Echi dalla Fraternità Sacerdotale San Pio X

di Belvecchio

In questi ultimi giorni si è verificato un susseguirsi di “voci” intorno alla possibile imminente regolarizzazione canonica della Fraternità San Pio X; tra queste voci, alcune si sono rincorse da un oceano all’altro per rivelare, distinguere, precisare la notizia che la Fraternità avrebbe addirittura acquistato, o era sul punto di farlo, un’adeguata sede romana, con annessa chiesa, per la concordata Prelatura personale.
Tra queste “voci” c’è stata anche quella della stessa Fraternità che, attraverso la sua agenzia d’informazione, DICI, ha precisato, ha corretto, ha anche ironizzato, ma non ha smentito chiaramente.

Dall’insieme di queste voci, con un po’ di pazienza, si possono cogliere facilmente alcuni elementi concordanti che parlano tutti del superamento della rottura fra Roma e la Fraternità. Dopo tanti anni, almeno 16, di contatti, di incontri, di discussioni, era logico che si potesse giungere ad una ricomposizione; certuni dicono: che si dovesse giungere…

Un breve sguardo all’indietro permette di osservare che diverse cose sono cambiate rispetto al lontano 1970 ed anche rispetto al 1988: certe asprezze si sono addolcite, soprattutto da parte di Roma; certe distanze si sono accorciate, soprattutto da parte della Fraternità; sono maturate perfino certe sensibilità, forse anche sulla scorta dell’età; sono aumentati i dati oggettivi sull’esperienza ecclesiale di questi anni; si sono chiariti tanti punti critici o oscuri sulle reali intenzioni della nuova compagine ecclesiale cresciuta a partire dal Vaticano II: tanto da poter dire se le cose sono migliorate o se invece sono peggiorate.

Ebbene, sembra proprio che le cose siano peggiorate: sia sul fronte della Fraternità, con confusione e divisioni, sia e soprattutto sul fronte del Vaticano, con una sorta di crescente deriva soggettivista.

A fronte di questo panorama alquanto articolato, ci siamo ritrovati in mano un vecchio bollettino pubblicato nel novembre 2011 dal Priorato della Fraternità San Pio X della Martinica, Guadalupe e Guyana: La Foi de toujours, che proprio per la sua collocazione geografica e per il mese e l’anno di pubblicazione, ci sembra che possa essere considerato abbastanza insospettabile e fortemente indicativo dell’atmosfera regnante allora all’interno della Fraternità.
In quegli anni essa si trovava a ridosso di un altro possibile accordo con l’allora regnante Benedetto XVI; accordo che poi abortì soprattutto per quella mancanza di duttilità che il Vaticano sembra oggi disposto a praticare.

In questo bollettino, sotto forma di domande e risposte, si faceva un quadro dei rapporti tra il Vaticano e le comunità Ecclesia Dei, quasi a richiamare a mo’ di memento ciò che la Fraternità non intendeva fare e non avrebbe mai fatto.

Riproponiamo la parte interessata del bollettino e, per opportuna documentazione, lo stesso intero bollettino in formato pdf, così chiunque potrà verificare.
Nella traduzione che proponiamo abbiamo evidenziato quelle parti che ci sono sembrate calzanti con lo stato attuale dei rapporti fra Roma e la Fraternità; e questo perché ci è parso che tali parti collidano con molte delle “voci” provenienti dalla Fraternità, cui abbiamo accennato all’inizio.

Non intendiamo sollevare alcuna polemica, l’argomento è fin troppo complicato di per sé, ma dobbiamo ricordare che da allora ad oggi il Vaticano è scivolato come su un piano inclinato, vivendo un’accelerazione negativa che lascia presagire ben poco, o niente, di buono.

Chi mai potrebbe aver voglia di collocarsi su tale piano inclinato, magari per tentare di fermare il moto discendente, ma predisponendosi ad essere trascinato in fondo alla discesa?

