S. Ecc. Mons. Bernard Tissier de Mallerais
della Fraternità Sacerdotale San Pio X


IL MISTERO DELLA REDENZIONE

SECONDO BENEDETTO XVI


PARTE SECONDA


Questo studio è stato pubblicato sul n° 67 (inverno 2008- 2009) della rivista Le Sel de la Terre - Intelligence de la foi -  Rivista trimestrale di dottrina tomista a servizio della Tradizione
La rivista, curata da Padri Domenicani collegati alla Fraternità Sacerdotale San Pio X, è una pubblicazione cattolica di scienze religiose e di cultura cristiana, posta  sotto il patronato di San Tommaso d’Aquino, in forza della sicurezza della dottrina e della chiarezza d’espressione del “Dottore Angelico”. Essa si colloca nel quadro della battaglia per la Tradizione iniziata da
Mons. Marcel Lefebvre e si presenta in maniera tale da potersi rivolgere ad ogni cattolico che voglia approfondire la propria fede.


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La traduzione e l'impaginazione sono nostre
Lo studio in formato pdf

(su)
Un Dio corrucciato che esige un sacrificio umano?


Non c’è da stupirsi del fatto che l’opera di giustizia verso Dio – che è al tempo stesso un’opera di giustizia di Dio -, cioè la soddisfazione dell’uomo per il suo peccato,  presupponga una precedente opera di misericordia di Dio, un beneficio gratuito, un dono di Dio. La soddisfazione dell’uomo si basa sul dono divino del Soddisfattore. Deo gratias!
Ma qui rileviamo un’obiezione dell’obiettore sine affectione contro il rigore della giustizia divina:

Da molti libri di devozione, s’infiltra così nella coscienza proprio l’idea che la fede cristiana nella croce immagini un Dio, la cui spietata giustizia abbia preteso un sacrificio umano, l’immolazione del suo stesso figlio. Per cui si volgono con terrore le spalle ad una giustizia, la cui tenebrosa ira rende inattendibile il messaggio dell’amore (19).

L’aporia del «sacrificio umano» non è ignorata da san Tommaso: nei sacrifici dell’antica Legge, che erano delle prefigurazioni di quello di Cristo, non si offriva mai della carne umana, tanto più che tali sacrifici erano considerati innominabili. Il Dottore angelico lo spiega:

Sebbene la verità corrisponda in parte alla figura, non le corrisponde però in tutto; perché la realtà deve superare la figura che la rappresenta. Era giusto quindi che figura di questo sacrificio, in cui viene offerta per noi la carne di Cristo, fosse non la carne umana, bensì la carne degli animali che prefiguravano tale offerta, la quale costituisce così il sacrificio assolutamente perfetto. Primo, perché trattandosi di un corpo appartenente alla natura umana, la sua offerta è proporzionata agli uomini per i quali viene sacrificato, e dai quali viene assunto sotto forma di Sacramento. Secondo, perché essendo una carne passibile e mortale, era adatta all'immolazione. Terzo, perché essendo senza peccato, la carne di Cristo era capace di purificare dai peccati. Quarto, perché essendo la carne dell’offerente medesimo, era accetta a Dio per la carità con la quale egli l’offriva (III, q. 48, a. 3, ad 1).

Joseph Ratzinger ha manifestamente dimenticato queste parole di San Paolo, ripetute nella liturgia della Settimana Santa: «Proprio Filio suo non pepercit Deus, sed pro nobis omnibus tradidit eum (Dio non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi)» (Rm. 8, 32). Nessuna crudeltà appare nell’atto del Padre che consegna  alla morte suo Figlio per noi tutti. Cosa che san Tommaso commenta così:

Cristo, come abbiamo detto, ha patito volontariamente in obbedienza al Padre. Perciò si può dire che il Padre ha consegnato Cristo alla sua passione in tre modi. Primo, perché col suo eterno volere ha preordinato la passione di Cristo alla redenzione del genere umano, secondo le parole di Isaia: …(Is. 53, 6 e 10)… - Secondo, perché ispirò in lui la volontà di soffrire per noi, infondendogli la carità. Di qui le parole del profeta (v. 7): “È stato immolato perché lo ha voluto”. - Terzo, perché non lo sottrasse alla passione, ma lo espose ai persecutori (III, q. 47, a. 3).
Consegnare alla passione e alla morte un innocente contro la sua volontà – aggiunge san Tommaso - è cosa empia e crudele. Ma Dio Padre non così consegnò Cristo, bensì infondendo in lui la volontà di patire per noi. E in ciò si mostra da una parte “la severità di Dio” [Rm. 11, 22], il quale non volle rimettere il peccato senza un castigo, […] e dall'altra “la sua bontà”, poiché, non potendo l’uomo soddisfare con qualsiasi sofferenza, Dio gli provvide un redentore capace di soddisfare (Rm. 3, 25; 8, 32) [III, q. 47, a. 3, ad 1].

