Prof. Roberto De Mattei

Il Concilio Vaticano II
Una storia mai scritta



Presentazione del libro
Introduzione
Indice
Qualche informazione sul Prof. Roberto De Mattei


 
Segnaliamo la pubblicazione di un nuovo libro sul Concilio Vaticano II.
Un lavoro a carattere storico condotto dal Prof. Roberto De Mattei, noto per i suoi
studi sulla storia della Chiesa e per la sua difesa della Cristianità proprio in questo nostro tempo che opera in vario modo per la distruzione della vera Religione e della
Chiesa cattolica.
Il libro ha suscitato un certo interesse in ambito cattolico, interesse che è stato amplificato da alcune critiche mosse al libro da alcuni rappresentati del mondo cattolico cosiddetto conservatore. Qualcuno si è stupito di come questa volta alle critiche dei modernisti si sommassero quelle dei conservatori, ma è normale che ciò accada, perché entrambe queste critiche, pur con accenti diversi, partono dal presupposto che il Concilio non dev’essere criticato.
L’Autore, invece, sulla base dell’esame dei fatti storici che hanno portato al Concilio e che sono intervenuti nel corso del suo svolgimento e nel corso della sua applicazione, giunge all’inevitabile conclusione che esso è criticabile.



ROBERTO DE MATTEI
 


Il Concilio Vaticano II.
Una storia mai scritta




pp. 632

, 

formato: cm. 14x21


Euro 38,00

Il libro è reperibile in libreria o direttamente presso l'Editore

Lo stesso è accaduto per altri studi che hanno visto la luce in questi ultimi tre anni, basti pensare ai lavori di Mons. Brunero Gherardini (in particolare: Concilio Ecumenico Vaticano II, un discorso da fare, e Quod et tradidi vobis. La tradizione, vita e giovinezza della Chiesa), dove viene approfondito l’aspetto teologico del Concilio e il vero significato della Tradizione.
E non è un caso che, al pari di Mons. Gherardini, anche De Mattei finisce col rivolgersi al Santo Padre perché si faccia definitivamente luce sugli equivoci e sulle deviazioni che il Concilio e il post-concilio hanno prodotte.
Ciò che dovrebbe far riflettere è il fatto che entrambi questi autori non appartengono all’area che si è convenuto chiamare “tradizionalista”, bensì all’ambito cattolico conservatore. Da qui si sono spesso levate voci che hanno stigmatizzato gli eccessi e gli abusi che hanno caratterizzato il post-concilio, evitando però di rifarsi alla responsabilità del Concilio stesso, per una malintesa difesa di elementi che a priori si davano acquisiti in positivo: il testi del Concilio. Sta qui la stranezza delle attuali reazioni critiche.
Allorché i documenti del Concilio e quelli che ne hanno fissato l’applicazione si sono dimostrati in aperto contrasto con quanto la Chiesa ha sempre insegnato e ha sempre praticato, le voci a difesa della “conservazione” del patrimonio della Chiesa messo così a repentaglio, sono state pochissime e in genere debolissime, tolto il caso di chi ha fin dall’inizio ha denunciato la deriva conciliare: i cattolici fedeli alla Tradizione, che per ciò stesso sono stati etichettati col titolo di “fondamentalisti” ed hanno dovuto subire l’ostracismo e l’esclusione di fatto dalla normale vita ecclesiale, fino alla scomunica: è il caso di Mons. Lefebvre e dei quattro nuovi vescovi della Fraternità San Pio X. Oggi, i conservatori si prodigano in difesa dell’esistente, pur in presenza delle tantissime perplessità e dei non pochi problemi che esso continua a presentare nei confronti della Tradizione, mentre stigmatizzano violentemente perfino chi, nel loro stesso ambito, si permette di criticare l’opera quanto meno problematica del Concilio. Uno strano senso della “conservazione”, attuata in maniera discriminata e preconcetta: si deve conservare solo ciò che fa comodo, indipendentemente dal suo reale valore cattolico.

Per avere idea di cosa tratta il testo in oggetto e di come lo tratta, presentiamo qui
-    L’introduzione
e
-    L’indice

 



Introduzione

1.    Il Vaticano II: un Concilio diverso dagli aItri
2.    Le due ermeneutiche conciliari
3.    Ricezione e applicazione del Concilio
4.    Concilio “pastorale” o “dottrinale”?
5.    Primato della prassi e riforma della Chiesa
6.    “Riscrivere” la storia del Concilio


