S. Ecc. Mons. Bernard Tissier de Mallerais
della Fraternità Sacerdotale San Pio X


IL MISTERO DELLA REDENZIONE

SECONDO BENEDETTO XVI


PARTE TERZA


Questo studio è stato pubblicato sul n° 67 (inverno 2008- 2009) della rivista Le Sel de la Terre - Intelligence de la foi -  Rivista trimestrale di dottrina tomista a servizio della Tradizione
La rivista, curata da Padri Domenicani collegati alla Fraternità Sacerdotale San Pio X, è una pubblicazione cattolica di scienze religiose e di cultura cristiana, posta  sotto il patronato di San Tommaso d’Aquino, in forza della sicurezza della dottrina e della chiarezza d’espressione del “Dottore Angelico”. Essa si colloca nel quadro della battaglia per la Tradizione iniziata da
Mons. Marcel Lefebvre e si presenta in maniera tale da potersi rivolgere ad ogni cattolico che voglia approfondire la propria fede.


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(su)
La spiritualità cristiana tradizionale: un combattimento spirituale

Le miserie della vita presente hanno un ruolo penale ben manifesto per la Rivelazione divina; esse hanno anche un ruolo medicinale: se la giustizia divina vi trova il suo tornaconto, la rettificazione interiore dell’uomo ne è parimenti interessata. Queste due cose, peraltro, sono solo una, esse differiscono solo secondo i loro aspetti divini o umani: ciò che è dovuto a Dio e ciò che è dovuto all’uomo. In altri termini, il pagamento da parte dell’uomo del suo debito di giustizia verso Dio, soffrendo le pene dovute al peccato, torna anche a vantaggio dell’uomo, permettendogli di restaurare il suo ordine interiore distrutto dalle quattro ferite del peccato originale.
Nessuno ha mostrato meglio di Mons. Marcel Lefebvre, come la spiritualità cristiana, quella autentica, consista soprattutto nella guarigione di queste ferite e nella correzione del disordine che esse causano alle potenze dell’anima. Basta citare l’Itinerario Spirituale redatto da Monsignore sul finire della sua vita e rivolto ai suoi sacerdoti:

«…la nostra esperienza quotidiana e la dottrina della Chiesa ci insegnano che la grazia del battesimo… non ci libera da tutte le conseguenze del peccato originale. Queste conseguenze spiegano perché la nostra vita spirituale si configuri come un combattimento spirituale che dura tutta la vita terrena. Questo insegnamento è fondamentale e presiede anche a tutto il nostro apostolato. Noi restiamo dei malati e abbiamo bisogno del Medico delle nostre anime e dei soccorsi spirituali che Egli ha previsto. Ecco l’insegnamento della Chiesa espresso da san Tommaso d’Aquino [I-II, q. 85, q. 3; Padre Thomas Pègues O. P., La Somme de saint Thomas en forme de cathéchisme, p. 128]:
«La santità originale è stata perduta a causa del peccato del primo uomo. Per questo tutte le forze dell’anima restano, in una certa misura, distolte dal loro proprio fine, per il quale erano ordinate alla virtù; e questo distogliere si chiama la ferita della natura (vulneratio naturae).
«In quanto la ragione è distolta dal suo ordinamento al vero, si ha la ferita dell’ignoranza (vulnus ignorantiae).
«In quanto la volontà è distolta dal suo ordinamento al bene, si ha ferita della malizia (vulnus malitiae).
«In quanto la fortezza è destituita dal suo ordinamento alle cose ardue, si ha la ferita della debolezza (vulnus infirmitatis).
«In quanto il desiderio è distolto dal suo ordinamento a ciò che è dilettevole secondo ragione, si ha la ferita della concupiscenza (vulnus concupiscentiae).
«Nella sua prima epistola, San Giovanni conferma questa verità: “tutto quello che è nel mondo è concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi, orgoglio della vita” (1 Gv. 2, 16).
«Queste quattro ferite toccano le nostre quattro virtù cardinali e perciò provocano in noi un disordine continuo. La più devastante sembra che sia quella dell’ignoranza o cecità, cioè la misconoscenza di Dio e di Nostro Signore Gesù Cristo. Infatti è in questa conoscenza che risiede la vita eterna: “Poiché la vita eterna è che essi conoscano Te, solo vero Dio, e Colui che Tu hai mandato, Gesù Cristo” (Gv. 27, 3)» (33).

E il prelato applica questi principi teologici alla vita concreta e attuale, cosa che non vogliono fare i liberali per i quali i principi restano lettera morta, mentre invece essi sono delle regole di vita:

«Come, infatti, rendere a Dio l’amore e il culto che Gli sono dovuti se noi restiamo nella cecità nei suoi confronti? I seminaristi e i sacerdoti non ringrazieranno mai abbastanza Dio di averli condotti in un seminario, deve tutte le scienze insegnano a conoscere Dio e Nostro Signore e dove tutta la vita è orientata a rendere alla Santissima Trinità l’onore, il culto e l’amore che Le sono dovuti per la persona del Verbo incarnato: «per Christum Dominum nostrum».
«Che le anime sacerdotali possano affrontare coraggiosamente il combattimento spirituale per guarire le proprie anime da queste ferite e per imparare così a divenire medici delle anime!»(34)

