Lettera sui matrimoni:
chiarimenti e messe a punto

15 giugno 2017


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Traduzione nostra


15 giugno 2017

Il 27 marzo 2017, il cardinale Müller, Prefetto della Congregazione per le Dottrina e la Fede e Presidente della Pontificia Commissione Ecclesia Dei, ha firmato, su mandato di Papa Francesco, una lettera indirizzata ai vescovi di tutto il mondo «circa il permesso per la celebrazione di matrimoni dei fedeli della Fraternità San Pio X».

Il testo che segue propone alcune riflessioni in relazione a questa Lettera.

L’origine della «forma ordinaria» del matrimonio

«Il Concilio di Trento, scrive il canonico Raoul Naz (Traité de droit canonique, Letouzey et Ané, 1954, III, § 417), ha voluto reagire all’abuso dei matrimoni clandestini, esigendo, con il famoso decreto Tametsi, che il consenso matrimoniale fosse manifestato in presenza del parroco o dell’Ordinario delle parti, o di un sacerdote da essi delegato (…). Il decreto Ne temere della Congregazione del Concilio, del 2 agosto 1907, per la validità del matrimonio impose a partire dalla Pasqua del 1908, in tutta la Chiesa latina, la presenza dell’Ordinario o del parroco del luogo in cui lo stesso matrimonio viene contratto, o di un sacerdote da essi delegato (…). Con alcune piccole modifiche o aggiunte, la parte del decreto Ne temere concernente il matrimonio, si trova riprodotta per intero nel Codice del 1917», come del resto nel Codice del 1983.

Non è dunque in virtù del Codice del 1983, né del Codice del 1917, che i matrimoni, salvo eccezioni specificate, devono essere contratti «in presenza del parroco o dell’Ordinario del luogo o di un sacerdote da loro delegato» (Can. 1094 del Codice del 1917), ma direttamente in virtù del Concilio di Trento e di un atto successivo di San Pio X.

Questa disposizione giuridica, che riguarda la validità, non ha assolutamente niente a che vedere con alcuna definizione (tradizionale o modernista) del matrimonio, né con le altre condizioni di validità e liceità, né con il modo in cui procedono i tribunali canonici per giudicare le cause di nullità del matrimonio, e ancor meno con altre considerazioni sulla situazione attuale della Chiesa, la libertà religiosa, l’ecumenismo, il dialogo interreligioso, lo stato disastroso della liturgia, ecc. Essa regola esclusivamente e precisamente il modo in cui dev’essere espresso il consenso dei futuri sposi, e questo per assicurare la certezza della realtà del matrimonio contratto.

La delega per celebrare un matrimonio

Secondo il diritto, solo un ecclesiastico che abbia giurisdizione sul territorio è per natura «testimone canonico»: si tratti dell’Ordinario (cioè del vescovo diocesano in tutta la sua diocesi) o del parroco nella sua parrocchia. Tutti gli altri sacerdoti, anche il vicario parrocchiale nella sua parrocchia, hanno bisogno di una delega per ricevere il consenso dei futuri sposi.

Quindi per il diritto più ordinario, più universale e più certo, un sacerdote che non sia il parroco del luogo e che voglia celebrare un matrimonio, deve obbligatoriamente chiedere una delega o al vescovo della diocesi ove il matrimonio avrà luogo, o al parroco della parrocchia nella quale dev’essere celebrato questo matrimonio. Questa è una situazione perfettamente normale nella Chiesa: una restrizione prevista dal diritto, e riguarda tutti i sacerdoti che non sono il parroco del luogo.

Questa delega non dà una «giurisdizione» in senso proprio: ecco perché, come vedremo, il vescovo o il parroco possono delegare anche un sacerdote colpito da pene canoniche. Sarebbe meglio definirlo un «potere», una «capacità». In effetti, tale delega permette al sacerdote delegato di sostituire il parroco o il vescovo, di prenderne il posto come «testimone canonico» di tale preciso matrimonio. Come scrive il canonico Pierre Fourneret (Le mariage chrétien, Beauchesne, 1919, pp. 145-146), «il parroco e l’Ordinario hanno sempre il diritto di farsi sostituire in questa funzione da un delegato, posto che si tratti di un sacerdote. (…) Il sacerdote delegato si accontenta di rappresentare il parroco o l’Ordinario».

Di contro, qualsiasi sacerdote che abbia ricevuto la delega è «testimone canonico» e quindi può celebrare un matrimonio in modo certamente valido. In questo caso, infatti, sottolinea il canonico Fourneret: «la validità del matrimonio non potrà essere attaccata per difetto di competenza del sacerdote» (ibid., p. 147).

La «forma straordinaria» e sua legittimità

Questo significa che questa «forma giuridica ordinaria», come la chiama Naz, usata dall’Ordinario, dal parroco del luogo o da un sacerdote che abbia ricevuto la delega, sia assolutamente l’unica forma giuridica possibile per un matrimonio valido? No. Il diritto canonico prevede esplicitamente una «forma giuridica straordinaria», nel caso in cui «non sia possibile avere o trovare un parroco o l’Ordinario o un sacerdote delegato, senza grave inconveniente» (Can. 1098 del Codice del 1917).

L’impossibilità di avere o di trovare il «testimone canonico» può essere sia fisica sia morale (cfr. F. X. Wernz - P. Vidal, Ius Canonicum, Rome 1946, V, numero 544; D. Lazzarato, Iurisprudentia Pontificia, Typis Poliglottis Vaticanis, Rome, 1956, numero 926, § 5-6). Ogni grave inconveniente, spirituale o temporale, è sufficiente (cfr. B. H. Merkelbach, Summa Theologiae Moralis, Paris, 1942, III, numero 849). Questo grave inconveniente può riguardare il sacerdote, uno o entrambi i futuri sposi, un terzo o il bene comune (cfr. M. Conte a Coronata, Compendium Iuris Canonici, Marietti, 1950, III, numéro 1048).

Naz sottolinea che «questa nozione di impossibilità fisica o morale di ottenere il sacerdote è stata intesa in maniera sempre più ampia (…). La giurisprudenza si è evoluta in un senso sempre più favorevole all’applicazione del Can. 1098» (Traité de droit canonique, III, §. 426).

Il matrimonio in virtù del Canone 1098, o matrimonio secondo la «forma straordinaria», non è dunque in alcun modo un falso matrimonio, un’apparenza di matrimonio, o un matrimonio di second’ordine. Al contrario esso è esplicitamente previsto dal diritto canonico e da esso protetto. Ad esempio, nei paesi di missione, in cui il sacerdote può passare solo di tanto in tanto, molti matrimoni sono celebrati secondo la «forma straordinaria». Purché le condizioni oggettive per utilizzare la «forma straordinaria» siano soddisfatte, un matrimonio celebrato in questo modo è indubbiamente valido.