Nessuna inesorabile crudeltà, dunque, nessuna oscura collera appare nella consegna del Figlio incarnato, dal Padre votato alla morte, ma solo bontà e giustizia governate da una saggezza che la teologia porta ad adorare, non a caricaturare!
(su)

La croce di Cristo: placare Dio o placare l’uomo?

Ma siccome in tutta una lunga serie di testi biblici e anche del Nuovo Testamento si sostiene effettivamente la soddisfazione per i nostri peccati, offerta in giustizia al posto nostro da Gesù a Dio, suo Padre, il teologo Ratzinger, come abbiamo visto, è costretto ad ammetterla, tentando in extremis una reinterpretazione.
Non si nega la dottrina rivelata, la si reinterpreta:

La croce vi compare invece proprio come espressione indicante la radicalità dell’amore che si dona interamente […] Non è l’uomo che s’accosta a Dio tributandogli un dono compensatore, ma è Dio che si avvicina all’uomo per accordarglielo. Per iniziativa stessa della sua potenza amorosa, egli restaura il diritto leso, giustificando l’uomo colpevole mediante la sua misericordia creatrice e richiamando alla vita la creatura morta. […] il Nuovo Testamento non dice che gli uomini si riconcilino con Dio […] Ci dice invece che «Dio in Cristo ha riconciliato con sé il mondo» (2 Cor. 5, 19). […] nel cristianesimo anche il culto e l’intera esistenza ricevono un nuovo indirizzo (20).

L’amore di Cristo sarebbe restauratore, non riparatore: esso restaurerebbe l’uomo colpevole, senza riparare all’ingiustizia commessa verso Dio. Il peccato non sarebbe un’ingiustizia verso Dio, ma verso l’uomo stesso. Basta quindi riparare l’uomo. Dio placherebbe l’uomo senza che l’uomo abbia bisogno di placare Dio. La riconciliazione sarebbe a senso unico: un’offerta di Dio all’uomo; offerta dell’amore gratuito, consegna nuda e cruda del Figlio di Dio alla morte crudele, senz’altra ragione che il dimostrare la pura gratuità de «il gesto dell’amore che tutto dona» (21).
Joseph Ratzinger mantiene la sua soppressione della soddisfazione operata da Cristo e passa sotto silenzio anche i meriti di Cristo, il valore meritorio della sua passione; resta solo l’Amore, di cui si ignora come possa «rivivificare» l’uomo peccatore: per la sua gratuità? Per la sua esemplarità? Per la sua attrazione? Questo «gesto dell’amore che tutto dona» riveste un carattere enigmatico; si ripiomba con inquietudine nella gratuità esistenzialista e nella formalizzazione trascendentale con cui il teologo di Tubinga ammanta la carità di Cristo.
Non v’è più della crudeltà in questa consegna gratuita del Figlio eterno alla morte, senz’altra ragione che il consegnarsi e il darsi fino all’estremo, in questa volontà di consegnarsi come sacrificio espiatorio, volontà che il Padre eterno ispira al suo Figlio incarnato?
Quanto meno, l’amore compensazione è più intelligibile e più umano dell’amore esodo!
Ancora una volta, se avesse saputo apprezzare san Tommaso, Joseph Ratzinger avrebbe riconciliato ciò che invece separa: la giustificazione dell’uomo peccatore e il placamento di Dio, che sono i due elementi indissociabili della riconciliazione dell’uomo con Dio:

La passione di Cristo è causa della nostra riconciliazione con Dio per due motivi. Primo, perché cancella il peccato, dal quale gli uomini sono resi nemici di Dio, come si legge ripetutamente nella Scrittura: “Dio odia ugualmente l’empio e la sua empietà” [Sap. 14, 9]; “Tu hai in odio quanti operano l’iniquità” [Sal. 5, 7].
Secondo, perché essa è un sacrificio graditissimo a Dio. Effetto proprio, infatti, del sacrificio è di placare Dio [ut per ipsum placetur Deus]: come l’uomo, del resto, talora condona l’offesa ricevuta per un gradito atto di ossequio [obseqium]che gli viene prestato. Di qui le parole della Scrittura: “Se il Signore ti eccita contro di me, gradisca il profumo del sacrificio” [1 Sam. 26, 19]. Ora, che Cristo abbia patito volontariamente fu un bene così grande, che per codesto bene riscontrato nella natura umana Dio si è placato per tutte le offese ricevute dal genere umano, rispetto a quanti sono uniti al Cristo sofferente nella maniera che sopra abbiamo indicato [uniti per la fede e i sacramenti della fede] (III, q. 49, a. 4).

Certo, il sacrificio di Gesù Cristo fu «graditissimo a Dio» soprattutto a causa dell’estrema carità dell’offerente e della vittima, ma non bisogna dimenticare o deprezzare la materia stessa del sacrificio: le sofferenze e la morte di Gesù, che sono l’esercizio della sua carità. È del legno della croce che si è alimentata la carità di Cristo. Per ardere, la fiamma aveva bisogno di questa materia.
(su)

Ragion d’essere della pena per il peccato e della soddisfazione penale secondo san Tommaso

Non v’è dubbio che la carità di Cristo sia l’elemento principale della sua opera redentrice, ma non bisogna omettere soprattutto l’elemento subordinato e nondimeno indispensabile: l’espiazione penale del peccato. Questa è affermata molto bene nella Sacra Scrittura, per esempio con la figura del Servo di Dio sofferente, il Messia, secondo il profeta Isaia:
Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti (22).

In effetti, san Tommaso nel peccato vede un doppio movimento: il primo, un movimento d’orgoglio (aversio ad Deo), il secondo, un movimento di concupiscenza (conversio ad creaturam): fu così per il peccato dei nostri progenitori (sarete come dei… lei vide che il frutto era buonoGen. 3, 5-6). Ed è così per ogni peccato mortale. Il primo movimento ha reso l’uomo indegno della visione divina, il secondo lo rende incapace di questa a causa dell’ostacolo dell’attaccamento disordinato alla creatura.
L’atto di contrizione di un singolo uomo ha il duplice effetto di riparare a questo doppio movimento disordinato del peccato:

«La contrizione, con la sua carità, distrugge la colpa, mentre per il suo dolore agisce per assolvere la pena.» (III Sent. D. 20, a. 3, ad 5).
Così, la carità distrugge l’aversio a Deo e la pena distrugge l’adesione alla creatura. Fintanto che la pena non è assolta, rimane un ostacolo per ottenere la gloria (vedi III, q. 48, a. 1, ad 2; De Veritate, q. 29, a. 7).

La passione di Gesù Cristo restituirà all’uomo sia la dignità sia l’attitudine alla gloria: la sua carità prenderà il posto dell’aversio e meriterà la salvezza; la pena corporale sopportata nell’obbedienza contribuirà a riparare il movimento della conversio; e così si troverà restaurato l’ordine universale, voluto dal creatore e infranto dal peccato originale (23).

Con il peccato, l’uomo non ha sottratto a Dio un bene proprio, poiché Dio, infinitamente felice in se stesso, non può essere privato di alcuna beatitudine: Dio non è leso secondo la giustizia commutativa. Ecco tutta la difficoltà della comprensione teologica del peccato e di quella della riparazione. Per non aver voluto affrontare esplicitamente questa difficoltà, Joseph Ratzinger vede nel peccato solo l’aversio a Deo ed elude la conversio ad creaturam; egli pecca di angelismo.
L’offesa del peccato nei confronti di Dio non è dunque consistita nel privare Dio del suo bene, nel diminuire la sua gloria essenziale, ma è consistita nello sconvolgimento dell’ordine voluto dal Creatore, ordine che consiste nell’ordinazione della natura umana (e di tutte le nature create) a Dio come al suo fine ultimo (24). Questo concerto delle creature che rendono lode al Creatore è ciò che si chiama la gloria esterna di Dio; sottraendovisi con l’aversio a Deo e la conversio ad creaturam, l’uomo ha violato l’ordine della sua natura e con esso l’ordine dell’universo. Quest’ordine costituisce, secondo san Tommaso, una sorta di giustizia per la quale tutte le parti del tutto sono ordinate tra loro e ordinate e sottomesse a Dio, fine ultimo di tutto e bene comune separato dall’universo. A questo proposito, qui è bene citare san Tommaso, per collocare esattamente in che il disordine del peccato offende Dio: essendo opposto alla giustizia.