Medici per le anime, i sacerdoti formati a questa scuola di combattimento lo saranno: «con la predicazione, con la preghiera della Santa Messa, con l’Eucaristia e con il sacramento della penitenza! I ritiri sono un mezzo potente per diminuire la cecità delle anime e per guarire anche le altre ferite». E in contrasto con i principi del combattimento spirituale, Mons. Lefebvre mette in luce i falsi principi teologici che hanno generato la spiritualità liberale o il niente spirituale della nuova religione post-conciliare:

«Senza la comprensione di queste verità elementari non si può capire la spiritualità cattolica della Croce, del sacrificio, del disprezzo dei beni temporali per attaccarsi a quelli eterni. […]
«Di qui l’insistenza della Chiesa, in tutta la sua spiritualità e soprattutto per le anime sacerdotali o consacrate a Dio, di allontanarsi dal mondo e dallo spirito del mondo e di cercare soltanto le cose eterne al seguito di Gesù, e di Gesù crocifisso.
«(Ora, è un’altra disastrosa conseguenza del Concilio il cercare di distruggere la spiritualità tradizionale e cattolica della rinuncia, della Croce, del disprezzo delle cose temporali, dell’invito a portare la propria croce dietro a Nostro Signore. […] «Questo cattivo spirito del Concilio – lo spirito del mondo – ha invaso l’universo sacerdotale e religioso ed è sfociato in una distruzione senza precedenti del sacerdozio e della vita religiosa. È la grande vittoria di Satana: l’aver realizzato mediante uomini di Chiesa quella distruzione nella quale nessuna persecuzione era riuscita)» (35).

A proposito dell’espressione «cattivo spirito del Concilio», è utile sottolineare che la stessa espressione, in tedesco, «Konzils Ungeist», è impiegata dal cardinale Ratzinger nel suo celebre Rapporto sulla fede, 1985, ma nel senso di un anti-spirito del Concilio che si sarebbe sostituito surrettiziamente al vero spirito del Concilio in opposizione alla lettera del Concilio: insomma, l’ermeneutica della rottura avrebbe preso il posto dell’ermeneutica della continuità realizzata dal Concilio. Non è questo il pensiero di Mons. Lefebvre, che vede nella stessa lettera del Concilio l’espressione di un cattivo spirito che è quello stesso del Concilio.
(su)

Una nuova era di spiritualità: un cristianesimo positivo

Passando sotto silenzio la soddisfazione di Cristo nel suo senso generale ed escludendo la soddisfazione della passione di Gesù nel suo senso speciale di espiazione penale de nostri peccati, Joseph Ratzinger si è illuso di aprire per la Chiesa una nuova era di spiritualità. «Nel cristianesimo anche il culto e l’intera esistenza ricevono un nuovo indirizzo», afferma (p. 229), una volta purificati dalle deformazioni che avrebbero fatto loro subire i predicatori del XVII secolo e la pietà del XIX secolo. Il teologo di Tubinga è fiero di aver contribuito ad operare la purificazione della pietà con la reinterpretazione idealista ed esistenzialista:

Soprattutto allorché si osservano le forme devozionali consuetudinarie incentrate sulla passione, vien continuamente da domandarsi in qual modo si colleghino fra loro sacrificio (e quindi adorazione) e dolore. Stando ai rilievi testé fatti, il sacrificio cristiano non è altro che l’esodo della ‘funzione vicaria’, che abbandona tutta se stessa, realizzato in pieno nell’uomo che è integralmente ‘esodo’, auto superamento dell’amore (36).

Ed ecco il colmo della reinterpretazione idealista ed esistenzialista della croce:

Ora, siccome questo esodo dell’amore costituisce l’estasi dell’uomo, vale a dire lo slancio con cui egli si proietta fuori di sé protendendosi infinitamente sopra se stesso, quasi strappandosi alla sua natura e librandosi arditamente in alto, oltre tutte le sue apparenti possibilità d’impennata, proprio per questo motivo l’adorazione (sacrificio) è sempre simultaneamente anche croce, dolore, dissociazione, more del granello di frumento, che solo morendo è in grado di portare frutto [p. 234].

E Joseph Ratzinger, da questa rilettura del mistero della croce, deduce la novità del culto e della pietà cristiane che ne consegue fruttuosamente:

Il principio costitutivo del culto cristiano è questo movimento di esodo, caratterizzato dalla sua duplice e al contempo unitaria polarizzazione su Dio e sul prossimo [p. 234].
L’essenza del culto cristiano non sta nell’offerta di cose, e nemmeno in una certa qual loro distruzione, come dal secolo XVI in poi si può leggere sempre più insistentemente nei trattati teorici concernenti il sacrificio della Messa [p. 233].

Senza dubbio, Joseph Ratzinger non ha letto San Tommaso che spiega:

La carne di Cristo […] la quale costituisce così il sacrificio assolutamente perfetto. Primo, perché trattandosi di un corpo appartenente alla natura umana, la sua offerta è proporzionata agli uomini per i quali viene sacrificato, e dai quali viene sunto sotto forma di Sacramento. Secondo, perché essendo una carne passibile e mortale, era adatta all’immolazione. Terzo, perché essendo senza peccato, la carne di Cristo era capace di purificare dai peccati. Quarto, perché essendo la carne dell’offerente medesimo, era accetta a Dio per la carità con la quale egli l’offriva [III, q. 48, a. 3, ad 1].