I matrimoni nella Fraternità San Pio X

Tra il 1970 e il 1975, i sacerdoti della Fraternità San Pio X che dovevano celebrare un matrimonio, ordinariamente hanno chiesto ed ottenuto dal parroco del luogo la delega necessaria. A partire dal 1975 e dalla pretesa «soppressione» della Fraternità San Pio X, questa delega è stata abitualmente rifiutata ai sacerdoti della Fraternità San Pio X (salvo da parte di alcuni sacerdoti amici) col falso pretesto che essi non erano in regola con la Chiesa.

Parallelamente, la crisi della Chiesa produceva allora i suoi frutti mortiferi e rendeva sempre più difficile per i fedeli legati alla Tradizione potersi sposare in maniera pienamente cattolica. La liturgia proposta era quella protestantizzata derivata dal Vaticano II. La formazione dei fidanzati era molto spesso inficiata da gravi errori morali riguardanti specialmente il matrimonio. In particolare, in seguito al Vaticano II, i due fini del matrimonio, che per loro natura sono subordinati, divennero equivalenti, e addirittura (secondo lo spirito del Codice di Diritto Canonico del 1983) puramente e semplicemente invertiti.

Il diritto naturale al matrimonio, come il diritto soprannaturale a mantenere la propria fede cattolica, erano dunque ampiamente violati.

In queste condizioni, la Fraternità San Pio X ha ritenuto in maniera fondata che oggi esiste nella Chiesa un reale e grave «stato di necessità», particolarmente per quanto concerne il matrimonio, «stato di necessità» che comporta un impedimento morale di trovare il «testimone canonico», poiché questi proporrebbe una liturgia adulterata ed una morale deviante. Da questo, diventa legittimo ricorrere alla «forma straordinaria», a norma del Canone 1098, e dunque sposarsi con la liturgia tradizionale davanti ad un sacerdote legato alla Tradizione, che non sia quindi né l’Ordinario del luogo, né il parroco, né un sacerdote delegato da uno dei due (cfr. per esempio Don Grégoire Celier, Les mariages dans la Tradition sont-ils valides ? – opuscolo estraneo alle controversie attuali, in quanto pubblicato dalle edizioni Clovis nel 1999).

In questo caso il sacerdote della Fraternità San Pio X non è, in senso proprio, il «testimone canonico», poiché non beneficia né di una giurisdizione propria (non è né l’Ordinario, né il parroco del luogo), né di una delega (perché nessuno l’ha delegato). «Il sacerdote non rivendica affatto una giurisdizione che non possiede. Ma secondo i termini del Canone 1098, egli è presente perché: «se un altro sacerdote potrà essere presente, dovrà essere chiamato ad assistere, con i testimoni, al matrimonio». Egli riceve i consensi perché questo è il rito liturgico ma, né in questo caso, né in quello della forma canonica, il sacerdote è ministro (ministri sono gli sposi stessi): egli si limita a dare da testimone. Egli celebra la Messa perché questo è il legittimo desiderio degli sposi e l’auspicio della Chiesa. Egli compila i registri, non in quanto testimone canonico, ma per conservare traccia ufficiale del matrimonio celebrato secondo il Canone 1098. Tutti i casi di matrimoni celebrati “nella Tradizione” (cioè senza la forma canonica) lo sono stati e lo saranno secondo i termini del Canone 1098, dunque davanti ai testimoni, con il sacerdote come testimone naturalmente affidabile, ma non come «testimone canonico» della «forma canonica» (Les mariages dans la Tradition sont-ils valides?, edizioni Clovis, 1999, pp. 25-26).

La «forma straordinaria» resta… straordinaria

E’ molto chiaro che l’affermazione di uno «stato di necessità» per quanto concerne il matrimonio, che giustifichi il ricorso alla «forma straordinaria», è e rimane perfettamente valido nella misura in cui la crisi della Chiesa è ben lungi dall’essere risolta, anzi, al contrario, e proprio a proposito del matrimonio cristiano, come hanno appena dimostrato i due sinodi sulla famiglia e l’Esortazione apostolica Amoris lætitia. Un matrimonio celebrato secondo la «forma straordinaria», in ragione dello stato di necessità, è e rimane valido in sé.

Tuttavia, come indica il nome stesso, la «forma straordinaria» è fuori dall’ordinario, essa non può divenire ordinaria, essa deve esistere solo nel caso in cui la «forma ordinaria» non sia possibile. Il Canone 1094, che tratta della «forma ordinaria», è un canone «assoluto», che inizia molto chiaramente con: «Sono validi solo …». Il Canone 1098 sulla «forma straordinaria», è solo un canone «condizionale», che inizia con: «Se non è possibile…» e che comporta anche delle restrizioni, come «posto che in tutta prudenza bisogna prevedere …». La norma assoluta e incondizionata del matrimonio è dunque la «forma ordinaria», mentre la «forma straordinaria» è solo eccezionale, relativa e occasionale.

Questo non significa che i futuri sposi legati alla Tradizione debbano, in tutti i casi, cercare prima di tutto di ottenere la «forma ordinaria» con il «testimone canonico», e solo in caso disperato ricorrere alla «forma straordinaria». Poiché lo stato di necessità è attualmente un fatto comune e universale che autorizza di per sé, in particolare in forza delle passate esperienze negative, il ricorso immediato alla «forma straordinaria».

Per contro, se si presenta una seria possibilità di realizzare, in un certo numero di casi, dei matrimoni interamente conformi alla Tradizione, ma secondo la «forma ordinaria», sarebbe certo contrario alla prudenza, al Diritto Canonico e allo spirito della Chiesa non esaminare con cura questa possibilità e non utilizzarla se fosse accettabile.

È in questa prospettiva e con questo spirito che bisogna studiare la Lettera del cardinale Müller del 27 marzo 2017, per determinare se le disposizioni che essa propone permettano in un certo numero di casi di realizzare dei matrimoni secondo la «forma ordinaria», ma perfettamente conformi alla Tradizione, o se, al contrario, tali disposizioni costituiscano una trappola per la Tradizione.

Le disposizioni della Lettera

Bisogna notare, innanzi tutto, che questa Lettera è indirizzata, in maniera logica, ai vescovi. Nel caso delle confessioni (Lettera Apostolica Misericordia et misera del 20 novembre 2016, § 12), il Papa, agendo come Pastore Supremo, conferì direttamente ai sacerdoti della Fraternità San Pio X la possibilità di confessare validamente e lecitamente, senza chiedere nulla in cambio. Qui, data la dimensione intrinsecamente «sociale» del sacramento del matrimonio e il carattere pubblico che il decreto del Concilio di Trento ha inteso assicurargli, la Sede Apostolica si rivolge agli Ordinari, che sono la fonte della giurisdizione del parroco e, almeno indirettamente, del sacerdote da lui delegato per un  matrimonio.

