La ragion d'essere della
Fraternità Sacerdotale San Pio X

(seconda parte)

(alla prima parte) (alla terza e ultima parte)


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di Belvecchio


Si va verso il mutamento della ragion d’essere della Fraternità?

 

Questa domanda, che potrebbe apparire di secondaria importanza, pone invece una questione capitale, perché quando muta la ragion d’essere di una cosa è perché è mutata la cosa stessa.

Per affrontare adeguatamente questo importante aspetto della situazione attuale, occorre fare una breve premessa, relativa al cosiddetto sedevacantismo; tenendo presente che questo moderno orientamento e il termine che lo indica, vengono continuamente agitati come un marchio infamante, sia dai cattolici progressisti, sia da certi cattolici tradizionali.

Quando Mons. Lefebvre venne abbandonato da alcuni chierici che gli rimproveravano l’incoerenza nel voler mantenere la sottomissione al Papa insieme alla disubbidienza allo stesso Papa, Monsignore precisava che non si può far finta di ignorare la realtà oggettiva: un papa legittimamente al suo posto e lo stesso papa fautore di errori che si spingono fino all’eresia. Entrambe le cose sono oggettivamente esistenti e, seppure in apparente contraddizione, sono fondate sul dato oggettivo della anomalia attuale della vita della Chiesa, che rientra nella logica della progressiva riduzione al minimo della Chiesa stessa, in un mondo che si allontana sempre più da Dio e che per ciò stesso è destinato a finire.

I sedevacantisti traggono una conclusione immediata e semplice da questa constatazione. Se il Papa è legittimamente al suo posto, ogni cattolico gli deve ubbidienza, ma se questo stesso Papa è fautore di errori, nessun cattolico può ubbidire agli errori, ragion per cui o il cattolico ubbidisce al Papa e smette di essere cattolico o è il Papa a non essere più cattolico. E siccome il cattolico sa di essere cattolico, ne deriva inevitabilmente che è il Papa a non essere cattolico, tale che se il Papa non è cattolico, non può essere neanche il Papa.

Ragionamento semplice ed anche pratico, che però non risponde ai problemi che sorgono dall’oggettiva esigenza che debba esserci, e che infatti c’è, un papa, e al tempo stesso debba esserci il cattolico che rifiuta l’errore promosso da questo papa.
Il problema viene aggirato e trasposto nel tempo, affidando la soluzione all’intervento della divina Provvidenza: si ipotizza che verrà un giorno in cui un papa regolarmente eletto si deciderà a dichiarare decaduti i papi che hanno errato e a riaffermare lo status quo ante, ripristinando il papato e la vera fede. E questo vale sia per i sedevacantisti che potremmo chiamare “duri”, sia per quelli che, come i componenti dell’Istituto Mater Boni Consilii, sostengono la nota tesi di Cassiciacum.

È evidente che questo ragionamento si basa sulla da noi richiamata metafora del raffreddore, e sul timore di dover riconoscere che la crisi attuale non sia addebitabile a questo o a quel papa, ma è il frutto inevitabile del procedere in basso della compagine ecclesiale. Cosa che non dev’essere intesa come una caduta precipitosa, ma, come dimostra la storia della Chiesa, va vista come un procedere costante che può anche comportare, per la volontà di Dio, delle parentesi di relativo recupero.

Esso si basa anche sull’idea che il non prevalebunt non possa avere un valore eminentemente escatologico, ma debba avere un valore attuale, come se duemila anni di storia della Chiesa non potessero insegnare niente e come se l’avvertimento di Nostro Signore circa la quasi scomparsa della fede nel mondo al momento della Parusia, dovesse riguardare chissà quale pezzo di mondo e non l’unico mondo seriamente esistente e cioè la Chiesa di Cristo. D’altronde, laddove è profetizzato che l’abominio della desolazione starà nel luogo santo (Cfr. Mt. 24, 15-25), non si dice che a quel punto non ci sarà più il luogo santo, perché sarebbe come dire che il mondo stesso non ci sarà più. In realtà, finché Dio vorrà, ci sarà sia il luogo santo sia l’abominio, tale che possano essere manifesti a tutti e la natura del primo e la natura del secondo, così che le anime possano orientarsi per fuggire l’abominio anche se si è insinuato nel luogo santo.