San Tommaso viveva nel XIII secolo ed era realista esattamente come i predicatori del XVII secolo, le cui fioriture del linguaggio metaforico: collera divina, vendetta di Dio, ecc., sono facilmente riconducibili al loro contenuto reale per ciò che il Dottore angelico spiega della giustizia divina. Ma Joseph Ratzinger imbastisce una nuova era spirituale e cultuale sull’abolizione del sacrificio, sublimato in adorazione ed estasi, e sulla soppressione della soddisfazione, ridotta all’amore che si dà:

Nel Nuovo Testamento la croce si presenta primariamente come un movimento discendente, dall’alto in basso. Essa non ha affatto l’aspetto d’una prestazione propiziatrice che l’umanità offre allo sdegnato Dio, bensì quello d’un’espressione di quel folle amore di Dio, che s’abbandona senza riserve all’umiliazione pur di redimere l’uomo; è un suo accostamento a noi, non viceversa [p. 229].

Ciò che San Tommaso concilia: il dono dell’uomo e il dono di Dio, Joseph Ratzinger lo separa e lo contrappone, affermando l’uno e annientando l’altro. E da questa dialettica non sortisce alcuna vera sintesi, ma si trova riaffermata la negazione:

Con questa inversione di rotta nell’idea dell’espiazione, che viene a spostare addirittura l’asse dell’impostazione religiosa in genere, nel cristianesimo anche il culto e l’intera esistenza ricevono un nuovo indirizzo. Nella sfera cristiana, l’adorazione (37) si estrinseca in primo luogo nel ricevere con animo grato l’azione salvifica di Dio. La forma essenziale del culto cristiano si chiama quindi a ragion veduta Eucarestia, cioè rendimento di grazie. In questa cerimonia cultuale, non si offrono a Dio tributi umani, ma si porta invece l’uomo a lasciarsi inondare di doni; noi non glorifichiamo Iddio offrendogli qualcosa di presumibilmente nostro – quasi che ciò non fosse già per principio suo! – bensì facendoci regalare qualcosa di Suo, e riconoscendolo così come l’unico Signore [p. 229].

In questa dialettica diabolica, le affermazioni sono giuste, ma sono le negazioni ad essere eretiche. Così hanno proceduto tutti gli eresiarchi. E si può dimostrare che la nuova Messa di Paolo VI è stata costruita su queste negazioni dell’espiazione, del distacco, della penitenza, del sacrificio! Possiamo verificare che è proprio così, tanto nell’ordinario della Messa quanto nelle orazioni, dove non si parla più di combattimento spirituale, né di disprezzo delle cose terrene per amare le celesti, né di rinuncia. Dom Edouard Guillou O.S.B., che ha scritto uno studio illuminante su questa rivoluzione spirituale nelle orazioni del Messale  (38), cita un testo pubblicato sulla Documentation Catholique a proposito della nuova liturgia:

A partire dal Concilio, si è diffusa nella Chiesa un’ondata di ottimismo, un cristianesimo stimolante e positivo, amico della vita e dei valori terreni, l’intenzione di rendere il cristianesimo accettabile, amabile, indulgente, aperto, sgombro da ogni rigorismo medievale, da ogni interpretazione pessimista degli uomini e dei loro costumi (39).

Lo studio della Fraternità San Pio X, del 2001, Il problema della riforma liturgica, svela come il rito della Messa di Paolo VI, istituito nel 1969, è in definitiva l’applicazione della «rivoluzione all’idea di espiazione» promossa dal teologo Joseph Ratzinger nei suoi corsi di Tubinga del semestre invernale 1966-1967.
(su)

Il teologo di Tubinga all’origine della riforma liturgica

In effetti, nel nuovo rito, ciò che attiene alla pena dovuta al peccato non è più oggetto di preghiera: l’offerta è presentata a Dio come una pura lode, come se i peccati commessi anteriormente non avessero lasciato alcuna traccia suscettibile di essere un ostacolo al gradimento; e i frutti soddisfattorii (o piuttosto, propiziatori) della Messa vengono passati sotto silenzio. Oltre a questo, il dispiacere del peccato è anch’esso minimizzato, esattamente come la teologia di Joseph Ratzinger che presenta il sacrificio come un’«adorazione» e basta. Passiamo in rassegna, brevemente, la compunzione, l’intercessione, l’espiazione penale, la penitenza e la propiziazione, come sono espressi nei due riti, il rito tradizionale e il nuovo. Citiamo quasi ad litteram lo studio suddetto (pp. 38-44):