A questi vescovi, la Lettera del cardinale Müller concede la «possibilità di autorizzare…»: infatti, molti segni manifestano molto chiaramente che la volontà del Papa sarebbe di incoraggiare positivamente i vescovi a dare ai sacerdoti della Fraternità San Pio X le autorizzazioni inerenti i matrimoni, il più ampiamente possibile. Sembra che ogni volta, per esempio, che un sacerdote della Fraternità San Pio X solleciti un permesso per la celebrazione di un matrimonio in una chiesa parrocchiale (richieste che i sacerdoti della Fraternità San Pio X sono indotti a fare almeno di tanto in tanto, sia direttamente sia tramite i futuri sposi), il desiderio del Papa sia che questo permesso possa essere accordato. È in questo spirito che egli ha dichiarato sull’aereo il 13 Maggio 2017: «L’anno scorso io ho dato l’autorizzazione a tutti [i sacerdoti della Fraternità San Pio X], per la confessione, e anche una forma di giurisdizione per i matrimoni». La lettera del Nunzio in Argentina ai vescovi di quel paese, ispirata direttamente dall’ex Arcivescovo di Buenos Aires, va chiaramente in questa direzione.

La Lettera del cardinale Müller considera in effetti quattro situazioni. Prima situazione: il matrimonio viene celebrato in una chiesa parrocchiale e il consenso degli sposi viene ricevuto da un sacerdote «ufficiale» (a priori, il parroco della chiesa in cui si svolge il matrimonio). Seconda situazione: il matrimonio viene celebrato in una chiesa parrocchiale ed il consenso degli sposi viene ricevuto da un sacerdote della Fraternità San Pio X che ha ottenuto la delega. Terza situazione: il matrimonio viene celebrato in un luogo di culto della Fraternità San Pio X e il consenso degli sposi viene ricevuto da un sacerdote della Fraternità San Pio X che ha ottenuto la delega. Quarta situazione: il matrimonio viene celebrato in un luogo di culto della Fraternità San Pio X e il consenso degli sposi viene ricevuto da un sacerdote «ufficiale».

La prima soluzione (consenso ricevuto dal parroco nella sua chiesa) è abbastanza comune quando il matrimonio ha luogo in una chiesa parrocchiale. La seconda soluzione (consenso ricevuto da un sacerdote della Fraternità San Pio X in una chiesa parrocchiale) esiste già in rari casi, quando un parroco coraggioso dà la delega, e il suo ampliamento sarebbe un grande beneficio per tutti i matrimoni celebrati in una chiesa parrocchiale. La terza soluzione (consenso ricevuto da un sacerdote della Fraternità San Pio X nella sua cappella) sarebbe la più coerente, la migliore e la più saggia: l’orientamento generale, dopo la pubblicazione della Lettera del cardinale Müller, sembra andare chiaramente in questa direzione (tre vescovi in Francia, per esempio, hanno già deciso in questo senso). La quarta soluzione (consenso ricevuto da un sacerdote «ufficiale» in una cappella della Fraternità San Pio X) è di gran lunga la più problematica, e potrebbe essere eventualmente accettata solo a condizioni molto rigorose, per conservare al matrimonio celebrato il suo carattere pienamente cattolico e tradizionale.

Bisogna notare, tuttavia che, in ogni caso, l’intervento di un sacerdote «ufficiale» è limitato dalla Lettera stessa al solo scambio dei consensi, che dovrà svolgersi, evidentemente, nel rito tradizionale, tranne credere che la Lettera sia del tutto incoerente. Questa Lettera dice esplicitamente che la celebrazione della Messa (e quindi dei suoi annessi: la predicazione, la consacrazione alla Santa Vergine, ecc..) spetta al solo sacerdote della Fraternità San Pio X. Da notare, per inciso, anche se non è questo il soggetto, che questa è la prima volta che un documento romano prevede che un sacerdote della Fraternità San Pio X possa celebrare la Messa in una chiesa parrocchiale senza alcuna previa condizione canonica, teologica o altro.

Dopo la celebrazione del matrimonio, devono essere firmati i registri ecclesiastici che l’attestino giuridicamente. Se un sacerdote «ufficiale» ha ricevuto i consensi in una chiesa parrocchiale, questo matrimonio sarà logicamente trascritto nei registri della parrocchia, secondo il diritto comune. Se un sacerdote della Fraternità San Pio X ha ricevuto la delega e celebrato un matrimonio in una chiesa parrocchiale, questo sarà ancora logicamente trascritto nei registri di questa parrocchia. Prassi questa che peraltro è quella più ordinaria quando un matrimonio è celebrato in una chiesa parrocchiale.

Se, come è auspicabile e già comincia a realizzarsi in diversi luoghi, un sacerdote della Fraternità San Pio X ha ricevuto la delega per celebrare il matrimonio in un luogo di culto della Fraternità San Pio X, il matrimonio sarà trascritto nei registri della Fraternità San Pio X, e il sacerdote ha solo l’obbligo di notificarlo a posteriori al vescovo diocesano. Questa trasmissione di informazioni alla Curia diocesana non pone alcuna difficoltà pratica, poiché, conformemente al diritto canonico, i sacerdoti della Fraternità San Pio X hanno già l’abitudine di «notificare» tutti i matrimoni che celebrano, affinché vengano trascritti nei registri ecclesiastici della parrocchia in cui ciascuno degli sposi è stato battezzato.

Le modalità pratiche

La nuova situazione creata dalla Lettera del cardinale Müller comporta delle modalità pratiche che adesso è il caso di esaminare.

La prima è che si dovrà seguire un iter per ottenere sia l’intervento di un sacerdote «ufficiale» sia la delega per un sacerdote della Fraternità San Pio X. Ma, per la precisione, la Lettera ha lo scopo esplicito di facilitare proprio questo iter, come dimostrano del resto le disposizioni prese dai primi vescovi che hanno reagito a questa Lettera. Ogni sacerdote della Fraternità San Pio X che ha partecipato, da vicino o da lontano, all’organizzazione di un matrimonio in una chiesa parrocchiale, sa quanto finora i negoziati siano stati complessi ed incerti: la Lettera semplificherà le cose. In un certo numero di casi, la delega verrà data ai sacerdoti della Fraternità San Pio X in maniera automatica (cfr. i recenti decreti emanati in questo senso da Mons. Alain Planet, vescovo di Carcassonne e Narbona, di Mons. Dominique Rey, Vescovo di Fréjus-Tolone, di Mons. Luc Ravel, Vescovo di Strasburgo); negli altri casi i sacerdoti della Fraternità San Pio X seguiranno le indicazioni e le istruzioni del Superiore del Distretto, ma a priori, una telefonata, una posta elettronica o una lettera, dovrebbero essere sufficienti per risolvere la questione.