1.    Il Vaticano II: un Concilio diverso dagli altri


La storia della Chiesa cattolica è al centro della storia universale per il ruolo primario che la Chiesa svolge nella guida delle anime e nell’edificazione della civiltà. Non stupisce, in questa prospettiva, l’importanza nella storia universale dei Concili ecumenici, che costituiscono una delle più alte espressioni della vita sociale della Chiesa. Se la Chiesa ha un rapporto con la storia della umanità, un Concilio ecumenico avrà un rapporto con la medesima storia pari a quello che esso ha con la Chiesa.
I Concili sono detti ecumenici, o generali, quando, sotto la direzione del Papa o di suoi rappresentanti, raccolgono vescovi provenienti dall’intero ecumene, vale a dire dall’insieme del mondo abitato.. Nei Concili la voce del Papa e dei vescovi del mondo con lui riuniti si leva sulle vicende storiche: questa voce solenne fa la storia della Chiesa e, con essa, la storia del mondo.
Nella storia della Chiesa si sono tenuti ventuno Concili riconosciuti dalla Chiesa come ecumenici, o generali. L’ultimo è stato il Concilio Vaticano II, aperto a Roma nella Basilica di San Pietro, da Giovanni XXIII, 1’11 ottobre 1962, e chiuso nello stesso luogo, dopo quattro sessioni, da Paolo VI, 1’8 dicembre 1965. Dal Concilio di Nicea, che è stato dopo il Concilio di Gerusalemme il primo Concilio trattato dagli storici, al Vaticano II, ogni Concilio è stato oggetto di dibattito storiografico. Ognuna di queste assemblee non solo ha fatto la storia, ma ha avuto poi i suoi storici e ognuno di essi ha portato nella sua opera la propria visuale interpretativa.
A differenza dei precedenti Concili, il Vaticano II pone però agli storici un problema nuovo. I Concili esercitano, sotto e con il Papa, un solenne Magistero in materia di fede e di morale e si pongono come supremi giudici e legislatori, per quanto riguarda il diritto della Chiesa. Il Concilio Vaticano II non ha emanato leggi e neppure ha deliberato in modo definitivo su questioni di fede e di morale. La mancanza di definizioni dogmatiche ha inevitabilmente aperto la discussione sulla natura dei documenti e sul modo della loro applicazione nel periodo del cosiddetto “postconcilio”. Il problema del rapporto tra Concilio e “postconcilio” sta perciò al cuore del dibattito ermeneutico in corso.


2. Le due ermeneutiche conciliari

La discussione sul Concilio Vaticano II, pur nella complessità e nella articolazione delle diverse posizioni, può ricondursi sostanzialmente a due linee interpretative: quella della “continuità” del Concilio con la tradizione precedente e quella della sua “discontinuità” con il passato della Chiesa. La prima linea è stata assunta dalle gerarchie ecclesiastiche fin dal pontificato di Giovanni Paolo II ed è stata formulata con chiarezza e convinzione da Benedetto XVI soprattutto nel suo discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005. Si tratta di un approccio teologico al Concilio Vaticano II, giudicato dai 16 testi, di ineguale valore dottrinale, che esso ha prodotto. L’insieme di questi testi, secondo la suprema autorità della Chiesa, esprime un Magistero non infallibile, ma autentico, che deve essere letto in continuità con i documenti che lo hanno preceduto e che lo hanno seguito, ovvero “alla luce della Tradizione”.
Benedetto XVI è ritornato più volte sull’argomento; nel discorso ai partecipanti alla Plenaria della Congregazione per il Clero del 16 marzo 2009 ha ribadito, ad esempio, la necessità di rifarsi “all'ininterrotta Tradizione ecclesiale” e di “favorire nei sacerdoti, soprattutto nelle giovani generazioni, una corretta ricezione dei testi del Concilio Ecumenico Vaticano II, interpretati alla luce di tutto il bagaglio dottrinale della Chiesa”. L’unica maniera di rendere credibile il Vaticano II - ha sempre sostenuto il card. Ratzinger e sostiene oggi Benedetto XVI - è presentarlo come una parte dell’intera ed unica Tradizione della Chiesa e della sua fede.
La seconda linea interpretativa ha un approccio ermeneutico di taglio non teologico, ma storico. Essa ha la sua espressione più significativa nella cosiddetta “scuola di Bologna” che, sotto la direzione del prof. Giuseppe Alberigo, ha prodotto un’imponente Storia del Concilio Vaticano II, diffusa in varie lingue, che costituisce un’opera di riferimento, per quanto discussa e discutibile, da cui non si può prescindere. Per questa scuola il Vaticano II, al di là dei documenti che esso ha prodotto, è stato innanzitutto un “evento” storico che, in quanto tale, ha significato un’innegabile discontinuità con il passato: ha suscitato speranze, ha innescato polemiche e discussioni, ha aperto, in ultima analisi, un’epoca nuova.
Un evento è una situazione che rappresenta una radicale frattura con il passato, “un fatto che, avvenuto una volta, cambia qualcosa nel presente e nel futuro”, Il Concilio Vaticano II presenta, secondo Alberigo, caratteristiche proprie molto spiccate: il modo in cui fu convocato; l’assenza programmatica di uno scopo storico determinato; il rigetto quasi integrale delle prospettive e delle formulazioni predisposte dagli organi preparatori; l’elaborazione assembleare degli orientamenti generali e degli stessi testi delle decisioni; la percezione del Concilio da parte dell’opinione pubblica come evento cruciale, seguito e partecipato con straordinaria intensità, “Per tutte queste ragioni - scrive lo storico bolognese – l’ermeneutica del Vaticano II dipende, principalmente e in misura elevata, dalla dimensione evento del Concilio”. L’identità del Concilio è determinata, in questa prospettiva, non solo dai documenti dottrinali istituzionali e dalle norme canoniche seguite al Concilio, ma soprattutto dall’effettivo svolgimento dell’assemblea e dalla recezione dell’evento da parte della comunità dei fedeli.
La tesi della “discontinuità” viene portata avanti anche dal mondo cosiddetto “tradizionalista”, che raccoglie un ventaglio di voci ampio ma disomogeneo. L’opera più importante finora apparsa è quella del prof. Romano Amerio, Iota Unum, che non si pone però sul piano storico, ma su quello teologico e soprattutto filosofico. Ignorata dalla pubblicistica progressista, è anch’essa un’opera di riferimento da cui non si può prescindere.

