Lettera agli amici e benefattori, n° 82

di S. Ecc. Mons. Bernard Fellay 
Superiore Generale della Fraternità San Pio X

22 aprile 2014 - pubblicata su DICI


(impaginazione e neretti sono nostri)



Cari Amici e benefattori,

se il prossimo 27 aprile avrà luogo la canonizzazione di Giovanni XXIII e di Giovanni Paolo II, essa porrà alla coscienza dei cattolici un duplice dilemma. Prima di tutto il dilemma sulla canonizzazione stessa: come sarà possibile proporre a tutta la Chiesa come esempi di santità, da una parte l’iniziatore del Concilio Vaticano II e, dall’altra, il Papa di Assisi e dei diritti dell’uomo?
Il dilemma più grave poi consisterà nel dare pubblicamente una sorta di riconoscimento di autenticità cattolica senza precedenti a un tale Concilio: come sarà possibile garantire con il sigillo della santità i suoi insegnamenti che hanno ispirato tutta la condotta di Karol Wojtyla e i cui frutti nefasti sono l’indice inequivocabile dell’autodistruzione della Chiesa?

Questo secondo dilemma fornisce da sé stesso la soluzione: gli errori contenuti nei documenti del concilio Vaticano II e nelle riforme che l’hanno seguito, specialmente la riforma liturgica, non possono essere opera dello Spirito Santo che è al contempo Spirito di Verità e Spirito di Santità.
Per questo ci sembra necessario ricordare quali sono questi principali errori e quali sono le ragioni fondamentali per cui non possiamo sottoscrivere le novità del Concilio e delle riforme che da esso sono derivate, così come queste canonizzazioni che vorrebbero di fatto « canonizzare » il Vaticano II.

Per questa ragione vogliamo protestare fortemente contro queste canonizzazioni e denunciare l’attacco che, dal concilio Vaticano II, sta snaturando la Chiesa.
Eccone i principali elementi.

I – Il concilio

«Mentre il Concilio si preparava ad essere una nube luminosa nel mondo odierno se fossero stati utilizzati i testi preconciliari nei quali si trovava una professione solenne di dottrina sicura riguardo i problemi moderni, si può e si deve disgraziatamente affermare che, in linea quasi generale, quando il Concilio ha fatto delle innovazioni, esso ha scosso la certezza delle verità insegnate dal Magistero autentico della Chiesa come appartenenti definitivamente al tesoro della Tradizione. […] Su questi punti fondamentali la dottrina tradizionale era chiara e insegnata unanimemente nelle università cattoliche. Ora molti testi del Concilio permettono ormai di dubitare di queste verità. […] Bisogna dunque concludere, costretti dall’evidenza dei fatti, che il Concilio ha favorito in maniera inconcepibile la diffusione degli errori liberali» (1).

II – Una concezione ecumenica della Chiesa

L’espressione «subsistit in» (Lumen gentium, 8) significa che ci sarebbe una presenza e un’azione della Chiesa di Cristo all’interno delle comunità cristiane separate, distinte da una sussistenza della Chiesa di Cristo nella Chiesa cattolica. Presa in questo senso tale espressione nega l’identità stretta tra la Chiesa di Cristo e la Chiesa cattolica, sempre insegnata fino a quel momento, specialmente da Pio XII, a due riprese, in Mystici corporis (2) e in Humani generis (3).
La Chiesa di Cristo è presente e agente come tale, vale a dire come l’unica arca di salvezza, solamente là dove è il Vicario di Cristo. Il Corpo mistico di cui questi è il capo visibile è strettamente identico alla Chiesa Cattolica Romana.