Nel messale tradizionale, le preghiere di compunzione ritornano regolarmente, come un respiro dell’anima, fino al momento solenne del prefazio. Dopo aver riconosciuto le proprie colpe (confiteor), l’uomo prega affinché gli siano perdonati i suoi peccati (Oramus te), chiede che il suo cuore e le sue labbra siano purificati (Munda cor meum). Presentandosi quindi davanti al suo Dio col cuore contrito ed umiliato (In spiritu humilitatis), egli invoca la sua misericordia (incensum istud); protestando il suo fermo proposito, egli si separa da coloro che vogliono vivere nel peccato (Lavabo). Questo sviluppo dei differenti elementi della contrizione conferisce tutta la sua ampiezza alla preghiera che il celebrante ha recitato salendo all’altare: «Togli da noi , o Signore, le nostre colpe affinché possiamo entrare con animo puro nel santo dei santi» (Aufer a nobis). Al contrario, se il nuovo messale presenta alcuni elementi penitenziali, questi sono di una povertà e di una brevità inconsueta. Solo mediante l’atto penitenziale iniziale, anch’esso ridotto, i fedeli si pentono delle loro colpe. La preparazione del celebrante sarà rinnovata con alcune brevi invocazioni pronunciate a voce bassa «in nome proprio» (IGMR 13): il Per evangelica dicta e il In spiritu humilitatis, così come il breve versetto Lava me che sostituisce il Salmo 25. Questo impoverimento del rito, che contrasta con la bella precisione delle preghiere del messale tradizionale, è stato aumentato dalle traduzioni. Ad esempio, il In spiritu humilitatis et animo contrito, diventa in francese «umili e poveri»: l’elemento di contrizione è scomparso.
Un’anima perdonata, non per questo è pienamente gradita a Dio: nella misura in cui essa non ha ancora adempiuto ogni giustizia, sopportando la pena dovuta per il peccato, l’anima resta parzialmente ingiusta e perciò inadatta ad offrire da se stessa un sacrificio di soave odore. Il messale tradizionale sottolinea questa parziale indegnità fino all’inizio della Messa, con il posto che fa prendere ai sacri ministri: non all’altare, ma ai piedi dei gradini, a longe, come il pubblicano che teneva gli occhi bassi e si batteva il petto (Lc. 18, 13). Questa indegnità dell’offerente fa sì che l’accettazione da parte di Dio del sacrificio è considerata una grazia immeritata che viene chiesta con timore reverenziale: «Ricevi, Padre Santo, (…) questa vittima immacolata che io, indegno tuo servo, offro a Te» (Suscipe sancte Pater). Più di 10 volte, nell’offertorio e nel Canone, la Chiesa si indirizza in questo modo al suo Dio. Ora, queste domande di gradimento non sono più un elemento costitutivo del nuovo messale: non appaiono né nella presentazione dei doni, né nella Preghiera eucaristica II. Solo le Preghiere eucaristiche III e IV adoperano una volta la parola «respice» (guarda) e, per di più, solo dopo la consacrazione.
Cosciente di questa indegnità dell’offerente, il messale tradizionale vi rimedia interponendo ogni momento tra il celebrante e Dio un mediatore principale, Gesù Cristo, e dei mediatori subordinati, i santi. L’oblazione sacrificale poggia anzitutto sulla mediazione di Cristo, onnipresente nel cuore dell’azione liturgica. Essa è invocata fin dalle prime parole del Canone: «Noi ti preghiamo umilmente e ti domandiamo, per mezzo di Gesù Cristo Tuo Figlio, nostro Signore, di accettare e benedire questi doni» (Te igitur). Troviamo ancora questa mediazione, secondo l’interpretazione comune (40), nella solenne preghiera d’offerta che segue la consacrazione (Supplices te rogamus): «Noi Ti supplichiamo, Dio onnipotente, fa’ che questa offerta sia portata per le mani del Tuo santo Angelo, là, sul tuo altare celeste, alla presenza della tua divina Maestà». Questa mediazione è iscritta soprattutto nella trama stessa del Canone: le preghiere che circondano le parole della consacrazione sono costruite sotto forma di cinque orazioni, che si concludono tutte con le parole: «Per Gesù Cristo nostro Signore». Invece il nuovo messale ha pressoché soppresso questa mediazione di Cristo nell’offerta del sacrificio, al pari dell’intercessione dei santi. […] Quando i santi sono ricordati, è esclusivamente per segnalare l’unione piena che avremo con loro quando Dio ci aprirà il Cielo. Le preghiere del santorale hanno subito una sorte analoga, dato che il nuovo messale ha soppresso la maggior parte delle duecento orazioni (41) nelle quali il messale tradizionale invoca i meriti dei santi; nel corso dell’anno liturgico, ne fanno ancora menzione solo tre orazioni obbligatorie.

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Soddisfazione e propiziazione cancellate dalla liturgia

