LE  TAPPE  DEL  DIALOGO  TRA  ROMA

LA  FRATERNITÁ  SAN  PIO  X

Intervista di S. Ecc.za Mons. Bernard Fellay 
Superiore Generale della Fraternità Sacerdotale San Pio X 

rilasciata a DICI il 25 marzo 2006



I neretti sono nostri

DICI: Monsignore, fin dall’inizio dei suoi incontri con Roma, cinque anni fa, lei ha avanzate due pregiudiziali prima di ogni discussione: la libertà per tutti i sacerdoti cattolici di celebrare la Messa tridentina e il ritiro del decreto di scomunica emesso contro i vescovi della Fraternità. Perché queste pregiudiziali? Non si è trattato di una manovra dilatoria volta a guadagnare tempo per rassicurare dei sacerdoti o dei fedeli inquietati da un eventuale riavvicinamento? E in tal modo, lei non rischia di perdere una occasione insperata di riconciliazione?

Mons. Fellay: Tutte queste considerazioni politiche, per non dire questi calcoli politici, sono estranei allo spirito delle conversazioni che la Fraternità ha con Roma fin da quando furono intraprese da Mons. Lefebvre. Le pregiudiziali da me avanzate  hanno lo scopo di creare un clima nuovo nella Chiesa ufficiale. Si tratterebbe di un primo passo per rendere nuovamente possibile la vita cattolica tradizionale. La situazione attuale ha spinto i fedeli, che si sono trovati di fronte ai disastri post-conciliari, ad abbandonare le loro parrocchie per unirsi alla Fraternità, e questo malgrado l’obbrobrio che pesa sui sacerdoti tradizionali. Nessuna sanzione romana, nessun avvertimento vescovile dissuadono queste famiglie dallo scegliere la Tradizione. È un fatto. Per questo ho chiesto al Papa di compiere degli atti pubblici in favore della Tradizione, poiché i nostri fedeli non possono accontentarsi di semplici parole di incoraggiamento. E se le voci che corrono in questi giorni sui giornali circa il ritiro della scomunica si avvereranno, si potrà dire che il Sovrano Pontefice ha tenuto in conto una delle due pregiudiziali.


DICI: Questo non significa chiedere a Roma di regolare la crisi con Ecône unilateralmente, senza contropartita da parte vostra?

Mons. Fellay: No, perché la crisi con Ecône non è la priorità. Essa è solo il rivelatore di una crisi più profonda nella stessa Roma, e la soluzione di questa crisi maggiore sta a Roma. Per noi non si tratta di un negoziato di tipo sindacale, perché noi non abbiamo interessi specifici o vantaggi personali da negoziare. Noi auspichiamo che Roma ritrovi la sua Tradizione. Ecône non fa altro che conservare ciò che è innanzi tutto il patrimonio della Chiesa universale. È compito di Roma restituire integralmente il suo posto alla Tradizione, così che essa possa giuocare il suo ruolo nella soluzione della crisi della Chiesa.


DICI: Ma la scomunica non è proprio una questione personale che riguarda lei e i suoi confratelli?

Mons. Fellay: Noi chiediamo il ritiro di un decreto di scomunica al quale non abbiamo mai riconosciuto valore canonico, senza questa premessa è evidente che non avremmo potuto esercitare alcun ministero: né ordinazioni, né cresime… E tuttavia siamo ben consci della portata pratica di questo decreto: la efficace demonizzazione della Tradizione, l’impedimento per i sacerdoti tradizionali di fare del bene nella parrocchie. Se una famiglia si rivolge a noi per un sacramento amministrato col rito tradizionale, il vescovo o il parroco non possono dire altro che: " Non ci pensate neanche, quelli sono scomunicati ! ". Ecco come si neutralizza concretamente la Tradizione.
Le due pregiudiziali ­ la liberalizzazione dell’uso del Messale di San Pio V e il ritiro del decreto di scomunica ­, al di là dei fedeli tradizionali, hanno in vista il bene dell’intera Chiesa. Si tratta di permettere alla Tradizione di ritrovare il suo diritto di cittadinanza nella Chiesa e di fare la sua esperienza sul campo. È così che potremo aiutare Roma a rimediare alla crisi nella Chiesa. Secondo l’espressione dei teologi, queste due pregiudiziali funzionano come un removens prohibens, devono rimuovere le interdizioni che impediscono alla Tradizione di agire nella pratica e nella pastorale.