In pratica, il sedevacantismo ritiene che l’esistenza della crisi attuale sia dovuta esclusivamente all’errore degli uomini di Chiesa e che si risolverà ad opera di altri uomini di Chiesa, i quali ristabiliranno lo status quo ante.
È lo stesso ragionamento che fanno certi cattolici difensori della Tradizione che, pur dichiarandosi anti-sedevacantisti, disconoscono parimenti il deterioramento progressivo della compagine ecclesiale e parimenti pensano che il superamento della crisi si compirà ad opera di uomini di Chiesa, che in questo caso sarebbero loro stessi.

Due illusioni simmetriche fondate sul rifiuto del riconoscimento della realtà oggettiva. Ma, mentre i primi, nell’attesa, rimangono nel loro fortino, i secondi pensano di abbandonare la ridotta nella quale Dio li ha posti provvidenzialmente, e sognano di entrare nel corpo malato per fare il lavoro dei globuli bianchi. Immaginando di poter continuare a svolgere la loro opera di testimonianza, non più da una posizione esemplare e visibile, ma frammisti a mille altre esperienze intra-ecclesiali moderne, tutte refrattarie al loro provvidenziale messaggio e tutte preoccupate di “accogliere” nel contenitore multiforme in cui si trovano ogni cosa e anche il suo contrario.

Per comprendere se si sia giunti o meno a quella che abbiamo chiamato la mutazione della ragion d’essere della Fraternità, possiamo riferirci allo scambio di lettere che c’è stato, nell’aprile scorso, tra tre vescovi della Fraternità e il Consiglio generale della stessa.

C’era in ballo il possibile accordo con l’autorità ufficiale, e i tre vescovi facevano notare che:
«a partire dal Vaticano II le autorità ufficiali della Chiesa si sono staccati dalla verità cattolica, ed oggi esse dimostrano, del tutto determinate come sempre, di voler rimanere fedeli alla dottrina e alla pratica conciliari».

E ricordavano, citando Mons. Lefebvre:
«che non si tratta di errori superficiali, né di alcuni errori particolari come l’ecumenismo, la libertà religiosa, la collegialità, quanto piuttosto di una totale perversione dello spirito, di tutta una filosofia nuova fondata sul soggettivismo… È molto grave! Una perversione totale!».

«Ora, da questo punto di vista, il pensiero di Benedetto XVI è migliore di quello di Giovanni Paolo II? Basta leggere lo studio di uno di noi tre su La fede in pericolo per la ragione, per rendersi conto che il pensiero del Papa attuale è ugualmente impregnato di soggettivismo. Tutta la fantasia soggettiva dell’uomo al posto della realtà oggettiva di Dio. Tutta la religione cattolica sottomessa al mondo moderno».

E concludevano avvertendo:
«voi conducete la Fraternità ad un punto dal quale non potrà più cambiare strada, ad una profonda divisione senza ritorno e, se concluderete un tale accordo, sotto delle potenti influenze distruttive che essa non sopporterà».

Come si può vedere, in queste osservazioni sono presenti una constatazione e una preoccupazione. La constatazione che il processo che ha determinato la crisi attuale è conseguente e progressivo, e la preoccupazione che il cambio della posizione attuale della Fraternità possa condurre in un vicolo cieco che distruggerà la Fraternità stessa.

Ovviamente, va precisato che, nonostante quanto diciamo qui, non possa e non debba escludersi l’intervento di Dio che, a suo modo, potrebbe far tornare la Chiesa con la schiena diritta. Ma questo non implica che la Fraternità debba abbandonare la sua posizione canonica irregolare, anzi, non è detto che non sia proprio in forza di tale posizione che l’azione di Dio potrebbe attuarsi attraverso la testimonianza di questo resto rappresentato dalla Fraternità, che è stato esemplare in questi ultimi 40 anni e  continuerebbe ad esserlo, provvidenzialmente, anche in vista di questa possibilità.
Aiutati che Dio t’aiuta.

A queste osservazioni, il Consiglio generale ha risposto in maniera tale che varrebbe la pena riportare tutta la lettera, ma, visto che essa è facilmente consultabile, ci limiteremo a riportare i punti salienti perché bastano a comprendere come si sia prodotto un cambio di prospettiva.
Faremo le deduzioni necessarie e inevitabili, soffermandoci sui vari passi, uno alla volta.

