PAPA FRANCESCO I,
L’ISOLA, I CLANDESTINI

parte prima

vedi la parte seconda


di L. P.



Papa Franesco a Lampedusa - 8 luglio 2013


Sgombriamo il campo da eventuali e possibili obiezioni di scarsa sensibilità o di acritica ostilità. Laddove l’uomo, figlio di Dio, soffre l’ingiustizia e laddove la morte semina il pianto, ivi si rinnovano  la Passione e la Morte di Nostro Signore Gesù e il viaggio del Papa a Lampedusa è, senz’altro, il proposito di rendere palese al mondo questa verità. Osiamo, fiduciosamente,  sperare che questo pellegrinaggio sia l’annuncio di un suo programma pastorale che lo porterà a venerare anche i luoghi dove geme tuttora la cristianità cattolica oppressa e perseguitata, ove la mattanza dei nostri fratelli nella fede viene, da anni, programmata e condotta proprio da quei “cari islamici” che Francesco I ha ricordato, a cui ha chiesto perdono ed augurato “frutti spirituali” dal prossimo ramadan.
Sarebbe superfluo, ma provvediamo a ricordarle, queste tappe: Nigeria, Egitto, Sudan, Somalia, Indonesia, Pakistan, India, Filippine, Afghanistan, Cina dove l’accanimento contro le comunità cattoliche registra, giorno per giorno, un catalogo impressionante di vittime di cui non abbiamo sentito, fino ad oggi, cenno affettuoso o menzione alcuna o condanna sia pur larvata – ci mancherebbe! - nelle tante udienze pubbliche che Sua Santità ha tenuto in Piazza San Pietro.
Siamo allo stravolgimento dottrinario e al trionfo dell’ecumenismo a senso unico. Osiamo sperare che egli ribalti l’immagine che, della Chiesa, dette il defunto GP II quando, il 15 febbraio del 1993, nel  visitare il Sudan non solo si lanciò in una benedizione in nome di Allah (O.R.15/2/1993) ma espresse al governo locale gratitudine e riconoscenza per la tanta stima dimostrata verso la Chiesa cattolica, dimenticando (!) che dal maggio 1983 al 1993 erano stati massacrati, da quel governo, più di un milione e 300.000 mila sudanesi, tra cui migliaia di cristiani. Osiamo, inoltre, sperare che non si capovolga il diritto col gettare ai  cristiani  le briciole che cadono dal tavolo e col riservare  ai cagnolini il pane dei figli (Mc. 7, 24/30).

La visita di Papa Francesco I nell’isola di Lampedusa – approdo storico e storicizzato di clandestini – è, secondo il parere di Laura Boldrini, Presidente del Parlamento italiano, “un messaggio epocale che restituisce dignità alle migliaia di vittime della guerra che si combatte nel Mediterraneo” e con la quale visita si spera di costruire una nuova coscienza civica e più forte senso di solidarietà e di accoglienza. Un concetto rafforzato dalla successiva affermazione secondo cui “l’accoglienza del migrante è un dovere morale e giuridico”.
Evidente la dittologia con la quale la Boldrini amplifica ciò che è compreso nell’attributo “morale”.

Ci permetta intanto, il lettore, di prender con le pinze tale densa e umanistica espressione, solo se si consideri che il personaggio appartiene a un filone politico in cui  sono ancora  ben presenti, vitali e mai disseccate,  le radici del marxismo leninista al quale vanno addebitate le più sanguinarie operazioni di pulizia etnica mai compiute nella storia. A pensare, perciò, al lupo che perda il pelo ed anche il vizio, vien come minimo un santo sospetto di tattica, la stessa tattica che la massoneria e il comunismo  han  da sempre attuato quando, per mimetizzare gli scopi eversivi, non hanno  indugiato a camuffarsi sotto le spoglie di associazioni  buoniste  ispirate ad  afflato caritativo.
Ciò valga come segnale per tutti quelli che, al pari del professor Introvigne, credono essere, la massoneria, una galassia di sigle più o meno autonome. E non è solo un nostro convincimento o una presunta considerazione, dal momento che insigni studiosi del territorio esoterico/eversivo dicono che “per motivi di strategìa politica, le grandi sètte, quando sono identificate, proliferano spesso in nuove società senza che si possa parlare di scissione e di separazione. Sarebbero più adatte parole prese dall’orticoltura, come riproduzione per talea e per margotta” (P. Mariel, Le società segrete che dominano il mondo, ed. Vallecchi, 1976, pag. 56 / citato in Epiphanius, Massonerie e sètte segrete, ed. Controcorrente, 2002, pag. 136). Valga per tutti l’ipocrisìa del movimento politico “Partigiani per la pace”, di istituzione stalinista con cui il tiranno sovietico – marzo 1950 -  propagandava una campagna contro l’armamento atomico, approvata anche dal Vaticano, e nel contempo, in gran segreto, nei laboratori  degli Urali allestiva un arsenale di apocalittica potenza (E. A. Rossi/V. Zaslavsky, Togliatti e Stalin, ed. Il Mulino, 2007, ristampa).

