DANTE E LE CAPRIOLE DI RENÉ GUÉNON


Parte terza


di L. P.


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nato a Blois, Francia, il 15 novembre1886
René Guénon




Morto a Il Cairo, Egitto, il 7 gennaio1951
col nome di Shaykh 'Abd al-Wahid Yahya




Concludiamo, con questo intervento, la breve carrellata critica, condotta sul testo guénoniano “L’esoterismo di Dante”, cogliendo l’autore nell’ultima delle tante capriole esegetiche con cui ha, maldestramente, tentato di collocare il Poeta in una buia nicchia del ridicolo pantheon del misterico.  
   
Dopo le labirintiche ricognizioni operate sopra sigle, anagrammi, acronimi, parole dette “di passo”, non poteva mancare quella sui numeri simbolici, materiale che Guénon prende dagli studi di Rodolfo Benini (1862 – 1956), fantasioso autore che un gruppo di studio, coordinato da Umberto Eco, impietosamente disseziona, e smonta, al capitolo 5 dell’opera “L’idea deforme” ed. Bompiani 1989. (Curiosità: il titolo del saggio collettivo altro non è che l’anagramma del sintagma “fedeli d’amore”).

Dunque, veniamo all’occultismo numerologico.
Che la Commedia sia intelaiata sul ritmo di 3 è cosa che non si ammanta di esoterismo dal momento che la cadenza ternaria – tre cantiche, 99 canti più 1 introduttivo, 9 cerchî infernali, 9 balze purgatoriali (7 +2), 9 cieli, terzina in terza rima – rimanda, come è noto, alla bellezza e alla perfezione formale e sostanziale della Santissima Trinità.
Non è, pertanto, il numero 3 che possa proporsi come chissà quale chiave di altrettale chissà quale porta ermetica visto che è lo stesso Poeta, in diversi passi della Vita Nuova, a rivelare la simbolica sacralità del 3 e dei suoi multipli 9 - 18.
Sono, allora, altri i numeri che Guénon prende in considerazione estraendoli dalla bisaccia di Benini, di cui condivide l’interesse per un’indagine sapienziale.

Ed ecco, allora, emergere la misteriosa e sottile simbologia del 7, dell’11, del 22 e del 33. Quanto al 7, Guénon, dopo averne ricordato la corrispondenza con i pianeti (7 per l’appunto) - cosa che ci riesce difficile incasellarla nel repertorio della scienza sublime – ci rivela che tale numero, per il suo stretto legame col 22, altro non è che “espressione approssimativa del rapporto della circonferenza al diametro, sicché l’insieme di questi due numeri rappresenta il cerchio”. Guénon, bontà sua, pur non riconoscendo a siffatta nozione quella eminenza sapienziale che le attribuisce Benini, se ne serve per planare sull’11 di cui ricorda essere la misura del verso endecasillabo, un “valore simbolico particolare” in quanto generatore del 33 (somma delle sillabe di una terzina). E continua affermando come l’11 “rappresentava una parte considerevole nel simbolismo di certe organizzazioni iniziatiche…  22 è il numero delle lettere dell’alfabeto ebraico, e si sa quale importanza abbia nella Kabbala; 33 è il numero degli anni della vita terrestre del Cristo, che si ritrova nell’età simbolica del Rosa-Croce massonico, e anche nel numero dei gradi della Massonerìa scozzese; 66 è, in arabo, il valore numerico totale del nome d’Allah e 99 il numero dei principali attributi divini secondo la tradizione islamica”.

Guénon, nomade dell’esperienza religiosa – cristiano, gnostico, massone, buddista, induista e mussulmano – tenta di accreditare il Poeta quale multiforme anticipatore di dottrine spurie facendone addirittura un kabbalista, lui, Dante – e lo scrivemmo nella prima parte di questa nostra recensione – ignaro di greco, di ebraico e di arabo.
A noi, Guénon, dà l’impressione di un ingenuotto che, davanti alla struttura numerale della Commedia, si esalti per le ricorrenze ternarie viste quali meccanismi arcani in cui vive e ferve un messaggio criptico decifrabile dai soli eletti, in questo caso lui e Benini.

Certamente, c’è nell’intelaiatura della Commedia, un sapiente lavoro di simmetrìe, di corrispondenze, di eleganza retorica, di formalità dialettica e semantica che si palesa come geniale piano compositivo, al servizio di un pensiero – questo sì, altissimo e sublime – vestito da una tecnica metrica di raffinata tessitura quale si addice a un estro poetologico di rara reperibilità. Ma ciò è del tutto visibile e niente affatto di occulta significazione.

Ma c’è dell’altro, qualcosa che mescola numeri e lettere, di cui mette conto ragguagliare. Parliamo del famoso passo – Pg. XXXIII, 43 – in cui Beatrice annuncia a Dante il futuro avvento di un giustiziere, messo di Dio, che ucciderà la prostituta (Curia della Chiesa) e il gigante a lei avvinto (Potere temporale), “un cinquecento diece e cinque”  da trascriversi DXV ma che Benini, per comodità di interpretazione scombina in DVX, ravvisando in questo 500/10/5 gli addendi della somma risultante, 515.
Su questo intreccio di lettere e numeri romani, il duo Benini/Guènon – e, con loro, la pletora dei sommozzatori dell’occulto – si distendono nell’esegesi di un DVX che Benini decifra in “Dante Veltro di Cristo” mentre di contro Guénon, nel ravvisare il numero 11 quale valore riassuntivo di 515, vi intravede la concezione generale che Dante si fa dell’Impero e con ciò alludendo ad Enrico VII di Lussemburgo.

Ma c’è, tuttavìa, in questa tenzone esegetica qualcosa che butta all’aria e spariglia le carte delle due ipotesi. C’è, infatti, quell’UN che Beatrice antepone al ‘cinquecento diece e cinque’ che, trascritto in numeri romani, si rivela come IDXV e in cifre moderne 1+500+10+5, vale a dire1515, vanificando tanto il DVX di Benini che la somma 11 che ne fa Guénon, a fronte di un 12 di nulla valenza.

Noi ci fermiamo qui – ne ultra – ritenendo come corretta la trascrizione ultima data, cioè IDXV = 1515, astenendoci dall’inoltro in àmbiti di difficile interpretazione ove tutto è opinabile e serio allo stesso tempo.
Dante, nel creare l’ipostasi dell’IDXV aveva ben presente la reale personalità nascosta nella cifra, quella che era apparsa, come VELTRO, all’inizio del cammino spirituale (Inf. I, 101).
Resta un enigma ma, con esso, una poesìa di altissima tensione che adorna ed esalta la splendida e ferrea ortodossìa cattolica dantiana ancorata alla Tradizione.

Tirando le somme, ci sembra di poter dire che a tanto scialo di energie e di erudizione, a tanta abilità acrobatica fine a sé stessa, il risultato che, dall’opera di Guénon, vien fuori può, senza ombra di dubbio, definirsi con l’ironica battuta oraziana (Ars poetica, 139): “Parturient montes, nascetur ridiculus mus” – partorirà la montagna e nascerà un ridicolo topolino.
E ciò basti.
Claudite iam rivos pueri, sat prata biberunt,” (Buc. 3, 111)





luglio 2019

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