D’altronde, come abbiamo già detto, questa necessità di chiedere una delega, per un sacerdote che non sia parroco, è cosa normale nella Chiesa; non si tratta affatto di un obbligo in più, perché i sacerdoti richiedenti sono legati alla Tradizione, al contrario, si tratta di un limite che riguarda tutti i sacerdoti che non sono il parroco del luogo, limite che da cui i sacerdoti della Fraternità San Pio X sono stati finora dispensati in ragione del ricorso alla «forma straordinaria». Tolto questo, i sacerdoti della Fraternità San Pio X sono già tenuti a rispettare un obbligo simile, in quanto devono sottomettere il dossier del matrimonio, prima della sua celebrazione, al controllo del Distretto.

Un altro punto è che i futuri sposi non potranno ottenere, forzatamente e a colpo sicuro, la possibilità che sia un sacerdote della Fraternità San Pio X di loro scelta a ricevere i loro consensi, come avviene di frequente quando esiste un legame di parentela o di amicizia con il detto sacerdote («Il consenso degli sposi sarà ricevuto dal reverendo Tale, zio della sposa»). È possibile che il Vescovo, o il parroco, non diano la delega a questo sacerdote amico degli sposi, ma, per esempio, al Priore del Priorato locale della Fraternità San Pio X. Ma anche questo è conforme al diritto canonico: il vescovo, o il parroco, delegano se vogliono e chi vogliono. Il parroco ha perfettamente il diritto di celebrare, solo lui, tutti i matrimoni che si svolgono nella sua parrocchia, senza mai delegare, neanche il suo vicario. I futuri sposi non hanno un «diritto» a che il loro consenso sia ricevuto da un sacerdote loro amico, mentre hanno il diritto certo di sposarsi con la liturgia tradizionale e con un insegnamento teologico e morale pienamente cattolico.

Tuttavia, il carico di lavoro che pesa oggi sui sacerdoti diocesani, rende improbabile, nella maggior parte dei casi, il rifiuto che un altro sacerdote celebri un matrimonio al posto loro: soprattutto dopo la Lettera del cardinale Müller e l’incoraggiamento che contiene a delegare i sacerdoti della Fraternità San Pio X. È probabile, al contrario, che i parroci siano desiderosi di scaricarsi di un ministero supplementare, specialmente il sabato (giorno abituale per la celebrazione dei matrimoni), giorno nel quale i loro impegni sono ancora maggiori. In caso contrario, il sacerdote amico degli sposi potrà sempre celebrare la Messa del matrimonio, o fare la predica in una Messa celebrata da un altro sacerdote della Fraternità San Pio X.

Le principali obiezioni contro la Lettera

Tuttavia, al fatto di ammettere l’uso delle disposizioni della Lettera si oppongono certe obiezioni: delle quali è qui opportuno considerare le principali.

Prima obiezione

La prima obiezione sostiene che, consentendo l’uso della Lettera del cardinale Müller, per ciò stesso si accetterebbe tutta la dottrina matrimoniale nuova ed erronea derivata dal concilio Vaticano II. Ma non si vede in cosa questa obiezione sarebbe vera. La necessità della presenza di un «testimone canonico» è di gran lunga anteriore al Codice del 1983, al concilio Vaticano II, alla crisi della Chiesa e perfino al Codice del 1917. Questa presenza non ha alcun legame specifico con una qualsivoglia dottrina del matrimonio cristiano, sia essa vera o falsa. L’unico scopo esplicitato dal Concilio di Trento, che ha stabilito questa regola, è di lottare contro i matrimoni clandestini: si tratta semplicemente di sapere chi è sposato e chi no. Quindi, adoperarsi per celebrare il matrimonio secondo la «forma ordinaria», come vuole la Chiesa, purché lo si possa fare conservando la fede cattolica nella sua integralità, cosa che si realizza con la preparazione al matrimonio e la sua celebrazione in un contesto perfettamente tradizionale, non ha strettamente alcun legame con la falsa dottrina matrimoniale derivata dal Vaticano II e sintetizzata nel Codice di Diritto canonico del 1983, che la Fraternità San Pio X giustamente critica.

Seconda obiezione

La seconda obiezione pretende che l’uso della lettera del cardinale Müller equivarrebbe ad accettare ipso facto le pratiche fuorvianti relative al matrimonio nella Chiesa conciliare, in particolare i riconoscimenti di nullità per falsi motivi. Ma, in realtà non vi è alcun legame tra il fatto di celebrare il matrimonio secondo la «forma ordinaria» e le scandalose dichiarazioni di nullità che hanno corso attualmente. Tutti i sacerdoti della Fraternità San Pio X accettano come parrocchiani dei fedeli che si sono sposati davanti ad un sacerdote «ufficiale», spesso col nuovo rito liturgico, con una preparazione sospetta ed una predicazione dubbia. Questi sacerdoti della Fraternità San Pio X non ritengono che così facendo, per ciò stesso accettino le pratiche fuorvianti relative al matrimonio e le false dichiarazioni di nullità. A maggior ragione, in che modo un matrimonio la cui preparazione, predicazione, scambio dei consensi e Messa interamente ed esclusivamente secondo la Tradizione, potrebbe significare l'accettazione ipso facto delle pratiche fuorvianti relative al matrimonio e le false dichiarazioni di nullità, sol perché il sacerdote che riceve i consensi beneficia della delega prevista dal Concilio di Trento e da san Pio X?

Terza obiezione

La terza obiezione sostiene che accettare di usare la Lettera del cardinale Müller significherebbe per ciò stesso riconoscere la nullità dei matrimoni celebrati secondo la «forma straordinaria», sia precedenti sia futuri. Ma di per sé la possibilità offerta in un certo numero di casi dalla Lettera del cardinale Müller, di celebrare il matrimonio secondo la «forma ordinaria», non comporta strettamente alcuna conseguenza circa la validità dei matrimoni celebrati, nel passato o nel futuro, secondo la «forma straordinaria». Dal momento che sono riunite le condizioni oggettive, un matrimonio secondo la «forma straordinaria» è perfettamente valido: ora, l’attuale «stato di necessità» costituisce una condizione oggettiva di ricorso alla «forma straordinaria». Il fatto che in un certo numero di casi sia d'ora in poi possibile celebrare il matrimonio secondo la «forma ordinaria», non significa assolutamente che, in un certo numero di altri casi, non rimarrà necessaria e valida la celebrazione del matrimonio secondo la «forma straordinaria».

