1517-2017:
500 anni di sovversione protestante




Il cuore dell’eresia luterana:

la dottrina della giustificazione

di Fra’ Emmanuel-Marie O. P.

Pubblicato su Le Sel de la terre n° 99 - inverno 2016-2017

Le immagini nel testo sono nostre




 
Il 31 ottobre 1999, dalla Federazione Luterana Mondiale e dalla Chiesa cattolica
veniva firmata ad Augusta, in Germania, una Dichiarazione congiunta sulla giustificazione per la fede. Il cardinale Cassidy, rappresentante la parte cattolica, dichiarò che il consenso raggiunto ed espresso in questa dichiarazione «risolveva virtualmente una questione discussa da lungo tempo».

Il 27 giugno 2016, Papa Francesco affermava a sua volta: «Oggi protestanti e cattolici siamo d’accordo sulla dottrina della giustificazione: su questo punto così importante lui [Lutero] non si era sbagliato

Eppure è proprio questa questione della giustificazione che vide in opposizione Lutero e i teologi romani e che occupò una buona parte dei lavori del Concilio di Trento. Se Lutero non s’è sbagliato,  allora è Roma e il Concilio che si sono sbagliati? La questione si baserebbe solo su un malinteso ormai chiarito? E Lutero sarebbe di colpo «uno dei più grandi geni religiosi di tutti i tempi (1)», come dichiarava il cardinale Congar a Jean Puyo nel 1975, che sarebbe urgente riabilitare?

In realtà, questa questione della giustificazione è il nodo centrale dell’opposizione tra luterani e cattolici, perché è il principio e come il cuore dell’eresia luterana – come proveremo a dimostrare. In pratica, le dichiarazioni del cardinale Cassidy e di Papa Francesco citate prima, provano solo che: chi vuol fare di Lutero un cattolico, diventa lui stesso luterano.





La sovversione protestante è prima di tutto dottrinale

La tesi degli «abusi» ?

Il protestantesimo è una rivolta dovuta ai disordini interni alla Chiesa romana?
Questa è la leggenda luterana spacciata dal protestantesimo e ripresa e diffusa dalla maggior parte degli storici. L’origine della Riforma sarebbe l’esplosione incontenibile e spontanea della coscienza popolare disgustata dalla corruzione morale della Chiesa romana (condotta scandalosa dei monaci e del clero, dissoluzione della corte romana, ecc.).

In realtà, la questione degli abusi ha svolto solo un ruolo modesto nella controversia della Riforma. Lo stesso Lutero confesserà che, sotto il profilo morale, la sua «Chiesa riformata» non era superiore – per non dire peggiore – alla Chiesa papista.

La contestazione delle Riforme è essenzialmente dottrinale

Secondo gli stessi interessati (Lutero, Zwingli, Calvino), la causa delle loro proteste fu innanzi tutto dottrinale. Quello di cui accusavano essenzialmente la Chiesa cattolica era di aver corrotto la purezza della fede con delle invenzioni teologiche e degli errori inaccettabili.

Così, in un sermone del 1512 (o del 1515, gli specialisti ne discutono), che è uno degli scritti più antichi che ci restano di Lutero, l’eresiarca dichiara che ciò che bisogna riformare nella Chiesa, non sono tanto gli abusi morali, quanto il peccato di adulterazione della «Parola di Verità»:
Qualcuno mi dirà: quei crimini, quegli scandali, queste fornicazioni, queste ubriachezze, questa passione sfrenata per il giuoco, tutti questi vizi del clero! … Grandi scandali, lo ammetto! Bisogna denunciarli, bisogna porvi rimedio: ma i vizi di cui voi parlate sono visibili a tutti; essi sono grossolanamente materiali; sono evidenti a tutti;  rivoltano gli animi… E allora! Questo male, questa peste incomparabilmente più perniciosa e più crudele, il silenzio organizzato sulla Parola di Verità e la sua adulterazione – questo male che non è grossolanamente materiale – non ce ne si accorge nemmeno, non disturba, non spaventa! Quanti preti trovate oggi che considerano che vi è meno peccato in una mancanza contro la castità, nella dimenticanza di una preghiera, in un errore commesso recitando il canone, di quanto ve ne sia nella negligenza a predicare e ad interpretare correttamente la Parola di Verità? E tuttavia, il solo peccato possibile per un prete, in quanto prete, è il peccato contro la Parola di Verità ! (2).

Quest’accusa – la Chiesa romana è infedele alla fede – è chiaramente ingiusta e illusoria; perfino tre volte illusoria:
- è un’illusione e una blasfemia dire che la Chiesa abbia potuto sbagliare in questo modo e che Dio abbia permesso che coloro a cui aveva consegnato il Suo deposito tradissero il loro mandato e distruggessero l’opera di Cristo;
- è ancora illusione immaginare che potesse spettare ad un uomo solo – Lutero –, dopo quattordici secoli, ritrovare e restituire alla sua primaria purezza la «Parola di Dio» che la Chiesa romana non avrebbe saputo conservare;
- e infine è un’illusione credere che la Riforma avrebbe ripreso il messaggio di Cristo e lo avrebbe restituito agli uomini, sottraendolo finalmente a tutte le deformazioni che la Chiesa non sarebbe stata capace di evitare nel passato.

Questa spiegazione ha nondimeno il vantaggio di porre la questione sul suo vero terreno: quello dottrinale. La causa del protestantesimo è innanzi tutto di ordine dottrinale. La rivoluzione luterana ha potuto sbocciare e diffondersi solo perché la filosofia, la teologia e la spiritualità insegnate nel XIV secolo erano divenute decadenti ed avevano subíto l’influenza di correnti eterodosse. Le altre cause (spirituali, morali, politiche…) avranno potuto agevolare il cammino di Lutero e contribuire all’ampliamento della sua rivolta, ma certo non bastano a spiegare da sole le sue idee e l’ampiezza del movimento da esse suscitato.

Il cuore della sovversione protestante è la teoria della giustificazione per la fede, senza le opere

Ma su cosa verte precisamente il rimprovero di adulterazione della fede che avrebbe operato la Chiesa romana? Sulla giustificazione. Quello che contestano i riformatori – Lutero per primo – è la dottrina cattolica della giustificazione, cioè la dottrina relativa al peccato originale, alla redenzione dell’uomo decaduto, alla salvezza e alla grazia, alla fede e ai mezzi di santificazione dati da Gesù Cristo. Tutto il resto della rivoluzione protestante deriva da questo principio fondamentale.
Da qui deriva a sua volta che la tesi centrale della teologia luterana, che costituisce il principio e il cuore della sovversione protestante, è la tesi della giustificazione per la fede, senza le opere.


Genesi della teoria di Lutero sulla giustificazione

Causa morale: avvenimento della «torre»

Lutero stesso ha raccontato nel 1545, un anno prima della morte, nella prefazione dell’edizione delle sue opere complete in lingua latina, come gli fu «rivelato» il principio della sua dottrina e come questa rivelazione abbia provocato in lui una totale trasformazione.

Si tratta di quanto avvenuto nella «torre» del convento di Wittenberg, vale a dire nel gabinetto o come lo chiama lui stesso: la «cloaca» del convento: «Lo Spirito Santo mi ha dato questa intuizione nella cloaca». Che cosa gli venne rivelato nello stazionamento in un luogo così simbolico (3)? Il vero senso della «giustizia di Dio».

Fino ad allora, egli concepiva la giustizia di Dio come una giustizia attiva, che Dio esercitava nei nostri confronti, o piuttosto contro di noi: una giustizia puramente vendicativa; giustizia a cui lui pensava con terrore. Egli vedeva in Dio e in Cristo solo dei giudici severi, pieni di collera, che lo avrebbero punito per l’eternità, e si ribellava quando nella Sacra Scrittura incontrava l’espressione «giustizia di Dio»:
Tutte le volte che leggevo queste parole (4), desideravo sempre che Dio non le avesse mai rivelate nel Vangelo. Chi potrebbe infatti amare un Dio che si irrita, che giudica e danna (5)?

