza etica cristiana”, ed è il dollaro americano.
Trascuriamo tutti i richiami massonici che compongono questo simbolo nato dalla illuminata rivoluzione americana, perché sono facili da reperire e ci porterebbero fuori strada, e ci soffermiamo su una scritta presente su tutte le monete: In God we trust, noi fidiamo in Dio.
Questa scritta è da leggere in relazione all’inizio del primo emendamento della Costituzione americana: Il Congresso non promulgherà leggi che favoriscano qualsiasi religione, o che ne proibiscano la libera professione.
La scritta sulle monete ha sostituito nel 1956 la precedente scritta massonica: e pluribus unum, c’è da pensare quindi che questa democrazia laica illuminata abbia fatto un altro passo avanti verso quelle supposte fonti etiche cristiane decantate prima.
In effetti, la prima domanda che si pone è del tipo: in quale dio confidano? Visto il primo emendamento appare evidente che qui non si parli di Dio, quanto dell’idea di un dio, una sorta di concezione intellettuale umana che riconosce che in qualche modo un dio va a finire che c’è. Nulla di strano, in fondo, né di nuovo, poiché è da tre secoli che si dichiara il massimo rispetto per una qualche sorta di deità, purché non si tratti del vero Dio, che, come si predica da tre secoli nel mondo laico, sarebbe un’invenzione della Chiesa cattolica nata dall’idea geniale venuta in mente ad un certo Paolo di Tarso, orsono duemila anni.
Deismo, quindi, praticato e predicato con l’indispensabile aiuto dell’illuminata libertà religiosa che è il “principio essenziale dello Stato moderno”, il tutto rappresentato dalla citazione di Dio sul simbolo più importante del mondo di Mammona, il denaro.
Chiunque comprende che di fronte a questa evidente sottomissione alla volontà di Dio, di fronte a questa evidente prova di profonda fede, il Vaticano II non poteva rimanere insensibile e non poteva non far suo il primo emendamento della costituzione nata dalla illuminata rivoluzione americana.
Strafottenza? Irriverenza?
Forse, ma questi sono i fatti, di fronte ai quali intere biblioteche di disquisizioni sulla supposta continuità tra libertà religiosa del Vaticano II e dottrina della Chiesa, non sono altro che semplice carta stampata.

La libertà religiosa è illogica di per sé, poiché qualunque fedele, di qualunque religione, vera o falsa che sia, sa che il credere in Dio non è una opzione, ma una necessità, un obbligo, un dovere morale nei confronti di se stessi, e perfino l’animista si rifiuta di accettare che possa esserci un altro dio che non sia il suo, poiché diversamente in che cosa o in chi crederebbe veramente? Il cattolico, invece, sa che esiste un solo vero Dio, Padre di Nostro Signore Gesù Cristo, che egli ha il dovere di farlo conoscere a tutti, se poi qualcuno non crede liberamente in Lui dopo esserne venuto a conoscenza, costui non può e non deve essere obbligato a credere, ma nemmeno può essere lasciato libero di andare a dire in giro che è lecito non credere in Dio… figuriamoci se poi questo qualcuno è lo Stato… e figuriamoci se poi questo qualcuno è il Papa.

Secondo la sana concezione cattolica, se un uomo sceglie liberamente di vivere senza Dio, va tollerato come il corpo sano tollera pazientemente la malattia, pregando il Signore per la sua conversione e la salvezza della sua anima. Se poi questa sua scelta diventa una bandiera, tanto da condizionare la vita ordinata della società, come accade con lo Stato moderno, e da mettere a rischio la salute spirituale dei fedeli, massimamente dei giovani, costui dev’essere considerato per quello che è: un nemico di Dio e un pericolo per la società, e come tale dev’essere ripreso, e se necessario impedito dallo Stato.

Un’ultima annotazione su questa incredibile “libertà religiosa”.
Questo concilio vaticano dichiara che la persona umana ha diritto alla libertà religiosa… il diritto alla libertà religiosa si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana, quale si conosce, sia per mezzo della parola di Dio rivelata sia per mezzo della stessa ragione (DH, 2).
Nel 1999 scrivemmo un modesto commento su questo documento del Concilio, e facemmo notare che non eravamo riusciti a trovare nel documento stesso, una sola frase o un solo riferimento scritturale che giustificasse una tale asserzione. Sono passati 12 anni… stiamo ancora cercando! Oggi come allora questa dignità che ci sarebbe stata resa nota dalla parola di Dio è una semplice frase buttata lì, offerta alla fiducia del fedele.
D’altronde, a leggere attentamente, qui si dice che la persona umana ha diritto alla libertà religiosa e che questo diritto si fonda sulla dignità della persona umana stessa; il che significa che è la dignità della persona umana che fa sorgere quel tal diritto.
Ma cos’è questa dignità della persona umana?
Se non si tratta della dignità morale e spirituale che corrisponde a quanto richiamato nel prologo del Vangelo di San Giovanni: la dignità dei figli di Dio che sono tali solo se credono e aderiscono al Figlio Unigenito… se non si tratta di questo, si può trattare solo della dignità naturale e materiale, la stessa dignità che ha un animale, una pianta o una pietra. Facciamo una gran fatica a capire come da una tale dignità possa scaturire un qualsivoglia diritto.
Tanto più che questa idea non può escludere che se uno volesse praticare la religione di Satana, non solo ne avrebbe il diritto, ma tale diritto gli verrebbe riconosciuto anche dalla Chiesa cattolica sulla base del Vaticano II. Certo, è implicito che l’esercizio di un tale diritto non debba comportare l’arrecare danno ad alcuno, ma se un adoratore di Satana non fa alcun male visibile, ma inevitabilmente ogni altro male spirituale, chi mai potrà impedirgli di esercitare questo suo diritto malefico?
È sulla base di questo principio della libertà religiosa fondata sulla dignità della persona umana che il mondo moderno alimenta ogni sorta di male spirituale, e il fatto che la Chiesa, col Vaticano II, abbia adottato tale principio, la rende complice del diffondersi di questi mali, e la rende anche cieca al punto da convocare tavole rotonde, o quadrate che dir si voglia, insieme a miscredenti, seguaci del demonio e semplici indifferenti.

Se poi qualcuno vuol vedere in tutto questo una qualche continuità con Gesù Cristo, con gli Apostoli e con i Padri della Chiesa, padronissimo… ma non chieda agli altri cattolici di condividere una simile impossibilità, e non lo chieda né in veste di laico, né in veste di chierico, né in veste di vescovo, né in veste di papa… né con parole, né con scritti. Sarebbe come chiedere di credere che Gesù non abbia cacciato, ma abbia abbracciato Satana nel deserto, per il semplice fatto che essendo stato creato da Dio non poteva non mantenere la sua dignità di angelo.


(segue)

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febbraio 2012

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