Il termine «giustizia» indica un certo stato particolare secondo il quale l’uomo si trova nell’ordine richiesto, rispetto a Dio, rispetto al prossimo e rispetto a se stesso: esso consiste nel fatto che in lui le potenze inferiori si trovano sottomesse alle facoltà superiori: è ciò che il Filosofo chiama, nel V libro dell’Etica [ultimo capitolo], giustizia metaforica: essa riguarda le diverse facoltà di una stessa persona, mentre la giustizia propriamente detta esiste sempre tra persone diverse [De Veritate, q. 28, a. 1].

Nella Summa teologica, il Dottore angelico perfeziona la sua spiegazione:

Ma poiché la giustizia nel suo concetto implica rettitudine di ordine, essa si può prendere in due sensi diversi. Primo, in quanto implica un ordine retto nell’atto medesimo dell’uomo. E in tal senso, come insegna Aristotele, la giustizia è una speciale virtù: sia che si tratti della giustizia particolare, che ordina rettamente l’atto di un uomo in rapporto a un’altra persona singola; sia che si tratti della giustizia legale, che ordina rettamente gli atti di un uomo in rapporto al bene comune della collettività, secondo il libro V dell’Etica. Secondo, la giustizia può indicare una rettitudine di ordine nella stessa interna disposizione dell’uomo: cioè la subordinazione della sua parte superiore a Dio, e quella delle potenze inferiori dell’anima alla facoltà suprema, ossia alla ragione. E questa disposizione, nello stesso libro V dell’Etica, anche da Aristotele è chiamata giustizia “metaforica”. (I-II, q. 113, a. 1).

Questa giustizia dell’ordine interiore delle facoltà dell’anima umana è detta “metaforica” perché la giustizia propriamente detta è da persona a persona (o giustizia commutativa). Di contro, la subordinazione della ragione superiore dell’uomo a Dio – per la grazia santificante – è una giustizia in senso proprio, una giustizia verso Dio: dall’uomo a Dio vi è un dovere di giustizia commutativa: l’uomo deve rendere a Dio l’equivalente di ciò che ha ricevuto da Lui e restituirGli ciò che Gli ha rubato col peccato.
Ora, in questo dovuto vi è una doppia difficoltà: innanzi tutto il bene che consiste nel  fatto che l’uomo sia stato tratto dal nulla dal Creatore e che è qualcosa di infinito, che genera un debito infinito: «Quid retribuam Domino pro omnibus quae retribuit mihi?» esclama il salmista: «Che cosa renderò al Signore per quanto mi ha dato?» (Sal. 115, 12). Del pari, il peccato genera nell’uomo un nuovo debito infinito a causa dell’infinita dignità di Dio che viene offesa, cosa che fa del peccatore un debitore insolvibile e che ci fa pregare nel Pater: «rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori!» (Mt. 6, 12). Tutto quello che l’uomo potrà rendere a Dio non sarà mai secondo una stretta giustizia, ma in base all’accettazione di Dio, a meno che non intervenga l’Uomo-Dio…
A questa prima difficoltà della nostra giustizia verso Dio se ne aggiunge una seconda: anche se Dio è un essere personale (tre Persone), Egli non è realmente toccato dalle sue creature, né da ciò che accade in esse. « Perciò in Dio non c’è una relazione reale alle creature. Ma nelle creature c’è una relazione reale a Dio: essendo contenute sotto l’ordine divino, e dipendendo nella loro natura da Dio». (I, q. 28, a. 1, ad 3). È rompendo la sua dipendenza morale da Dio – la sua ordinazione a Dio – e rovesciando di conseguenza l’ordine interiore delle sue facoltà, che l’uomo offende Dio col peccato. Ed è restaurando questi due ordini che Cristo ha «operato ogni giustizia» (Cfr. Mt. 3, 15): con la sua volontaria sottomissione alla volontà di suo Padre e con la risoluzione delle nostre pene per mezzo delle sue sofferenze.
Lo stesso principio si può formulare diversamente traendone la stessa conseguenza. Dio, come Creatore, ha un diritto sulle sue creature, anche se da esso non trae alcun vantaggio: semplicemente il diritto all’ordinazione delle creature a se stesso: con questa ordinazione Egli le perfeziona e manifesta la sua bontà. È ciò che insegna ancora san Tommaso e che a Joseph Ratzinger avrebbe fatto bene apprezzare di più:

A Dio è dovuto che nel creato si attui quello che la sua sapienza e la sua volontà hanno determinato, e ciò che manifesta la sua bontà. E, sotto questo aspetto, la giustizia di Dio riguarda il proprio decoro [ciò che a lui si conviene] per cui egli rende a se stesso quello che a lui si deve [I, q. 21, a. 1, ad 3].