3. Ricezione e applicazione del Concilio

Il contrasto ermeneutico sul Vaticano II è legato anche a due diverse letture del contesto in cui l’assise conciliare si inserì e delle conseguenze storiche che essa ebbe. Il card. Ratzinger racconta che, alla vigilia dell’apertura dei lavori, il 12 ottobre 1962, il card. Frings, presidente della Conferenza episcopale tedesca, lo invitò ad esporre ai vescovi di lingua tedesca i problemi teologici che i Padri conciliari avrebbero dovuto affrontare nei mesi successivi. Cercando un’introduzione che mettesse in risalto qualcosa di relativo alla natura stessa dei Concili, l’allora prof. Joseph Ratzinger trovò un testo di Eusebio di Cesarea che aveva partecipato al Concilio di Nicea del 325 e che riassumeva con queste parole la sua impressione sull’assise del suo tempo:
Da tutte le chiese dell’Europa, dell’Africa e dell’Asia intera si erano riuniti i più grandi servitori di Dio. E una sola Chiesa, come dilatata alla dimensione del mondo per grazia di Dio, conteneva Siriani, Cilici, Fenici, Arabi e Palestinesi e ugualmente Egiziani, Tebani, Africani e abitanti della Mesopotamia. C’era anche un vescovo persiano. Non mancò a questo coro uno Scita. Il Ponto e la Galizia, la Cappadocia e l’Asia, la Frigia e la Pamfilia avevano invitato uomini scelti. Ma erano venuti anche dei Traci, dei Macedoni, degli Achei e degli Epiroti e della gente abitante ancora più lontano: anche uno spagnolo celebre era tra i partecipanti a questa assemblea”.

Dietro queste parole entusiaste - commentò ai vescovi tedeschi don Joseph Ratzinger - si riconosce la descrizione della Pentecoste data da Luca negli Atti degli Apostoli. Il pensiero di Eusebio era che Nicea era stata una vera Pentecoste. Questo era anche il pensiero di Giovanni XXIII e dei Padri conciliari sul Vaticano II: sarebbe stato una nuova Pentecoste.
La scuola di Bologna è rimasta fedele all’archetipo Concilio-Pentecoste e vede in Giovanni XXIII il profeta inascoltato di una nuova era nella storia della Chiesa. Benedetto XVI è oggi, invece, il più illustre rappresentante di coloro che, di fronte alla auto-distruttiva realtà post-conciliare, modificarono, nel corso degli anni, il loro giudizio sul Concilio, proponendone una lettura nel solco della Tradizione.
Dopo aver attraversato da protagonista le vicende del Concilio e i lunghi anni del post-Concilio, Joseph Ratzinger, assunto al soglio pontificio con il nome di Benedetto XVI, applicò nuovamente al Vaticano II, ma in chiave ben diversa, l’immagine del Concilio di Nicea. Nel già citato discorso del 22 dicembre 2005, il Papa neo-eletto, dopo aver affermato che innegabilmente la recezione del Concilio si era svolta in maniera difficile, evocò a questo proposito proprio l’immagine che san Basilio dà della Chiesa dopo il Concilio del 325: egli la paragona ad una battaglia navale, che si svolge nel buio della notte e nell’infuriare della tempesta, descrivendo “il grido rauco di coloro che per la discordia si ergono l’uno contro l’altro, le chiacchiere in¬comprensibili, il rumore confuso dei clamori ininterrotti”.

La metafora che Benedetto XVI applica alla Chiesa postconciliare, quarant’anni dopo la conclusione del Concilio, è dunque quella di una battaglia navale, tra le tenebre, nel mare in tempesta. Ma già vent’anni dopo la chiusura dei lavori conciliari, nel suo Rapporto sulla fede, l’allora cardinale Ratzinger riteneva “incontestabile” che “gli ultimi vent’anni” fossero stati decisamente sfavorevoli per la Chiesa cattolica.
I risultati che hanno seguito il Concilio sembrano crudelmente opposti alle attese di tutti, a cominciare da quelle di Giovanni XXIII e di Paolo VI. I cristiani sono di nuovo minoranza, più di quanto lo siano mai stati dalla fine dell’antichità. I Papi e i Padri conciliari si aspettavano una nuova unità cattolica, e si è invece andati incontro ad un dissenso che - per usare le parole di Paolo VI - è sembrato passare dall’autocritica all’autodistruzione. Ci si aspettava un nuovo entusiasmo, e si è invece finiti troppo spesso nella noia e nello scoraggiamento. Ci si aspettava un balzo in avanti, e ci si è invece trovati di fronte a un processo progressivo di decadenza che si è venuto sviluppando in larga misura sotto il segno di un richiamo a un presunto ‘spirito del Concilio’ e in tal modo lo ha screditato. (. . .) La Chiesa del dopo Concilio è un grande cantiere; ma è un cantiere dove è andato perduto il progetto e ciascuno continua a fabbricare secondo il suo gusto”.