«la descrizione [dello stato della Chiesa] è macchiata da due difetti relativi alla realtà della Chiesa; manca del soprannaturale e nel contempo di realismo».
«Essa manca del soprannaturale. Nel leggervi, ci si chiede seriamente se voi credete ancora che questa Chiesa visibile la cui sede è a Roma sia proprio la Chiesa di Nostro Signore Gesù Cristo, una Chiesa certo orribilmente sfigurata a planta pedis usque ad verticem capitis, ma una Chiesa che quanto meno e ancora ha per capo Nostro Signore Gesù Cristo. Si ha l’impressione che voi siate talmente scandalizzati da non accettare più che questo possa essere ancora vero. Per voi Benedetto XVI è ancora il papa legittimo? Se lo è, Gesù Cristo può ancora parlare con la sua bocca?»

Come si vede, questo richiamo alla soprannaturalità della Chiesa rivela una mentalità che in qualche modo ha già abbandonato la ragion d’essere della Fraternità.
Chi potrebbe negare che la Chiesa con sede a Roma sia la Chiesa di Cristo? E chi potrebbe negare che il suo capo è Nostro Signore e che Benedetto XVI è ancora il papa legittimo e che Gesù Cristo possa parlare con la sua bocca?
Tutto questo è innegabile, ma al tempo stesso è contraddittorio ricordarlo, poiché la Fraternità è nata, è cresciuta, ha disubbidito al Papa e si è posta in una condizione canonica irregolare, nonostante tutto questo, perché già 40 anni fa le domande erano le stesse. Eppure esse non impedirono che fossero consacrati i quattro vescovi, quegli stessi vescovi che oggi si confrontano su due posizioni diverse.
La risposta del Consiglio generale, mentre insinua per i tre vescovi firmatari il sospetto di sedevacantismo, crimine inaudito, commette l’errore, a rigore della sua propria logica, di insinuare che anche Mons. Lefebvre e i quattro vescovi consacrati nel 1988, fossero sedevacantisti, perché agendo come hanno fatto, hanno negato che allora la Chiesa con sede a Roma fosse la Chiesa di Cristo, che il capo di quella Chiesa fosse Nostro Signore e che Paolo VI e Giovanni Paolo II fossero papi legittimi e Cristo potesse parlare con la loro bocca.
Ora, dovendo considerare che la risposta è stata firmata anche da uno dei quattro vescovi, è palese che questi ha mutato il suo convincimento, passando da sedevacantista, come insinua lui stesso, a sostenitore del Papa attuale, al quale riconosce la legittimità e la possibilità che egli parli in nome di Cristo.

Ci si chiede: cos’è cambiato? I tre vescovi dicono: niente!
Il Consiglio generale dice:
«Se il papa esprime una volontà legittima nei nostri confronti, che è buona, che non comporta un ordine contrario ai comandamenti di Dio, si ha il diritto di trascurare, di respingere con un gesto della mano questa volontà? E se no, su quale principio vi basate per agire così? Non credete che se Nostro Signore ci comanda, Egli ci darà anche i mezzi per continuare la nostra opera? Ora, il papa ci ha fatto sapere che la preoccupazione di regolare la nostra questione per il bene della Chiesa era al cuore stesso del suo pontificato, e anche che sapeva bene che sarebbe stato più facile per lui e per noi lasciare la situazione nello stato delle cose. Dunque è una volontà ferma e giusta che egli esprime».

Ma questa risposta non dice che sia cambiato qualcosa di importante, per esempio che la moderna gerarchia non soggiaccia più al mondo, si limita a dare per scontata una cosa tutta da dimostrare: e cioè che il Papa esprima una volontà “che è buona”, “una volontà ferma e giusta”.
E quale sarebbe questa volontà?
Quella, dice la lettera, “di regolare la nostra questione per il bene della Chiesa”.
È più che evidente che questa intenzione, che “era al cuore stesso del suo pontificato”, non indica affatto una volontà buona, ferma e giusta, ma semplicemente una volontà. Una volontà ben comprensibile per questo Papa, che vorrebbe che fuori della Chiesa non ci fosse più niente, né cristiani “separati”, cioè scismatici ed eretici, né cattolici critici, e questo indipendentemente dalle motivazioni, le quali di fronte alla moderna rilettura dell’“ut unum sint” perderebbero ogni importanza.

Ma quando la lettera precisa che questa manifestazione di volontà del Papa attuale, non comporterebbe un ordine contrario ai comandamenti di Dio, rivela tutta la sua superficialità, poiché, non solo non chiarisce il punto, ma dà per scontato che l’applicazione della concezione moderna dell’“ut unum sint” costituisca un imperativo inoppugnabile, non contrario ai comandamenti di Dio, che i firmatarii della lettera condividono e considerano come espressione di una volontà buona, ferma e giusta.
La mutazione è più che palese ed è talmente articolata che si risolve nel convincimento che il bene della Chiesa richieda inderogabilmente la regolarizzazione della posizione canonica della Fraternità. Tale che si comprende che chi esprime questo convincimento sia giunto ultimamente alla conclusione che quarant’anni di irregolarità canonica, comprensiva della consacrazione di quattro vescovi, corrispondano inevitabilmente al male della Chiesa.