Ma vediamo: l’iniziativa papale è un ulteriore gesto pastorale di forte impatto mediatico che, al di là della sincera ispirazione cristiana, conferirà, come taluno osserva,  legittimità e libertà al fenomeno dei flussi clandestini in Italia (come se da vent’anni in qua tale fenomeno sia mai stato in qualche modo regolamentato o imbrigliato) e, cosa maggiormente preoccupante, un più massiccio afflusso (come testimonia lo sbarco di altri 165 clandestini in concomitanza della visita papale). Non diversamente da quel successo ottenuto dal PCI a seguito della paterna e calda accoglienza con cui Giovanni XXIII, il 7 marzo del 1963, tenne a ricevere A. Adjubei, genero di N. Kruscev.

Ed allora, ci viene da pensare che Papa Francesco I avrebbe, forse, dovuto recarsi a Malta, in Grecia, in Spagna o finanche in Israele, nazioni ove le carrette del mare vengono respinte, ove sulla linea di frontiera si spara, dove si pongono cavalli di frisia a protezione dei confini, dove si ergono muri divisorii tra popoli, dove, cioè, viene praticata la protezionistica politica del respingimento e dell’espulsione. Ma non in Italia che, da sempre, è un paese aperto, solidale e generoso, ma anche praticabile e penetrabile per frontiere incustodite, brecce e varchi, tale da essere considerato il ventre molle dell’Europa. Quel messaggio, pertanto, non avrebbe motivo di esistere. Se dovere cristiano è accogliere il forestiero, aiutare la vedova e l’orfano, non è, d’altra parte, lecito creare e provocare, a  causa di un disordinato ed indiscriminato flusso migratorio in nome di un mero anelito filantropico, squilibrii e contrapposizioni  nella società, la quale, secondo il dettame di Dio, deve conformarsi all’ordine che Egli stesso ha configurato nel creato.
Già il poeta affermava:
Le cose tutte quante/ hann’ordine tra loro: e questo è forma/che l’universo a Dio fa simigliante” (Par. I, 103/105)
e, se non bastasse Dante, abbiamo il parere autorevole di S. Agostino che così scrive:
La pace della casa è la concordia ordinata dei suoi abitanti nel comandare e nell’obbedire; la pace della città è la concordia ordinata dei cittadini nel comandare e nell’obbedire; la pace della città celeste è la società che ha il massimo ordine e la massima concordia nel godere di Dio e nel godere reciprocamente di Dio;  la pace di tutte le cose è la tranquillità dell’ordine. L’ordine è la disposizione di realtà uguali e disuguali, ciascuna al proprio posto” (La Città di Dio, XIX, 13,1).
L’ordine della società terrena come riflesso di quella celeste.
Il santo dottore della Chiesa scriveva queste verità in tempi non dissimili dai nostri presenti, allorquando l’Impero romano era prossimo al crollo anche per la pressione del caos che le migrazioni, numerose e anarchiche, provocavano.
Ora, che tutti i clandestini debbano godere dello statuto di  rifugiato politico, è cosa da verificare, dal momento che, specialmente negli anni scorsi, niente dava ad indicare uno stato di belligeranza nei paesi del Nord Africa, ad esempio. Ma ciò basti.