Le cause di questa profonda crisi, secondo il card. Ratzinger/Benedetto XVI, vanno cercate in una cattiva applicazione del Concilio, dovuta a una errata interpretazione dei suoi testi. Si tratta dunque di un conflitto ermeneutico.
I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L’una ha causato confusione, l’altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti. Da una parte esiste un’interpretazione che vorrei chiamare ‘ermeneutica della discontinuità e della rottura’; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall’altra parte c’è l’‘ermeneutica della riforma’, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino”.

Occorre precisare che tra la situazione di crisi seguente al Concilio di Nicea e quella successiva al Concilio Vaticano II esiste una differenza fondamentale. La crisi dopo Nicea non si aprì in seguito ad un conflitto ermeneutico sui canoni del Concilio del 325, ma in aperta reazione a quei decreti. Di fronte a questo movimento di reazione, l’imperatore Costantino modificò la sua politica verso l’arianesimo, favorendo l’allargamento della crisi. Il conflitto fu tra i sostenitori del Concilio di Nicea e i suoi avversari, radicali e moderati, senza che mai fosse messo in discussione il significato del Credo niceno.


4. Concilio “pastorale” o “dottrinale”?

La formula del Concilio alla luce della Tradizione o, se si preferisce, dell’“ermeneutica della continuità”, offre indubbiamente un’autorevole indicazione ai fedeli per chiarire il problema della giusta ricezione dei testi conciliari, ma lascia aperto un problema di fondo: posto che la corretta interpretazione sia quella continuativa, resta da comprendere perché dopo il Concilio Vaticano II è accaduto ciò che mai avvenne all’indomani di nessun Concilio della storia, e cioè che due (o più) ermeneutiche contrarie si siano trovate a confronto e abbiano, per usare le parole dello stesso Papa, “litigato” tra di loro. Se poi l’epoca del postconcilio è da interpretare in termini di “crisi”, c'è da chiedersi se una errata ricezione dei testi possa incidere a tal punto nelle vicende storiche e costituire una ragione sufficiente e proporzionata a spiegare la vastità e la profondità della medesima crisi.
L’esistenza di una pluralità di ermeneutiche attesta peraltro una certa ambiguità o ambivalenza dei documenti. Quando si deve ricorrere a un criterio ermeneutico esterno al documento per interpretare il documento stesso, è evidente, infatti, che il documento non è in sé sufficientemente chiaro: ha bisogno di essere interpretato e, in quanto suscettibile di interpretazione, può essere oggetto di critica, storica e teologica.
Il più logico sviluppo di questo principio ermeneutico è quello proposto da un eminente specialista di ecclesiologia, mons. Brunero Gherardini. Secondo il teologo romano, il Vaticano II, in quanto Concilio che si auto qualificò “pastorale”, fu privo di un carattere dottrinale “definitorio”. Il fatto che il Vaticano II non possa pretendere la qualifica di dogmatico, ma che sia caratterizzato dalla sua “pastoralità”, non significa naturalmente che esso sia privo di una sua dottrina. Il Concilio Vaticano II ha certamente un suo specifico insegnamento, non privo di autorevolezza, ma, come scrive Gherardini, “le sue dottrine, non riconducibili a precedenti definizioni, non sono né infallibili né irreformabili, e dunque nemmeno vincolanti; chi le negasse non per questo sarebbe formalmente eretico. Chi poi le imponesse come infallibili ed irreformabili andrebbe contro il Concilio stesso”. Se il Concilio Vaticano II ha una natura eminentemente pastorale, è lecito riconoscergli un’indole dogmatica solamente là dove esso ripropone come verità di fede dogmi definiti in precedenti concili; “le dottrine, invece, che gli son proprie non potranno assolutamente considerarsi dogmatiche, per la ragione che son prive dell’ineludibile formalità definitoria e quindi della relativa ‘voluntas definiendi’”.
A chi obiettasse che niente, in via di principio, impedisce che un Concilio pastorale definisca un dogma, si potrebbe rispondere che, al di là della auto qualificazione pastorale del Concilio Vaticano II, la prova che esso non volle definire alcun dogma è data comunque dai suoi atti e dal tenore dei suoi documenti, in nessuno dei quali si trova in modo inequivoco la manifestazione della volontà di definire. Lo stesso Paolo VI, chiudendo il Concilio, ha dichiarato che, in esso, “il Magistero della Chiesa (…) non ha voluto pronunciarsi con sentenze dogmatiche straordinarie” e, in occasioni meno solenni, ha ribadito che il Concilio ha avuto come uno dei suoi punti programmatici “quello (…) di non dare nuove solenni definizioni dogmatiche”. Se un Concilio ha solo l’autorità che il Papa gli vuole attribuire, i pronunciamenti pontifici di Giovanni XXIII e di Paolo VI, anteriori e posteriori alla promulgazione dei documenti conciliari, mettono fine a tutti i dubbi che potessero sussistere a questo proposito.