Svalutando la mediazione di Cristo e il ricorso ai meriti dei santi, non facendo più menzione dell’indegnità degli attori umani della liturgia, il nuovo messale lascia intendere che le conseguenze del peccato non sono un ostacolo al gradimento dell’offerta. Questo misconoscimento delle pene dovute per il peccato, e attraverso di esse della giustizia divina, appare anche dall’analisi dei frutti attesi dalla Messa. Il Messale tradizionale implora la soddisfazione delle pene per i vivi come per i defunti, per i meriti della Passione di Cristo e l’opera dei santi che la completano (Col. 1, 24). Inoltre, esso insegna ai vivi a conformarsi a questa stessa Passione (Gal. 2, 19). Queste sfumature sono quasi interamente assenti nel nuovo messale.
Le modifiche fatte alle orazioni che punteggiano l’anno liturgico, sono rivelatrici. Non vi si prega più per essere «purificato dalle macchie dei propri peccati»: questa richiesta, che compare regolarmente nel Messale tradizionale (10 volte, ad esempio, nel solo santorale d’agosto), è stata conservata solo in alcune orazioni delle messe feriali della Quaresima. Se il Messale tradizionale ci fa venerare San Raimondo da Pennafort (23 gennaio) come «ministro ammmirevole del sacramento della penitenza», per chiedere la grazia di «portare i degni frutti della penitenza», l’orazione del nuovo Messale lascia perdere questi due punti per parlare solo del suo amore verso i peccatori. Il nuovo Messale ha cessato di consigliare la meditazione della Passione di Cristo (San Paolo della Croce, 28 aprile), di ricordare che i Serviti (12 febbraio) si sono associati ai dolori della Madonna, di sottolineare che San Luca (18 ottobre) «non ha mai smesso di portare nel suo corpo la mortificazione della Croce per la gloria di Dio», ecc. Le letture bibliche del nuovo Messale sono passate al medesimo vaglio, sminuendo tutto ciò che riguarda la giustizia divina. La comunione indegna e il suo castigo (1 Cor. 11, 27) sono state soppresse dalle epistole eucaristiche. Ma gli esempi potrebbero moltiplicarsi: il Vangelo della XII Domenica ordinaria dell’anno A, omette Mt. 10, 28: «Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna»; la seconda lettura della XX Domenica ordinaria dell’anno A, tace su Rom. 11, 19-23, in cui San Paolo ricorda che un’infedeltà da parte nostra può attirarci un castigo analogo a quello che aveva colpito Israele, ecc.

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L’ermeneutica applicata alla liturgia dei defunti

La liturgia dei defunti, omette ugualmente di citare le pene dovute al peccato. Cosa che appare nell’Istitutio generalis Missalis romani del 1969:
«La Chiesa offre il sacrificio eucaristico della Pasqua di Cristo per i defunti, perché, in ragione della comunione che unisce tutti le membra di Cristo, ciò ottiene un aiuto spirituale per gli uni e apporta agli altri la consolazione della speranza» (IGMR 335). Là dove ci si sarebbe logicamente attesa l’espressione «sacrificio propiziatorio per il sollievo delle pene», troviamo soltanto il «sacrificio eucaristico della Pasqua di Cristo» (espressione si ritrova in IGMR 339) che apporta un «aiuto spirituale».
L’Ordo Missae del nuovo Messale vela allo stesso modo tutto ciò che ha relazione con la pena che subiscono le anime del Purgatorio. Il Messale tradizionale, chiedendo per l’anima defunta il locum refrigerii, faceva chiaramente intendere le pene che essa poteva eventualmente subire. Le nuove preghiere dicono semplicemente «Accogli nel tuo regno i nostri fratelli defunti» (Preghiera eucaristica III) oppure « ammettili a godere la luce del tuo volto» (Preghiera eucaristica II). La preghiera eucaristica IV va ancora più lontano, non chiedendo nulla per i defunti, segnalandoli semplicemente a Dio con un «ricordati».
La stessa constatazione si deve fare quando si confrontino le Messe per i funerali dei due Messali. Nelle sue orazioni, il Messale tradizionale sottolinea chiaramente il valore soddisfattorio del sacrificio della Messa, chiedendo che le anime dei defunti siano liberate dalle pene dei loro peccati. Il nuovo Messale, invece, insiste sulla beatitudine del Cielo e sulla resurrezione. Il tratto, il Dies irae e l’antifona dell’Offertorio del Messale tradizionale, che danno senso propiziatorio, nel nuovo Messale sono state soppresse.
Dalla liturgia dei defunti all’Ordinario della Messa, dalle orazioni alle letture bibliche, tutto ciò che anche indirettamente poteva riguardare la pena dovuta per il peccato, dalla riforma liturgica è stato minimizzato, cioè soppresso. È in questo senso che la dimensione propiziatoria è come sparita dal nuovo Messale.
Questo fatto è solo il logico punto d’arrivo delle esigenze dell’ermeneutica: i teologi conciliari hanno riletto la liturgia tradizionale e, di fronte all’impossibilità di farne ammettere al popolo cristiano una reinterpretazione idealista, l’hanno riformata secondo i loro pregiudizi naturalisti e idealisti. Quindi è chiaro che la finalità propiziatoria del sacrificio, così fermamente richiamata dal Concilio di Trento, poteva essere solo abbandonata a favore della lode e dell’azione di grazie. La lettura dell’Institutio generalis Missalis romani non lascia alcun dubbio a proposito: la dimensione propiziatoria non vi è mai menzionata, mentre la finalità eucaristica appare a più riprese (IGMR 2, 7, 48, 54, 55. 62, 259, 335 e 339). D’altronde, intorno a questo capovolgimento di valori, è stato forgiato un nuovo vocabolario: si parla di «celebrazione eucaristica» (IGMR 4, 5, 6, 24, 43, 48, 56, 59, 60, 66, 101, 253, 260, 280, 282, 283 2 284), di «liturgia eucaristica», di «preghiera eucaristica», espressioni onnipresenti, mentre il termine «Messa» scompare (42), senza parlare dell’espressione «sacrificio della Messa», divenuta obsoleta.
Appariva allora una nuova concezione della Messa: questa è vissuta meno come un’applicazione della Redenzione, quanto piuttosto come liturgia dei salvati – del «popolo dei riscattati» (Memento della Preghiera eucaristica III). Invece di applicare, con la mediazione del celebrante agente in persona Christi, la soddisfazione e i meriti acquisiti da Cristo col suo sacrificio redentore, è tutto un popolo - «il popolo santo, il popolo acquisito da Dio, il sacerdozio regale» (IGMR 62) – che, nell’azione di grazie, celebra una redenzione già pienamente compiuta (IGMR 54).

