La parabola del «buon cristiano»

di Giovanni T. - Firenze


Ritengo che solo di recente un discorso critico sul Vaticano II sia stato impostato in modo serio e corretto. Mi riferisco in particolare al concorso delle ultime opere in argomento di mons. Brunero Gherardini che hanno illuminato in profondità e per sistematicità dottrinale il dibattito che finora era rimasto assai frammentario, al carteggio fra padre Giovanni Cavalcoli o.p. e padre Serafino M. Lanzetta f.i. che lo hanno puntualizzato su specifici e non secondari aspetti, ed alla rilettura storiografica fattane da Roberto de Mattei, che ha incorniciato l’evento secondo precise e documentate coordinate, finalmente a giustizia di quell’altra storia – quella dell’Alberigo - che aveva dominato fino ad oggi per mancanza di validi concorrenti.

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1. Che il Concilio abbia sempre portato con sé, fin dall’origine, una sequela di incertezze nella sostanza e nella forma - determinanti quanto mai per la comprensione della nuova dimensione ecclesiologica che si era venuta delineando, e in vista dell’applicazione pratica dei suoi atti - è un’evidenza.

Anche il cattolico meno preparato ma solo un po’ accorto – prima di essere anestetizzato da un cinquantennio di «novità secondo lo spirito del Concilio» – può arrivare a dubitare che tutti i cambiamenti proposti da questa Chiesa “estroversa” (il termine non è mio ma del teologo Severino Dianich che ne fece il titolo di un suo libro) siano legittimi. Nello stesso tempo il povero ma non sprovveduto credente si trova pure nell’impossibilità di valutare il loro giusto peso ai fini molto pratici di avallare con la propria coscienza religiosa tutti gli «strappi» che si vede dinanzi: ad esempio di fronte alla lingua millenaria perfidamente eliminata dal rito dalla sera alla mattina e senza alcun rimpianto (si legga l’istruttivo “La tunica stracciata” di Tito Casini, ancor oggi attualissimo); ad un altare diventato improvvisamente mensa, diversamente disposto ed adornato spesso del superfluo ma non del necessario; a un Sacrificio eucaristico diventato un gioioso banchetto; a un affratellamento con altre religioni che nemmeno le altre religioni s’aspettavano né richiedevano. E così via.
Sorvolo sull’aspetto delle novità liturgiche che il Concilio concepì, preparò, approvò, inaugurò e lasciò in eredità ai tempi successivi, perché la rottura fra passato e presente fu qui più lampante che altrove. La riforma liturgica avviò un processo demolitore a valanga di cui oggi si possono vedere le macerie.

Il Concilio non va certo considerato come un frutto solitario sortito dall’inaspettata volontà di un Pontefice irenista e innovatore, ma fu il prodotto «naturale» di quei tempi che lo richiedevano, ed era del resto già nell’aria da anni negli ambienti della curia romana.
La seconda guerra aveva cambiato tutto, e ora sembrava che tutto girasse più velocemente: nuove le situazioni politiche degli Stati di diritto in ricostruzione e già sulla via del pieno sviluppo economico; una politica che divideva il mondo in due blocchi contrapposti e agli inizi di quegli anni ’60 quasi sull’orlo di una nuova guerra; una cultura dapprima pioniera e poi sempre più avanzante verso il culto del solipsismo, dello psicologismo e dell’effimero; e dall’altra parte, una Chiesa inserita nel blocco occidentale ma con qualche incertezza e malessere di fondo; la difficoltà di interloquire di fronte ad una modernizzazione che portava con sé ateismo, secolarizzazione ed alla lunga indifferentismo; la difficoltà di recuperare posizioni e ruolo accanto alle grandi istituzioni internazionali, ma soprattutto la necessità di presentarsi alle nuove democrazie come forza concorrente e fondante il tessuto costituzionale dei nuovi Stati di diritto.