DICI: Può precisare il suo pensiero?

Mons. Fellay: Una volta che la Messa tradizionale non sarà più sotto libertà vigilata e nel contempo il ministero dei sacerdoti tradizionali non sarà più inficiato dal sospetto della scomunica, si potrà vedere all’opera l’esperienza della Tradizione.
In questa fase sperimentale, che dovrà durare tutto il tempo necessario per una giusta valutazione dei risultati, non vi sarà alcun impegno né da parte di Roma né da parte della Fraternità. Ma, alla fine, Roma potrà giudicare sulla base del lavoro compiuto dai sacerdoti tradizionali. Ed io ho già detto che la Fraternità San Pio X è disposta ad accogliere dei visitatori romani, perché possano valutare sul campo il suo lavoro apostolico.


DICI: Tutto ciò è pratico e pastorale, ma la crisi della Chiesa è principalmente dottrinale. Che ne è delle questioni di fondo, della libertà religiosa sulla quale Mons. Lefebvre aveva presentato dei Dubia, dei dubbi, al cardinale Ratzinger? Che ne è dell’ecumenismo, al quale due anni fa avete dedicato uno studio inviato a tutti i cardinali?

Mons. Fellay: Su questa questione dell’ecumenismo, il mutismo dei cardinali ai quali è stato inviato questo studio è molto significativo. Il loro silenzio dimostra tutta la distanza che ci separa sul piano dottrinale. Lei fa bene a far notare che le due pregiudiziali hanno una portata pratica, ed è per questo che costituiscono la prima tappa necessaria per poter poi affrontare le questioni dottrinali. Effettivamente, qualsiasi discussione di fondo intrapresa al di fuori o prima di questa tappa pastorale sembra a priori votata al fallimento.
È necessario rendersi ben conto che Roma ed Ecône ­ per dirla in breve ­ convergono su un punto, ma divergono su un altro. Oggi le autorità romane sono coscienti della situazione drammatica della Chiesa ­ è stato proprio il futuro Benedetto XVI ad affermare che la Chiesa è come " una barca che fa acqua da tutte le parti " - e su questo punto noi siamo d’accordo, ma quello su cui non siamo d’accordo è sulla causa di questa crisi. Roma indica come principale responsabile solo la società secolarizzata, edonista e consumistica, che ignora o combatte il messaggio evangelico, mentre invece noi affermiamo che il concilio Vaticano II, aprendosi allo spirito del mondo moderno, ha fatto entrare nel suo seno dei principi come la libertà religiosa o l’ecumenismo, i quali sono contrari al messaggio evangelico e sono responsabili della situazione attuale. Noi intravediamo ben altra cosa che una " falsa interpretazione " superprogressita del Concilio.
È facile comprendere perché le autorità romane considerino solo difficilmente di risalire al Concilio come alla causa della crisi: perché questo equivarrebbe a mettere in discussione il concilio stesso, a cui esse rimangono fortemente legate. Se questo è lo stato delle cose, bisogna riconoscere che non è possibile alcuna discussione dottrinale, come affermano giustamente Michaël J. Matt e John Vennari in una recente dichiarazione comune.


DICI: Si deve pensare che è per questo che lei in fondo non considera seriamente un dialogo con Roma?