Ma con la liturgia, è anche la catechesi che è stata purificata dal pessimismo obsoleto secondo le regole dell’ermeneutica trascendentale.
(su)

Redenzione e propiziazione nella nuova catechesi

Il Libro della fede, catechesi collettiva dei vescovi del Belgio (Desclée, 1987), svuota la Redenzione della sua prima dimensione: l’espiazione dei peccati dovuta a Dio per giustizia:

La morte e la resurrezione del Signore sono il fondamento della nostra salvezza. Sopportando la sua estrema umiliazione, Gesù prova il suo amore senza limiti per gli uomini e la sua perfetta ubbidienza verso il Padre che l’ha inviato. Sovente la morte di Gesù è vista come un dramma in sé. Si immagina quindi Dio come colui che ha mandato a morte suo Figlio. L’attenzione si rivolge all’orrore della crocifissione più che all’amore vissuto da Gesù. Ora, non è la morte di Gesù che ci salva: è il suo amore incondizionato, di cui la morte è la manifestazione [p. 41].

La caricatura dell’espiazione permette la sua eliminazione. E il mistero della sofferenza, svuotato del suo contenuto, diviene un puro simbolo dell’amore, di un amore senza finalità, né modo d’azione definito: una sorta di amore puro. Si trova lo stesso procedimento negli scritti di Gérard Huyge, vescovo di Arras, nella catechesi collettiva dell’episcopato francese del 1978 (43):

Non bisogna sbagliare porta per entrare nel mistero della sofferenza di Gesù. Qualche volta si presenta questo mistero come una semplice [e orribile] procedura giuridica. Dio (il Padre!), avendo subito per i peccati dell’uomo un’offesa infinita (perché?), avrebbe accettato di perdonare l’uomo solo dopo una «soddisfazione» (che parola orribile) infinita [e l’autore cita Joseph Ratzinger, come abbiamo fatto noi: Dio potrebbe esigere per giustizia il sacrificio del suo proprio Figlio?]. Dio non vuole la morte di nessuno, né come castigo, né come mezzo di riscatto. Che la morte sia entrata nel mondo per il peccato, non è cosa di Dio.
Non vi è che una sola porta e per aprirla, una sola chiave: l’amore. Così possiamo scartare ogni spiegazione della passione in cui Cristo non sia profondamente solidale con la condizione umana […] con la condizione dell’uomo disgraziato. […] Questo amore giunge all’uomo, chiunque sia, anche un carnefice, e cambia radicalmente il suo destino. Se non si assume la chiave dell’amore si urta il buon senso, la spontanea e retta sensibilità. Come potremmo aprirci a un Dio che non è un Padre, un Dio che non ama, un Moloch che aspetta la sua razione di sangue, di sofferenze e di vittime?

Una volta eliminate dal sacrificio della croce l’espiazione e la soddisfazione, cosa ne fa la catechesi della propiziazione, nel sacrificio della Messa?

[…] Gesù Cristo era l’agnello pasquale. […] Il suo sangue è il «sangue della nuova Alleanza» conclusa fra Dio e tutta l’umanità. […] «Fare questo in memoria di me», dice Gesù. Non si tratta più di fare memoria della liberazione d’Egitto, ma della liberazione dal peccato [pp. 112-113]. […] «Egli prese il pane». […] Questo gesto di rompere è più che una necessità pratica. È il segno del dono che Gesù fa di se stesso nella passione: egli è stato spezzato dalla sofferenza a causa dei nostri peccati. Il profeta Isaia l’aveva annunciato [Is. 53, 4-5] [Le Livre de la foi, p. 113].

Tutto questo è esatto, ma si tace sull’atto di giustizia di Cristo, l’atto che in primo luogo libera gli uomini dal peccato, dalla colpa e dalla pena: i cristiani non devono sapere niente di questo mistero. Ci si dice che «il memoriale eucaristico attualizza e rende sacramentalmente presente l’unico sacrificio di Cristo sulla Croce», ma con la sua resurrezione, senza che si parli di una qualche propiziazione o conciliazione di Dio (p. 117).
Un po’ di tempo prima, il Livre des sacrements [Libro dei sacramenti] del Centro Jean-Bart di Parigi (Centurion, 1974), presentava così «l’eucarestia, sacrificio di Cristo»:

Sacrificio: parola lugubre quando ci si attenga solo all’idea di privazione. Ma il sacrificio non sta nella privazione, bensì nel dono. «Chi conserva la sua vita, la perde, chi dona la sua vita, la trova!» La privazione genera la tristezza; il dono fa nascere la gioia, fa vivere la comunione [p. 61].