La caratteristica “pastorale” del Concilio Vaticano II è sottolineata anche dalla scuola di Bologna, seppure interpretata in un’ottica diversa. La qualifica “pastorale” del Concilio riduce infatti l’importanza dei suoi stessi atti e documenti e contribuisce a fare dell’“evento” un canone ermeneutico. Se si ammette la “novità” di un Concilio pastorale, occorre riconoscere, con Alberigo, che “la novità più significativa del Vaticano II non è costituita dalle sue formulazioni, ma piuttosto dal fatto stesso di essere stato convocato e celebrato”. La convocazione del Concilio, sottolinea lo storico Joseph Komonchak, “fu una sorpresa, una rottura con la normalità della Chiesa, in modo persino indipendente da ciò che Papa Giovanni intendeva per Concilio”.
I testi promulgati fanno naturalmente parte dell’evento, ma l’“evento” è costituito da un insieme di fattori che comprende, accanto alla lettera dei testi, anche le rappresentazioni trasmesse e amplificate dai media che coprivano l’avvenimento. Alcuni sociologi, come Melissa Wilde e Massimo Introvigne, accettano la categoria di “evento” proprio per la rappresentazione che ne fecero i media e per la “auto-rappresentazione” che di esso ebbero molti Padri conciliari già durante il suo svolgimento. Anche Gilles Routhier ha sottolineato come l’ermeneutica del Concilio non possa ignorare la rappresentazione dei media e il modo in cui il Concilio venne percepito dai fedeli. I cattolici, la maggior parte dei quali non ha letto i testi conciliari, hanno conosciuto il Concilio proprio attraverso la rappresentazione fornita loro dai media.
Il padre John W. O’Malley conduce più a fondo l’analisi affermando che il problema non riguarda solo il modo in cui i documenti vennero presentati, anche prima della fine del Concilio, ma tocca la natura stessa dei documenti sotto l’aspetto, non del contenuto, ma della loro forma. Il gesuita americano ha proposto la figura di Erasmo da Rotterdam come “chiave” per interpretare il Vaticano II, da lui definito un concilio “erasmiano”. Le principali assonanze tra Erasmo e il Vaticano II, in termini di contenuti, riguardano il tema di fondo della “riconciliazione”, ma “la somiglianza più significativa tra Erasmo e il Vaticano II è il loro linguaggio, il loro vocabolario, il loro stile del discorso”.
La “novità” del Concilio, più ancora che nel contenuto dei documenti, va cercata dunque nella loro forma, secondo le indicazioni della Gaudium et Spes e dello stesso Giovanni XXIII nel suo discorso di apertura: “Altro è il deposito o le verità della fede, altro è il modo in cui vengono enunziate, rimanendo pur sempre lo stesso significato e il senso profondo”. Alle professioni di fede e dei canoni si sostituisce un “genere letterario” che padre O’Malley chiama “epidittico”. Fu il modo di esprimersi che, secondo lo storico gesuita, “segnò una rottura definitiva con i Concili precedenti”. Esprimersi in termini diversi dal passato, significa accettare una trasformazione culturale più profonda di quanto possa sembrare. Lo stile del discorso rivela infatti, prima ancora che le idee, le tendenze profonde dell’animo di chi si esprime. “Lo stile è l’espressione ultima del significato, è significato e non ornamento, ed è anche lo strumento ermeneutico per eccellenza”. L’aspetto pastorale è, di norma, accidentale e secondario rispetto a quello dottrinale, ma nel momento in cui diviene una dimensione sostanziale e prioritaria, il modo in cui la dottrina viene formulata si trasforma esso stesso in dottrina, più importante di quella che, oggettivamente, viene veicolata.
I leader del Concilio, continua O’Malley, “capivano benissimo che il Vaticano II, essendosi autoproclamato concilio pastorale, era proprio per questo anche un Concilio docente (…). Lo stile discorsivo del Concilio era il mezzo, ma il mezzo comunicava il messaggio”. “Questo significa che il Vaticano II, il ‘Concilio pastorale’, ha un insegnamento, una ‘dottrina’, che in gran parte è stato difficile per noi formulare, poiché in questo caso dottrina e spirito sono due facce della stessa medaglia”. La scelta di uno “stile” di linguaggio con cui parlare al proprio tempo rivela un modo di essere e di pensare e in questo senso si deve ammettere che il genere letterario e lo stile pastorale del Vaticano II non solo esprimono l’unità organica dell’evento, ma veicolano implicitamente una coerente dottrina.
Sotto questo aspetto il Concilio segnò indubbiamente un profondo cambiamento nella vita della Chiesa. I contemporanei ne avvertirono il carattere epocale. “Si parlò - ricorda Komonchak - di una svolta storica; la fine della controriforma o dell’epoca tridentina, la fine del Medioevo, la fine dell’era costantiniana”. “Semplicemente - rileva Melissa Wilde - il Vaticano II rappresenta l’esempio più significativo di cambiamento religioso istituzionalizzato dal tempo della Riforma”.