La cronaca della visita pastorale (Il Giornale, 08 luglio 2013 pag. 17) prende l’avvìo con una considerazione, vera nella fattispecie storica, ma falsa e tendenziosa nel significato in essa nascosto, che dice “Jorge Bergoglio, figlio di emigranti italiani in Argentina, arriva nel lembo estremo del Vecchio Continente…”.
Sulla verità della notizia relativa ai genitori del Papa niente da eccepire dacché è storia, ed anche tragica, quella dell’esodo emorragico chiamato “Emigrazione” che caratterizzò la società italiana a fine ‘800  inizio ‘900. Vera e fondata, certamente, ma tendenziosa e falsa per il significato e per il messaggio cripticamente racchiuso, perché si vuol far passare ed equiparare, nella visione moderna di un irenismo bolso, menzognero, disonesto e irresponsabile, la figura del clandestino exlege a quella dell’emigrante “esule” italiano che, nei tempi passati cercava fortuna, pane ed avvenire  in “terre assaie luntane”.
Falsa e tendenziosa, dicevamo, perché i nostri antenati, e quelli di Bergoglio, partirono con la valigia di cartone colma di lagrime, di nostalgìa, di speranza e di paura, ma con i documenti in regola, vistati ed accettati. All’arrivo i nostri non si sparpagliavano, come fanno gli attuali “migranti” scomparendo dalla vista delle autorità, ma venivano condotti – come ad Ellis Island (USA) – in campi di raccolta per la famosa “quarantena”, per esser poi avviati nei posti di lavoro precedentemente indicati, e non godevano di sussidii mensili, come invece gli attuali extracomunitarii che, accolti in caserme o altri pubblici edificii, percepiscono dai 20 ai 35 euri al giorno.
Perciò, non esitiamo a definire siffatta equazione non solo falsa storicamente, ma disonesta ed eversiva per il fine che si propone di ottenere e per il particolare état d’esprit che suscita. Il clandestino moderno che, per raggiungere le spiagge italiche paga ai negrieri cifre consistenti, non reca seco documenti o credenziali, ma, incoraggiato da una politica mielosa, flaccida e abusivamente nominata “cristiana”, sbarca però con telefono satellitare e donne puntualmente incinte, viene sottoposto alle prime cure, rifocillato ed allogato in centri di raccolta dove, periodicamente e immancabilmente, scatena disordini e donde, ombra fra le ombre, si dilegua acquartierandosi nelle truppe della malavita camorrista, mafiosa e quella anonima.

Papa Francesco I, proprio per la sua personale storia dovrebbe essere, nel suo candore apostolico, prudente come un serpente perché l’apologìa che egli ha tenuto  a Lampedusa a favore del “migrante” è basata su un falso culturale e su un disegno internazionale di destabilizzazione dissimulato sotto  l’orpello d’una sociologìa che volutamente confonde anarchìa con giustizia/carità.
Ma altre considerazioni scaturiscono da questa circostanza.





Il vescovo di Agrigento, a sinistra, e il parroco di Lampedusa, a destra,
concelebrano col Papa,
indossando carnevalesche casule moderne


Già come GP II e come l’emerito papa cardinal J. Ratzinger, così anche Francesco I celebra la Santa Messa nello stadio locale. E’ questa, a parere nostro, un’altra aberrazione liturgica dell’aperturismo e del rinnovamento ecclesiale vaticano secondo, dacché abbiamo sempre creduto, e lo crediamo tuttora con forza, che il luogo deputato per il Sacrificio Eucaristico sia la chiesa, la casa di Dio. Ma si sa: negli stadii esplodono e rimbombano gli applausi, quelli che i precedenti pontefici cercarono e sollecitarono, convinti che la presenza di masse umane fosse la prova evidente d’una fede ancora fervida, convinti che l’agitar di bandierine, di balli e di coreografìe rutilanti fosse l’attestazione d’una adesione corale a Cristo e alla sua Chiesa, convinti che il numero fosse espressione di compattezza e di vitalità cattolica. Cercarono le ovazioni e il mondo, furbescamente, le concedette a larghe ondate col risalto che ne fece sull’informazione mondiale.
Ora, come allora, ci si dimentica però di quel monito/denuncia con cui il Signore ci mette in guardia dal cercare l’approvazione del mondo e di sollecitarne i consensi: “Guai a voi quando tutti gli uomini diranno bene di voi, perché in  tal  modo agivano i vostri padri verso i falsi profeti” (Lc. 6, 26).



Le cronache ci dicono ancora che Sua Santità ha celebrato il Sacro Rito in paramenti penitenziali,  color viola, disponendo di un pastorale e di un calice ambedue lignei, ricavati dal fasciame di una imbarcazione usata per la tratta dei clandestini.
A noi, siffatta esibizione di un pauperismo confezionato a misura dei massmedia, suona solo vilipendio più che esaltazione, tanto della funzione papale e del potere ad essa connesso, quanto  del decoro obbligatorio nei confronti di Dio. Il potere conferito  al Pontefice, quello che si concretizzava nel pastorale e nella tiara tricoronata – potere sacerdotale, regale, magisteriale - è una categoria ontologica  che trova la sua ragion d’essere in Cristo stesso che ne è detentore assoluto e da Lui concesso quando nominò Pietro capo, guida e custode della sua Chiesa.
Papa Francesco I, invece, giorni or sono, parlando del potere in termini generici (Il Giornale 30/6/2013), lo “ha maledetto” definendolo come “inciampo alla Fede”. Ora, da questo anatema ne discende l’elogio dell’anarchìa o, quanto meno, della confusa, indistinta dimensione egalitaria universale, con conseguente appiattimento della stessa figura papale ridotta a un “par inter pares”, “uno come tutti voi”, così come ebbe a definirsi.
La nefasta e vile rinuncia di Paolo VI alla tiara ha dato il via a sempre più numerose manifestazioni di ossequio al mondo spacciato per “rinnovamento ecclesiale”.