Ma accanto a tutte queste motivazioni più recenti, il Vaticano II ereditava anche una serie di antiche e nuove questioni irrisolte e riconducibili ad un antropocentrismo di stampo modernista che fin dal lontano secolo di Machiavelli aveva continuato a lavorare sordamente fuori e dentro le mura ecclesiastiche. San Pio X aveva già affrontato efficacemente la questione all’inizio del secolo scorso, ma le mutate condizioni storiche l’avevano rinfocolata. Osserva esattamente Gherardini che “prima di covare sotto la cenere della «Pascendi», per poi riproporsi sotto le mentite spoglie della «nouvelle théologie», l’eresia modernista aveva per un verso disseminato il terreno di mine contro il concetto teologico di Fede, dogma e Tradizione derivandolo dall’«esperienza privata di ciascuno», e per un altro aveva fortemente sostenuto l’esigenza della fondazione storico-scientifica d’ogni asserto riguardante la Fede” (B. Gherardini, Quod et tradidi vobis, Casa Mariana Editrice – Frigento 2010, pag. 379). Ora, il neomodernismo si presentava ancora più aggressivo perché in grado di attaccare le società sul terreno fertile della nuova industrializzazione post bellica, della produzione e dei consumi di massa, imponendo attraverso i mezzi di comunicazione modelli etici e socio-culturali assolutamente relativi e ripiegati verso il basso.

Anziché costituirsi per consentire alla Chiesa di proclamare le sue verità, le sue risposte e le sue proposte in ordine a tutte queste esigenze che premevano con urgenza alle sue porte, il mondo assisté ad un Concilio che si limitava a «prendere atto» di tutti questi cambiamenti, ma che non intendeva affrontarli, né per accoglierli né per condannarli. Preferì invece – per così dire – “cambiar discorso” e più ambiziosamente guardare all’unità dei cristiani, secondo una sua particolare natura «pastorale» e non dogmatica, attraverso gli strumenti della «comunione» e non quelli della perentorietà.
“Cristo è la luce delle genti, pertanto questo Sacro Concilio, adunato nello Spirito Santo, ardentemente desidera con la luce di Lui, splendente sul volto della Chiesa, illuminare tutti gli uomini, annunziando il Vangelo ad ogni creatura” (Lumen Gentium, 1).

“Il ristabilimento dell’unità da promuoversi fra tutti i Cristiani, è uno dei principali intenti del sacro Concilio Ecumenico Vaticano Secondo” (Unitatis Redintegratio, 1).

“Questo Sacro Concilio esorta tutti i fedeli cattolici perché, riconoscendo i segni dei tempi, partecipino con slancio all’opera ecumenica” (Unitatis Redintegratio, 4).

“La cura di ristabilire l’unione riguarda tutta la Chiesa, sia i fedeli che i Pastori, e ognuno secondo le proprie possibilità, tanto nella vita cristiana di ogni giorno quanto negli studi teologici o storici. Questa cura già manifesta il legame fraterno che esiste fra tutti i Cristiani e conduce alla piena e perfetta unità, secondo la benevolenza di Dio” (Unitatis Redintegratio, 5).

La pastoralità fu dunque quella «medicina della misericordia» invocata da Giovanni XXIII nel suo discorso inaugurale dell’11 ottobre 1962 contro «le armi della severità».
Giocoforza la Chiesa – davanti a questi precisi indirizzi, confermati poi da Paolo VI – si trovò alle prese con “aggiornamenti” e con “novità” dottrinali, ma anche con tutti quei compromessi disseminati qua e là dove si manifestava un altisonante rispetto per le verità tradizionali salvo poi svilirle nella sostanza. Questo fu il prezzo pagato all’ecumenismo. “Nell’Aula conciliare” – spiega mons. Gherardini – “si respirava un’atmosfera per un verso di romantica fiducia nella libera e creativa intelligenza dell’uomo e nel dialogo con tutti senza preclusioni ideologiche e senza freni disciplinari, per un altro d’ormai effettuato distacco dalla Chiesa c.d. preconciliare, prigioniera nella sua torre d’avorio, irraggiungibile nel suo isolamento dal mondo e dalla storia” (B. Gherardini, Concilio Ecumenico Vaticano II – Un discorso da fare, Casa Mariana Editrice – Frigento 2010, pag. 42). Trionfava l’idea di una Chiesa finalmente immersa nella storia, vicina all’uomo, anzi fin troppo partecipe dei suoi fini terreni, dei suoi ideali passeggeri, dei suoi bisogni quotidiani: nobili e degni propositi, ma quanto mai lontani dai fini ultimi. A fianco a fianco con tutte le altre istituzioni aventi l’uomo al loro centro, e fallibile come loro.