Peraltro, la stessa Lettera del cardinale Müller evita accuratamente, e certamente di proposito, di dichiarare invalidi i matrimoni celebrati finora (come anche quelli futuri) nel contesto della «forma straordinaria». Essa si ferma all’uso delle seguenti espressioni: «non lasciare le persone nell’inquietudine», «rasserenare la coscienza dei fedeli», «evitare i problemi di coscienza (…) e i dubbi sulla la validità del sacramento del matrimonio». Si parla quindi solo di dubbi e turbamenti di coscienza, e solo per certi fedeli, di cui non si è certi che allo stato si tratti specialmente dei fedeli della Fraternità San Pio X (che generalmente non hanno  dubbi sulla validità di questi matrimoni): questo sembra riferirsi piuttosto alle famiglie non tradizionali degli sposi fedeli alla Tradizione, o ad altri casi simili. Tuttavia, la dottrina più comune degli organi ufficiali (in un certo numero di paesi e specialmente in Francia) e anche della Rota romana, considera i matrimoni celebrati nel contesto della Fraternità San Pio X di per sé invalidi, per difetto di forma canonica. Nel Distretto di Francia, praticamente ogni due mesi un matrimonio viene annullato per questo solo motivo. Ora la Lettera del cardinale Müller non riprende questa affermazione della nullità dei matrimoni nella Fraternità San Pio X, e si astiene dal dirimere la questione, anche se certi di quelli che hanno preparato questa Lettera ammettono tale dottrina. È dunque falso dire che accettare le clausole della Lettera del cardinale Müller significherebbe avvallare queste scandalose dichiarazioni di nullità, o ammettere ipso facto che i matrimoni celebrati nella Tradizione secondo la «forma straordinaria» sarebbero invalidi.

In realtà la Lettera del cardinale Müller non tratta in alcun modo del matrimonio secondo la «forma straordinaria», ma propone solo delle regole che permettono ai vescovi di rendere più facile ai fedeli della Fraternità San Pio X il matrimonio secondo la «forma ordinaria».

Nello stesso ordine di idee, la Lettera del cardinale Müller non dice nulla delle istanze canoniche interne alla Fraternità San Pio X («Commissione canonica»), che conservano tutto il loro senso e tutta la loro necessità in ragione della crisi della Chiesa e in particolare della corruzione molto generalizzata della dottrina degli organi ufficiali, così come degli errori del Codice di Diritto Canonico del 1983.

Quarta obiezione

La quarta obiezione sostiene che accettare di usare la Lettera del cardinale Müller significherebbe mettere ipso facto nelle mani dei vescovi e della Curia romana (nemici feroci della Tradizione) i matrimoni secondo il rito tradizionale, poiché questi matrimoni da allora dipenderebbero dal permesso che essi accorderebbero... o meno. Questa obiezione sarebbe pertinente solo nel caso in cui la Fraternità San Pio X rinunciasse in maniera assoluta e definitiva all’uso della «forma straordinaria». Ma questo non è assolutamente ciò che è previsto. Il grave stato di necessità creato dalla crisi della Chiesa, resta più che mai di attualità e autorizza senza alcun dubbio possibile il ricorso, ove necessario, alla «forma straordinaria». Ciò che apre la Lettera del cardinale Müller non è dunque una restrizione delle possibilità, ma l’aggiunta della possibilità della «forma ordinaria». E dal momento  che in un certo numero di casi l’uso di questa «forma ordinaria» si rivelerà difficile se non impossibile, il ricorso alla «forma straordinaria» rimarrà perfettamente giustificato. I vescovi non potranno dunque attuare un «ricatto matrimoniale» nei confronti della Fraternità San Pio X, nella misura in cui il rifiuto ingiustificato di una delega, oltre ad altre circostanze oggettive, autorizzeranno pienamente come fino ad oggi il ricorso alla «forma straordinaria».

Una variante di questa obiezione sottolinea che se un sacerdote della Fraternità San Pio X che chiede ad un vescovo una delega per celebrare un matrimonio secondo la «forma ordinaria» se la vedesse rifiutare, gli sarebbe molto difficile in seguito celebrare il matrimonio secondo la «forma straordinaria», nella misura in cui l'Ordinario, o il parroco, hanno, secondo il diritto canonico, la libertà di accordare o meno una delega. Il solo fatto di non ottenere la delega non potrebbe più costituire un motivo sufficiente per ricorrere alla «forma straordinaria».
Questa obiezione è falsa nella misura in cui presuppone che la possibilità di celebrare un matrimonio secondo la «forma straordinaria» deriverebbe dal rifiuto della delega. Ma non è così: tale possibilità nasce dal grave ed oggettivo stato di necessità in cui versano coloro che vogliono sposarsi in modo perfettamente cattolico, in ragione della crisi della Chiesa. Queste persone hanno un diritto oggettivo a sposarsi secondo la «forma ordinaria», e se questo diritto è loro negato unicamente perché vogliono rimanere fedeli alla Tradizione, allora possono validamente e lecitamente ricorrere alla «forma straordinaria». Se, dunque, il vescovo rifiuta la delega perché non vuole concederla a dei sacerdoti (celebranti) e/o a dei fedeli (futuri sposi) legati alla Fraternità San Pio X, tale rifiuto non potrà e non dovrà essere considerato come fondato: il diritto al matrimonio secondo la «forma straordinaria» dovrà allora essere pienamente mantenuto. Solo nel caso in cui, al momento più che improbabile, un vescovo «ufficiale» potrebbe provare, ai sensi del diritto canonico tradizionale, che tale progetto di matrimonio non è ricevibile nella Chiesa in ragione di un impedimento oggettivo, allora il suo rifiuto di accordare la delega dovrebbe eventualmente comportare un riesame, ad istanza della Fraternità San Pio X, di tale dossier di matrimonio contestato: ma, ancora una volta, nelle attuali circostanze, una tale supposizione è piuttosto chimerica.

Quinta obiezione

La quinta obiezione sottolinea che questa Lettera del cardinale Müller costituisce di fatto un elemento del processo concepito per «riportare la Fraternità San Pio X nella piena comunione», cioè partecipe di una volontà di ricongiungimento con gli errori derivati dal concilio Vaticano II: cosa assolutamente inaccettabile.
La risposta a questa obiezione è molto semplice. Che questa Lettera si possa parzialmente considerare, da parte delle autorità romane, come una tappa verso la «piena regolarizzazione istituzionale», è cosa indubbia, poiché il cardinale Müller lo dice esplicitamente, con le espressioni prima citate. Ma questa Lettera, innanzitutto, ha per oggetto proprio quello di regolare un punto preciso, quello di un accesso più facile alla «forma ordinaria» per gli sposi desiderosi di sposarsi con il rito tradizionale e secondo una dottrina veramente cattolica. Tale punto esiste e possiede la sua realtà specifica, quali che siano le intenzioni e le finalità delle autorità romane.

Inoltre, dal momento che la Fraternità San Pio X tiene dei contatti con le autorità romane, essa entra necessariamente in relazione con delle persone più o meno imbevute di errori del Vaticano II e convinte che le scelte operate in questo concilio siano state buone. Ma è chiaro che lo scopo delle autorità della Fraternità San Pio X, in occasione di questi contatti, è di convincere gli interlocutori romani della nocività di questi errori conciliari e della necessità di rinunciarvi. In altre parole, gli scambi fra Roma e la Fraternità San Pio X implicano necessariamente che ciascuno dei protagonisti voglia condurre l’altro sulle proprie posizioni: la sola soluzione per evitare questo sarebbe di rifiutare ogni relazione, cosa né ragionevole né cattolica. Come diceva Mons. Lefebvre nel 1975: «Se c’è un Vescovo che rompe con Roma, quello non sono io!».

