La Costituzione
Sacrosanctum Concilium
sulla sacra liturgia

Continuità con la Tradizione

o
soluzione di continuità ?


L'articolo in formato pdf


di Sir Anacleto McKeeler


Negli ultimi anni si sta discutendo e scrivendo molto sulle cd. “ermeneutiche” da applicare ai testi del Concilio Vaticano II, se cioè essi siano conformi o almeno compatibili con la dottrina perenne della Chiesa o se rappresentino una novità e finanche una rottura col passato. L’argomento appassiona molti addetti ai lavori: la maggioranza della gerarchia, almeno ufficialmente, propende per la prima soluzione, mentre progressisti e tradizionalisti, per opposti motivi, ritengono i testi del Concilio innovativi dal punto di vista dottrinale e, in certi casi, non compatibili con la Tradizione.
La stragrande maggioranza dei fedeli è abbastanza indifferente al problema e, quando prende una posizione, lo fa solitamente senza cognizione di causa ovvero senza aver letto i documenti.
Ho tentato, da laico “né teologo, né filosofo”, di capire una delle costituzioni dogmatiche meno controverse, che anche i tradizionalisti accettano senza problemi e vi fanno spesso riferimento per affermare che la riforma liturgica di Paolo VI e le sue evoluzioni nazionali non rispettano le disposizioni conciliari.

All’atto dell’approvazione finale dell’assemblea essa ottenne 2.147 voti a favore su 2.151 votanti; anche i Card. Ottaviani e Siri, Mons. Lefèbvre e praticamente tutti i vescovi integristi ed ultramontani votarono a favore.
Gli scritti della Chiesa, a partire dalle Sacre Scritture (almeno il Nuovo Testamento), dai Padri della Chiesa fino ai documenti di tutti i concilî ed alle encicliche papali erano sì preparate da “professionisti”, però erano chiare e comprensibili a tutti, perché a tutti dev’essere possibile trarne frutto per la propria vita spirituale ed averne un aiuto per raggiungere la salvezza della propria anima. M’accingerò, avendo delle forti riserve riguardo alla liturgia post-conciliare, a leggere la “Sacrosantum Concilium” con l’intento di evidenziare quei punti, che esplicitamente o implicitamente, hanno aperto la porta a novatori e rivoluzionari.

Il “Proemio” non presenta nulla di particolare, salvo degli accenni che a prima vista paiono innocenti, ma col senno di poi già indicano la piega che prenderà il documento: “favorire ciò che può contribuire all’unione di tutti i credenti in Cristo” (art.1), cioè favorire l’ecumenismo, e al desiderio che vengano “prudentemente e integralmente” riveduti i riti (art.4).

Nel Capitolo I, all’art. 6, incontriamo la prima difficoltà, perché si dice che i fedeli, “ogni volta che essi mangiano la Cena del Signore, ne proclamano la morte fino a quando Egli verrà”. Se ciò si riferisse alla comunione sacramentale, mi parrebbe un’affermazione inesatta, perché cosa sarebbe allora la s. Messa senza la comunione dei fedeli? Se si riferisse alla s. Messa stessa, la definizione di “Cena del Signore” non corrisponderebbe alle definizioni infallibili della XXII Sessione (17 settembre 1562) del Concilio di Trento e specialmente al primo canone sul Santissimo Sacrificio della Messa, dove si dice: “Se qualcuno dirà che nella messa non si offre a Dio un vero e proprio sacrificio, o che essere offerto non significa altro se non, che Cri-sto ci viene dato a mangiare, sia anatema”.
Il Concilio, che diede il via alla Controriforma e sentì come uno dei suoi còmpiti principali quello di confutare gli errori di Lutero e degli altri “riformatori”, specificò uno dei caratteri principali della s. Messa, quello di essere, oltre ad un sacrificio di lode e ringraziamento, un sacrificio propiziatorio, cosa negata ed aborrita dai protestanti.
In tutta la Costituzione, come nell’Institutio generalis del messale di Paolo VI, il termine, analogamente a quello di transustanziazione, non è mai usato.