Una contraddizione, dicevamo prima, con l’aggiunta che a pochi mesi di distanza, quella che era stata vantata come una volontà buona, ferma e giusta, viene oggi denunciata come una volontà inaccettabile, perché pare che oggi sia stato “scoperto” – inaspettatamente? – che il Papa voglia che la Fraternità accetti il Vaticano II, le riforme da esso partorite e il magistero dei papi e dei vescovi successivi; che accetti cioè “un ordine contrario ai comandamenti di Dio”.

Ma su questo ci soffermeremo alla fine di queste nostre riflessioni.

Per adesso esaminiamo questa domanda notevole: Non credete che se Nostro Signore ci comanda, Egli ci darà anche i mezzi per continuare la nostra opera?

Qui si scorge la presenza di una deduzione gratuita e contraddittoria.
Non risulta, fino a prova contraria, che Nostro Signore abbia espressamente comandato al Consiglio generale di regolarizzare al più presto la posizione canonica della Fraternità, quindi questa affermazione è basata sulla deduzione che l’invito pressante del Papa corrisponda ad un comando di Nostro Signore, poiché, si è ricordato prima, Gesù Cristo può ancora parlare con la sua bocca. Ma questa deduzione è gratuita, perché, secondo questa logica, anche i 4 papi che hanno preceduto l’attuale avrebbero proferito le parole di Gesù Cristo, tale che la Fraternità sarebbe in errore da 40 anni.
La deduzione, poi, è conseguentemente contraddittoria perché non è possibile che Nostro Signore comandi qualcosa di contrario alla Tradizione.

Per di più, come non accorgersi che questa domanda possa capovolgersi?
Infatti nulla esclude che il comando di Nostro Signore consista nella permanenza della irregolarità canonica, sulla cui base il Signore continuerà a donare i “mezzi per continuare la nostra opera”. Deduzione, questa, che non è gratuita, ma del tutto giustificata dal fatto che è proprio l’inaccettabile profferta di questo Papa che autorizza a pensare che il comando di Nostro Signore consista esattamente nel permanere della irregolarità. Tale che il seguire una strada diversa si risolverebbe nel venir meno dei “mezzi per continuare la nostra opera”.

La lettera offre quindi un altro elemento.
«Voi ci rimproverate di essere ingenui o di avere paura, ma è la vostra visione della Chiesa ad essere troppo umana e perfino fatalista; voi vedete i pericoli, i complotti, le difficoltà, ma non vedete l’assistenza della grazia e dello Spirito Santo. Se si accetta che la divina Provvidenza conduce le questioni degli uomini, pur lasciando la loro libertà, allora bisogna accettare anche che i gesti di questi ultimi anni in nostro favore sono sotto la sua direzione. Ora, essi indicano una linea – non tutta diritta – ma chiaramente a favore della Tradizione».

Ora, quello che stupisce è la leggerezza con la quale si ricorda l’assistenza della grazia e dello Spirito Santo, individuandola immediatamente nei “gesti di questi ultimi anni in nostro favore”. Leggerezza che è rivelata dall’affermazione implicita che le sole volte che la divina Provvidenza abbia diretto i gesti del Papa, sono quelle relative ai gesti in favore della Fraternità. In tutte le altre volte, il Papa da chi è stato diretto?
Sembra incredibile, ma qui è come se si dicesse che il Papa gode dell’assistenza della grazia e dello Spirito Santo solo quando fa cose che sono un bene per la Fraternità.
Come non rilevare la corposa vena sedevacantista che alimenta questa osservazione?

Ma il punto cruciale non è questo, bensì il dare per scontato che in questi ultimi anni vi siano stati dei gesti in favore della Fraternità e che questi gesti “indicano una linea – non tutta diritta – ma chiaramente a favore della Tradizione”.
Qui la leggerezza è talmente macroscopica che rivela una strumentalità che svilisce la portata del documento e l’autorevolezza dei suoi estensori.

Quali sono stati questi gesti, così decisivi e così palesemente in linea con la Tradizione?
Dal 2005 ad oggi ci sono stati solo pochi fatti che sono suscettibili di essere superficialmente scambiati per gesti “chiaramente a favore della Tradizione”.