Questa Lettera del cardinale Müller di per sé non è un elemento di un’eventuale Prelatura personale, né una tappa per il “ricongiungimento” della Fraternità San Pio X, ma apre solo la possibilità ad un certo miglioramento di una situazione ingiusta, per mezzo di un accesso facilitato alla «forma ordinaria», senza alcuna contropartita da parte della Fraternità San Pio X e con la possibilità di ricorrere, ogni volta che sarà necessario, alla «forma straordinaria», perfettamente giustificata dallo stato di necessità.

Sesta obiezione

I sacerdoti «ufficiali», i vescovi «ufficiali», i sacerdoti «Ecclesia Dei», afferma la sesta obiezione, sono persone che combattono ogni giorno la Tradizione, che la disprezzano, che la calunniano, che lavorano alla sua marginalizzazione e per farla scomparire. Sarebbe dunque sconveniente, incoerente e scandaloso chiedere alcunché a questi nemici della fede, specialmente una delega per celebrare un matrimonio. Quanto ad ammettere in una cappella della Fraternità San Pio X un sacerdote conciliare per ricevere i consensi del matrimonio, questo sarebbe intollerabile per i futuri sposi, per i sacerdoti della Fraternità San Pio X e, in generale, per la comunità parrocchiale del luogo. D’altronde, in questa crisi della Chiesa, i fedeli della Fraternità San Pio X hanno il diritto di sposarsi davanti ad un sacerdote che conoscono, che stimano, in cui fanno fiducia sul piano dottrinale e pastorale.

Questa obiezione sembra essere la più forte: tocca l’intimo dell’anima ed è in relazione con degli impegni profondi ed essenziali, quelli della fede e della Tradizione; essa si riferisce a delle battaglie difficili per la sopravvivenza della Chiesa di fronte di una «autodistruzione» sapientemente condotta. Per questo conviene esaminarla senza lasciarsi trasportare dalla passione, ma servendosi della ragione illuminata dalla fede.

Innanzitutto, chiedere certe cose alla Chiesa «ufficiale» da parte dei sacerdoti della Fraternità San Pio X, è già una realtà del tutto quotidiana. Quando un sacerdote della Fraternità San Pio X prepara un dossier matrimoniale entra già in contatto con delle parrocchie e dei vescovadi, per richiedere gli estratti di battesimo e i certificati della cresima, poi per notificare il matrimonio. Allorché i futuri sposi legati alla Tradizione desiderano sposarsi in una chiesa parrocchiale, il sacerdote della Fraternità San Pio X entra in contatto con il parroco ed eventualmente con il vescovo diocesano, per regolare al meglio la questione. Quando un sacerdote della Fraternità San Pio X organizza un pellegrinaggio in un Santuario, entra in contatto con il Rettore del Santuario per ottenere da lui l’autorizzazione ad utilizzare i luoghi, ecc. La Lettera del cardinale Müller non comporta su questo punto alcuna innovazione particolare: il sacerdote della Fraternità San Pio X designato per la bisogna dal Superiore del Distretto entrerà in contatto con il vescovo locale allo scopo di ottenere (eventualmente) la delega per celebrare il matrimonio secondo la «forma ordinaria».

Evidentemente, il fatto di ricevere in una cappella della Fraternità San Pio X un sacerdote «ufficiale» per ascoltare i consensi del matrimonio è molto più problematico. Tuttavia, notiamo innanzitutto due cose: non è la soluzione che chiede e vuole la Fraternità San Pio X; non è la soluzione adottata dai primi decreti episcopali sull’argomento. La soluzione migliore, la soluzione che ha incominciato ad essere adottata, è di dare direttamente la delega agli stessi sacerdoti della Fraternità San Pio X. Nei mesi a venire la Fraternità San Pio X si adopererà per realizzare questa migliore soluzione. D’altronde, i termini stessi della Lettera del cardinale Müller, «nella misura del possibile...», «in caso d’impossibilità...», sembrano proprio anticipare la difficoltà, se non l’impossibilità, di praticare questa eventualità che un sacerdote «ufficiale» venga in un luogo di culto della Fraternità San Pio X. E l’invincibile reticenza dei futuri sposi a scambiare i loro consensi davanti ad un sacerdote che non sia puramente tradizionale costituirà senza alcun dubbio una di queste impossibilità previste dalla Lettera.

La Fraternità San Pio X dovrà dunque scartare questa soluzione, salvo una deroga che sarebbe, logicamente, accordata dal Superiore del Distretto. Se dunque in certi rari casi, la Fraternità San Pio X considerasse la possibilità che un sacerdote «ufficiale» venga eventualmente a ricevere i consensi, questo potrebbe essere solo a condizioni drastiche riguardanti detto sacerdote, la sua personalità, il suo percorso individuale, così che la sua venuta non possa essere minimamente fonte di disagio o di confusione per i futuri sposi, per i sacerdoti della Fraternità San Pio X, per la comunità parrocchiale. A priori solo alcuni sacerdoti particolarmente amici della Fraternità San Pio X, o perlomeno rimasti sempre del tutto giusti e rispettosi nei suoi confronti, potrebbero forse essere ammessi.

Tuttavia, bisogna ripeterlo, questa non è per nulla la soluzione ricercata dalla Fraternità San Pio X, la quale vuole che, secondo la semplice giustizia, i suoi sacerdoti possano puramente e semplicemente ricevere la delega per i matrimoni dei loro fedeli. Tanto più che a priori questo sembra corrispondere al desiderio dello stesso Papa e a ciò che si configura con i primi decreti emessi dai vescovi diocesani.