5. Primato della prassi e riforma della Chiesa

Come ogni “evento”, il Vaticano II va calato nel contesto storico in cui si svolse: gli anni Sessanta, che furono quelli in cui il cosiddetto “socialismo reale” - ovvero il comunismo al potere - raggiunse l’apice della sua parabola storica. L’influenza intellettuale del marxismo, come si presentava in quegli anni, fu forte in tutti gli ambienti, compresi quelli cattolici. Non è difficile cogliere nel “primato della pastorale”, che si fece strada negli anni del Concilio, la trasposizione teologica del “primato della prassi” enunciato da Marx nelle sue Tesi su Feuerbach, con queste parole: “È nella prassi che l’uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il mondano del suo pensiero” e “i filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; ora però si tratta di mutarlo”. La prassi, vale a dire il risultato storico dell’azione politica, è per Marx il supremo criterio della verità delle idee, perché l’azione contiene implicitamente una dottrina, pur senza enunciarla.
La glossa di Marx a Feuerbach, secondo cui i filosofi non devono conoscere il mondo ma trasformarlo, potrebbe essere parafrasata da una glossa conciliare secondo cui il compito dei Pastori e dei teologi non è quello di comprendere e trasmettere la dottrina della Chiesa, ma di trasformare attraverso essa la storia. “Fin dalla fine della prima sessione - scrive il card. Agostino Bea - ho ripetutamente affermato che i frutti del Concilio sono da ricercarsi in gran parte, prima che nei testi fissati sulla carta, nell’ambito delle esperienze fatte dai partecipanti e, per riflesso, anche dal popolo cristiano che seguiva i lavori conciliari. Ciò vale in modo speciale nel campo ecumenico”. La teologia della liberazione portò questo principio alle ultime conseguenze.
Nel postconcilio, la prassi storica divenne un “locus theologicus”, per il quale “la teologia non è qualificabile come scienza pura, bensì sempre come momento di un processo storico”. Il rapporto verità-storia fu riformulato sottolineando la dimensione storica della teologia, che assumeva la prassi storica, in forma di “ teoria critica della prassi cristiana ed ecclesiale”. La teologia della prassi fu postulata come “’l’applicazione coerente della teologia dei segni dei tempi (ST) come è stata tracciata dal Concilio soprattutto nella costituzione pastorale “Gaudium et Spes” (GS)”. L’“orto prassi” divenne il criterio di verifica della teologia, giudicata a partire dalla sua capacità di cambiare storicamente il mondo. “La teologia sviluppatasi nella recezione del Vaticano II si caratterizza dunque per la sua peculiare storicità”, scrive mons. Bruno Forte, riecheggiando il “Manifesto” di Le Saulchoir secondo cui “il teologo non ha e non può avere alcuna speranza d’incontrare il proprio dato fuori dalla storia (…)”. È in questa prospettiva che bisogna collocare parole chiavi dell’epoca conciliare come “pastorale”, “aggiornamento”, “segni dei tempi”.
La formula dell’aggiornamento, per cui non sono gli uomini a conformarsi ai sacri insegnamenti, ma questi ad adattarsi agli uomini, capovolge, secondo O’Malley, l’assioma del card. Egidio da Viterbo nel suo discorso di apertura del Concilio Lateranense V (1512): “(…) homines per sacra immutari fas est, non sacra per nomine”. “Nessun Concilio prima d’ora ha mai usato l’equivalente di aggiornamento come leitmotiv, come un principio generale più che come rara eccezione, con la conseguenza che per certi aspetti dovrebbe essere la Chiesa a cambiare per incontrare i tempi e non i tempi a cambiare per incontrare la Chiesa”.
La dimensione pastorale diviene così una chiave ermeneutica per riconoscere la “storicità della Chiesa” e interpretare storicamente la verità cristiana. Coerentemente con questa prospettiva, Giuseppe Alberigo, che ha voluto fare della scuola di Bologna la continuazione di quella di Le Saulchoir, non si limita nella sua Storia del Concilio Vaticano II a fare opera di storico: egli affida alla storia il compito della “riforma ecclesiologica” auspicata dalla “nouvelle théologie” e, prima ancora, dal modernismo.