Ed ecco che egli scopre che questa giustizia era, secondo la sua espressione, passiva: una giustizia che noi riceviamo dalla misericordia divina per la fede. Dio, che fino ad allora gli era apparso col volto del giudice terribile, di colpo prende ai suoi occhi l’aspetto di un protettore misericordioso.
In altre parole, quando San Paolo, nella Lettera ai Romani (1, 17), dice che è «in Gesù Cristo che si rivela la giustizia di Dio – justitia Dei», non bisogna intenderla come giustizia soggettiva con la quale Dio è giusto (attributo divino), ma come giustizia oggettiva, e cioè come un dono che Dio fa gratuitamente al peccatore per giustificarlo, per renderlo giusto.

In quel momento – esulta Lutero – mi furono aperti tutta la Scrittura e anche il cielo […] Io mi sentii come completamente rinato e ho creduto di entrare a porte aperte nel Paradiso… Fu così che per me questo passo di San Paolo fu veramente la porta del cielo (6).

Lutero ha avuto la pretesa di ritenere che tale significato dell’espressione «giustizia di Dio» fosse rimasto ignorato dai dottori e che quindi ne fosse lui l’ispiratore.  Ma si tratta di una grossa menzogna. Il Padre Denifle ha condotto un’indagine molto accurata e ha pubblicato un volume apposito sui commentatori ufficiali dell’espressione Giustizia di Dio, presente in Romani 1, 17. Ne risulta che tutti gli autori a partire dall’Ambrosiaster (IV secolo) fino allo stesso Lutero hanno tradotto la Giustizia di Dio di Rm. 1, 17, non con «la giustizia per la quale Dio è giusto», ma con «la giustizia per la quale Dio ci rende giusti».

In ogni caso, questo episodio è rivelatore. Esso dimostra che la teoria luterana della giustificazione per la sola fede, in fondo si basa solo su una esperienza intima, che la tradizione protestante distoglierà per farne una rivelazione venuta direttamente dal cielo.
Si tratta di un fenomeno costante in Lutero. Il fondatore del protestantesimo è un uomo di passione, di lotta, un impulsivo; ciò che innanzi tutto si trova in lui, non sono delle idee, delle teorie, ma degli impulsi, delle tendenze. La sua teologia è il frutto delle sue impressioni e delle sue esperienze personali.
E siccome non riusciva a dominarsi, Lutero si trovava in perpetua angoscia. Uscito dal confessionale, egli non si sentiva né sollevato, né cambiato. Egli avrebbe voluto che il sacramento cancellasse tutto, non solo il peccato, ma perfino la radice del peccato. Ed invece, nonostante le sue opere di penitenza, egli vi ricadeva fatalmente e sentiva sempre il peso della giustizia di Dio gravare sulla sua coscienza spaventata e torturata. Ne conseguiva che, non avendo alcun effetto, la confessione e la penitenza erano per lui un’inutile ipocrisia!

E’ così che, con il senno di poi,  a partire dal 1530 egli reinterpreterà tutta la sua vita monastica alla luce di questa «rivelazione» degli anni 1510-1515, per dimostrare l’inutilità delle opere e l’ignoranza in cui si sarebbe trovato allora circa la vera dottrina del peccato originale e della giustificazione. Il quadro che egli comporrà quindi della sua vita passata è estremamente scuro e pieno di asprezza. A sentire lui, in tutti quegli anni avrebbe praticato macerazioni e mortificazioni spaventose, ma perfettamente insensate.
Ecco alcune delle sue affermazioni, riportate da Mons. Cristiani:
Con l’astinenza, noi pensiamo, noi vogliamo meritare tanto per eguagliare il prezzo del sangue di Cristo. Così io ho creduto, povero pazzo. […] Mi sarei ucciso con i digiuni, le veglie e la resistenza al freddo. Nel mezzo dell’inverno io portavo solo una maglia sottile, e gelavo, tanto ero folle e imbecille [2 dicembre 1537].

Perché ho osservato nel chiostro tante austerità? Perché ho sottomesso il mio corpo ai digiuni, alle veglie e alla sofferenza del freddo? Perché allora ritenevo di essere certo di ottenere la remissione dei miei peccati per mezzo di tali opere.
[1539].

Fui preso a vent’anni come monaco e mi sono martirizzato pregando, digiunando, vegliando, soffrendo il freddo, sebbene non sia morto, mi sono talmente tormentato che non ricomincerei neanche se lo potessi [1539].

Sotto il papismo, abbiamo invocato a gran voce l’eterna felicità, ci siamo tormentati per il regno di Dio e abbiamo quasi ucciso il nostro corpo, non con la spada o la tortura esteriore, ma con dei digiuni e la mortificazione del corpo: così abbiamo cercato e bussato alla porta giorno e notte. E io stesso, se, grazie alla consolazione di Cristo, non fossi stato liberato dal Vangelo, non avrei potuto vivere due anni di più, tanto mi martirizzavo e fuggivo davanti alla collera di Dio. E non mancavano neanche le lacrime e i gemiti [1540].

Mentre eravamo monaci, non abbiamo ottenuto alcunché con le nostre macerazioni, poiché non volevamo riconoscere il nostro peccato e la nostra empietà, non sapevamo perfino niente del peccato originale e non avevamo mai capito che il peccato è l’infedeltà. Io ero arrivato al punto che con i digiuni, le astinenze, la durezza del lavoro e degli vestiti, avrei finito col morire, talmente il mio corpo era impallidito e dimagrito [1545] (7).

La realtà, solidamente stabilita dagli storici, è tutt’altra. Il convento di Lutero non aveva niente di un convento di stretta osservanza. Questa sua coloritura drammatica, lungi dal provare quello che lui pretende di affermare, mostra solo la tendenza di Lutero all’esagerazione (8) e la sua incapacità a dominare l’ardore della sua natura. Non potendo correggersi, egli non esita a prendersela con la dottrina.

Soprattutto, queste confessioni patetiche tacciono la vera causa morale del naufragio del monaco agostiniano, e cioè la sua infedeltà alla preghiera, che è il mezzo principale per ottenere la grazia.
Nell’autunno del 1516, egli confessa infatti:
Avrei bisogno di due segretari, perché non faccio quasi altro in tutto il giorno che scrivere lettere, così non mi accorgo se ripeto sempre la stessa cosa. Inoltre, sono predicatore del convento e a tavola; ogni giorno vengo chiamato nella chiesa parrocchiale per predicare, sono Reggente degli studi, Vicario del distretto ed anche undici volte priore [aveva 11 conventi sotto i suoi ordini]. Sono il fornitore del pesce a Leitzkau, procuratore nei negoziati con la chiesa parrocchiale di Herzberg, Lettore di San Paolo, co-lettore dei Salmi. Raramente mi resta abbastanza tempo per recitare le Ore e per celebrare. A questo si aggiungono le mie proprie tentazioni con la carne, il mondo e il demonio (9).

Questa lettera in cui Lutero elenca con tanta compiacenza tutte le sue occupazioni non è stata scritta a cose fatte, come quelle che abbiamo visto prima. Curiosamente, in essa non dice niente delle macerazioni e dei digiuni; di contro dice tranquillamente che omette la recita del breviario e celebra la Messa solo raramente. Ed è questa la vera realtà.

Conclusione: la dottrina luterana della giustificazione deriva innanzi tutto da una crisi interiore e dall’esperienza religiosa di un’anima tormentata e dominata da violente passioni, che aspira a sbarazzarsi di ogni ostacolo senza riuscirci, e che finisce col dichiarare responsabile di questo stato di cose la dottrina della Chiesa:
La falsa teologia [dei «papisti»] – scrive Lutero – raffigura Dio irritato con i peccatori che confessano i loro peccati […] Un tale Dio non è né in cielo né da nessun’altra parte, è un idolo dal cuore malvagio. Il vero Dio dice piuttosto: Io non voglio la morte del peccatore, ma che si converta e viva (10).