La stessa dichiarazione (LG 8) riconosce quindi la presenza di «elementi salvifici» all’interno delle comunità cristiane non-cattoliche. Il decreto sull’ecumenismo rincara la dose affermando che «lo Spirito di Cristo infatti non ricusa di servirsi di esse come di strumenti di salvezza, la cui forza deriva dalla stessa pienezza della grazia e della verità, che è stata affidata alla Chiesa cattolica» (UR 3).
Tali affermazioni non sono conciliabili con il dogma «fuori dalla Chiesa non c’è salvezza», riaffermato dalla Lettera del Sant’Uffizio dell’8 agosto 1949.
Una comunità separata non può disporsi all’azione di Dio, poiché la sua separazione è una resistenza allo Spirito Santo. Le verità e i sacramenti che eventualmente vi si conservano non possono produrre un effetto salutare, se non in opposizione ai principi erronei che fondano l’esistenza di queste comunità e che causano la loro separazione dal Corpo mistico della Chiesa cattolica, il cui capo visibile è il vicario di Cristo.

La dichiarazione Nostra Aetate afferma che le religioni non cristiane spesso «riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini», anche se questi devono trovare nel Cristo «la pienezza della vita religiosa» e «considera con un sincero rispetto quelle maniere d’agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine» (NAE, 2).
Una simile affermazione cade sotto lo stesso rimprovero della precedente. Considerati nell’eresia o nello scisma, i sacramenti, le verità di fede parziali e la Scrittura sono in uno stato di separazione dal Corpo mistico. Questa è la ragione per cui la setta che li utilizza non può realizzare, in quanto tale, la mediazione ecclesiale, né contribuire alla salvezza poiché privata della grazia soprannaturale. Lo stesso si deve dire delle maniere di pensare, vivere e agire, così come si praticano nelle religioni non cristiane.

Questi testi del concilio favoriscono di per sé la concezione latitudinarista della Chiesa, condannata da Pio XI in Mortalium animos, così come l’indifferentismo religioso ugualmente condannato da tutti i papi, da Pio IX a Pio XII (4).
Tutte le iniziative ispirate dal dialogo ecumenico e interreligioso, di cui la riunione di Assisi del 1986 rimane l’esempio più visibile, non sono che la realizzazione pratica, «un’illustrazione visibile, una lezione dei fatti, una catechesi a tutti intelligibile» (Giovanni Paolo II) di questi insegnamenti conciliari. Ma esse esprimono anche l’indifferentismo denunciato da Pio XI condannando la speranza secondo la quale «non debba riuscire troppo difficile che, malgrado singole divergenze in materia di religione i popoli si accordino fraternamente un giorno nella professione di alcune dottrine, accolte come base comune di vita spirituale. […] Aderendo ai fautori di tali teorie e tentativi ci si allontana del tutto dalla religione rivelata da Dio» (5).

III – Una concezione collegiale e democratica della Chiesa

1. Dopo aver scosso l’unità della Chiesa nella sua fede, i testi del Concilio l’hanno scossa anche nel suo governo e nella sua struttura gerarchica. L’espressione «subjectum quoque» (LG 22) vuol significare che il collegio dei vescovi, unito al Papa come al suo capo, è anch’esso, oltre al Papa da solo, il soggetto abituale e permanente del potere supremo e universale di giurisdizione nella Chiesa. Questa è la porta aperta a una diminuzione del potere del Sommo Pontefice ed anche alla possibilità di rimetterlo in discussione, con il rischio di mettere in pericolo l’unità della Chiesa.
L’idea di un doppio soggetto permanente del primato è effettivamente contraria all’insegnamento e alla pratica del magistero della Chiesa, in particolar modo alla costituzione Pastor aeternus del Concilio Vaticano I (DS 3055) e all’enciclica Satis cognitum di Leone XIII. Infatti solo il Papa possiede in maniera abituale e costante il potere supremo, che comunica solamente nelle circostanze straordinarie ai concili, qualora lo giudichi opportuno.

2. L’espressione «sacerdozio comune» proprio dei battezzati, distinto dal «sacerdozio ministeriale» (LG 10) non precisa che solo il secondo debba intendersi nel senso vero e proprio del termine, mentre il primo si intende solo in senso mistico e spirituale.
Questa distinzione veniva affermata chiaramente da Pio XII nel suo Discorso del 2 novembre 1954. Essa è assente dai testi del Concilio e apre la porta a un orientamento democratico della Chiesa, condannato da Pio VI nella Bolla Auctorem fidei (DS 2602). La tendenza a far partecipare il popolo all’esercizio del potere si ritrova nel moltiplicarsi di organismi di tutti i tipi, come prevede il nuovo diritto canonico (canone 129 § 2). Si perdere così di vista la distinzione tra clero e laici, nonostante sia di diritto divino.