6. “Riscrivere” la storia del Concilio

Da parte nostra ci proponiamo di distinguere accuratamente tra la dimensione teologica che emerge dai testi e quella più propriamente “fattuale”, che si riferisce alle vicende storiche. Distinzione non significa naturalmente “separazione”. Ogni storico della Chiesa porta nella sua opera il bagaglio di una visione teologica ed ecclesiologica e, ancora prima, di una sua “teologia della storia”. Diremmo anzi che la ricostruzione storica dell’iter conciliare è indispensabile per comprendere il senso e il significato di quei documenti della Chiesa che i teologi ci aiutano a leggere nella loro dimensione teologica. Il teologo legge i documenti nella loro portata dottrinale e su quelli discute. Lo storico ricostruisce gli eventi, anche se non si limita alla dimensione meramente fattuale, ma coglie gli accadimenti nelle loro radici e conseguenze culturali e ideali. Il compito dello storico non sta nello scomporre il passato, né nel ricomporlo in maniera cronachistica, ma nel cogliere l’orientamento processuale e il nesso unitario per giungere ad una comprensione “integrale” degli avvenimenti.
L’ermeneutica della continuità ribadisce correttamente il primato del Magistero ma assume il rischio di rimuovere, non solo un’errata concezione teologica, ma anche il fatto stesso su cui si discute. La conseguenza di questa opera di rimozione dell’evento è che oggi non esiste alcuna seria alternativa alla scuola bolognese, alla quale va riconosciuto il merito di offrire una prima ricostruzione fattuale, sia pure tendenziosa, dell’avvenimento.
Per molti fautori dell’ermeneutica della continuità, la rimozione storica dell’“evento” conciliare è necessaria per separare il Concilio dal post-Concilio e isolare quest’ultimo come una patologia sviluppatasi su di un corpo sano. C’è da chiedersi però se la cancellazione del Concilio-evento porti a comprendere in profondità che cosa è accaduto nel post-Concilio. Il Concilio Vaticano II fu, infatti, un evento che non si concluse con la sua solenne sessione finale, ma si saldò con la sua applicazione e ricezione storica. Qualcosa accadde dopo il Concilio come conseguenza coerente di esso. In questo senso non si può dar torto ad Alberigo quando afferma che la ricostruzione di quanto è avvenuto tra il 25 gennaio 1959 e 1’8 dicembre 1965 costituisce una premessa necessaria per una seria riflessione sul Vaticano II. La storia del Concilio è perciò da riscrivere, o almeno da completare.
È in tale spirito che propongo una storia del Concilio, “mai scritta”, non tanto per la novità delle testimonianze e degli episodi che ne emergono, quanto per la nuova ricostruzione e interpretazione dei fatti che viene offerta. Vero storico non è né il ricercatore che “scova” nuovi documenti, né il “cronista” che affastella quelli già conosciuti, ma colui che basandosi sulla documentazione edita o inedita a sua disposizione, è capace di ordinarla, di comprenderla, di narrarla, inquadrando le vicende in una filosofia della storia che, per lo storico cattolico, è innanzitutto una teologia della storia.
Le pagine che seguono sono dedicate alla ricostruzione storica del “fatto”, senza pretendere di creare un’artificiale dicotomia tra i testi e l’evento, ma cercando anzi di mostrare l’impossibilità di separare la dottrina dai fatti che la generano. Non si tratta dunque di un’opera di riflessione teologica, ma di narrazione storica, scritta nello spirito con cui il card. Sforza Pallavicino affrontava il Concilio di Trento: “La più sublime tra tutte le cose umane è la Religione – scriveva – per cui trattiamo col cielo, acquistiamo il cielo. Perciò quei racconti che hanno la Religione per materia sono tanto sopra gli altri nella materia, quanto il cielo è sopra la terra”.

(torna su)



INDICE

5     INTRODUZIONE
1.    Il Vaticano II: un Concilio diverso dagli aItri, 5
2.    Le due ermeneutiche conciliari, 7
3.    Ricezione e applicazione del Concilio, 10
4.    Concilio “pastorale” o “dottrinale”?, 14
5.    Primato della prassi e riforma della Chiesa, 19
6.    “Riscrivere” la storia del Concilio, 22

25     NOTA BIBLIOGRAFICA

31     I. LA CHIESA NELL’ETÀ DI PIO XII

1.    Il pontificato di Pio XII: trionfo o crisi incipiente?, 31
2.    La “riforma” modernista della Chiesa, 38
3.    Il movimento biblico, 47
4.    Il movimento liturgico, 53
5.    Il movimento filosofico e teologico, 62
6.    Il movimento ecumenico, 71
7.    Una associazione segreta all'interno della Chiesa?, 77
8.    Le reazioni al neomodernismo sotto il pontificato di Pio XII, 83
9.    Tra false riforme e vera Rivoluzione, 99

107     II. VERSO IL CONCILIO
1.    Muore Pio XII: la fine di un’epoca?, 107
2.    Il conclave del 1958, 110
3.    Angelo Roncalli: conservatore o rivoluzionario. L’enigma Roncalli, 115
4.    Verso il Concilio Vaticano II, 118
5.    Giovanni XXIII e i “segni del soprannaturale” nella Chiesa, 129
6.    I “vota” dei Padri conciliari, 135
7.    L‘Italia “apre” a sinistra, 144
8.    Il “partito romano” si schiera, 149
9.    L’entrata in scena del cardinale Bea, 157
10.  La controversia biblica, 162
11.  Il “tour” ecumenico del cardinale Bea, 171
12.  La battaglia sulla liturgia, 181
13.  I proclami di guerra dei progressisti, 187

197     III. 1962: LA PRIMA SESSIONE
1.    L’apertura del Concilio Vaticano II, 197
2.    La rottura della legalità conciliare: la seduta del 13 ottobre, 203
3.    Una nuova forma organizzativa: le conferenze episcopali, 206
4.    Il “messaggio al mondo”, 210
5.    I progressisti al Concilio, 213
6.    Il “Piccolo Comitato” dei padri conservatori, 227
7.    Il ribaltamento degli “schemata”, 235
8.    Il dibattito sulla liturgia, 238
9.    L’attacco allo schema sulle fonti della Rivelazione, 254
10.  Si discute sulla costituzione della Chiesa, 265
11.  Verso una nuova leadership del Concilio, 270
12.  Il ruolo dei mezzi di comunicazione sociale, 272
13.  “Dell’aria fresca nella Chiesa”, 276
14.  Bilancio della prima sessione, 278
15.  Maggioranza e minoranza in Concilio, 280