Cause intellettuali: nominalismo e agostinismo; disprezzo del tomismo

Una buona formazione filosofica e teologica avrebbe potuto proteggere l’intelligenza di Lutero dalle sue pulsioni e insegnargli l’amore per la verità, una verità non dipendente né dalle fantasie della sua intelligenza, né dai capricci della sua volontà, né dalle spinte del suo temperamento.
Purtroppo, l’insegnamento filosofico e teologico che egli ricevette peccava sia per la quantità – i suoi studi teologici durarono appena due anni – sia per la qualità – i suoi insegnanti erano nominalisti e agostinisti (dottrine molto diffuse nel XIV secolo, specialmente nell’ordine degli agostiniani al quale apparteneva Lutero).

Che cos’è il nominalismo e che cos’è l’agostinismo?

- Secondo i nominalisti (11), la verità si conosce solo con l’esperienza (il nominalismo è un antirazionalismo; la conoscenza si limiterebbe ai dati dei sensi, ai fenomeni) e non esistono essenze universali nelle cose (le idee hanno solo un valore di «nome», esse non corrispondono a niente di reale, da cui l’appellativo di «nominalismo»).
Da qui deriva in Lutero: - il suo disprezzo della ragione, che egli isola totalmente dalla fede; - il suo volontarismo (anti intellettualismo) – e la sua concezione di una giustificazione che non è reale, ma solo imputata, in qualche modo «denominativa»: l’uomo è «reputato» giusto, ma non lo è; la grazia non è qualcosa di «reale», non è un habitus, una qualità soprannaturale inerente all’anima e in grado di trasformarci intrinsecamente, essa è una semplice relazione con Dio, una «copertura» applicata dall’esterno.

- L’agostinismo è una scuola di pensiero che si richiama alla dottrina di Sant’Agostino, ma ne deforma le idee. Sant’Agostino ha difeso il dogma della grazia contro i Pelagiani (IV secolo) che affermavano che l’uomo poteva salvarsi e compiere degli atti soprannaturali con le sue forze naturali. Contro questo ottimismo esagerato, Sant’Agostino ha dovuto insistere fortemente sul regno del male nel mondo e sul mistero dell’uomo, che conserva le ferite del peccato originale anche dopo il battesimo. L’agostinismo, abbandonando le distinzioni o le precisazioni che esige l’esatta interpretazione degli scritti e della terminologia di Sant’Agostino, li interpreta nel senso di un pessimismo teologico eccessivo, che arriva fino a confondere la concupiscenza, semplice tendenza al male, con lo stesso peccato, e che minimizza la parte dell’uomo nell’opera della salvezza.
Dall’agostinismo, Lutero trarrà la sua tesi fondamentale della caduta originale e della corruzione radicale dell’uomo dopo il peccato.

Inoltre, bisogna sottolineare che all’epoca di Lutero, la scolastica era in piena decadenza. Lutero non ha conosciuto la grande teologia del XIII secolo, quella di San Tommaso d’Aquino in particolare. Questa teologia è composta con la filosofia di Aristotele. Ora, Lutero aveva solo avversione per colui che egli chiamava il «filosofo acido». All’assioma: «senza Aristotele non si diventa teologo», egli  riteneva di poter controbattere: «senza l’abbandono di Aristotele non si diventa teologo».
Ugualmente, egli nutriva un vero odio per San Tommaso e la scuola tomista, odio accresciuto dal fatto che nella disputa sulle indulgenze, dopo il 1517, i suoi principali avversari furono i domenicani. Nel 1521, egli scriveva: «Tommaso si è salvato, non ne so assolutamente niente […]. Tommaso ha emesso molte opinioni eretiche. E’ lui che ha introdotto il regno di Aristotele, questo devastatore della pia dottrina» (12).
Per Lutero, San Tommaso era «il principe dei chiacchieroni; la metafisica l’aveva smarrito».
Quanto ai tomisti,  essi erano «dei gran maiali» e la filosofia tomista, una dottrina «asinesca» (13).

Una lettura orientata delle opere di Sant’Agostino

E’ in questo contesto che Lutero scopre, nel De Spiritu et littera di Sant’Agostino (412), che il vescovo d’Ippona interpreta l’espressione «giustizia di Dio», di Rm. 1, 17, non come l’attributo col quale Dio esercita la Sua giustizia, ma come il dono col quale Dio accorda la Sua giustizia al peccatore e lo rende giusto. Il monaco agostiniano vi vede una conferma delle sue intuizioni e si mette a cercare in Sant’Agostino tutto ciò che si accorda con la sua tesi.

Tuttavia, Lutero giudica imperfette le spiegazioni del vescovo d’Ippona e ritiene che egli non abbia ben capito l’«imputazione» della giustizia divina:
E benché questo sia detto ancora solo in maniera imperfetta e non venga spiegato chiaramente tutto quello che riguarda l’imputazione, io sono convinto che la giustizia che egli insegna è quella per la quale noi siamo giustificati (14).

Inoltre, la sua lettura delle opere di Sant’Agostino è piena di a priori e di controsensi, vale a dire di falsificazioni coscienti. Così, per giustificare la sua tesi dell’identificazione tra la concupiscenza e il peccato, egli non esita a modificare dei testi celebri di Sant’Agostino, sostituendo al termine «peccato» quello di «concupiscenza».
Sant’Agostino aveva scritto: «La concupiscenza della carne è rimessa nel battesimo, non nel senso che essa non esiste più, ma nel senso che essa non è più imputata al peccato» (15). Lutero, a partire dal 1515, scrive: «Agostino dice mirabilmente: il peccato è rimesso nel battesimo, non nel senso che esso non esiste più, ma nel senso che non è più imputato» (16).

E’ a questo punto (1515-1516) che Lutero si mette a commentare ai suoi allievi di Wittenberg (è professore di teologia e di Sacra Scrittura) l’Epistola di San Paolo ai Romani. E in questo commento egli condenserà l’essenziale della sua dottrina della giustificazione.

La dottrina luterana della giustificazione

Questo Commento all’Epistola ai Romani, specialmente a causa della parola del profeta Abacuc, citata da San Paolo all’inizio della sua epistola: «Il giusto vivrà mediante la fede» (Rm. 1, 17), darà a Lutero l’occasione per esporre tutta la sua teoria della giustificazione.

La si può riassumere così: non solo la giustificazione è operata dalla pura grazia, ma essa non rende l’uomo che la riceve, giusto in se stesso. Il battezzato rimane ancora realmente peccatore, macchiato da un grave peccato, quello della concupiscenza, e dai suoi molteplici peccati, gravi in se stessi. Ma Dio lo ricopre della giustizia di Cristo. E lo fa dandogli la fede, che consiste nel fatto che il giusto si crede perdonato e perdonato dalla pura grazia.

Anche se all’epoca Lutero non aveva ancora rotto con Roma, tutte le sue idee eretiche sulla giustificazione sono già presentate; in seguito egli vi ritornerà continuamente, ma il fondo del suo pensiero non cambierà più.

Riprendiamo i particolari di questa dottrina fondamentale. Una dottrina che è ad un tempo di un pessimismo esagerato e angoscioso (l’uomo è radicalmente decaduto, incapace di opere buone) e di un ottimismo altrettanto fittizio ed eccessivo (la fede che giustifica dà la certezza assoluta della salvezza).

Occorre sottolineare quattro punti essenziali. I primi due sono il riflesso del pessimismo di Lutero e del suo disprezzo per l’attività umana; gli altri due sono l’espressione del suo ottimismo artificiale.

2) La corruzione radicale ed integrale dell’uomo decaduto

Secondo Lutero, il peccato originale non è solo la privazione dalla giustizia originaria, ma è identico alla concupiscenza (cioè al cuore del peccato) e quindi esso rimane in noi dopo la giustificazione.