Ci siamo volutamente astenuti dal commentare i diversi passi che abbiamo evidenziato perché, come abbiamo detto, non intendiamo sollevare alcuna polemica; peraltro riteniamo che tali passi siano sufficientemente eloquenti e i lettori avranno di che riflettere.
C’è però un passo, alla fine, che ci sembra suscettibile di una riflessione particolare:
La situazione di queste comunità sarebbe di un’estrema fragilità senza il contrappeso della Fraternità San Pio X.

Sacrosanta verità, basata però sul fatto che la Fraternità continuava volutamente a rimanere fuori dalla struttura ufficiale della Chiesa conciliare.
Come non chiedersi: quando la Fraternità farà parte di tale struttura ufficiale, chi o cosa le farà da contrappeso protettivo?








La Foi de toujours
Bollettino del Priorato della Fraternità San Pio X
della Martinica, Guadalupe e Guyana

n° 140 - novembre 2011

Risposte ai lettori - pag. 4

Chi sono le «comunità Ecclesia Dei»?

Dopo la consacrazione dei 4 vescovi fatta da Mons. Lefebvre a Ecône il 30 giugno del 1988, le autorità del Vaticano hanno concesso la celebrazione dell’antica liturgia ad alcune comunità. In particolare, si tratta della Fraternità San Pietro (fondata da sacerdoti che hanno lasciato la Fraternità San Pio X nel 1988), L’Istituto Cristo Re (fondato da Don Wach a Gricigliano, vicino Firenze, in Italia), l’abbazia benedettina di Le Borroux (diretta da Dom Gérard), la Fraternità San Vincenzo Ferreri, a Chémére, in Francia (bruscamente passata dal sedevacantismo al ricongiungimento conciliare nel momento in cui Mons. Lefebvre conduceva le trattative con Roma nel 1987), L’Istituto dell’Opus Mariae (Padre Wladimir), le Domenicane insegnanti di Pontcallec (fondate da Don Berto); più recentemente: la Fraternità San Giovanni Maria Vianney di Campos, in Brasile (diretta da Mons. Rifan) e l’Istituto del Buon Pastore, fondato nel 2006 da sacerdoti che hanno lasciato la Fraternità San Pio X.

Da dove deriva il loro nome?

Queste comunità portano il nome generico di «comunità Ecclesia Dei» perché la maggior parte di esse dipendono dalla commissione (piccolo gruppo di vescovi e di sacerdoti designati dal Papa per occuparsi di una questione) che porta lo stesso nome, fondata a Roma dopo le consacrazioni episcopali del 1988 per recuperare i sacerdoti e i seminaristi che lasciavano la Fraternità San Pio X.
Le parole «Ecclesia Dei» sono il titolo del documento col quale Giovanni Paolo II scomunicò Mons. Lefebvre il 2 luglio 1988: si può dunque dire che tutte queste comunità sono fondate su questa scomunica, approfittando così dell’atto eroico posto da Mons. Lefebvre il 30 giugno 1988. Se il fondatore di Ecône non avesse prima annunciato (il 29 maggio 1987) e poi effettuato (il 30 giugno 1988) queste consacrazioni dei vescovi, le autorità romane non avrebbero mai accordato la liturgia tradizionale a tutte queste comunità.

Il Vaticano ha chiesto delle garanzie a queste comunità per accordare loro il diritto di celebrare l’antica liturgia?

In effetti, esse devono riconoscere la nuova Messa come un rito pienamente legittimo; poiché la liturgia detta tradizionale è considerata dalle autorità romane solo come «rito straordinario» della Messa, rispetto alla nuova Messa che costituisce il «rito ordinario», cioè la maniera abituale di celebrare la Messa. D’altronde, nel 2000, il cardinale Castrillon Hoyos l’ha ricordato ai superiori della Fraternità San Pietro di fronte ad un gruppo di sacerdoti che desideravano celebrare anche la nuova Messa.
I membri di queste comunità devono anche astenersi da ogni critica nei confronti del Concilio Vaticano II; essi devono anche accettare, o almeno non criticare, la libertà religiosa e l’ecumenismo. Ecco perché essi sono molto in imbarazzo per quelle cerimonie interreligiose che, si praticano ad Assisi, la cosa senza dubbio li affligge, ma non possono protestare pubblicamente.