Mons. Fellay: Io direi che questo dialogo dev’essere dottrinale e pratico, con dei fatti che sostengono i ragionamenti teologici. Partendo dal punto di convergenza tra Roma e noi ­ la comune constatazione di una crisi disastrosa -, dobbiamo tentare di risolvere le divergenze provando a far ammettere a Roma qual è la vera causa di questa crisi. La discussione dottrinale ha proprio lo scopo di ottenere da Roma il riconoscimento di questa causa, ma, considerando che a partire dal Vaticano II le autorità romane sono imbevute dei principi moderni, tale discussione non è attuabile senza il concorso di una lezione derivante dai fatti stessi. Per essere più precisi, tale discussione non può farsi senza prendere in considerazione l’opera concreta che la Tradizione ha potuto compiere in vista di una soluzione della crisi delle vocazioni, della pratica religiosa…
Dal nostro punto di vista, sono gli effetti dell’apostolato tradizionale che mostreranno per contrasto dov’è la causa della crisi. Ecco perché delle pregiudiziali pratiche mi sembrano indispensabili per il buon svolgimento delle discussioni dottrinali.
La libertà d’azione restituita alla Tradizione deve permetterle di effettuare le sue prove e di fare da arbitro, con i fatti, tra le due parti che non sono d’accordo dottrinalmente sulla causa della crisi. Questa lezione dei fatti, che noi chiediamo a Roma di voler accettare, poggia innanzi tutto sulla nostra fede nella Messa tradizionale. Questa Messa esige di per sé l’integrità della dottrina e dei sacramenti, garanzia di ogni fecondità spirituale nelle ànime.


DICI: La sua linea di condotta è condivisa dall’insieme dei sacerdoti e dei fedeli legati alla Tradizione?

Mons. Fellay: Mons. Lefebvre diceva che le autorità romane sarebbero più sensibili alle cifre e ai fatti presentati dalla Fraternità, piuttosto che agli argomenti teologici. È del tutto evidente che il nostro fondatore non intendeva eludere una necessaria discussione dottrinale, ed è per questo che noi, in questa seconda fase, vorremmo presentare a Roma gli argomenti della teologia tradizionale confortati dai fatti dell’apostolato tradizionale; prima ancora di mettere mano alla terza tappa, quella dello statuto canonico della Fraternità.
È importante considerare bene l’articolazione delle tappe di questo dialogo, per comprendere che noi non vogliamo trascurare né l’aspetto speculativo o dottrinale, né l’aspetto pratico o pastorale, né tampoco vogliamo ignorare la prudenza realistica e lo spirito soprannaturale.
Coloro che si limitano all’aspetto pratico o canonico, considereranno la nostra esigenza dottrinale una perdita di tempo,  e queste tappe verranno da loro percepite come delle manovre dilatorie. Per contro, coloro che si limitano all’aspetto speculativo, riterranno che le nostre pregiudiziali pastorali costituiscano un accantonamento dei problemi di fondo, e diranno che un tale dialogo è l’inizio di un avvicinamento al modernismo. Gli uni e gli altri hanno ragione in ciò che affermano, ma hanno torto in ciò che negano: occorre sostenere sia la necessaria lezione dei fatti sia l’indispensabile discussione dottrinale.


DICI: Ma, allora, l’accordo canonico va alle calende greche?

Mons. Fellay: Si parla di amministrazione apostolica, di prelatura personale, di ordinariato…, ma tutto ciò sembra prematuro. Pensando ad un accordo canonico immediato e ad ogni costo ci esporremmo a vedere insorgere tutti i problemi dottrinali che ci oppongono a Roma, ed un tale accordo sarebbe ben presto vano. La regolazione del nostro stato canonico dovrà giungere per ultima, come a sancire un accordo già realizzato, almeno per l’essenziale, sul piano dei principi, grazie ai fatti constatati da Roma.
D’altronde, se immaginiamo per un momento che noi accettassimo una struttura canonica per poi dopo prendere in considerazione le questioni dottrinali ­ dall’interno, nel " perimetro visibile " delle diocesi -, ci accorgiamo che non potremmo compiere il nostro ministero con tutta la sua efficacia pastorale. Le condizioni pratiche non sarebbero atte a permettere una lezione dei fatti piena ed intera e quindi convincente. È quello che capita già alle comunità dell’Ecclesia Dei: il nostro apostolato si svolgerebbe in regime di libertà vigilata, autorizzato ad effettuarsi solo con parsimonia qui o là, come col contagocce. 
Tutto sta nel capire se la tragica situazione odierna della Chiesa ­ la crisi impressionante delle vocazioni, la caduta vertiginosa della pratica religiosa… - le permette di accontentarsi di rimedi da elargire col contagocce.

Ritorna a Documenti