Occorre tenere presente che questa idea non è assolutamente propria di Lutero, la si ritrova già espressa da diversi precedenti teologi agostiniani (17), che arrivarono alla conclusione che, qui sulla terra, noi non possiamo mai essere senza colpevole lussuria, né amare Dio perfettamente con tutte le nostre forze. In altre parole, su questa terra l’uomo non è mai perfettamente giustificato, non ha una giustizia perfetta: la grazia fa sì che il peccato non regni più in lui, ma la sua giustizia terrena rimane imperfetta (18).

Ma Lutero si spinge molto più lontano. Per lui, il battesimo è impotente a cancellare il peccato originale e a giustificare, non solo imperfettamente, ma realmente: il male è più forte del bene; Satana più forte di Dio.
Che cos’è dunque il peccato originale? Secondo le sottigliezze dei teologi scolastici, è la privazione o la mancanza della giustizia originaria. […] Ma secondo l’Apostolo e il buon senso cristiano […], è la privazione intera e universale della rettitudine e del potere [per il bene] in tutte le energie sia del corpo sia dell’anima, nell’uomo tutto intero: interiore ed esteriore (19).

Dall’identificazione del peccato originale con la concupiscenza, derivano quattro conseguenze:

1 - Il peccato originale rimane in noi dopo la giustificazione
Pur essendo giustificati, noi restiamo peccatori perché conserviamo la concupiscenza; fino alla morte, siamo dunque meno giusti in fatto che in speranza; «le nostre virtù sono solo apparenti e in realtà sono dei vizi» (Commento all’Epistola agli Ebrei (20)). La nostra interiorità, dopo come prima della giustificazione, è solo «ignominia».

2 - Tutti i movimenti della concupiscenza sono dei peccati
L’uomo è radicalmente corrotto e peccatore. Egli può solo peccare. La natura è solo lussuria; essa è l’uomo carnale; e la carne non è solo il corpo, ma anche la stessa anima. Tuttavia, nei «giusti» la corruzione della natura, in sé mortale, diventa veniale (21).

3 - In questa vita è impossibile compiere la legge e raggiungere la giustizia perfetta
Ci è impossibile amare Dio con tutte le nostre forze. Quindi non esistono né i santi, né le virtù eroiche.

4 - La concupiscenza è invincibile
Vale a dire che essa è sempre, non solo vittoriosa, ma inestirpabile. Essa pervade ogni nostra attività. Noi non abbiamo più la libertà per il bene: siamo determinati al male. E’ questa la teoria del «servo arbitrio», che l’eresiarca svilupperà più tardi nella sua opera in polemica con Erasmo, intitolata proprio De Servo Arbitrio (1525). Ma il principio è già presente nel Commento all’Epistola ai Romani del 1515-1516, e sarà ripreso nella disputa di Heidelberg (1518), nella quale egli sosterrà che «la libertà per il bene non è altro che un enunciato senza realtà» (22).

Questa tesi della negazione del libero arbitrio è lungi dall’essere accessoria. Lutero l’ha sempre presentata come il coronamento della sua teoria sul peccato originale, la grazia e la giustificazione.

2) La lotta contro le opere

«Nella mia battaglia, è con la fiducia nelle opere che me la sono presa fin dall’inizio», dirà Lutero nel 1531 (23).

L’uomo essendo malvagio, le sue opere sono malvagie e non hanno alcun merito davanti a Dio. Lutero giunge così alla negazione assoluta del merito. E’ la conseguenza logica di ciò che precede.

Nel 1537, in una disputa teologica, egli riassumeva così la sua avversione per il merito:
«I termini fare, agire, essere necessario alla salvezza, comportano l’idea del merito e dell’obbligo, un’idea da rigettare» (24).

Per il Riformatore, la giustizia delle opere non rientra nella costituzione della giustizia e non rende l’uomo giusto. Tutta l’attività dell’uomo, anche giustificata, è viziata; la sua perfezione consisterà dunque nel non agire, perfino nel non cooperare, ma unicamente nel lasciare che Dio agisca in lui. Indubbiamente, i nostri atti possono avere un valore sociale, temporale (in base alla separazione dell’ordine naturale da quello soprannaturale (25)), ma essi non hanno alcun valore religioso, né morale: piuttosto,  ci inorgogliscono e ci distolgono da Dio: il cristiano che cerca di agire in vista di Dio e del cielo è un orgoglioso che vuole ergersi davanti a Gesù Cristo. Nell’ordine della salvezza, le opere sono dunque inutili e perfino nocive, ciò che è assolutamente necessaria è l’inazione.

In tal modo, il pessimismo di Lutero lo porta naturalmente al quietismo. Secondo Baio e Giansenio, il quietismo del XVII secolo trae la sua origine da Lutero.

Nel suo Commento all’Epistola ai Galati, del 1531, Lutero usa delle espressioni entusiaste per descrivere questa «eccellente giustizia» della fede, che egli chiama «passiva» e che oppone ad ogni giustizia attiva considerata dalle opere.
Questa eccellentissima giustizia, la giustizia della fede, che Dio imputa a Cristo senza le nostre opere, non è né la giustizia civile, né quella cerimoniale, né quella della legge divina, né quella legata alle nostre opere; essa è di un genere del tutto diverso, all’opposto di tutte queste giustizie attive, essa è puramente passiva. Qui, noi non facciamo niente, non rendiamo niente a Dio, ci limitiamo a ricevere e a subire l’azione di un altro, l’azione di Dio che agisce in noi. Così, il miglior nome per questa giustizia della fede o giustizia cristiana, è quello di giustizia passiva (26).

*
*   *

Prima di proseguire nell’esame della dottrina luterana della giustificazione, dobbiamo fare due precisazioni:
- Innanzi tutto, questa dottrina è intrinsecamente contraddittoria. Lutero è in piena incoerenza, se non altro con se stesso: lui che in pratica non ha cessato di impiegare un’energia e un’attività sovrabbondanti, soprattutto nel dominio religioso, si fa apostolo di un’assoluta passività religiosa; e tale quietismo mal si accorda con le veementi esortazioni che indirizzerà ai suoi discepoli per spingerli alla fiducia in Dio. In effetti, per cogliere per mezzo della fede e mantenere in noi questa giustizia «puramente passiva», nemica delle opere, Lutero è costretto ad esortare i suoi a compiere grandi sforzi e a svolgere molte attività. E tuttavia, egli afferma e ripete: l’uomo, in questa vita, può produrre solo del male, la sua attività è interamente malvagia e completamente necessitata.
In tutto questo vi è un’enorme contraddizione.

- Per altro verso, questa dottrina della corruzione integrale dell’uomo decaduto, che pretende esaltare l’onnipotenza divina, in realtà è profondamente offensiva per Dio, poiché Dio sarebbe impotente a cancellare il peccato originale.

Come possono accordarsi queste opposizioni?
E’ il nominalismo che, svolgendo il ruolo di dissolvente intellettuale, permette a Lutero di ammettere tali contraddizioni; e le teorie pessimiste dell’agostinismo aggiunte alle angosce personali di Lutero fanno il resto.
Come si è visto, Lutero, per la sua forma mentale e i suoi studi, è nominalista e il suo nominalismo lo porta al disprezzo per la ragione umana; ma col cuore e la pietà, Lutero è agostiniano e il suo agostinismo lo porta a disprezzare ogni attività umana.
Noi abbiamo continuamente incontrato queste due tendenze opposte, che sono alla radice del protestantesimo.

Abbiamo esaminato la componente pessimista, e perfino disperata, della teoria di Lutero. Ma l’uomo ha bisogno di perdono, di fiducia in Dio. Da dove potrà venirgli? Dalla fede che giustifica e che costituisce la seconda componente – quella ottimista – della teoria luterana.

3) La giustizia imputata

Anche qui, Lutero ha avuto alcuni precursori. Degli autori agostiniani avevano intravisto l’esistenza di una doppia giustizia, per poter accordare la loro dottrina con il dogma cattolico. Poiché, secondo i loro princípi, la giustizia interiore data al battesimo non faceva scomparire completamente il peccato nell’uomo giustificato, essa era insufficiente. Per raggiungere la misura di santità voluta da Dio, questi teologi immaginarono una seconda giustizia, imputata dall’esterno, per addizione o comunicazione dei meriti di Cristo (27). La prima giustizia produceva la giustificazione, la seconda permetteva la santificazione.