IV – Dei falsi diritti naturali e dell’uomo

La dichiarazione Dignitatis humanae afferma l’esistenza di un falso diritto naturale dell’uomo in materia religiosa. Finora, la Tradizione della Chiesa è stata unanime nel riconoscere ai non cattolici il diritto naturale di non essere costretti dai poteri civili ad aderire all’unica vera religione (di intenzione al foro interno e di esercizio al foro esterno) e legittimava tutt’al più in alcune circostanze, una certa tolleranza nell’esercizio delle false religioni, al foro esterno pubblico. Il Vaticano II riconosce in più ad ogni uomo il diritto naturale di non essere impedito dai poteri civili, di esercitare in foro esterno pubblico una religione falsa e pretende riconoscere come un diritto civile tale diritto naturale di esenzione da ogni costrizione da parte delle autorità sociali. I soli limiti giuridici di questo diritto saranno quelli dell’ordine puramente civile e profano della società. Il Concilio impone così ai governi civili l’obbligo di non fare più discriminazioni per motivi religiosi e di stabilire l’uguaglianza giuridica tra la vera e le false religioni.
Questa nuova dottrina sociale è in opposizione con gli insegnamenti di Gregorio XVI in Mirari Vos e di Pio IX in Quanta cura. Essa si fonda su una falsa concezione della dignità umana, puramente ontologica e nient’affatto morale.
Di conseguenza, la costituzione Gaudium et spes insegna il principio dell’autonomia del temporale (GS 36), cioè la negazione della regalità sociale di Cristo, tuttavia insegnata da Pio XI in Quas primas, e per finire apre la porta all’indipendenza della società temporale rispetto ai comandamenti di Dio.

V – La protestantizzazione della Messa

Il nuovo rito della Messa, «si allontana in maniera impressionante, sia nel suo insieme come nei particolari» (6) dalla definizione cattolica della Messa, come essa risulta dagli insegnamenti del concilio di Trento. Con le sue omissioni e i suoi equivoci, il nuovo rito di Paolo VI attenua l’identificazione della Messa con il Sacrificio della Croce, al punto che la Messa appare molto meno come sacrificio che come suo semplice memoriale. Questo rito riformato occulta anche il ruolo del sacerdote a vantaggio dell’azione della comunità dei fedeli. Esso diminuisce gravemente l’espressione del fine propiziatorio del Sacrificio della Messa, vale a dire l’espiazione e la riparazione del peccato.
Tali anomalie proibiscono di considerare tale rito come legittimo. Nell’interrogatorio del 11-12 gennaio 1979, la Congregazione per la Dottrina della Fede poneva questa domanda: «Sostenete che un fedele cattolico possa pensare e affermare che un rito sacramentale, in particolare quello della messa, approvato e promulgato dal Sovrano Pontefice, possa essere non conforme alla fede cattolica o favens haeresim?».
Mons. Lefebvre rispose: «Questo rito in sé stesso non professa la fede cattolica in maniera chiara come l’antico Ordo Missae e pertanto può favorire l’eresia. Non so a chi attribuirlo né se il papa ne sia responsabile. Ciò che stupisce è che un Ordo Missae di sapore protestante e quindi favens haeresim abbia potuto essere diffuso dalla curia romana» (7).
Queste gravi anomalie ci proibiscono di considerare tale rito come legittimo, di celebrarlo e di consigliare di assistervi o di parteciparvi positivamente.