Per la giustizia di questa ordinazione delle creature a se stesso, Dio manifesta dunque la sua bontà, la sua carità; che irradia attraendo le creature a se stesso, facendo così trovare loro la loro perfezione.
Ora, Dio ci tiene a manifestare la sua bontà (Si veda il Concilio Vaticano I, Costituzione Dei Filius, DZ 1783), il peccato dunque offende Dio oscurando questa manifestazione della bontà divina.
La soddisfazione compensatrice offerta a Dio Padre dal Redentore ha quindi dovuto consistere globalmente nell’offerta di un atto che fosse gradito a Dio più di quanto gli fosse stato sgradito il disordine universale della natura umana: tale fu la passione di Cristo, animata da una carità eccellente, e che ha offerto una vita dalla dignità infinita, la vita dell’Uomo-Dio. Ma la soddisfazione è anche consistita specialmente nella risoluzione della pena temporale che, sopportata per obbedienza, avrebbe riparato in modo particolare il movimento disordinato della conversio ad creaturam, avrebbe operato cioè il distacco volontario delle creature e lo sradicamento della volontà in preda alle passioni.
Val bene la pena di ripetere: la soddisfazione di Cristo (e la nostra in dipendenza dalla sua) significa: o che la bontà dell’opera di Cristo nella sua passione riequilibra la malizia del peccato ed è sufficiente per ripararlo, o che essa indica in modo particolare la distruzione del peccato nel suo disordine immanente all’uomo, grazie al sostegno di una pena temporale, caso questo che è più frequente in san Tommaso (25).
Il ruolo ad un tempo vendicativo e medicinale della pena del peccato, e dunque della soddisfazione per la conversio ad creaturam, è descritto spesso da san Tommaso:

Perché l’ordine della giustizia sia ristabilito, è necessario rimproverare alla volontà ciò che essa brama: questo si realizza con la pena, che, o priva dei beni che si vorrebbero possedere o infligge dei mali che non si amerebbe subire (26).
È solo con la pena che il disordine del peccato è ricondotto all’ordine della giustizia. Infatti, è giusto che colui che ha concesso alla sua volontà più soddisfazioni di quante dovutole, abbia a soffrire qualcosa di contrario alla sua volontà. È così che si avrà l’uguaglianza (27).
Dio non infligge dei castighi per se stessi, come se vi si compiacesse, ma si propone un fine, che è quello di sottomettere le creature all’ordine, che costituisce il bene dell’universo (28).
(su)


Una metafisica sublime fonda la soddisfazione penale

Dietro il principio morale dell’espiazione penale, vi è tutta una metafisica sublime (29); il potente genio del Dottore angelico la coglie per induzione a partire dalla compensazione spontanea del disordine che si realizza nei diversi ordini della natura:

Sia nel mondo fisico che in quello umano si verifica il fatto che chi insorge contro una cosa deve subirne la rivincita. Infatti vediamo nel mondo fisico che le energie contrarie agiscono con più forza quando si incontrano: ecco perché, a detta di Aristotele, “l’acqua riscaldata viene congelata con più forza” (30). Perciò anche fra gli uomini avviene, secondo la naturale inclinazione, che uno tenti di umiliare chi insorge contro di lui. Ora, è evidente che tutte le cose racchiuse in un dato ordine formano come una cosa sola rispetto al principio di esso. Dal che deriva che quanto insorge contro un dato ordine viene represso dall'ordine medesimo, oppure da chi lo presiede. E siccome il peccato è un atto disordinato, è chiaro che chi pecca agisce sempre contro un dato ordine. E ne segue che dall'ordine medesimo deve essere represso. E codesta repressione è la pena (31).

È su questo stesso principio metafisico che si fonda anche il diritto degli Stati cattolici di reprimere i pubblici culti errati, al fine di salvaguardare l’ordine del bene comune temporale, esso stesso ordinato alla salvezza eterna delle anime. Ma questa è solo una parentesi.