Lutero riterrà solo questa seconda giustizia, imputata dall’esterno. Nel 1532 scriveva:
Il cristiano è giusto e santo di una santità estranea o estrinseca; egli è giusto per la misericordia e la grazia di Dio. Questa misericordia e questa grazia non sono nell’uomo: non sono un habitus o una qualità nel cuore, ma un beneficio divino […] Essa consiste interamente in un’indulgenza estranea a noi […] il cristiano non è formalmente giusto […] Senza dubbio, il peccato non lo condanna più, ma rimane (28).

L’uomo giustificato rimane peccatore perché la giustizia per la quale è «giustificato» non è né reale né intrinseca, ma imputata dal di fuori, da Cristo. La grazia non è un habitus, ma una unione, una relazione diretta a Cristo (29) (la sola realtà giustificante che rimane in noi è la fede). Il peccato è solo coperto dall’esterno da Cristo, ma non distrutto; l’uomo è «reputato» giusto, ma in fondo non lo è. E’ come un mantello su un corpo infetto, un «rivestimento di marmo sul legno fradicio di una baracca» (30).

Perseguitato dal ricordo dell’habitus della grazia santificante come l’insegna la teologia cattolica, Lutero replica: «No, non c’è niente di infuso in noi. La nostra giustificazione è Cristo, esteriore a noi. Cristo è la forma esteriore che ci giustifica» (31). Dunque, la nostra giustizia non è infusa, essa è solo «presa in prestito». Ciò che è infuso in noi, ciò che ci è interiore, è la concupiscenza, cioè il peccato: noi siamo degli esseri corrotti, pieni di una «oscurità diabolica», di cui possiamo sbarazzarci solo annientandoci. Da qui il seguente enunciato che riassume tutto e che Lutero rivolge a Gesù Cristo: «Tu sei la mia giustizia; io sono il tuo peccato».

In fin dei conti, poco importa che l’uomo pecchi e anche che pecchi molto: questo non compromette in niente la sua giustificazione, posto che egli creda, come si vedrà di seguito. E’ per questo che Lutero adotterà questa formula: «Pecca fortemente, ma credi ancora più fortemente!» (32).

In fondo, Lutero, con questa dottrina estrema, senza sfumature, tagliata a sua immagine, ha cercato il mezzo per ridarsi la pace. C’è riuscito? Questa è un’altra questione. Davanti agli attacchi infuocati della sua sensualità, del suo orgoglio, della sua collera e di tutte le pulsioni che lo sommergevano, ecco che poteva dire a se stesso: «Io, l’inviato di Dio, io, pienamente giustificato e tuttavia pieno di peccati!» (33).

4) La fede che giustifica

Rimane un ultimo aspetto.
Come facciamo ad appropriarci di questa giustizia che ci è tutta esteriore?
Con la fede e solo con la fede – Sola fides; secondo Lutero, la fede rimpiazza la grazia – perché le buone opere non hanno niente a che fare con la giustificazione.

Che cos’è questa «fede» luterana?
Essa non è l’assenso dell’intelligenza soprannaturalizzata a delle verità rivelate, come insegna la dottrina cattolica (34).
E’ invece una convinzione, una fiducia assoluta, un sentimento naturale, uno slancio del cuore verso Cristo: noi teniamo per certo che la misericordia di Dio ci è personalmente accordata a causa dei meriti di Cristo.

Mons. Cristiani spiega:
«Per Lutero, la fede è qualcosa di infinitamente complesso. In questa parola, egli fa rientrare prima di tutto un elemento tradizionale, l’adesione dello spirito agli insegnamenti di Cristo. Ma la paura, l’umiltà, l’abbandono disperato nelle braccia di Dio, la convinzione che si è coperti di peccati, che tutto ciò che si fa è peccato, il senso della nostra impotenza di fronte alla legge divina, la fiducia tremebonda in Cristo, unico Salvatore, lo sforzo angoscioso per avere la fede, sempre più fede: ecco, tutto ciò è la fede. E non stupisce che questa fede giustifichi, Con essa, in effetti, noi giustifichiamo Dio e quindi otteniamo che Egli ci giustifichi. Noi giustifichiamo Dio perché noi ci riconosciamo peccatori; noi rendiamo omaggio alla Sua veracità, alla Sua giustizia, alla Sua bontà. Di rimando: questa fede ci giustifica» (35).

L’ultimo dei biografi di Lutero, Otto Schell, riassume così l’idea luterana della fede che giustifica: Dio ha portato su di me un giudizio. Io non ne posso niente; non ho la libertà di sottrarmici. Per mezzo della fede, io credo a questo giudizio. La fede è la mia accettazione del giudizio di Dio. Ma, dal momento che Dio mi dà la fede, questo significa che mi ha giudicato favorevolmente. Ed io gli sono riconoscente di questo giudizio favorevole. Questa «fede-fiducia» non attiene dunque al dominio generale: ciascuno deve applicare a se stesso la convinzione che Cristo gli imputa personalmente i Suoi meriti; è un fatto d’esperienza e tutto ciò che è creduto diventa oggetto di esperienza. «Con questa vera fede, io credo e sono certo che Dio è il mio Dio, perché è a me che Egli parla ed è a me che rimette i peccati», Commenta Klöstlin (36).

Il correlativo e la conseguenza della fede che giustifica è la certezza della salvezza.
La fede «fiduciaria» con la quale il credente approfitta di Cristo, gli dà la certezza, non solo della presenza della giustizia in lui (il Concilio di Trento dirà al contrario che, senza rivelazione particolare, nessuno può avere la certezza di essere in stato di grazia), ma anche della sua salvezza futura.
«La fede è la coscienza costante della propria giustizia e della propria salvezza», scriverà Lutero nel 1521.

In un secondo Commento all’Epistola ai Galati, nel 1525, egli dirà ancora più chiaramente:
Una volta per tutte, voi dovete ripudiare l’opinione molto pestilenziale di tutto il regno papista, secondo la quale il cristiano dev’essere incerto della grazia di Dio nei suoi confronti (37).

Nella sua opera sul Servo Arbitrio, nel 1525, egli dà le ragioni di questa certezza: se l’uomo fosse padrone di sé e dotato di libero arbitrio, non potrebbe essere salvato, mentre invece con la fede che giustifica egli è certo di compiere la sua salvezza:
Per me, lo confesso: se potessi avere il libero arbitrio o qualche altro mezzo per compiere la mia salvezza, lo rifiuterei. In mezzo a tante avversità e pericoli, a tanti demoni in lotta con me, non potrei resistere e conservarlo; un solo demone, non è più forte di tutti gli uomini messi insieme? Con il libero arbitrio, nessuno sarebbe salvato. […] Potrei vivere eternamente e fare eternamente delle opere, la mia coscienza non saprebbe mai con certezza e sicurezza fin dove dovrebbe andare per essere in regola con Dio. Dopo ogni opera, per completa che fosse, resterebbe lo scrupolo di sapere se essa piace a Dio o se, al contrario, Egli non chieda qualcosa di più. […] Adesso invece che Dio ha tolto alla mia salvezza il mio libero arbitrio, per occuparsene Lui stesso, adesso che non è con la mia opera e col mio impegno, ma con la Sua grazia e misericordia che ha promesso di conservarmi, io sono certo e ho l’assicurazione che Egli è fedele e che non mi mentirà, Lui così potente e così grande. A questo punto, né demoni, né avversità, niente potrà vincerLo, né sottrarmi a Lui (38).