Più avanti nell’art. 7 sembrano messe sullo stesso piano la presenza di Cristo sotto le specie eucaristiche, nel sacramento del battesimo, nella lettura delle Sacre Scritture e laddove siano “due o tre riuniti” nel suo nome. Questa confusione si è perpetuata nella riforma liturgica. Nell’art. 10 l’espressione è migliore, quando si afferma che “i figli di Dio … si riuniscano in assemblea, lodino Dio nella Chiesa, prendano parte al Sacrificio e alla cena del Signore”.

Nell’art. 21 si afferma, che la “santa Madre Chiesa desidera fare un’accurata riforma generale della liturgia”, e nei passaggi seguenti s’insinua, che quella in vigore fosse in qualche modo difettosa e mancasse di chiarezza (“che le sante realtà … siano espresse più chiaramente”), cosa che è palesemente falsa.

Il successivo art. 23 è parzialmente in contraddizione con quanto appena proclamato ed è anche uno dei più disattesi: “Infine non s’introducano innovazioni, se non quando lo richieda una vera ed accertata utilità della Chiesa, e con l’avvertenza che le nuove forme scaturiscano organicamente, in qualche maniera (sic!), da quelle già esistenti”.
Ora il NOM di Paolo VI, come scrissero i Cardinali Ottaviani (allora Prefetto del Sant’Uffizio) e Bacci presentando al Papa il “Breve esame critico del Novus Ordo Missæ” (1),  “considerati gli elementi nuovi, suscettibili di pur diversa valutazione, che vi appaiono sottesi ed implicati, rappresenta, sia nel suo insieme come nei particolari, un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa, quale fu formulata nella Sessione XXII del Concilio Tridentino, il quale, fissando definitivamente i «canoni» del rito, eresse una barriera invalicabile contro qualunque eresia che intaccasse l’integrità del magistero”.
Quel dettagliato esame non fu mai seriamente confutato. Strano che i due porporati non si siano resi conto che la “Sacrosanctum Concilium” conteneva in germe e non solo, quanto lì lamentavano!

Nell’art. 25 si richiede perentoriamente, che “i libri liturgici siano riveduti quanto prima”. All’art. 27 si porta un attacco alle cd. “messe private”, che in realtà sono sempre pubbliche; è ovvio che le messe d’orario siano celebrate con la partecipazione del popolo, ma un sacerdote in viaggio o che non abbia impegni pastorali non celebra certo in modo meno dignitoso, magari su uno degli altari laterali presenti nella maggior parte delle chiese, oggi parzialmente o totalmente spogli ed abbandonati, e chiunque sia presente può assistere o partecipare.

L’art. 34 ha un risvolto comico, perché chiede di abolire le “inutili ripetizioni”, che nella messa cd. di San Pio V, che ha una struttura molto semplice, non si capisce quali siano, e di adattare i riti “alla capacità di comprensione dei fedeli”, in modo che “non abbiano bisogno di molte spiegazioni”. Ora le messe moderne sono una “continua spiegazione” e spesso sono lette a voce alta anche le rubriche, che dovrebbero solo dare delle indicazioni.

L’art. 36 è quello disatteso per eccellenza. Il § 1 recita: ”L’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini”. Ci furono luoghi e momenti, ove addirittura quell’uso era proibito!

Gli artt. 37-40 introducono un pericoloso e inutile “adattamento” (della liturgia) all’indole ed alle tradizioni (di fatto pagane) dei vari popoli. Mons. Lefèbvre, vescovo missionario in Africa, raccontava come le popolazioni, un tempo tribali, assimilassero in modo straordinario la liturgia latina, specie il canto gregoriano, e come di conseguenza mutassero i costumi e le forme di convivenza, come la società si evolvesse positivamente e sparissero superstizioni ed abitudini non cristiane, quali la poligamia ed i riti stregonici.

L’art. 50 critica implicitamente la s. Messa di sempre, che nella sostanza risale ai tempi apostolici, si formò nel IV secolo e i cui ultimi piccolissimi arricchimenti furono apportati da San Gregorio Magno alla fine del VI secolo, chiedendo che “l’ordinamento della Messa sia riveduto, in modo che apparisca più chiaramente la natura specifica delle singole parti e la loro mutua connessione”, come se il rito romano tradizionale fosse difettoso; non si capisce poi - e non è spiegato - quali elementi del messale, edito da San Pio V ed utilizzato durante tutto il Concilio, “furono duplicati o meno utilmente aggiunti”.