VI – Il nuovo Codice, espressione delle novità conciliari

A dire dello stesso Giovanni Paolo II, il nuovo Codice di Diritto Canonico del 1983 rappresenta «un grande sforzo di tradurre in linguaggio canonistico» (8) gli insegnamenti del concilio Vaticano II, compresi soprattutto i punti gravemente erronei segnalati fin’ora. «Fra gli elementi che caratterizzano l’immagine vera e genuina della Chiesa», spiega ancora Giovanni Paolo II, «dobbiamo mettere in rilievo soprattutto questi: la dottrina, secondo la quale la Chiesa viene presentata come il popolo di Dio e l’autorità gerarchica viene proposta come servizio; la dottrina per cui la Chiesa è vista come “comunione”, e che, quindi, determina le relazioni che devono intercorrere fra le chiese particolari e quella universale, e fra la collegialità e il primato; la dottrina, inoltre, per la quale tutti i membri del popolo di Dio, nel modo proprio a ciascuno, sono partecipi del triplice ufficio di Cristo: sacerdotale, profetico e regale. A questa dottrina si riconnette anche quella che riguarda i doveri e i diritti dei fedeli, e particolarmente dei laici; e, finalmente, l’impegno che la Chiesa deve porre nell’ecumenismo».

Questo nuovo diritto accentua la falsa dimensione ecumenista della Chiesa, permettendo di ricevere i sacramenti della Penitenza, dell’Eucarestia e dell’Estrema Unzione da ministri non cattolici (canone 844) e favorisce l’ospitalità ecumenica autorizzando i ministri cattolici a dare il sacramento dell’Eucarestia a dei non cattolici. Il canone 336 riprende e accentua l’idea di un doppio soggetto permanente del primato. I canoni 204 § 1, 208, 212 § 3, 216 e 225 accentuano l’equivoco del sacerdozio comune e l’idea correlativa del Popolo di Dio. Infine, in questo nuovo Codice si delinea una definizione erronea del matrimonio, dove non appare più l’oggetto preciso del contratto matrimoniale né la gerarchia fra i suoi fini. Lungi dal favorire la famiglia cattolica, queste novità aprono una breccia nella morale matrimoniale.

VII – Una nuova concezione del magistero

1. La costituzione Dei Verbum, mancando di precisione, afferma che «la Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio» (DV 8). Questa imprecisione apre la porta all’errore della Tradizione vivente ed evolutiva, condannata da San Pio X nell’Enciclica Pascendi e nel Giuramento Antimodernista. Infatti la Chiesa non può «tendere verso la pienezza della verità divina» se non nell’ottica di formularne un’espressione più precisa, non nel senso che i dogmi proposti dalla Chiesa vedrebbero attribuirsi «un senso diverso da quello che la Chiesa ha inteso e intende ancora» (Dei Filius, DS 3043).

2. Il Discorso di Benedetto XVI del 22 dicembre 2005 tenta di giustificare questa concezione evolutiva di una Tradizione vivente e di assolvere di fatto anche il Concilio da una qualunque rottura con la Tradizione della Chiesa.
Il Vaticano II ha voluto una «nuova definizione del rapporto tra la fede della Chiesa e certi elementi essenziali del pensiero moderno» e per fare questo i suoi insegnamenti hanno «rivisto o anche corretto alcune decisioni storiche, ma in questa apparente discontinuità ha invece mantenuto ed approfondito la sua intima natura e la sua vera identità», quella «dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino».

Questa spiegazione suppone che l’unità della fede della Chiesa riposi non più su un oggetto (perché vi è discontinuità, almeno sui punti segnalati fin qui, tra il Vaticano II e la Tradizione), ma su un soggetto, nel senso che l’atto di fede si definisce molto più in funzione delle persone credenti che delle verità credute. Questo atto diventa principalmente l’espressione di una coscienza collettiva e non più l’adesione ferma dell’intelligenza al deposito delle verità rivelate da Dio.
Eppure Pio XII in Humani generis insegna che il magistero è la «regola prossima e universale di verità in materia di fede e di costumi», verità oggettiva del deposito della fede, consegnato nella Sacra Scrittura e nella Tradizione divina che ne sono le fonti. La costituzione Dei Filius del Concilio Vaticano I insegna anche che questo deposito non è «una invenzione filosofica da perfezionare», ma è stato «consegnato alla Sposa di Cristo come divino deposito perché lo custodisca fedelmente e lo insegni con magistero infallibile» (DS 3020).