Ma, in effetti, questa certezza è ben fragile; essa si basa solo su un imperativo categorico perfettamente soggettivo e su un’esperienza, un sentire intimo che Lutero non esita a definire «testimonianza dello Spirito», ma che in realtà è puramente naturale:
Tu devi ritenere con ferma fiducia che Cristo è morto per i tuoi peccati, che tu sei uno di quelli per i quali Egli è stato consegnato. Ecco la fede che ti giustifica; essa farà sì che Cristo abiterà, vivrà e regnerà in te. Essa è la testimonianza dello Spirito al nostro spirito, che noi siamo i figli di Dio (39).

Questa testimonianza dello Spirito – spiega Lutero – il cristiano deve provocarla in se stesso, deve lavorare per produrla, per aumentare in sé la certezza della grazia presente e della propria salvezza futura. Con la fede che giustifica io posso avere la certezza della mia salvezza; dunque devo averla, questo diviene per me un obbligo. Si presenteranno dubbi e tentazioni? Non mi ci devo soffermare. Dubitare della propria giustificazione e della propria salvezza – dice Lutero – significa commettere il peccato irremissibile, il peccato contro lo Spirito Santo. Così, mentre il cattolico vive nell’incertezza della sua perseveranza finale e rigetta i dubbi contro la dottrina, i sacramenti e la Chiesa, depositaria di questa dottrina e di questi sacramenti, il luterano invece si convince che egli è salvato e rigetta i dubbi contro la fiducia in Dio e contro la certezza della salvezza.

Su che si fonda questa certezza? Quali prove oggettive adduce Lutero? Nessuna. La sola risposta che si possa dare è l’autosuggestione. Lutero ha fatto scendere la certezza della fede dall’oggetto al soggetto, da Dio nel quale dobbiamo credere, a noi. L’atto di fede non attiene più a Dio, ma a noi stessi. Per arrivare alla fiducia assoluta sulla propria giustificazione e sul proprio destino eterno, il credente deve sovreccitarsi, suggestionarsi.

Una dottrina intrinsecamente contraddittoria

Siamo ancora e sempre in piena incoerenza.
Dalla corruzione radicale dell’uomo decaduto, peccatore, incapace di alcun bene, dal quietismo assoluto, dalla negazione del libero arbitrio, dal pessimismo più nero, si è passati brutalmente ad una fiducia piena di ottimismo, ad un’auto consolazione rassicurante (e arbitraria), all’attività energica, volontaria di una fede totalmente soggettiva che deve eccitarsi e autosuggestionarsi per arrivare all’intima convinzione e alla radiosa certezza della propria salvezza.
Che strano percorso disseminato di molteplici contraddizioni!

Per illustrare queste contraddizioni, ecco un esempio.
Nell’aprile del 1518, Lutero fu incaricato di organizzare la disputa teologica tenuta in occasione del Capitolo generale del suo Ordine. Egli stabilì quaranta tesi, ventotto in teologia e dodici in filosofia. Le tesi teologiche contenevano la sua teoria sull’incapacità dell’uomo a fare il bene, con la fede che giustifica come coronamento.
Le tesi 25 e 26 dicevano:
Il giusto non è colui che fa molte opere, ma colui che senza opere crede molto in Cristo. La legge dice: fai questo e l’opera non si completa mai; la grazia dice: credi in Lui ed allora tutto è compiuto.
Ma la tesi 16 obiettava:
«Ma si dirà: che dobbiamo fare? Niente, perché noi possiamo solo peccare?»
La risposta era:
Rispondo: No, di fronte a questo, cadi in ginocchio, chiedi la grazia e rimetti la tua speranza in Cristo, nel quale è la nostra salvezza, la nostra vita e la nostra resurrezione.

Questo esempio è significativo. Laddove ci si aspettavano degli argomenti precisi da teologo, si trova solo la risposta sfuggente di un predicatore che si appella alla fiducia cieca. Noi possiamo solo peccare, ma dobbiamo credere che siamo salvati. Per di più, se non si ha la libertà, come possiamo decidere di cadere in ginocchio? E peraltro: cadere in ginocchio, non significa compiere un’«opera» che non vale niente?

In definitiva, la teoria luterana della giustificazione è un inganno; è l’introduzione della frode nella vita cristiana e nei suoi rapporti con Dio; è una pura finzione. Per un verso, l’uomo è intrinsecamente e irrimediabilmente peccatore, incapace di alcun bene, e per l’altro, Dio lo riveste dei meriti di Gesù Cristo, glieli imputa dall’esterno: tale che l’uomo non è realmente giustificato, ma solo reputato giusto. D’altra parte, l’uomo non deve compiere opera alcuna, deve rimanere totalmente inattivo nell’ordine della salvezza, ma al tempo stesso deve esercitare una formidabile energia per eccitarsi alla fiducia e credersi salvato.
Che valore potrebbero avere: una giustificazione che è semplicemente imputata dall’esterno e coesiste col peccato, e una promessa di salvezza che esiste solo nella misura in cui è solamente creduta? Tutto ciò è ad un tempo una sorta di illusione ottica e una specie di auto inganno, ci si trova di fronte ad una provocazione e ad una sfida nei confronti della ragione.

Tuttavia, per tutta la vita, Lutero rimane fedele a questa teoria della giustificazione per la fede e la considera come il punto essenziale del suo sistema:
«Nel mio cuore – scriverà nel 1535 – regna quest’unico articolo della fede in Cristo» (40).
E a metà del 1537:
«L’articolo della giustificazione è il maestro e il principe, il signore, direttore e giudice di ogni genere di dottrina; è esso che dà vita e direzione a tutta la dottrina della Chiesa e che eleva la nostra coscienza al suo vero posto davanti a Dio» (41).


Complementi e risultati

L’opera principale: De servo arbitrio

Lutero redasse quest’opera nel 1525, per rispondere ad uno scritto di Erasmo intitolato: De libero arbitrio diatribe seu collatio (Diatriba o confronto sul libero arbitrio), 1524. Il Riformatore dichiarerà più tardi che essa era la sua opera principale, nella quale aveva espresso il suo vero pensiero. A dire il vero, il De servo arbitrio non contiene niente di nuovo: tutte le affermazioni in esso contenute erano già presenti nelle opere anteriori, in particolare nel Commento all’Epistola ai Romani, del 1515-1516, ma qui esse sono espresse senza remore – Lutero all’epoca aveva già rotto con Roma e non usa più tergiversazioni – e ci forniscono la presentazione compiuta della dottrina luterana sulla giustificazione.

Com’è che Lutero arrivò a polemizzare con Erasmo? Questi in effetti era un suo precursore, molto favorevole alle idee del Riformatore. Dell’umanista di Rotterdam, che aveva usato la sua vena polemica contro i preti e soprattutto contro i religiosi, che aveva criticato i pellegrinaggi, il culto dei santi, la confessione, la scolastica, infatti si diceva: «Ubi Erasmus annui, Lutherus irruit – Laddove indica Erasmo, si precipita Lutero».

Ma Erasmo aveva una visione ottimista e liberale della natura umana e si inquietava per le posizioni estremiste di Lutero. Si dispose quindi per confutare le idee del Riformatore sul libero arbitrio. Lutero, nella sua risposta, loda il suo avversario per aver posto il vero problema che attiene al cuore del dibattito: giustificazione e libero arbitrio:
E poi, e su questo ti lodo e mi felicito, tu solo tra tutti hai affrontato il vero problema, il cuore della questione; tu non m’annoi con altre questioni sul papato, il purgatorio, le indulgenze e altra cose simili, che sono delle bagatelle piuttosto che il vero problema e sulle quali fino ad oggi tutti mi hanno inseguito invano. Tu sei il solo che ha colto il nodo della questione e che lo ha preso per la gola, e sinceramente ti ringrazio di questo (42).

Ci accontenteremo di richiamare solo due punti importanti affrontati nel De servo arbitrio:
a) Dio solo è libero;
per essere liberi bisogna essere Dio, dunque l’uomo non è libero (si tratta del determinismo filosofico derivato dal nominalismo e dal volontarismo di Occam).
b) L’uomo è predestinato da Dio al cielo o all’inferno (43).
Qual è la condizione dell’uomo? Egli non collabora in niente alla propria salvezza; la sua volontà è mossa da Dio irresistibilmente e necessariamente al male (prima della giustificazione) o al bene (sotto la grazia). Quindi l’uomo non può fare niente per la sua salvezza, ma Dio applica ai suoi eletti la giustizia di Cristo, permettendo loro di disperare di essi stessi e di credere fortemente che Dio li giustifica per pura grazia.