Nulla da dire, in linea di principio, sulla richiesta di una maggiore ricchezza biblica dell’art. 51.

L’art. 54 ribadisce l’uso della lingua latina, pur permettendo un più ampio uso della lingua volgare, specie nelle letture, ma poi apre quello spiraglio al comma c), dal quale sono entrate le rivoluzioni, che hanno di fatto abolito la lingua sacra, equiparando le parrocchie dei paesi cristiani alle missioni nel Terzo Mondo.

L’art. 55 contiene un errore grave, perché non si può affermare che la partecipazione alla santa Messa senza la comunione sacramentale sia “imperfetta”. Come la mettiamo con una persona che abbia già assistito ad un’altra messa nella giornata, come è normale a Natale, a Pasqua e per la commemorazione dei defunti, che si sia già comunicato o che non abbia potuto rispettare il digiuno eucaristico e faccia “solo” la comunione spirituale?

Art. 56: è chiaro che le tre parti della s. Messa (letture, S. Sacrifico e comunione dei fedeli) rappresentino un’unità, ma non hanno lo stesso valore. La possibilità, che aveva talvolta dato luogo ad abusi, di assolvere il precetto domenicale arrivando prima che “si scoprisse il calice” era intesa per i ritardatari involontari e l’allontanarsi, sempre per ragionevoli motivi, dopo la comunione del sacerdote non invalidava la partecipazione alla Messa.

La concelebrazione, di cui all’art. 57, era già stata oggetto di discussioni sotto Pio XII ed avrebbe richiesto ben altri approfondimenti, prima di essere lasciata al libero arbitrio dei vescovi diocesani! Questo ha avuto come conseguenza, che si abusa di questa forma, spesso per comodità o per pigrizia. Sarebbe stato importante, in quest’articolo, specificare che la “messa concelebrata” è una sola e non una per ciascun celebrante “con”.

Nel III capitolo sugli altri sacramenti ed i sacramentali l’ambiguità persiste. I primi articoli non presentano problemi, però al numero 63 s’impone di adattare “alla necessità delle singole regioni” i rituali, abolendo di fatto anche qui l’unità di riti che aveva garantito l’universalità, cioè la cattolicità, della Chiesa. Lasciando la competenza alle autorità ecclesiastiche locali, pur rivendicando nominalmente il diritto di revisione alla Sede Apostolica, di fatto si sono poste le basi per quell’evoluzione che fa sì che oggi ogni diocesi “si faccia la sua liturgia” ed i numerosi abusi non vengano mai condannati (per carità …).

Ristabilire il catecumenato è senz’altro positivo, però perché - dato che si vuol sempre far riferimento alla Chiesa delle origini - nell’art.64 non si è nemmeno accennato all’antica distinzione tra messa dei catecumeni (letture ed omelia), alla fine della quale veniva pronunciato “l’extra omnes”, cioè “fuori tutti i non battezzati”, e messa dei fedeli (S. Sacrificio e Comunione), riservata a coloro, che erano stati rigenerati nel fonte battesimale?

L’art. 65, che apre le porte all’inserimento nelle cerimonie cattoliche di “elementi dell’iniziazione (a cosa?) in uso presso ogni popolo”, ha limitato quell’opera di civilizzazione, di cui parlava Mons. Lefèbvre, impedendo ai popoli nelle terre di missione di crescere. Se oggi abbiamo qua e là un’inversione di tendenza, come dimostra la vita religiosa in alcuni di questi paesi - pensiamo al Benin visitato con grande gioia da Benedetto XVI nel 2011, allo Sri Lanka, all’Arabia del sud e ad altri territori di missione - è perché si sta tentando di tornare a forme più tradizionali della pratica religiosa.

Nell’art. 67 non si capisce che cosa nel vecchio rito del battesimo dei bambini non fosse adatto “alla loro reale condizione”.

Il nuovo battesimo di un bambino o di un adulto (non cattolici) già battezzati, di cui all’art. 69, era in maniera ottimale regolato dal battesimo “sub conditione”, cioè nel caso che il primo fosse stato valido, cosa possibile, perché chiunque può battezzare facendo “quello che vuole la Chiesa”, il secondo sarebbe stato nullo. Nel caso di conversione di un adulto si sorvola sulla necessità dell’abiura, che confermava la sincerità e la consapevolezza della scelta compiuta.