Amaramente ma esattamente, Amerio poteva dire che il Concilio aveva inaugurato l’epoca di un «cristianesimo secondario» avente per fine non tanto la «santificazione» del popolo quanto il suo incivilimento, sicché “tutte le cause del mondo diventano cause della Chiesa. Essa porge al mondo il proprio servizio e tenta di capeggiare il progresso del genere umano” (R. Amerio, Iota Unum, Ricciardi-Napoli 1989, pag. 425). E con parole diverse ma con l’identico significato di sottolineare una rivincita storicista sulle sacre dottrine, oggi Gherardini assicura come “Il Vaticano II, non perché privo d’aperture ai valori metafisici (…), ma per un attestato di simpatia – talvolta, come in Gaudium et Spes, addirittura eccessiva – ai valori storici in mezzo ai quali anche l’esistenza cristiana si snoda e si dibatte accanto a quella di tutt’il genere umano, abbia imboccato la strada dei criteri suddetti” (B. Gherardini, Concilio …Un discorso da fare, pag. 69).

L’orientamento fu quello, insomma, di un benevolo sguardo di superficie, e il metodo fu quello del dialogo e della non contrapposizione. La «pastoralità» divenne fine e nello stesso tempo unità di misura, e non v’è dubbio che essa dovesse essere intesa come antitesi dell’aborrito «dogma». Del resto, se la Chiesa sposava la storia, nulla di irreformabile v’è nella storia.
Questo procedere in via amicale col mondo, se poteva anche essere utile e proficuo in vista di possibili «accomodamenti» politici e sociali, non poteva però non far danni in vista del più alto – e infinitamente più alto – piano teologico, con ricadute verso il basso, cioè sui fedeli. Una linea compromissoria “per non dispiacere” ai numerosi fautori – anche fra gli stessi Padri conciliari – di un neoprotestantesimo in chiave cattolica non poteva che portare all’alterazione della sana dottrina, del plurisecolare patrimonium fidei che la Chiesa aveva ricevuto direttamente dalle labbra di Cristo e, attraverso gli Apostoli e i loro legittimi successori fino ad oggi, patrimonio che la Chiesa col suo Magistero vivo avrebbe dovuto custodire integro.

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2. Proprio sul punto cruciale di deposito della fede, di fonti della Rivelazione, di Sacra Tradizione e di Magistero ecclesiastico si manifesta più criticamente l’ambiguità del Concilio.
Se il cattolico di prima, quello poco preparato ma accorto, intende arrivare a capo di qualcuno dei problemi posti dal Concilio al riguardo, non può perdersi la magnifica ricostruzione condotta su questo versante da mons. Gherardini il quale vi dedica tutto il cap. VI del suo trattato. Accenno in modo sommario ad alcuni punti salienti, limitandomi alla sola Dei Verbum, che è il documento che ha maggiormente inciso in materia di deposito della fede, e sforzandomi di aderire il più fedelmente possibile alla profonda e complessa trattazione originale di mons. Gherardini.