Il primo, del 2007, è la liberalizzazione, sotto cauzione, dell’uso dei libri liturgici tradizionali.
Questo atto, che indubbiamente corrisponde ad una precisa richiesta della Fraternità, mentre ha suscitato un certo giustificato ottimismo, ha rivelato, alla luce della sua applicazione e dell’esame ponderato dei testi che lo riguardano, di corrispondere alla precisa volontà di svilimento e corruzione della Tradizione.
Svilimento, perché la Tradizione è stata subordinata al concilio Vaticano II e ai suoi frutti, come se essi fossero la fonte della Tradizione e, come è stato ribadito, gli unici giudici della Tradizione.
Corruzione, perché il vero scopo del Motu Proprio Summorum Pontificum non è quello di riportare nella Chiesa l’uso della sua bi-millenaria liturgia apostolica, bensì quello di permettere una nuova elaborazione di una nuova liturgia, sulla base di quella abortita dal Vaticano II, con l’aggiunta di tutti quegli elementi in grado di farla assomigliare alla liturgia tradizionale, senza che di essa vi sia più alcun serio contenuto. Quello che si sta preparando, e che costituirà la nuova legge liturgica della Chiesa conciliare, è il superamento della Tradizione attraverso l’aggiustamento della moderna liturgia antitradizionale.

Il secondo, del 2009, è la remissione delle scomuniche.
Questo atto, corrispondente anch’esso ad una precisa richiesta della Fraternità, mentre ha eliminato di fatto una censura canonica notoriamente ingiustificata, di diritto si è preoccupato, non di dichiarare nullo e illegittimo il provvedimento del 1988, ma di ribadirlo, sulla base della supposta “nuova” dichiarazione di riconoscimento dell’autorità del Papa, riconoscimento che, com’è noto, non è mai mancato in questi vent’anni di “scomunica”, anzi è stato più volte ribadito, senza che le scomuniche siano mai venute meno. 
Chiunque conosca il diritto canonico, sa che tale volontà di conferma della sanzione del 1988, prima ancora che dalla lettura “canonica” del decreto di remissione, la si evince con immediatezza dal fatto che non sono stati riabilitati Mons. Marcel Lefebvre e Mons. Antonio de Castro Mayer, che fino alla fine hanno sempre confessato il riconoscimento dell’autorità del Papa.
Una remissione fittizia, dunque, che per come è stata formulata e per quello che vale canonicamente, non recita affatto a favore della Tradizione, anzi.

Siamo i primi a riconoscere che lo stato attuale della Chiesa cattolica è tale che certe cose, seppure importanti, possono essere fatte solo tenendo realisticamente presente tale stato, e che quindi bisogna dare tempo al tempo, come si suol dire, ma se gli atti importanti del magistero continuano ad essere fortemente condizionati dallo stato disastroso che la Chiesa vive da cinquant’anni, non si può poi sostenere che tali atti sono in linea con la Tradizione e che addirittura la favoriscono.

Peraltro, se si tiene presente che il Papa ha espressamente dichiarato che la remissione delle scomuniche non risolve l’illecita posizione canonica dei vescovi e dei sacerdoti da essi ordinati e diretti, e che tutti costoro svolgono illecitamente il loro ministero, e che tutti costoro amministrano illecitamente i sacramenti, e che per sanare questa situazione è necessario che tutti costoro riconoscano che il concilio Vaticano II e suoi frutti, cioè la nuova liturgia, l’ecumenismo, la libertà religiosa, la collegialità, l’inclusivismo e le scomuniche del 1988, sono atti del magistero del tutto tradizionali… se si tiene presente questo, dov’è che si riscontra la “linea chiaramente a favore della Tradizione”?

Vero è che in questo documento del Consiglio generale si dice, della linea, che è: “non tutta diritta”, ma si precisa espressamente “chiaramente”, dimostrando che la visione delle cose che accadono ancora in seno alla Chiesa, e che sono sotto gli occhi di tutti, è una visione viziata da una miopia incomprensibile, che, non solo contraddice l’intero argomentare, ma rivela un angolo di visuale che tiene conto solo dell’ottica della Fraternità: visto che la Fraternità ne ha tratto un qualche beneficio, almeno verbale, allora come non riconoscere che si tratti di gesti “chiaramente a favore della Tradizione”?
Non era questa la giustificazione che ha fondato la nascita della Fraternità, le consacrazioni episcopali, la disubbidienza canonica e la morte da pseudo scomunicato di Mons. Marcel Lefebvre. La giustificazione era tutt’altra e costituiva la reale ragion d’essere della Fraternità: sopravvivere per il bene della Chiesa, per il bene delle anime e per testimoniare davanti a Dio e davanti agli uomini che si può continuare a rimanere cattolici nonostante la cattiva volontà delle autorità ufficiali e nonostante si debbano subire le loro ingiuste censure canoniche.
Un evidente mutamento di rotta e di prospettive.