Il pastorale di legno è, così, un’ulteriore tappa dello sbiadimento dell’autorità papale e di uno svilimento del cerimoniale liturgico con cui l’attuale pontefice intende ridurre la sacralità dell’Imperium a dialettica democratica, egalitaria, rinunciando, con gravi future conseguenze, a quella che in matematica è chiamata “permanenza della forma” .

Dopo aver conseguito la liberté di coscienza – vedi Dignitatis Humanae -, dopo aver raggiunto l’intesa con la fraternité universale ONU – Nostra Aetate – ora, con il pastorale di legno il Papa realizza il terzo obiettivo giacobino: la égalité.
In quanto al calice ligneo e alla critica che ovvia ne deriva, basterebbe citare quanto il Signore degli Eserciti – Esodo, Deutoronomio, Levitico – prescrive circa l’arredo dell’Arca e dell’altare: l’arca dell’alleanza sarà di legno d’acacia, ma rivestito d’oro, e i paramenti di Aronne, stoffe raffinate, intessuti di perle, pietre preziose.
Papa Francesco I  e  i suoi  cardinali  consiglieri  conoscono  bene l’incipit del  Salmo 113/b,  laddove si dice “Non nobis Domine, non nobis, sed nomini tuo da gloriam”, e di conseguenza dovrebbero metterlo in pratica e rivedere questo tipo di innovazione: un calice di legno, scelto non per necessità ma per studiata circostanza, non dà gloria a Cristo Eucaristìa ma si trasforma in strumento di gloria per il “povero”, che si pone, così,  protagonista del Sacrificio, che diventa segnale d’un antropocentrismo teologico la cui premessa fu scritta da Paolo VI nel discorso tenuto il 4 ottobre 1965 all’ONU quando comunicò al mondo la “religione dell’uomo”. 

Non nascondiamo che con tale apparato liturgico il Papa abbia segnato la preminenza dell’uomo su Cristo stesso in perfetto allineamento con il rito paolino del Novus Ordo Missae del 1969, per il quale il Sacrificio di Gesù non è il mistero della Sua Passione e Morte ma, al contrario, è la “sinassi” del popolo che si riunisce per una cena.
Se così fosse, dovremmo allora congetturare secondo il seguente sillogismo: se in rapporto al “povero” Papa Francesco I usa un calice di legno, di materiale ancor più vile dovrebbe essere lo stesso calice in rapporto a Gesù, il  Reietto  per eccellenza, Abbandonato da Dio (Ps. 21), Colui che non ebbe dove posare  il capo, Colui che  venne al mondo, ma i suoi non lo ricevettero (Gv. 1,11). 
Ora, questa logica proporzione, che dimostra a quali esiti porti una cultura pauperistica, suonerebbe come offesa e ludibrio. Ma vedrete: già in alcune  chiese si officia la Santa Messa con coppe di ceramica, più simili ad orciuoli che a calici.
L’iniziativa di Francesco I darà il via ad una più diffusa pratica nell’euforìa di sentirsi “poveri”.
Antropologìa, nient’altro che sociologismo. 

Ora, alla conclusione di questa nostra breve ricognizione, che ben altra estensione meriterebbe, crediamo opportuno apporre il pensiero di un filosofo latino che cristiano, storicamente, non fu, ma che ebbe probabile contiguità con l’apostolo Paolo, e cioè Lucio Anneo Seneca il quale, quasi intervenendo nell’argomento da noi trattato con particolare attinenza al tema della “povertà”, così scrive: “Magnus ille est qui fictilibus sic utitur quemadmodum argento, nec ille minor est qui sic argento utitur quemadmodum fictilibus; infirmi animi est pati non posse divitias” (Lettere a Lucilio, I, 5,6) -  “E’ un uomo eccezionale chi si serve di stoviglie di terracotta come fossero d’argento e non è da meno chi utilizza quelle d’argento come se fossero di terracotta. E’ tipico di un animo debole sentirsi a disagio nella ricchezza” –

E noi aggiungiamo: specialmente quando la ricchezza non è dell’uomo ma del Signore Iddio.




luglio 2013

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