Queste stesse teorie si ritroveranno, abbondantemente sviluppate da Lutero, nel suo terzo Commento all’Epistola ai Galati (quello del 1531, il più lungo) – la sua «cara epistola», come la chiamava o la «sua Caterina», alludendo a Caterina di Bora, la religiosa apostata che aveva sposato. Questo testo costituisce l’ultima versione della dottrina sulla giustificazione per la sola fede. Tutto il Commento è dedicato a ripetere tale dottrina, a spiegarla e a difenderla. In particolare, è l’incidente di Antiochia (Gal 2, 14), che fornisce al Riformatore l’occasione per esporre la sua tesi. In effetti, Lutero capisce che in questo passo si coglie l’elemento fondamentale della giustificazione, laddove San Paolo ricorda a San Pietro che l’uomo non è giustificato per le opere della fede, ma per la sola fede in Cristo. Nel rimprovero di San Paolo – spiega Lutero – non si tratta solo di sapere se i Gentili convertiti sono tenuti all’osservanza delle leggi mosaiche, ma si tratta di dimostrare che la pratica della legge, compreso il Decalogo, e quindi le buone opere, non servono a niente per la salvezza: solo la fede salva, ed è questo che San Pietro avrebbe in qualche modo gravemente negato con la sua condotta.

Il percorso verso la guerra al Papa: il passaggio dalla dottrina al fatto

Occorre sottolineare la totale costanza di Lutero nei suoi errori, anche se ha potuto variare nelle sue spiegazioni e nelle sue formulazioni, (soprattutto a proposito delle «opere»), per «prudenza politica» o a causa delle sue contraddizioni interne.

In ogni caso, la questione della giustificazione è esattamente il cuore della sua dottrina. Essa regge tutto il resto. L’essenziale di questa dottrina è fissato fin dal 1515-1516 (nel Commento all’Epistola ai Romani). In seguito, il processo segue il suo corso logico, con un crescendo nella rivolta.
Ecco le tappe principali, date schematicamente:
- primo Commento all’Epistola ai Galati (1516);
- diatriba delle indulgenze (1517-1518);
- comparsa davanti al Gaetano ad Augusta (fine 1518): la questione dell’autorità del Papa e del Concilio; Appello del Papa male informato al Papa meglio informato e Appello del Papa al Concilio;
- secondo Commento all’Epistola ai Galati (1518);
- disputa di Lipsia con Jean Eck (1519): Lutero ripudia l’autorità del magistero e dei concilii in quanto soggetti ad errore;
- prima condanna da Roma (bolla Exsurge Domine, 15 giugno 1520);
- Lutero predica l’affrancamento da ogni autorità: Manifesto della nobiltà tedesca sulla riforma dello Stato cristiano (agosto 1520), che proclama l’uguaglianza dei cristiani in virtù del sacerdozio universale conferito dal battesimo: tutti possono e devono ricorrere unicamente alla Bibbia come fonte di verità e di regola di fede («Sola Scriptura» e libero esame); il Papa è l’Anticristo; la Chiesa non è una società visibile e gerarchica; il potere civile prevale sul potere spirituale;
- attacco ai sacramenti, ridotti a due (La cattività babilonese della Chiesa – 1520);
- Libertà del cristiano (fine 1520). Mentre Lutero nega il libero arbitrio (capacità di scegliere il bene), di contro rivendica una piena libertà esteriore contro la legge e l’autorità e promuove una morale senza costrizioni;
- Lutero brucia pubblicamente la bolla Exsurge Domine che lo condanna, il Corpus juris e la Summa di San Tommaso (10 dicembre 1520);
- Lutero viene scomunicato (3 gennaio 1521);
- Dieta di Worms (aprile 1521), in cui Lutero dichiara:
A meno di essere convinto con delle prove dalla Scrittura e con delle ragioni evidenti – poiché io non credo né al Papa, né ai soli Concilii, i quali, questo è certo, si sono spesso sbagliati e contraddetti – io sono legato ai testi che ho prodotto e la mia coscienza è vincolata alla parola di Dio. io non posso e non voglio ritrattare alcunché, perché non è né certo né conveniente andare contro la propria coscienza. Che Dio mi aiuti. Amen!;
- attacco alla Santa Messa e ai voti monastici (1521-1523);
- Lutero sposa la religiosa svestitasi Caterina de Bora (3 giugno 1525);
- confessione di Augusta (1530), redatta da Melantone, la quale riassume i punti principali della dottrina luterana, evitando le formulazioni troppo ardite del Riformatore. L’articolo IV espone la dottrina della giustificazione:
Gli uomini non possono essere giustificati davanti a Dio per le proprie forse, meriti o opere (44), ma sono giustificati gratuitamente dalla fede a causa di Cristo, quando credono che sono ricevuti nella grazia e che i loro peccati sono rimessi a causa di Cristo che, con la Sua morte ha soddisfatto per i nostri peccati. Dio imputa questa fede come giustizia davanti a Lui;
- terzo Commento all’Epistola ai Galati (1531);
- gli articoli di Smalcalda;.

In questo modo, la falsa dottrina della giustificazione ha comportato il rovesciamento di tutto l’ordine ecclesiastico (Chiesa, Tradizione, Scrittura, culto) e della stessa società civile (separazione del cristiano e del cittadino; onnipotenza del principe).
Questa dottrina è dunque all’origine della rivoluzione luterana.


Conclusione

Della dottrina di Lutero, non tutto è stato mantenuto alla stessa maniera. Vi sono degli aspetti inassimilabili per la mentalità moderna e molto poco «ecumenici», come il suo pessimismo nero o i suoi violenti attacchi contro il giudaismo. Del pari, la storiografia ufficiale ha accuratamente cancellato tutta la coprologia che riempie le pagine del Riformatore.

Ma la sua influenza non è meno considerevole in tutti i dominii della vita e del pensiero. Lutero è più vivente che mai e continua a diffondere i suoi errori. Si ha coscienza, per esempio, che tutta la filosofia moderna è di origine protestante? E che è questa filosofia che ormai ispira tutta la teologia, il pensiero, l’attività umana e il mondo degli affari? L’influenza luterana si vede particolarmente nell’empirismo e nell’utilitarismo dei filosofi inglesi e nell’idealismo kantiano (45), che sono all’origine di tutto ciò che conta oggi.

Quest’uomo che aveva consacrato la sua vita a Dio, come ha potuto arrivare a tanto? La rivolta di questo sconosciuto monaco di una piccola città tedesca, come ha potuto avere una tale risonanza?
Dietro questi fatti è all’opera sicuramente il mistero d’iniquità, ma anche un castigo di Dio per l’infedeltà di una cristianità che ha perduto il senso del vero cristianesimo e della grazia di Dio:
Quale peccato ha fatto cadere questo spirito che ha precipitato l’Europa? Nel momento decisivo della sua crisi, egli è forse caduto in qualche pesante mancanza esteriore? Noi pensiamo di no. Egli è caduto interiormente, ha disperato della grazia… Tentazione di spirito prima di ogni altra. Lutero compie quest’atto di rassegnazione perversa, rinuncia a lottare, dichiara che la lotta è impossibile… E’ un addio nascosto, ma consumato, al vero cristianesimo, e tutta l’irreligione dell’avvenire.
Il protestantesimo o la grazia perduta, dovremmo dire (46).

Cerchiamo di apprendere la lezione!