Pur prolifica di atti e documenti spesso assai verbosi, l’Assise non offrì mai una definizione né della Sacra Tradizione né della Sacra Scrittura, fatto di per sé grave dal momento che numerosissimi furono invece i riferimenti ad esse e le loro reciproche relazioni.
Uno dei documenti che più vi si richiamò fu appunto la costituzione Dei Verbum. La quale si presenta in una forma apparentemente piana ed innocua ma capace di nascondere enunciati contraddittori e lacunosi, tali da far intendere come non vi fosse chiarezza d’idee fra gli stessi Padri conciliari, o se vi fu come essa volse imprevedibilmente a scompaginare una materia tradizionalmente pacifica ma soprattutto coperta da irreformabilità: il Tridentino e il Vaticano I avevano infatti già provveduto a definire tutta la materia. Tanto più grave, quindi, l’intervento manipolatorio del Vaticano II, oltretutto attraverso pronunciamenti il cui grado – non essendo stato specificato dalla fonte conciliare - ci si trova a dover dedurre oggi per relationem dai precedenti Concili.
Alcuni esempi tratti da Gherardini:
- il titolo del cap. II che recita: “La trasmissione della divina Rivelazione”, fa subito intendere che la duplicità dei canali della Rivelazione stabilita dal Tridentino fu accantonata, di modo che – oggi – si deve capire che un’unica trasmissione comprende sia la parola scritta che quella orale;

- si esplicita poi il riconoscimento, e ciò costituisce un’assoluta novità, di un unico deposito della Rivelazione cristiana nel quale far confluire Tradizione e Scrittura e dove la Scrittura sembrerebbe aver la meglio: ipotesi suffragata dal punto 7 il quale ammette un certo primato del Vangelo come “fonte delle verità salutari e della disciplina morale”. Quindi la Scrittura diventa un po’ come la misura della Tradizione (Dei Verbum 10, I cpv.; 7, I cpv.);

- ma un’altra disposizione fa capire - al contrario - un certo mantenimento della dottrina delle due fonti:
“La sacra Tradizione dunque e la sacra Scrittura sono strettamente congiunte e comunicanti tra loro. Poiché ambedue scaturiscono dalla stessa divina sorgente, esse formano in certo qual modo un tutto e tendono allo stesso fine. (Dei Verbum 9);
La locuzione «un certo qual modo» del testo non richiama quell’identità che invece è espressa al punto 10 III cpv.

- ed infatti, arriva inaspettatamente il terzo capoverso del punto 10 che contraddice le due disposizioni precedenti, o per lo meno le altera: infatti alle due fonti della Rivelazione ne associa una terza, il Magistero, quando – più propriamente - il Magistero dovrebbe essere il custode della Rivelazione oppure – detto meglio – la fonte più qualificata per la trasmissione della Rivelazione. Il Concilio unificò così oggetti e soggetto della trasmissione, contenuto e contenente:
“(…) E’ chiaro dunque che la Sacra Tradizione, la Sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa, per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente connessi e congiunti da non potere indipendentemente sussistere, e tutti insieme, secondo il proprio modo,sotto l’azione di un solo Spirito Santo, contribuiscono efficacemente alla salvezza delle anime” (Dei Verbum 10, III cpv.);

- a complicar le cose, una parte del contenuto del Magistero ecclesiastico la si ritrova definita anche nel punto 8 dove si afferma:
“(…) Questa Tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo; cresce infatti la comprensione tanto delle cose quanto delle parole trasmesse sia con la riflessione e lo studio dei credenti i quali le meditano in cuor loro, sia con l’esperienza data da una più profonda intelligenza delle cose spirituali, sia per la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità. La Chiesa cioè, nel corso dei secoli, tende incessantemente alla pienezza della verità divina finché in essa vengano a compimento le parole di Dio” (Dei Verbum 8, II cpv.).
D’accordo che qui il Concilio si riferisce al progresso estrinseco del dogma e quindi della Tradizione, ma l’immedesimazione del Magistero con la Sacra Tradizione e con la Sacra Scrittura non può che creare una gran confusione e il pericolo di una predicazione nella quale qualunque Pastore si senta autorizzato a parlare come «Magistero vivo» della Chiesa, più o meno svincolato da ogni controllo e da ogni disciplina.
Tanto più che è proprio sulla base di questa normativa, che la stessa Chiesa postconciliare ha potuto elaborare il concetto di quella «tradizione vivente», che consente a qualunque Pastore di aprire la predicazione “ad ogn’influsso culturale, anche al più contraddittorio, nell’ingenua prospettiva del reciproco arricchimento” (B. Gherardini, Quod et … cit., pag. 210). Non è forse quello che succede oggi quando la maggior parte dei sacerdoti parla estemporaneamente dalla propria «sede»?