In ogni caso, tuttavia, bisogna ricordare che la presenza del «testimone canonico» che riceve i consensi è una realtà essenzialmente giuridica, non teologica o morale: bisogna che questo «testimone canonico» sia presente e riceva i consensi, e non è per niente necessario che sia un «buon sacerdote». Come ricorda Naz, il decreto del Concilio di Trento ammetteva per tale «testimone canonico» la “passività”, il solo punto necessario essendo che lo scambio dei consensi si faccia davanti  a tale testimone canonico. E fino al decreto del 1907, «tale passività in certe regioni fu perfino imposta, in caso di matrimonio misto contratto con dispensa; essa fu obbligatoria in caso di matrimonio misto contratto senza dispensa, laddove l’assistenza del sacerdote fu tollerata» (Roul Naz, Traitè de droit canonique, III, § 417, nota 3). Peraltro, sottolinea ancora Naz, un sacerdote colpito da censure canoniche può validamente essere delegato per un matrimonio (ibid., § 423), il che manifesta anche che il «testimone canonico» non è presente in ragione delle sue qualità spirituali e morali, ma unicamente per dei motivi giuridici. Il fatto che un sacerdote «ufficiale» sia presente per lo scambio dei consensi (operato nel rito tradizionale), ed esclusivamente per questo, secondo una regola della Chiesa fissata dal Concilio di Trento e poi da San Pio X, non intaccherebbe dunque il carattere perfettamente tradizionale del matrimonio celebrato. Nella stessa ottica, se non ci fosse una crisi generalizzata nella Chiesa (e quindi lo stato di necessità), e il parroco dei futuri sposi fosse, per esempio, un noto concubino, questi futuri sposi sarebbero quanto meno costretti a ricorrere a lui per lo scambio dei consensi, dal momento che il Diritto Canonico rende obbligatoria la sua presenza come «testimone canonico»: e questo tuttavia non intaccherebbe la santità del loro matrimonio, poiché il parroco sarebbe presente solo per un motivo puramente canonico, e non per le sue qualità morali.

Settima obiezione

La settima obiezione postula che accettare di celebrare un matrimonio secondo la «forma ordinaria» chiedendo la delega, significherebbe venir meno alla professione pubblica della fede e alla critica degli errori del Vaticano II. In effetti, lo stato di separazione, di contraddizione, di conflitto tra la Tradizione e la Chiesa «conciliare», che esprimono le sanzioni canoniche e il rifiuto delle autorità ufficiali della Chiesa di accordare alla Fraternità San Pio X ciò che sarebbe giusto e normale (per esempio la giurisdizione, la delega per i matrimoni, ecc.) costituisce una sorta di «catechismo per immagini» della crisi della Chiesa. Le anime rette che cercano la verità, constatando che la Fraternità San Pio X è perseguitata perché si attiene a ciò che ha sempre insegnato e fatto la Chiesa cattolica, sono condotte a pensare giustamente che le autorità ufficiali della Chiesa sono nell’errore. Celebrando un matrimonio secondo la «forma ordinaria» grazie ad una delega ricevuta da un vescovo «ufficiale», la Fraternità San Pio X indebolirebbe la sua battaglia contro gli errori del Vaticano II.

Questa obiezione confonde la realtà dell'opposizione radicale tra la fede cattolica e gli errori del liberalismo conciliare, con alcune situazioni concrete che possono manifestarla accidentalmente. Negli anni ‘70, la Tradizione si era rifugiata in capannoni di fortuna; in seguito, nella maggior parte dei luoghi, si sono comprate o costruite delle chiese: si dirà allora che la battaglia per la fede si è intiepidita? Quando un sacerdote della Fraternità San Pio X sollecita per un pellegrinaggio l’uso di un Santuario, se lo ottiene invece che no, si dirà che la battaglia si è affievolita? Quando Papa Benedetto XVI riconosce che l’antico rito non è mai stato abolito, si dirà che la difesa della liturgia tradizionale da parte della Fraternità San Pio X e la resistenza eroica di Mons. Lefebvre per il suo mantenimento si trovino screditati? Ecc.

L'opposizione tra la Messa tradizionale e la nuova Messa di Paolo VI è assolutamente chiara, sia che essa sia celebrata in un capannone di fortuna sia che sia celebrata in una bella chiesa della Tradizione. L’opposizione tra la dottrina di Cristo Re e i pretesi «valori derivati dalla Rivoluzione francese, ma provenienti dal Vangelo» è totale, sia che la Fraternità San Pio X sia riconosciuta canonicamente (prima del 1975) sia dopo che non lo sia. L’opposizione tra la dottrina cattolica del matrimonio e la nuova dottrina derivata dal Vaticano II è senza ambiguità, anche se, per conformarsi al Concilio di Trento e nella misura in cui non si verifichi alcun cedimento, un matrimonio perfettamente tradizionale venga celebrato secondo la «forma ordinaria» in virtù di una delega prevista dal Codice di Diritto Canonico del 1917.

Anche se, in un cero numero di casi, i matrimoni tradizionali potranno d’ora in poi essere celebrati secondo la «forma ordinaria», essi continueranno ad essere, in quanto matrimoni veramente cattolici, una protesta efficace contro il lassismo morale e gli errori della dottrina matrimoniale della Chiesa «ufficiale». Così come la celebrazione della Messa tradizionale, in occasione di un pellegrinaggio, in un Santuario «ufficiale», rimane un’efficace predicazione contro il nuovo rito della Messa.

Ottava obiezione

Un’ottava obiezione afferma che trascrivere un matrimonio nei registri «ufficiali» e non nei registri della Fraternità San Pio X, contribuirebbe ad aprire un vaso di Pandora, nella misura in cui tali matrimoni sarebbero sottomessi al Codice di Diritto Canonico del 1983 e non, come per i matrimoni iscritti nei registri della Fraternità San Pio X, al solo Diritto canonico pienamente tradizionale.

Questa obiezione non tiene minimamente conto della realtà. Le ufficialità diocesane, quando sono interpellate da un fedele, esaminano (secondo il Codice del 1983) sia i matrimoni iscritti nei registri delle parrocchie ufficiali sia quelli iscritti nei registri della Fraternità San Pio X. La Commissione canonica della Fraternità San Pio X, quand’è interpellata da un fedele, esamina (secondo il Diritto canonico tradizionale) sia i matrimoni iscritti nei registri della Fraternità San Pio X sia quelli iscritti nei registri delle parrocchie ufficiali.

I registri ecclesiastici, in effetti, sono solo la prova giuridica della celebrazione di un atto liturgico (un battesimo, una cresima, un matrimonio, un funerale, ecc.). Essi non ne pregiudicano la validità, che deve essere esaminata, in caso di dubbio fondato, da un tribunale ecclesiastico. Essi non pregiudicano neanche il diritto che sarà utilizzato per il loro esame. Delle persone che si fossero sposate negli anni ’60, per esempio, quando era in vigore il Codice del 1917, e che presentassero oggi un’istanza di nullità davanti ad un tribunale diocesano, verrebbero giudicate in funzione del Codice del 1983: nonostante il registro ecclesiastico non abbia subito alcuna modifica dall’epoca del loro matrimonio.

Il luogo dove è conservata la traccia giuridica di un atto ecclesiastico (per esempio un matrimonio) in verità non ha alcuna importanza teologica o morale. Quando un sacerdote prepara un matrimonio, egli constata spesso che i futuri sposi sono stati battezzati in un certo contesto (nella Chiesa «ufficiale» o nella Fraternità San Pio X), sono stati cresimati in tutt’altro contesto, ecc. L’importante è accedere alla prova di questi atti ecclesiastici, e l’esperienza dimostra che tale accesso è ragionevolmente facile ed efficace.