Perché la Fraternità San pio X non fa parte di queste comunità?

Le consacrazioni del 1988 hanno contribuito a salvare la Tradizione cattolica, non solo assicurando la trasmissione del sacramento dell’Ordine – e dunque della Messa e dei sacramenti tradizionali -  ma anche proteggendo dagli errori del concilio Vaticano II una piccola parte del gregge della Chiesa.
Ora, questi errori conciliari continuano a devastare la Chiesa e regnano nella stessa Roma. Per continuare a proteggersi efficacemente da essi è dunque necessario conservare le distanze con le autorità romane.

Può fare un paragone?

In tempi di epidemia, la più elementare prudenza esige di separare i malati dai sani. Una certa comunicazione rimane indispensabile per curare questi malati, ma essa è il più possibile limitata e circondata da grandi precauzioni. Lo stesso accade nella situazione attuale: non si possono frequentare in maniera abituale le autorità conciliari senza esporsi a contrarre i loro errori. L’esempio delle comunità Ecclesia Dei ne è la prova manifesta.

I membri delle comunità Ecclesia Dei hanno veramente ammesso gli errori conciliari o si accontentano di tacere su di essi?

Senza pretendere di giudicare del foro interno, né delle possibili eccezioni, sembra che la maggior parte di questi membri abbiano finito, ahimè, con l’aderire agli errori conciliari. Essi hanno iniziato con un silenzio che giudicavano prudente, ma via via hanno dovuto dare dei segni di buona volontà alle autorità romane. Essi sono stati sottomessi, senza neanche rendersene conto, alle pressioni del liberalismo – tanto più efficaci per quanto appaiono meno vincolanti. Essi hanno finito con l’interdire a loro stessi di pensare diversamente da come dicevano e agivano. In breve, sono finiti per intero nell’ingranaggio in cui avevano imprudentemente messo il dito.

Questa accettazione degli errori conciliari è comune a tutte le comunità Ecclesia Dei?

Senza dubbio vi sono delle sfumature, ma, in maniera generale, tutte queste comunità oggi aderiscono agli errori conciliari. Al momento del suo rientro, nel luglio del 1988, Le Barroux aveva pubblicamente posto come condizione: «Che non si esiga da noi alcuna contropartita dottrinale o liturgica e che non sia imposto alcun silenzio alla nostra predicazione antimodernista.» ora, dal mese di ottobre in avanti, un monaco constatava «una certa relativizzazione della critica della libertà religiosa e della riunione di Assisi» all’interno dell’abbazia. Infatti, Le Barroux finirà perfino col provare a giustificare pubblicamente gli errori del Vaticano II. La Fraternità San Pietro che all’inizio pretendeva di continuare all’interno della Chiesa esattamente quello che faceva la Fraternità San Pio X, ha subito lo stesso slittamento.

Queste comunità, restano ferme almeno sulla liturgia?

Lungi dal resistere fermamente, esse hanno più o meno accettato tutte la nuova liturgia, che in ogni caso evitano di attaccare chiaramente. Dom Gérard, il vecchio abate di Le Barroux, ha dovuto concelebrare la nuova Messa col Papa il 27 aprile del 1995. Don Wach, il superiore dell’Istituto Cristo Re, aveva già fatto lo stesso il 21 dicembre del 1991. Anche Mons. Rifan ha concelebrato la nuova Messa l’8 settembre del 2004. La Fraternità San Pietro ha dovuto accettare il principio della concelebrazione della Messa crismale del Giovedì Santo con il vescovo diocesano.

Come contropartita a questi compromessi, queste comunità ottengono almeno vaste possibilità di apostolato?

La situazione è molto diversa a seconda dei paesi e delle diocesi, ma la maggior parte dei vescovi rimangono molto restrittivi nei confronti di queste comunità. Anche quelli che non sono loro ostili esitano ad accoglierle, tanto temono le reazioni del loro clero o dei laici impegnati. Da parte sua, Roma teme le reazioni dei vescovi. La situazione di queste comunità sarebbe di un’estrema fragilità senza il contrappeso della Fraternità San Pio X.






marzo 2017

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