- Ma non basta ancora. Il predetto punto 9 sembra contraddire in pieno la disciplina dell’«unico deposito» del punto 10 I cpv., poiché in questo passo sembra affidare alla sola Tradizione la trasmissione «integrale» della parola di Dio:
“(…) Quanto alla Sacra Tradizione, essa trasmette integralmente la parola di Dio - affidata da Cristo Signore e dallo Spirito Santo agli apostoli - ai loro successori, affinché, illuminati dallo Spirito di verità, con la loro predicazione fedelmente la conservino, la espongano e la diffondano; ne risulta così che la Chiesa attinge la certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola Scrittura e che di conseguenza l'una e l'altra devono essere accettate e venerate con pari sentimento di pietà e riverenza

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3. Ora, affermare come fa p. Cavalcoli che “il Concilio nel solco della Tradizione, ha elaborato nuove dottrine stimolando il progresso teologico”; che esso quindi si colloca come “novità nella continuità e nel rispetto della Tradizione”; e soprattutto che “perché ci sia infallibilità non è necessaria la definizione solenne, ma basta semplicemente l’enunciato dottrinale in materia di fede del Magistero della Chiesa, specie poi se si tratta del Magistero solenne di un Concilio Ecumenico” (Lettera aperta a p. Lanzetta del 13.1.2011), appare francamente un assioma tutto da verificare.
Molto sommessamente, riterrei più opportuno e prudente rispondere a questa domanda: “Il Concilio ha preservato o no l’essenza del cattolicesimo?” Poiché infatti il Concilio, e tutti i dibattiti che ne sono seguiti, è intervenuto in una materia rivelata dal Verbo divino la cui essenza è indivenibile (cfr. al riguardo anche R. Amerio, Iota Unum, cit., pag. 592).
Giusta pertanto la replica di p. Lanzetta che il Vaticano II lo si può anche riguardare come un'unica entità, ma solo se lo si considera come organismo o corpo magisteriale o assise di massimo livello, ma è azzardato spingersi più oltre, cioè entrare “in merito all’infallibilità, non distinguendo nel tutto le sue parti, ovvero i diversi livelli magisteriali del Concilio” (Replica a p. Cavalcoli del 16.1.2011). Livelli che mons. Gherardini – attraverso l’analisi di tutti i pronunciamenti – ha individuato nei seguenti:
I. livello generico (il Vaticano II è un Concilio ecumenico convocato ed approvato dal Pontefice; ogni dichiarazione e principio rientra, pertanto, e legittimamente nel «magistero conciliare supremo e solenne». Anche se ciò non comporta automaticamente che esso sia dogmatico e infallibile);
II. livello pastorale (si richiama a quella corrente sviluppata nell’Ottocento, a base illuminista, che procede dall’antropologia, dalla centralità dell’uomo ed ha come strumenti il dialogo e l’ecumenismo in genere);
III. livello degli «appelli» (all’interno dei sedici documenti del Concilio vi sono appelli e richiami ai Concili precedenti. Fra questi richiami ve ne sono alcuni a precedenti dottrine dogmatiche: il che può autorizzare l’affermazione che il Vaticano II è dogmatico «di riflesso» solo nei casi in cui espressamente vi si richiama);
IV. livello delle innovazioni (che sono molte e problematiche: la collegialità episcopale; la libertà religiosa; l’ecumenismo; le fonti della Rivelazione).