In più, i sacerdoti della Fraternità San Pio X «notificano» regolarmente i sacramenti (cresime, matrimoni, ordinazioni, ecc.) alle diocesi, per l’iscrizione nei registri ecclesiastici della parrocchia di battesimo: si dirà che così facendo essi mettono i fedeli nelle mani del diritto canonico conciliare?

I vantaggi della situazione creata dalla Lettera

Conviene infine concludere parlando dei vantaggi non trascurabili che procurerà la nuova situazione creata dalla Lettera del cardinale Müller.

Il primo e il principale sarà di «mettere in sicurezza», almeno una parte dei matrimoni celebrati nel contesto della Fraternità San Pio X, per quanto riguarda la forma della celebrazione. Bisogna sapere, come è stato detto, che la dottrina quasi comune delle ufficialità è che tali matrimoni siano invalidi in sé per vizio di forma, dal momento che il grave stato di necessità nato dalla crisi della Chiesa non è da loro riconosciuto. In altre parole, basta che uno degli sposi che ha contratto matrimonio secondo la «forma straordinaria» nel contesto della Fraternità San Pio X, faccia richiesta di nullità perché, automaticamente e senz’altra motivazione, il suo matrimonio sia dichiarato nullo, così che egli possa risposarsi in chiesa. Ora, sfortunatamente, un tale fatto accade regolarmente: per esempio, una sentenza di nullità per questo motivo è pronunciata in Francia quasi ogni due mesi. E questo riguarda, in un certo numero di casi, persone che, al momento del loro matrimonio, erano dei fedeli seri e consapevoli della Fraternità San Pio X. Ma le difficoltà della vita coniugale, la tentazione della facilità, l’alterazione del senso morale, li hanno condotti a perdere di vista la serietà del loro impegno, per ricorrere a questo mezzo comodo (benché ingiusto) per liberarsi dei loro obblighi matrimoniali.

Al contrario, ogni volta che, in virtù della Lettera del cardinale Müller, sarà moralmente possibile ricorrere alla «forma ordinaria», questo escluderà la possibilità di una richiesta di nullità per vizio di forma canonica. Anche se questo non impedirà una richiesta di nullità per altri motivi (eventualmente scorretti), questo almeno  scongiurerà lo scandalo di una dichiarazione di nullità basata unicamente sul vizio di forma canonica, così come la bigamia del richiedente e l’ingiustizia fatta al congiunto innocente.

Nella misura in cui questa «messa in sicurezza» dei matrimoni potrà realizzarsi senza alterare in nulla il carattere veramente cattolico e tradizionale del matrimonio (quando, cioè, si può ottenere la delega per celebrare il matrimonio secondo la «forma ordinaria» senza mettere in pericolo alcun bene), non sarebbe prudente e sembrerebbe contrario al bene comune, il rifiutarla: ogni sacerdote deve infatti avere cura di assicurare, non solo la validità del matrimonio che celebra (e su questo punto non v’è alcun dubbio per i matrimoni celebrati dalla Fraternità San Pio X), ma anche, nei limiti dei suoi mezzi, il pubblico riconoscimento di tale validità, in ragione del bene degli sposi, dei figli e della società che è coinvolta ad ogni matrimonio.

Il secondo vantaggio sarebbe di permettere di agire con una particolare carità nei confronti del congiunto, o delle famiglie che non fossero (pienamente) dei fedeli della Fraternità San Pio X. Non bisogna dimenticare che un matrimonio non è solo un atto personale dei due futuri sposi, ma costituisce anche una realtà famigliare e sociale di grande portata. Ogni matrimonio coinvolge necessariamente i congiunti, ma anche le loro due famiglie e tutta la loro cerchia di relazioni. La realtà della crisi della Chiesa obbliga i sacerdoti e i fedeli della Fraternità San Pio X a non rispettare sempre certe prescrizioni del diritto canonico. Sfortunatamente, le famiglie dei due futuri sposi, al pari dei loro amici non condividono necessariamente l’analisi della Fraternità San Pio X sulla situazione della Chiesa. A causa di ciò, il matrimonio secondo la «forma straordinaria», di per sé perfettamente valido, può sembrare loro viziato da irregolarità canonica. Questo in numerosi casi causa tensioni familiari e divisioni tra amici, come il rifiuto di assistere al matrimonio. Il che in certe occasioni, si rivela drammatico. Beninteso, non si tratta di tenerne conto se questo dovesse distogliere i futuri sposi dal contrarre matrimonio secondo il rito tradizionale e la vera dottrina cattolica; ma se è possibile, per un matrimonio pienamente conforme alla Tradizione, beneficiare della «forma ordinaria» senza alcuna scorretta contropartita, è senza dubbio un atto di carità rassicurare così le coscienze timorose dei parenti o degli amici dei futuri sposi.

Il terzo vantaggio sarebbe di sottomettere i matrimoni celebrati dai sacerdoti della Fraternità San Pio X, ogni volta che sarà possibile, alla lettera del diritto della Chiesa, come esso è stato espresso dal Concilio di Trento, dal Papa San Pio X e dal Codice di Diritto Canonico del 1917. In sé, un matrimonio deve essere celebrato secondo la «forma ordinaria», il ricorso alla «forma straordinaria» costituisce per sua natura un’eccezione (anche se, nel caso della Fraternità San Pio X e per dei motivi fondati, è attualmente ricorrente). Riducendo, ogni volta che sarà possibile senza una scorretta contropartita, il ricorso alla «forma straordinaria», ci si avvicina certamente a ciò che la Chiesa vuole.

Il quarto vantaggio, infine, sarà di poter celebrare più ampiamente dei matrimoni con il rito tradizionale, togliendo un ostacolo per i fedeli più timorosi. Vi sono dei futuri sposi, che pur sapendo che la dottrina teologica e morale dei sacerdoti della Fraternità San Pio X è rigorosamente ortodossa, e che il rito da essi usato è il più degno e il più santificante, purtroppo sono distolti dal ricorrere al loro ministero per timore che il loro matrimonio sia dubitativamente valido sul piano canonico. Che il fondamento di tale timore sia falso (i matrimoni celebrati dai sacerdoti della Fraternità San Pio X secondo la «forma straordinaria» sono di per sé validi), non impedisce che tale timore esista, in ragione di tutto ciò che si dice, delle dichiarazioni delle autorità ecclesiastiche, dell’ignoranza dei fedeli e di ciò che essi stimano essere delle sottigliezze del diritto canonico, ecc. Ora, se questi fedeli, con l’uso della «forma ordinaria» senza scorretta contropartita, possono beneficiare di un matrimonio perfettamente conforme alla Tradizione celebrato da un Sacerdote della Fraternità San Pio X, questo sarà certamente un gran bene per loro stessi, per la loro casa, per le loro famiglie e per i loro amici, e per tutta la Chiesa.




giugno 2017

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