3. Il discorso di apertura del papa Giovanni XXIII (11 ottobre 1962) e la sua allocuzione indirizzata al Sacro Collegio del 23 dicembre 1962, assegnano palesemente al concilio Vaticano II un’intenzione molto particolare, dichiarata di tipo «pastorale», in virtù della quale il magistero avrebbe dovuto esprimere la fede della Chiesa «attraverso le forme della indagine e della formulazione letteraria del pensiero moderno».
L’enciclica Ecclesiam suam del Papa Paolo VI (6 agosto 1964) precisa ancora questa idea affermando che il magistero del Vaticano II mira «all’inserimento del messaggio cristiano nella circolazione di pensiero, di parole, di cultura, di costume, di tendenze dell’umanità, quale oggi vive e si agita sulla faccia della terra» (n. 70); in particolare l’annuncio della verità «non si presenterà armato di esteriore coercizione, ma solo per le vie legittime dell’umana educazione, dell’interiore persuasione, della comune conversazione offrirà il suo dono di salvezza, sempre nel rispetto della libertà personale e civile.» (n. 77).

La Costituzione pastorale Gaudium et spes afferma che «il Concilio si propone innanzitutto di esprimere un giudizio su quei valori che oggi sono più stimati e di ricondurli alla loro divina sorgente. Questi valori infatti, in quanto procedono dall’ingegno umano che all’uomo è stato dato da Dio, sono in sé ottimi ma per effetto della corruzione del cuore umano non raramente vengono distorti dall’ordine richiesto, per cui hanno bisogno di essere purificati» (GS 11).
Da questi valori del mondo procedono le tre grandi novità introdotte dal Vatiano II : la libertà religiosa, la collegialità e l’ecumenismo.

4. Noi ci appoggiamo quindi sulla regola prossima e universale della verità rivelata che è il magistero di sempre, per contestare le nuove dottrine che sono ad esso contrarie. È proprio questo, in effetti, il criterio dato da San Vincenzo di Lerino: «Il criterio della verità rivelata, e d’altronde dell’infallibilità del Papa e della Chiesa, è la sua conformità alla Tradizione e al deposito della fede”… “Quod ubique, quod semper. Ciò che è insegnato ovunque e sempre, nello spazio e nel tempo”» (9).
Ora, la dottrina del Vaticano II sull’ecumenismo, la collegialità e la libertà religiosa è una dottrina nuova, contraria alla Tradizione e al diritto pubblico della Chiesa, basato esso stesso su principi divinamente rivelati e, in quanto tali, immutabili.
Ne concludiamo che questo Concilio, avendo voluto proporre queste novità, nella misura stessa in cui le propone, è privato di valore magisteriale vincolante. La sua autorità è dubbia fin dall’inizio in ragione della sua nuova intenzione, cosiddetta «pastorale», segnalata al paragrafo precedente. Tale autorità appare poi certamente nulla riguardo ai diversi punti in cui si mette in contraddizione con la Tradizione (cfr. sopra, da I a VII, 1).

***

Fedeli all’insegnamento costante della Chiesa, in unione al nostro venerato fondatore Mons. Marcel Lefebvre e sul suo esempio, non abbiamo mai cessato finora di denunciare il Concilio e i suoi testi principali come una delle cause essenziali della crisi che scuote la Chiesa da cima a fondo, penetrandola fino alle sue «stesse viscere» e alle sue «vene» secondo la forte espressione usata da San Pio X. D’altronde, più approfondiamo le cose e più vediamo confermarsi le analisi già esposte con straordinaria chiarezza da Mons. Lefebvre il 9 settembre 1965 nell’aula conciliare.