Ma veniamo al terzo gesto, anch’esso del 2009,  i colloqui dottrinali.
Di essi si è detto di tutto, e qualche volta anche il contrario, così che è davvero difficile districarsi nel ginepraio che ne è derivato. Per poter parlare con cognizione di causa di questi colloqui, è necessario che qualcuno renda pubblico, come promesso e com’è logico e com’è di diritto per tutti i cattolici, organici, aderenti, vicini ed anche lontani alla Fraternità,… renda pubblico il contenuto dei verbali e delle registrazioni che sono stati voluti e realizzati proprio a questo scopo.
Inspiegabilmente però, a colloqui ultimati, chiusi e dichiaratamente conclusi, il loro contenuto è ancora avvolto nel più fitto mistero.
Siamo i primi a ricordare che stultum est proicere margaritas ante porcos, ma ci si conceda, almeno a noi, di rimanere ancorati al buon senso e di chiederci: forse che il contenuto dei colloqui è fatto di margaritas? Forse che i fedeli cattolici tradizionali e interessati a diventarlo, sono dei porcos?

Questo ci obbliga a parlare di questi colloqui per quello che è stato detto e per quello che hanno rappresentato.
  • È stato detto che essi servivano a fare chiarezza, a mettere in chiaro quali fossero i convincimenti della Fraternità e quali i convincimenti della Curia romana. E pare che questo scopo sia stato raggiunto. Si tratta di due convincimenti inconciliabili.
  • È stato detto che essi servivano a verificare se potessero esserci delle possibili convergenze tra i due convincimenti, tanto da giungere ad un intento comune. E pare che anche questo scopo sia stato raggiunto: non possono esserci convergenze, né si può addivenire ad un comune intento. Si è trattato di un discorso tra sordi.
  • È stato detto che essi servivano per verificare se fosse stato possibile giungere ad un accordo dottrinale. E pare che anche questo scopo sia stato raggiunto: non è possibile alcun accordo dottrinale.
  • È stato detto che essi servivano a far sì che le autorità romane ritrattassero i loro errori e ritornassero alla vera fede. Qualcuno ha parlato perfino di conversione. Ma pare che questo scopo non sia stato raggiunto: le autorità romane continuano a sostenere e a praticare gli stessi errori e pretendono addirittura che la Fraternità approvi e condivida.
  • È stato detto che essi servivano per sfatare il tabù del super-concilio, non tanto presso le autorità romane, quanto presso i fedeli cattolici. E pare che questo scopo sia stato parzialmente raggiunto: perché per un verso si può parlare liberamente degli errori del Vaticano II, per un altro verso non si può dire che questi errori sono tali da pregiudicare la tenuta della fede.
  • È stato detto che essi servivano a preparare la riconciliazione tra la Fraternità e Roma, con la stipula di un accordo che portasse al riconoscimento canonico della Fraternità. E pare che questo scopo non sia stato raggiunto, sia perché non è stato possibile alcun accordo preventivo, sia perché Roma non ha tenuto conto del contenuto dei colloqui e ha chiesto alla Fraternità di sottoscrivere un “preambolo dottrinale” che considera i colloqui come mai avvenuti.
  • È stato detto, all’inizio, che essi servivano ad “approfondire…con le Autorità della Santa Sede le questioni ancora aperte, così da poter giungere presto a una piena e soddisfacente soluzione del problema posto in origine” (Decreto di remissione della scomunica, 21 gennaio 2009). E pare che questo scopo non sia stato raggiunto, tanto che non solo non si è arrivati alla “soluzione del problema posto in origine”, ma non è stato neanche chiarito quale fosse questo problema.