NOTE

1 - «Quest’uomo [Lutero] è uno dei più grandi geni religiosi di tutta la storia. In questo senso, io lo metto sullo stesso piano di Sant’Agostino, San Tommaso d’Aquino o Pascal. In una certa maniera, egli è ancora più grande. Egli ha ripensato tutto il cristianesimo. Ne ha dato una nuova sintesi, una nuova interpretazione.» (Yves Congar, Une vie pour la vérité. Jean Puyo interroge le père Congar, Paris, Centurion, 1975, p. 59).
2Oeuvres de Luther, ed. Weimar, t. I, 10-17.
3 – Paquier commenta: «Che luogo simbolico […] che nesso tra quella rivelazione e l’ambiente in cui si è prodotta! Sulla cloaca, la fede giustificante scende come fiore puro e balsamico venuto direttamente dal Cielo! Portato alle antinomie, Lutero ama ripetere: «La Spirito soffia dove meglio gli pare» (DTC, articolo, «Lutero», t. IX-1, col 1208).
4Rm. 1, 17: «Justitia enim Dei in eo revelatur ex fide in fidem – La giustizia di Dio è stata rivelata in lui (Gesù Cristo) dalla fede per la fede».
5 – Testo del 1540, citato da L. Cristiani, Luther et le luthéranisme, Paris, Bloud et Gay, 1909, p. 51.
6 – H. Denifle, O. P., Luther und Luthertum, Mainz, 1904, p. 395 – citato da Cristiani, ibid, pp. 51-52.
7 – L. Cristiani, ibid., pp. 37-40.
8 – Dall’esagerazione alla menzogna: Lutero si contraddice più volte, in particolare sulla durata di queste pretese macerazioni; talvolta parla di vent’anni, tal’altra di quindici. Ma l’esame dei fatti dimostra che questi quindici o vent’anni di penitenza si riducono a tre, al massimo cinque.
9 – Enders, Dr. Martin Luther Briefwechsel (Lettere di Lutero), 10 vol., Erlangen, Francoforte, 1903, t. 1, p. 66 – Citato da Cristiani, ibid. p. 40.
10 – Citato da Cristiani, idib., p. 47. La grossolana falsità delle sue calunnie contro la dottrina cattolica salta agli occhi, anche dei più ignoranti. La Chiesa è la prima ad insegnare ai cristiani a non essere fieri delle proprie opere, ma di Dio, e a contare sull’infinita misericordia di Dio che non abbandona nessuno di quelli che sperano in essa.
11 – Il «padre» del nominalismo è Guglielmo di Occam (1285 - 1347), di cui abbiamo già parlato negli articoli precedenti di questo numero.
12Weimar Auflage (edizione critica delle opere di Lutero, 1883-1903 – seriamente criticata dal Padre Denifle), t. VII, p. 127, 18.
13 – Id., ibid., t. Xb, p. 203, 8.
14 – Id., ibid., t. 54, p.186, 16-20.
15 – Sant’Agostino, De nuptiis et concupiscentia, I, XXV, 28.
16 – J. Ficker, Luthers Vorlesung über den Römerbrief, Lipsia, 1908, t. II, p. 109.
17 – Si veda in particolare il De Sacramentis di Ugo di San Vittore (che Lutero ha forse letto) e le Sentences di Pietro Lombardo, che esprimono formalmente certe tesi agostiniane (e che Lutero ha commentate nel 1509-1510). Più vicino a Lutero si possono citare Gregorio da Rimini († 1358), Gerardo da Zutphen († 1398), Giovanni Gerson († 1429). Su queste questioni si veda DTC, t. IX-1, coll. 1190 ss.
18 – Sembra che queste tesi fossero considerate dagli agostiniani come una tradizione del loro Ordine, come dimostra la difesa che ne fece Girolamo Seripando (1493-1563), Generale degli agostiniani, al Concilio di Trento. Si comprende che Lutero se ne sia nutrito. Si veda DTC, idib., coll. 1199-1200.
19 - J. Ficker, Luthers Vorlesung über den Römerbrief, Lipsia, 1908, t. II, pp. 143-144 – citato in J. Paquier, articolo «Lutero», DTC, t. IX-1, col. 1212.
20 - J. Ficker, ibid., - DTC, col. 1213.
21 – Tuttavia, Lutero in seguito non manterrà questa distinzione: al giustificato, Dio non imputa più le sue mancanze né come mortali, né come veniali, perché vi sono solo mancanze mortali. Così egli dichiara che il purgatorio è un «fantasma» inventato dal diavolo.
22 Weimar, t. I, p. 354 (13° tesi).
23Propos de table (Weimar, Tischreden [1912-1921], t. II, n. 1963) – Citato in DTC, ibid., col. 1219.
24 - Citato in DTC, ibid., col. 1220.
25 – Questo spiega l’importante attività svolta dai paesi protestanti anglosassoni per il progresso economico e la finanza.
26 - Weimar, t. XL a, p. 41, 15.
27 – Questa teoria della doppia giustizia fu sostenuta da Seripando (il Generale degli agostiniani) all’inizio del Concilio di Trento. Salmeron e i cardinali presenti rifiutarono questa opinione da loro giudicata «nuova».
28 - Weimar, t. XL b, p. 352, 36-354.- Citato in DTC, ibid., col. 1226.
29 - «Per la nostra giustificazione, noi rimaniamo nella categoria della relazione e non in quella della qualità; Dio ci considera giusti e pii» (Propos de table n. 4933) – Citato in DTC, ibid., col. 1227.)
30 - DTC, ibid., col. 1229.
31 – Citato in DTC, ibid., col. 1228.
32 Pecca fortiter, sed fortius crede. – Lettera a Melantone del 1 agosto 1521.
33 - Weimar, t. XL a, p. 407, 33 (1532).
34 – Ancorché Lutero, per illudere, faccia qualche allusione a questa nozione tradizionale. Ma «questa fede storica» che comporta degli enunciati magisteri ali, successivi, «questa catena di date», non piace a Lutero. Per lui, la fede è essenzialmente una fiducia totale del cuore.
35 - «Lutero in convento», in Revue des questions historiques, 1914, t. 1, pp. 366-370.
36 – Julius Köstlin, Luthers Theologie, Stuttgart, 1901, t. II, p. 180.
37 - Weimar, t. XI a, p. 586, 35.
38 - Weimar, t. XVIII, p. 783, 17.
39 – Primo Commento all’Epistola ai Galati (Weimar, t. II, p. 458, 22).
40 - Weimar, t. XL a, p. 33, 7.
41 - Weimar, t. L, p. 250, 21.
42 - Weimar, t. XVIII, p. 786, 26-31. – Citato da Charles Boyer S. J., Luther, sa doctrine, Roma, stampato dall’Università Gregoriana, 1970, p. 88.
43 – Si pretende spesso che la dottrina della predestinazione assoluta al cielo o all’inferno sia dovuta a Calvino. In realtà essa è già presente nelle opere di Lutero.
44 – Questa prima frase è vera se si intendono le opere antecedenti alla ricezione della grazia santificante. Ma l’uomo in stato di grazia può meritare per le sue buone opere e cooperare all’opera divina della sua giustificazione.
45 – Il canonico Verneaux spiega che l’influenza di Lutero sulla filosofia di Kant «si manifesta specialmente su due punti. All’inizio, Kant adotta la concezione luterana della fede come atto pratico senza fondamento teorico, cioè come moto della volontà senza motivazione intellettuale. E’ su questa base che egli ristabilisce le tesi essenziali della metafisica: la libertà, l’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio, dopo aver negato ogni possibilità di dimostrarle ed anche di conoscerle. Per altro verso, egli accetta la dottrina del libero esame e ne fa il perno della sua morale. Il protestantesimo sostiene che la coscienza religiosa sarebbe libera di interpretare le Scritture senza regole di ortodossia imposte da una Chiesa. Kant traspone l’idea sul piano morale: la coscienza è autonoma, obbedisce solo alle leggi che si dà da sé.» (Roger Vernaux, Histoire de la philosophie moderne, Parigi, Beauchesne, 1963, pp. 137-138).
46 – Brano della recensione dell’opera di Maritain, Trois réformateurs, pubblicata dalla rivista Nova et Vetera, ottobre-novembre 1928.


aprile 2017