E la tristezza «fino a morirne» di Gesù nella sua passione?

Sacro e sacrificio, due termini fratelli: l’uno viene dall’altro. È il sacro che opprime l’uomo ed è un sacro che lo fa crescere e lo libera. E Cristo, con il suo sacrificio, è venuto per liberarci per sempre dal sacro terrore e per rivelarci un Dio Padre… [p. 61].

Isaia, non aveva profetizzato di Gesù: «Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori. Quando offrirà se stesso in espiazione, vedrà una discendenza» (Is. 53, 10)? Certo, l’anima o la forma di questa espiazione sono la carità e l’obbedienza di Cristo, ma la materia ne è esattamente la prostrazione fisica e morale del Salvatore. Una forma senza materia è puro idealismo. Un sacrificio disincarnato è una religione senza giustizia. Un amore che si dà gratuitamente senza motivo, è puro esistenzialismo. Una carità senza oggetto definito e senza uno scopo preciso, è l’amore kantiano. E la nuova catechesi è questo: il cristianesimo reinterpretato a gusto della filosofia «moderna».

Il Catechismo della Chiesa cattolica, pubblicato nel 1992, sembra invece tornare al linguaggio tradizionale. In un primo tempo, esso parla della «morte redentrice di Cristo» (n° 599), del «mistero della redenzione universale, cioè del riscatto che libera gli uomini dalla schiavitù del peccato», del «Cristo morto per i nostri peccati secondo le Scritture» (n° 601) e «Avendolo reso così solidale con noi peccatori… “Dio lo ha dato per tutti noi” (Rm. 8, 32) affinché noi fossimo “riconciliati con lui per mezzo della morte del Figlio suo” (Rm. 5, 10)» (n° 603). Fin qui, non v’è una parola che sfugga al controllo dell’ermeneutica più accurata.
Poi, bruscamente, nelle pagine che seguono, questo controllo viene meno e il linguaggio si sdebita nei confronti dei tabù di un modernismo fin troppo rigoroso: ci si parla di Dio «che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1 Gv. 4, 10) al fine di «dare la sua vita in riscatto per molti» (Mt. 20, 28) (nn° 604-605); dell’agnello che «porta il peccato delle moltitudini» (Is. 53, 12) (n° 608); di Gesù che sostituisce la sua obbedienza alla nostra disobbedienza e «offre se stesso in espiazione» (Isaia), che «ha riparato per i nostri errori e dato soddisfazione al Padre per i nostri peccati» (Cfr. Concilio di Trento, DS 1529) (n° 615); dell’amore «sino alla fine» di Gesù, «che conferisce valore di redenzione e di riparazione, di espiazione e di soddisfazione al sacrificio di Cristo» (n° 616).
Tuttavia, in nessun posto si parla dell’offesa fatta a Dio col peccato e del dovere di giustizia, di offrire una riparazione corrispondentemente degna; le parole enumerate senz’anima: riparazione, espiazione, soddisfazione, non sono spiegate. Niente impedisce che le si intenda come la riparazione dell’uomo, senza rapporto con l’ordine dovuto e il diritto che vi ha Dio. Anche il tentativo di definizione della soddisfazione è zoppicante: «Nessun uomo, fosse pure il più santo, era in grado di prendere su di sé i peccati di tutti gli uomini e di offrirsi in sacrificio per tutti» (n° 616). Nella «Persona divina del Figlio», il Catechismo della Chiesa cattolica non vede la dignità infinita di questa Persona e dunque della sua soddisfazione, ma solo il suo carattere di «capo di tutta l’umanità (44)». Decisamente, il Catechismo annulla la giustizia divina e le sue esigenze.
Del pari, il carattere propiziatorio del sacrificio della Messa non è esposto in maniera sufficiente con la sola citazione di una delle catechesi mistagogiche di San Cirillo di Gerusalemme sulla Messa, per quanto bella essa sia:

Presentando a Dio le preghiere per i defunti, anche se peccatori… presentiamo il Cristo immolato per i nostri peccati, cercando di rendere clemente per loro e per noi il Dio amico degli uomini (n° 1371).

L’orecchio cattolico capisce che Dio, offeso dai nostri peccati ci è reso propizio dalla soddisfazione che Gli offre il suo divino Figlio incarnato, al posto nostro e per giustizia. Ma l’orecchio idealista ascolta il suono di un’altra campana: Dio, sempre amico degli uomini e che nessuna offesa può colpire, è reso propizio agli uomini dall’atto di carità di Cristo che si è donato a noi perché fossimo purificati dei nostri peccati (atto che la Messa presenta nuovamente a Dio).
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Ermeneutica e aggiornamento

In nessun luogo è esposto in che modo l’atto di carità di Cristo operi la liberazione degli uomini dai loro peccati. Come causa morale? Come una soddisfazione? Un merito? Una causa efficiente? Non si sa, si rimane nel vago. Perché? Perché queste nozioni della filosofia perenne e della teologia scolastica sono considerate come degli schemi superati, incapaci di spiegare la fede all’uomo moderno. Era questo il parere del teologo conciliare Joseph Ratzinger:

Dopo che papa Giovanni aveva convocato il concilio e lo aveva invitato a compiere un passo in avanti e ad «aggiornare» la fede, per usare la sua espressione, cioè a calarla nell’oggi, tra i padri conciliari era maturata una forte volontà di rischiare davvero qualcosa di nuovo, uscendo dagli schemi scolastici già avviati, rischiando anche una nuova libertà. […] io ero del parere che la teologia scolastica, così come si era fissata, non fosse più uno strumento adatto a far sì che la fede dialogasse con il proprio tempo. Essa doveva uscire da questa corazza, doveva anche tradursi in un nuovo linguaggio, aprirsi alle situazioni del presente (45).

Evidentemente, l’uomo moderno è preoccupato più per la giustizia verso se stesso che per la giustizia verso Dio, è più interessato ai diritti della sua persona che ai diritti dell’ordine divino, è più preoccupato per la sua auto-realizzazione che per la sua finalità, per la sua ordinazione a Dio come al suo fine ultimo. La filosofia spontanea dell’uomo moderno è la filosofia idealista, non è più né la filosofia del buon senso né la filosofia cristiana. Quindi, per far capire la fede all’uomo moderno, la Chiesa doveva, poteva colare questa fede nello stampo del pensiero del mondo di oggi?
Sta in questo la drammatica questione dell’intenzione del Concilio del 1962.
Per quanto riguarda la questione del linguaggio, si sarebbe potuto usare sia un linguaggio nuovo, cercando di imprimere in esso le verità antiche, sia un linguaggio antico secondo un senso nuovo accettabile per l’uomo moderno. Il secondo procedimento non sarebbe disonesto, ma giustificato dall’ermeneutica: per esempio, si potrebbero conservare i termini riscatto e soddisfazione, scartando il fantasma della giustizia vendicativa di Dio o di un’espiazione offerta per giustizia a Dio Padre da Cristo, al posto nostro. In effetti, visto che questo spettro di giustizia non è conforme alla sensibilità dell’uomo moderno, oggi si deve ritenere che si tratti di uno di quegli errori circostanziali di cui si è rivestito accidentalmente l’insegnamento passato della Chiesa.
L’ermeneutica autorizza a ripulire la dottrina del passato dai suoi impacci giustizialisti, per mettere in luce le pure e costanti vie dell’amore trascendentale e dell’idealista dono di sé.

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NOTE

33 - MGR. LEFEBVRE, Itinéraire spirituel, Ecône, 1990, pp. 64-65 [Mons. Lefebvre, Itinerario spirituale, Ed. Ichthys, Albano Laziale, 2000, pp. 77-78].
34  - MGR. LEFEBVRE, Itinéraire spirituel, Ecône, 1990, p. 65 [Mons. Lefebvre, Itinerario spirituale, Ed. Ichthys, Albano Laziale, 2000, pp. 78-79].
35  - MGR. LEFEBVRE, Itinéraire spirituel, Ecône, 1990, pp. 65-66 [Mons. Lefebvre, Itinerario spirituale, Ed. Ichthys, Albano Laziale, 2000, pp. 79-80].
36  - J. RATZINGER, Foi chrétienne hier et aujourd’hui, Cerf, 2005, p. 203 [J. RATZINGER, Introduzione al Cristianesimo, 1969, Queriniana, Brescia, nuova ed. 2000, p. 234].
37  - Joseph Ratzinger chiama «adorazione» il sacrificio.
38  - Si veda Fideliter, n° 86, marzo-aprile 1992, pp. 58-75.
39  - DC, 20 ottobre 1969, n° 1538, col. 1372. Questo testo è stato citato da Mons. Marcel Lefevre in una conferenza spirituale a Ecône il 25 giugno 1981. Si veda MARCEL LEFEBVRE, La Messe de toujours, Clovis, 2005, p. 311.
40  - PIERRE LE BRUN, Explication de la messe, collection Lex orandi, Cerf, Parigi, 1949, p. 463.
41  - Si veda PLACIDE BRUYLANTS, Les oraisons du missel romain, Mont-César, 1952, vol. I, index verborum (Bruylants era membro del Consilium della liturgia, l’organo che preparò la riforma liturgica postconciliare).
42  - Si veda L.-M. RENIER, Exsultet, encyclopédie pratique de la liturgie, CNPL, 2000, p. 136.
43  - Des Évêques disent la foi de l’Église, Paris, Cerf, 1978, pp. 229-230.
44  - Capace quindi di offrire un «sacrificio redentore per tutti». Esatto, ma qui si mantiene solamente l’aspetto quantitativo dell’applicazione del sacrificio di Cristo a tutti gli uomini e non il suo aspetto qualitativo, atto a rendere giustizia a Dio. L’antropocentrismo della redenzione cancella il suo teocentrismo.
45  - CARD. RATZINGER, Le Sel de la Terre, Flammarion/Cerf, 1997, p. 73. [JOSEPH RATZINGER, BENEDETTO XVI, Il Sale della Terra, Ed. San Paolo, 2005, pp. 83-84].
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agosto 2012

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