Peraltro, questi colloqui hanno rappresentato la controprova che non sono le discussioni che risolvono le difficoltà e sanano i contrasti, soprattutto quando si tratta di affermare chiaramente cos’è che è conforme alla Tradizione e cos’è che diverge da essa. Trattandosi, infatti, di qualcosa che ha radici nel soprannaturale, è indispensabile che anche solo per mettersi a sedere insieme si abbia la stessa concezione del soprannaturale, e quindi la stessa concezione del naturale. Ora, si verifica, da cinquant’anni, che la concezione degli uomini e delle autorità della neo-Chiesa conciliare sia un miscuglio di naturale e di soprannaturale, dove il primo pretende di informare di sé il secondo, e questa concezione, che quanto meno è espressione di una macroscopica confusione, è stata quella che ha informato il Vaticano II e che trapela, in modo più o meno confuso, da tutti i documenti che esso ha prodotto, nonché dai documenti del magistero successivo.
È da tale concezione che deriva il famoso discorso di Paolo VI nel quale si afferma, stavolta chiaramente, che la Chiesa, quella del Concilio, “ha più di tutti il culto dell’uomo” (Discorso di chiusura del Concilio, 7 dicembre 1965).
Invero una strana affermazione, che in bocca al Papa diventa una vera e propria blasfemia. Cosa che dovrebbe fare inorridire e non indurre a pensare, come qualcuno scrive, che “Gesù Cristo può ancora parlare con la sua bocca”.

Ed è sempre da questa stessa concezione che deriva l’altrettanto famoso discorso di Benedetto XVI nel quale si afferma che «La Chiesa antica, con naturalezza, … mentre pregava per gli imperatori, ha invece rifiutato di adorarli, e con ciò ha respinto chiaramente la religione di Stato. I martiri della Chiesa primitiva sono morti per la loro fede in quel Dio che si era rivelato in Gesù Cristo, e proprio così sono morti anche per la libertà di coscienza e per la libertà di professione della propria fede… Una Chiesa missionaria, che si sa tenuta ad annunciare il suo messaggio a tutti i popoli, deve impegnarsi per la libertà della fede. Essa vuole trasmettere il dono della verità che esiste per tutti ed assicura al contempo i popoli e i loro governi di non voler distruggere con ciò la loro identità e le loro culture, ma invece porta loro una risposta che, nel loro intimo, aspettano – una risposta con cui la molteplicità delle culture non si perde, ma cresce invece l'unità tra gli uomini e così anche la pace tra i popoli»(Discorso alla Curia, 22 dicembre 2005).

Da cui chiunque può facilmente e immediatamente dedurre che la confusione fra soprannaturale e naturale è così inestricabile che si arriva a concepire una nuova Chiesa, che non avrebbe più il compito di convertire alla vera religione di Cristo l’uomo e la società in cui egli vive, perché possa guadagnarsi il premio della vita eterna. Una nuova Chiesa che, invece, confondendo il fine soprannaturale dell’uomo col suo fine naturale, avrebbe il compito di essere missionaria, sia per mantenere la molteplicità delle culture, sia per far crescere l’unità tra gli uomini di queste stesse culture diverse, in modo che si giunga alla pace tra tutti i popoli, caratterizzati, appunto, da tale sacrosanta diversità.

Da cui è possibile trarre un’esplicativa parafrasi del passo del Vangelo di San Giovanni (21, 15-17): “Benedetto, figlio di Joseph, non pascere solo le mie pecorelle, ma raccogli in un unico gregge gli agnelli e i lupi”. Che poi, a ben guardare ha una seria corrispondenza con quanto Gesù dice a Pietro al successivo versetto 18: «quando sarai vecchio… un altro ti porterà dove tu non vuoi».

Se non fosse che noi uomini sono più le volte che sbagliamo che quelle che parliamo giusto, verrebbe da chiedersi se quanto uscito dalla bocca di questo Papa possa cattolicamente corrispondere a qualcosa che viene da Gesù Cristo.

Intendiamoci, non è sbagliato, come fa il Consiglio generale, fare un’affermazione di principio, ma non si può pretendere di farla prescindendo dalla realtà oggettiva in cui si trova “la bocca con cui parla Gesù Cristo” e misconoscendo il cinquantennale perdurare di questo stato di profonda dicotomia tra la volontà di Dio e le parole e le azioni dei papi del Concilio e del post-Concilio.

Il periodo della lettera che abbiamo esaminato adesso, si chiude con una considerazione che vale la pena sottolineare. Facendo seguito alla constatazione di una linea “chiaramente a favore della Tradizione”, si dice:
«Perché improvvisamente essa si troncherebbe, mentre invece noi facciamo di tutto per conservare la nostra fedeltà e accompagniamo i nostri sforzi con una preghiera poco comune? Il Buon Dio ci lascerebbe andare nel momento più cruciale? Questo non ha molto senso. Soprattutto quando noi non cerchiamo di imporgli una qualche volontà personale, ma cerchiamo di scrutare attraverso gli avvenimenti ciò che Dio vuole, a tutto disposti, come a Lui piacerà».