Negli articoli dal 71 all’80 si chiede di riformare un po’ tutti i riti dalla Cresima (non si sa perché chiamata solo Confermazione come presso i protestanti) all’estrema unzione, dall’ordinazione al matrimonio, dai sacramentali alla professione religiosa: è palese l’intenzione di  far piazza pulita di secoli di storia e tradizioni, che tutti i fedeli, anche quelli meno colti, capivano - se non sempre nelle parole - sicuramente nei loro significati.

L’art. 81 è di particolare gravità, poiché stravolge con poche parole il rito funebre, che nella liturgia tradizionale è ricco di significati: esprime, con il colore nero dei paramenti e l’assenza di benedizioni, il lutto ed invita a pregare per le anime dei defunti. Il rito scaturito dalla riforma, con gli alleluia e le benedizioni come nelle messe per i vivi, ha perso questa caratteristica; il colore viola non indica il lutto, ma la penitenza, per la quale il defunto è oramai fuori tempo massimo. Ben pochi dopo il funerale, visto “che è già in Paradiso”, pregheranno per la sua anima.

Il quarto capitolo tratta dell’Ufficio Divino, che nei secoli ha subito numerose riforme, da San Pio V a quella più recente di San Pio X, ritoccata sotto il pontificato del Ven. Pio XII e quello del B. Giovanni XXIII.
Il breviario - per sua natura - è più soggetto a variazioni ed in sé non ci sarebbe nulla di male, però il concetto che “per motivi di apostolato” si proponga di ridurre i tempi della preghiera spalmando i salmi, da sempre recitati tutti 150 nell’arco della settimana, almeno fuori da particolari tempi liturgici, su un periodo più lungo (diventato di quattro settimane) rappresenta un netta rottura col passato.
Anche il breviario monastico, che nella sua struttura, definita da San Benedetto nella Regola, era rimasto immutato dal VI secolo, ha dovuto subire una rivoluzione simile, che ha distribuito i salmi su due settimane, contravvenendo alla Regola stessa.
Il dovere principale del sacerdote e degli ordini religiosi è quello della preghiera e della santificazione personale: sentire come troppo lungo il tempo di un’ora e mezza o poco più, che richiede la recitazione privata di tutto l’ufficio in un giorno di festa, significa misconoscerne la funzione. Viene da chiedersi cos’abbiano da fare di tanto importante per “non avere tempo” da dedicare alla preghiera.
La soppressione dell’ora prima, chiesta dall’art. 89, rompe con la tradizione davidica di pregare “sette volte al giorno”.
Ovviamente l’art. 101, che prescrive il latino per l’ufficio recitato dai chierici, ha fatto la stessa fine ingloriosa di quello riguardante la lingua per la s. Messa.

La revisione dell’anno liturgico, che nella prima metà del ‘900 aveva raggiunto un perfetto equilibrio, di cui al capitolo quinto, fa parte delle prerogative dell’autorità ecclesiastica, però lo stravolgimento, specie nel santorale, del calendario, con motivazioni di carattere storicistico, è stata un’operazione fine a sé stessa ed un’altra di soluzione di continuità.
L’accento sulla preminenza del ciclo temporale sulle feste dei Santi, già iniziato sotto Pio XII e proseguito con la riforma del 1962 del B. Giovanni XXIII ha portato a un oscuramento della comunione dei Santi, del concetto che le tre Chiese, quella gloriosa in Cielo, quella purgante (di quel luogo dove le anime salvate espiano le imperfezioni residue non si parla in tutta la Costituzione e men che mai nell’art. 81 di cui sopra) e quella militante sulla terra siano in realtà una sola.

Altro articolo totalmente disatteso è quello (n. 110) relativo alla penitenza quaresimale, che si voleva “non solo interna e individuale, ma anche esterna e sociale”, visto che si sono ridotti i giorni di digiuno ed astinenza da quaranta a due il primo ed ai soli mercoledì delle Ceneri e venerdì la seconda! Va detto, con un po’ d’ironia, che questa disposizione è stata abbracciata con entusiasmo anche dagli ambienti più tradizionali.