285     IV. 1963: LA SECONDA SESSIONE
1.    Da Giovanni XXIII a Paolo VI, 285
2.    Giovanni Battista Montini sul soglio pontificio, 293
3.    L’intersessione del 1963, 303
4.    L’apertura della seconda sessione, 308
5.    Chiesa pellegrinante e Chiesa militante, 310
6.    La questione mariana, 314
7.    Il partito antiromano nella seconda sessione, 324
8.    La nascita del Coetus Internationalis patrum, 330
9.    Tra primato di Pietro e collegialità, 335
10.  Dall’alleanza europea all’alleanza progressista mondiale, 350
11.  Il dibattito sull’ecumenismo, 352
12.  La costituzione Sacrosanctum Concilium, 356
13.  Appelli contro il comunismo, 360
14.  Il viaggio di Paolo VI in Palestina, 365

367     V. 1964: LA TERZA SESSIONE
1.    L’apertura della terza sessione, 367
2.    L’Enciclica Ecclesiam Suam, 369
3.    I conservatori al contrattacco, 371
4.    Compromesso sul capitolo “De Beata Maria Virgine”, 379
5.    Perché il Vaticano II non parla dell’inferno?, 384
6.    Lo scontro sulla libertà religiosa, 387
7.    La questione degli ebrei in Concilio, 398
8.    “Leviamo in alto la Sacra Scrittura, non la Tradizione”, 404
9.    Gaudium et Spes: la “terra promessa” del Concilio, 408
10.  Una nuova visione della famiglia cristiana, 414
11.  Si discute ancora su marxismo e comunismo, 422
12.  La “modernizzazione” della vita religiosa; 426
13.  Conflitto aperto sulla collegialità, 431
14.  La “settimana nera”: ma per chi?, 436
15.  La promulgazione della Lumen Gentium, 444
16.  Paolo VI depone la tiara, 448

451     VI. 1965: LA QUARTA SESSIONE
1.    Dalla terza alla quarta sessione, 451
2.    Nuove iniziative dei conservatori, 454
3.    L’apertura della quarta sessione, 457
4.    La battaglia sulla libertà religiosa, 458
5.    Lo schema XIII: critiche dalle opposte sponde, 470
6.    Paolo VI all’ONU: un evento simbolico, 480
7.    Le religioni non cristiane e la Nostra aetate, 485
8.    Compromesso sulla costituzione Dei Verbum, 490
9.    Il Concilio e il comunismo: storia di una mancata condanna, 492
10.  Le ultime sessioni pubbliche, 506
11.  La giornata storica del 7 dicembre, 510
12.  Sul Concilio Vaticano II cala il sipario, 523

527     VII. L’EPOCA DEL CONCILIO (1965-1978)
1.    L’epoca della “Rivoluzione conciliare”, 527
2.    La riforma della Curia di Paolo VI, 530
3.    L’esplosione della crisi: il nuovo catechismo olandese, 536
4.    La contestazione dell’Humanae Vitae, 539
5.    1968: la Rivoluzione nella società, 542
6.    La teologia della liberazione, 547
7.    “Il fumo di Satana” nel tempio di Dio, 554
8.    La disfatta dei conservatori dopo il Concilio, 559
9.    L'Ostpolitik vaticana, 563
10.  Il post-Concilio e la liturgia, 567
11.  Il giubileo del 1975, 574
12.  Il “caso Lefebvre”, 578
13.  La “via italiana” al comunismo, 580
14.  Le cause prossime e remote del “mondo in frantumi”, 584
15.  Vent’anni di storia della Chiesa, 588

591     CONCLUSIONE

593     BIBLIOGRAFIA

599     INDICE DEI NOMI




Qualche informazione sul Prof. Roberto De Mattei





Roberto de Mattei (Roma, 1948) insegna Storia del Cristianesimo e della Chiesa presso l’Università Europea di Roma, dove è coordinatore del corso di laurea in Scienze storiche.

Presidente della Fondazione Lepanto (Roma - Washington), è attualmente vice-presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche di cui è già stato sub-commissario (2003) e vice-presidente (2004-2007) con delega nel settore delle Scienze Umane; Membro del Board of Guarantees della Italian Academy presso la Columbia University di New York; componente del Consiglio Direttivo dell’Istituto Storico Italiano per l’Età Moderna e Contemporanea; membro del Consiglio Direttivo della Società Geografica Italiana.
È stato dal febbraio 2002 al maggio 2006 Consigliere per le questioni internazionali del Governo Italiano.
È autore di libri e pubblicazioni tradotte in varie lingue e collaboratore di giornali e riviste italiane e straniere.
È direttore della rivista trimestrale di Storia “Nova Historica”, del mensile "Radici Cristiane" e del settimanale "Corrispondenza romana".


gennaio 2011