Ci sia permesso di riprendere le sue stesse parole in merito alla Costituzione conciliare sulla «Chiesa nel mondo di oggi» (Gaudium et Spes) : «Questa costituzione pastorale non è né pastorale, né emanata dalla Chiesa cattolica : essa non pasce gli uomini e i cristiani della verità evangelica e apostolica e, d’altra parte, mai la Chiesa ha parlato in questo modo. Questa voce, noi non possiamo ascoltarla, perché non è la voce della Sposa del Cristo. La voce del Cristo, nostro Pastore, noi la conosciamo. Questa, l’ignoriamo. L’abito è quello delle pecorelle ; la voce non è quella del Pastore, ma forse quella del lupo. Ho detto.» (10).
I cinquant’anni passati da questo intervento non hanno fatto che confermare tale analisi.
Il 7 dicembre 1968, solamente tre anni dopo la chiusura del Concilio, Paolo VI dovette ammettere che: «La Chiesa si trova in un’ora d’inquietudine, di autocritica, si direbbe perfino di autodistruzione».
Il 29 giugno 1972 riconobbe che : «da qualche fessura è entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio. C’è il dubbio, l’incertezza, la problematica, l’inquietudine, l’insoddisfazione, il confronto». Lo constatò, ma non fece nulla. Proseguì la riforma conciliare i cui promotori non avevano esitato a paragonare alla Rivoluzione del 1789, in Francia, o a quella del 1917, in Russia.

Non possiamo restare passivi, non possiamo renderci complici di questa autodistruzione. Per questo vi invitiamo, cari amici e benefattori, a restare fermi nella fede e a non lasciarvi turbare da queste novità dovute a una delle più terribili crisi che deve attraversare la Santa Chiesa.

Che la Passione di Nostro Signore e la Sua Resurrezione ci fortifichino nella fedeltà, nell’amore indefettibile verso Dio, verso Nostro Signore, vero Dio e vero uomo, e verso la sua Santa Chiesa, divina e umana, in una speranza irreprensibile… in Te speravi non confundar in aeternum.
Che il Cuore addolorato e immacolato di Maria si degni di proteggerci, e che presto giunga il suo trionfo!

 Winona, domenica delle Palme 13 aprile 2014
+Bernard Fellay

NOTE

1 . Mons. Lefebvre, «Lettera del 20 dicembre 1966 indirizzata al cardinal Ottaviani» in Accuso il Concilio, ed. Ichthys, Trento, 2002, p. 142-143 [su questo sito].
2 - Pio XII, Enciclica Mystici corporis, 29 giugno 1943.
3 -Pio XII, Enciclica Humani generis, 12 agosto 1950.
4 - Sull’indifferentismo e sul latitudinarismo, si vedano le proposizioni condannate dal Sillabo, capitolo 3, n. 15 a 18 : « 15 - È libero ciascun uomo di abbracciare e professare quella religione che, sulla scorta del lume della ragione, avrà riputato essere vera. 16 - Gli uomini nell’esercizio di qualsivoglia religione possono trovare la via della eterna salvezza, e conseguire l’eterna salvezza. 17 - Almeno si deve bene sperare della eterna salvezza di tutti coloro che non sono nella vera Chiesa di Cristo. 18 - Il protestantismo non è altro che una forma diversa della medesima vera religione cristiana, nella quale egualmente che nella Chiesa cattolica si può piacere a Dio
5 - Pio XI, Enciclica Mortalium animos, 6 gennaio 1828.
6 - Cardinali Ottaviani e Bacci, «Lettera di presentazione a Paolo VI» in Breve esame critico del Novus Ordo Missae, Supp 1/2000, «Inter Multiplices Una Vox».
7 - «Mgr. Lefebvre et le Saint-Office», in Itineraires n. 233 di maggio 1979, p. 146-147.
8 - Giovanni Paolo II, Costituzione apostolica Sacrae disciplinae leges, 25 gennaio 1983.
9 - Mons. Marcel Lefebvre, «Conclusione» in Accuso il Concilio, ed. Ichthys, Trento, 2002, p. 147.
10 - Mons. Marcel Lefebvre, Accuso il Concilio, ed. Ichthys Trento, 2002, p. 126.




aprile  2014

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