Il sesto capitolo sulla musica sacra è condivisibile, salvo l’art. 123 che ha aperto quello spiraglio, dal quale si sono poi introdotte le più insulse musichette e tradizioni musicali pagane, che nulla hanno a che vedere col carattere cattolico della s. Messa. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.

L’ultimo capitolo sull’arte sacra e la sacra suppellettile non contiene nulla di particolare, tranne che si sente la mancanza di una messa in guardia, quando si dice nell’art. 123 che la Chiesa ha “ammesso le forme artistiche di ogni epoca”, contro certa arte moderna, alla base della quale stanno filosofie lontane dal cristianesimo. Ciò avrebbe evitato di affidare l’edificazione di edifici sacri ad architetti atei o agnostici, come Renzo Piano, progettista della nuova chiesa di San Pio a San Giovanni Rotondo, o Massimiliano Fuskas, autore del “cubo” di Foligno.

Lo schema sulla liturgia fu il primo ad essere discusso, quando l’arroganza dei novatori e la loro avversione verso la “messa romana” si erano già manifestate, ma essi non avevano ancora prevalso del tutto (2), e segna una rottura con lo spirito cattolico; è molto probabile che nei documenti successivi i passaggi in contrasto con la dottrina o perlomeno ambigui ce ne siano ancora di più. Stupisce che anche i vescovi, che - quando oramai i liberali avevano preso il controllo totale del Concilio - aderirono al Coetus Internationalis Patrum (3) ed avrebbero votato in 249 contro la dichiarazione Dignitatis humanæ, abbiano approvato un documento, che nella migliore delle ipotesi si dovrebbe definire ambiguo. Avessero votato contro, sarebbe stato approvato lo stesso, ma almeno avrebbero “battuto un colpo”. I nemici della Fede cattolica, apostolica, romana hanno fatto il loro dovere, gli amici no! Bisogna ammettere, che la riforma liturgica di Paolo VI si trova sostanzialmente in armonia con la costituzione conciliare, che è molto più ardua da interpretare in senso tradizionale, cioè in favore del rito cd. di San Pio V.

Le conseguenze di questa “dormita generale” dei vescovi fedeli alla Tradizione le abbiamo sotto gli occhi e queste brevi riflessioni confermano quanto scritto da Mons. Brunero Gherardini nel suo libro Concilio Ecumenico Vaticano II: Un discorso da fare (4), dove ipotizza la necessità di rivedere con accuratezza i documenti conciliari, che sono l’arrosto da cui è scaturito il fumo di Satana del post-concilio, lamentato da Paolo VI (5).

Pare più difficile condividere, almeno per il Vaticano II, quanto ha scritto di recente Mons. Fernando Ocáriz (6): «… il fatto che un atto del magistero della Chiesa non sia esercitato mediante il carisma dell’infallibilità non significa che esso possa essere considerato “fallibile” nel senso che trasmetta una “dottrina provvisoria” oppure “autorevoli opinioni”. Ogni espressione di magistero autentico va recepita come è veramente: un insegnamento dato da Pastori che, nella successione apostolica, parlano con il “carisma della verità”, “rivestiti dell’autorità di Cristo”, “alla luce dello Spirito Santo”».

Non è la Tradizione che va interpretata in base al Concilio Vaticano II, ma il contrario, quando possibile: i documenti i cui testi non siano in armonia con oltre 19 secoli di Fede cattolica universalmente accettata, come definito nel “Canone di San Vincenzo di Lerino” (7), andranno corretti.                
                        

Errare humanum est, perseverare diabolicum. 

Sir Anacleto McKeeler


NOTE

(1) -  http://www.unavox.it/doc14.htm

(2) - cfr. Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta di Roberto De Mattei, sez. III, cap. 8.       http://www.unavox.it/Segnalazioni_Rete/De_Mattei_Storia_Concilio.html

(3) - http://it.wikipedia.org/wiki/Coetus_Internationalis_Patrum

(4) - http://www.unavox.it/Segnalazioni_Rete/Un_discorso_da_fare.html

(5) - cfr.: http://www.30giorni.it/articoli_id_2564_l1.htm?id=2564

(6) - Vedi  L'Osservatore Romano del 2 dicembre 2011
 
(7) - http://it.wikipedia.org/wiki/Canone_di_Vincenzo_di_Lerino





gennaio 2012

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