Quest’ultimo livello è anche quello che dà più l’impressione di una rottura col passato poiché tutte queste novità toccano inevitabilmente l’essenza della Chiesa cui accennavo poco fa.
Ed è proprio in riferimento a questo IV livello delle «novità» che p. Cavalcoli sostiene che esse rientrano “nel solco della Tradizione” e che anzi “stimolano il progresso teologico” in quanto “la dottrina di ogni Concilio è sempre una conferma, magari più avanzata e più progredita, ma sempre fedele e coerente, della Tradizione” (cfr. Lettera aperta a p. Lanzetta).
Questa, però, è una strada piuttosto pericolosa. Perché, percorrendola così fiduciosamente, si rischia quel saltus ad aliud grazie al quale le «dottrine nuove» non sono affatto un «modo nuovo» di riproporre vecchi insegnamenti bensì la via maestra verso l’eterogeneità e la congerie. Ben per questo Amerio si cimentò nella sua opera cinquantennale di compilazione: per documentare le prove di questo saltus (vedi la sua stessa ammissione, in R. Amerio, Iota Unum, cit., pag. 595). Per evitare questo salto nel buio non resterà che rovesciare  completamente i termini della questione impostata da p. Cavalcoli ed aderire con convinzione all’opinione di p. Lanzetta: non saranno le innovazioni a far progredire la Tradizione, ma è semmai questa ad asseverare il nuovo secondo uno sviluppo omogeneo e genuino. Infatti, è la Tradizione “che accoglie le innovazioni ma al contempo le precede nel suo esserci già, a livello ontologico e cronologico” (cfr. Replica a p. Cavalcoli).
Il Vaticano II fu sì un Concilio «particolare» i cui insegnamenti vanno analizzati e valutati passo passo, ma fu anche un evento che non si può enfatizzare come in realtà ha fatto tutta la fase post-conciliare assolutizzandolo e discriminando le voci di critica (è il caso clamoroso di Amerio, imbavagliato fino a pochissimi anni orsono). In ogni caso non c’è dubbio che il Vaticano II “inaugura un «nuovo» modo di insegnare e di esser Concilio per la Chiesa, modo che darà un’impronta caratteristica al post-concilio: una scelta più pastorale per dire la dottrina di fede della Chiesa” (cfr. Replica a p. Cavalcoli).

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Dopo tutta questa disamina, non posso dire che il buon cattolico – poco preparato ma molto accorto – sia allo stesso punto di partenza. Intanto, ha imparato ad usare più che mai la virtù cardinale della prudenza, poi sa anche che dentro la Chiesa è ancora ben viva la voce della Tradizione: basta guardarsi attorno e saper scegliere. Ha appreso anche che nella stessa Chiesa coesistono dissonanze nella dottrina, nella predicazione, nell’officiatura dei riti, nell’insegnamento. Col tempo, purtroppo, queste dissonanze rischieranno di acutizzarsi.
Ma poiché la Chiesa è santa «anche» perché ha ininterrottamente predicato la verità e la verità non può esser che una, il buon cattolico è autorizzato a sperare in un intervento della massima autorità magisteriale – del Santo Padre – affinché le contraddizioni si sciolgano, l’unica verità trionfi e l’ordine in tutta questa sofferta materia si ristabilisca.
In tutta umiltà ritengo – e ne conviene con me anche il buon cristiano che non ne sa tanto di latino, ma che in compenso è molto arguto e non gli sfugge il senso - che il sigillo lo abbia posto secoli fa sant’Agostino quando ha perentoriamente affermato: «Ego vero Evangelio non crederem, nisi me catholicæ Ecclesiæ commoveret auctoritas».

Giovanni T. - Firenze



luglio 2011

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