Tornando alla soddisfazione, il suo ruolo particolare ed essenziale di espiazione penale, nella visione trascendentale di Joseph Ratzinger sparisce completamente. La sua ermeneutica del mistero della croce, alla maniera dell’amore «a priori» kantiano, sopprime conseguentemente, nella spiritualità cristiana, l’ascesi, la mortificazione, la rinuncia e lo spirito di sacrificio, senza i quali tuttavia non si potrebbe avere, nello stato presente dell’umanità, una vera carità.

L’angelismo di Joseph Ratzinger culmina nella sua visione della morte di Cristo sulla croce, vista come «espressione indicante la radicalità dell’amore che si dona interamente» (32). Questa sublimazione della morte ha il torto di omettere la materialità della morte, la separazione dolorosa e angosciante dell’anima e del corpo, come dimostra l’agonia di Gesù nell’Orto degli Ulivi e come lascia supporre la lenta agonia sulla croce, oggetto della contemplazione cristiana. E la profonda convenienza penale della morte di Cristo nella sua materialità è mirabilmente riassunta da san Tommaso:

La soddisfazione di Cristo non fu per un solo uomo, ma per tutta la natura umana […] dunque essa dovette essere universale […]  avendo una virtù relativa a tutti gli uomini. Per questo, non ci fu bisogno che portasse egli stesso tutte le pene che possono derivare in qualche modo dal peccato, assumendole in se stesso, ma solo quella pena alla quale tutte le altre sono ordinate e che contiene nella sua virtù tutte le pene, anche se questo non è in atto. «Ora, il fine di tutte le cose terrificanti è la morte», come dice il Filosofo [III Etica]; è per questo che Cristo ha dovuto soddisfare soffrendo la morte [III, Sent. D. 20, a. 3, risposta].
(su)

NOTE

19  - J. RATZINGER, Foi chrétienne hier et aujourd’hui, Cerf, 2005, p. 199 [J. RATZINGER, Introduzione al Cristianesimo, 1969, Queriniana, Brescia, nuova ed. 2000, p. 228].
20  - J. RATZINGER, Foi chrétienne hier et aujourd’hui, Cerf, 2005, pp. 197-198 [J. RATZINGER, Introduzione al Cristianesimo, 1969, Queriniana, Brescia, nuova ed. 2000, pp. 228-229].
21  - J. RATZINGER, Foi chrétienne hier et aujourd’hui, Cerf, 2005, p. 202 [J. RATZINGER, Introduzione al Cristianesimo, 1969, Queriniana, Brescia, nuova ed. 2000, p. 232].
22  - Ipse autem vulneratus est propter iniquitates nostras, attritus est propter scelera nostra ; disciplina pacis nostrae super eum et livore ejus sanati sumus. (Is 53, 5).
23  - Si veda LOUIS HARDY, La Doctrine de la rédemption chez saint Thomas, DDB, Paris, 1936, p. 250.
24  - San Tommaso caratterizza così l’offesa fatta dall’uomo che commette un peccato mortale: «in re temporali finem sibi constituit […] ex hoc ipso, quantum ad effectum suum, praeponit creaturam creatori, diligendo plus creaturam quam creatorem (nel dominio temporale egli si costituisce il proprio fine […] per il fatto che, in quanto all’effetto, antepone la creatura al Creatore, amando più la creatura che il Creatore).» (De Veritate, q. 28, a. 2).
25  - LOUIS HARDY, La Doctrine de la rédemption chez saint  Thomas, DDB, Paris, 1936, p. 256.
26  - Opuscolo De rationibus Fidei, cap. 7.
27  - III, q. 86, a. 4.
28  - Contra Gentiles, L. III, cap. 144.
29  - Vedi ÉDOUARD HUGON O. P., Le Mystère de la rédemption, VI ed. Téqui, Paris, 1927, p. 271.
30  - Oggi, questo esempio non verrebbe più accettato dalla fisica moderna. Lo si potrebbe rimpiazzare con quest’altro: un palla che cade da più in alto del sole, rimbalzerà più in alto.
31  - I-II, q. 87, a. 1.
32  - J. RATZINGER, Foi chrétienne hier et aujourd’hui, Cerf, 2005, p. 197 [J. RATZINGER, Introduzione al Cristianesimo, 1969, Queriniana, Brescia, nuova ed. 2000, p. 228].
(su)



agosto 2012

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