La domanda iniziale è chiaramente infondata, poiché dà per accertata quella “linea chiaramente a favore della Tradizione” che, come abbiamo appena visto, non lo è affatto. Ma la considerazione che ne segue, non solo non è ad essa conseguente, ma si presenta con un argomentare che per essere logico dovrebbe essere svolto alla rovescia.
È proprio il “conservare la nostra fedeltà”, è proprio il fatto che si tratti di un “momento cruciale”, è proprio il dovere di “scrutare attraverso gli avvenimenti ciò che Dio vuole”, che avrebbero dovuto portare alla conclusione che questa linea non è “a favore della Tradizione”, così che l’averla scambiata per tale e, di conseguenza, l’aver deciso di collaborare con essa, può comportare solo che “Dio ci lasci andare nel momento cruciale”,  proprio perché l’errore di valutazione fatto, contraddice il “facciamo di tutto per conservare la nostra fedeltà”. E quindi, ciò che non ha senso è il pregare “con una preghiera poco comune” per la realizzazione di qualcosa che è in contraddizione con il mantenimento della “nostra fedeltà”.
Come si può pensare tranquillamente che il Buon Dio non “lascerebbe andare” la Fraternità, dal momento essa per prima ritiene di potere e di dovere abbandonare la scialuppa di salvataggio che Egli le aveva offerta, per mano di Mons. Lefebvre, nel 1970 e poi nel 1988?

Da queste premesse, è inevitabile che il Consiglio generale giunga alla seguente conclusione:
«Al tempo stesso, essa manca di realismo, a riguardo dell’intensità degli errori e della loro ampiezza. Intensità: nella Fraternità si è in procinto di fare degli errori del Concilio delle super eresie, questo diventa come il male assoluto, peggiore di tutto, allo stesso modo in cui i liberali hanno dogmatizzato questo concilio pastorale. I mali sono già sufficientemente drammatici perché li si esageri ulteriormente. Non vi è più alcuna distinzione. Quando invece Monsignor Lefebvre ha fatto più di una volta le distinzioni necessarie a proposito dei liberali. Questa mancanza di distinzione conduce l’uno o l’altro di voi ad un irrigidimento “assoluto”. Questo è grave, perché questa caricatura è fuori dalla realtà e nel futuro sfocerà logicamente in un vero scisma. E questo fatto è uno degli argomenti che mi spinge a non più tardare a rispondere alle istanze romane».

Questo passo quasi parla da sé, ma non possiamo sorvolarlo, poiché in esso si coglie il mutamento, sia di prospettiva, sia di retrospettiva.
Poche osservazioni.
Se ritenere “gli errori del Concilio delle super eresie” e il Concilio stesso un “male assoluto”, può considerarsi un’esasperazione, non v’è dubbio che la ragion d’essere della Fraternità era ed è infondata. Se non altro perché 40 anni fa era più facile rendersi conto che si trattava solo di errori rimediabili, visto che la tenuta della compagine ecclesiale non era ancora giunta al disastro attuale. Se invece la Provvidenza volle la nascita della Fraternità, è perché non c’era bisogno “di fare degli errori del Concilio delle super eresie” e guardare al Concilio “come il male assoluto”. Bastò, bastava e basta considerare tutto questo per quello che è: gli errori del Concilio che sono delle eresie, e il Concilio che è un male, in quanto contenitore, propugnatore e diffusore di eresie. Tanto bastò a Mons. Lefebvre per opporvisi e per opporsi alle autorità ufficiali, e tanto dovrebbe bastare oggi ad un cattolico per resistere al pericolo di perdere la propria anima, rifiutandosi di dare credito a queste autorità ufficiali fintanto che esse non abbiano abbandonato tali eresie e tale errore.

Questa elementare constatazione non necessita di “alcuna distinzione”, poiché sarebbe davvero incredibile se si dovesse distinguere tra eresia ed eresia. Né può valere, in questo caso, la saggia considerazione che non tutto il Concilio sarebbe da mandare al macero, visto che esso giocoforza contiene diversi elementi che, tratti dal passato magistero, non rientrano negli errori moderni e nelle conseguenti eresie. Poiché bastano gli errori che esso contiene, per respingerlo, sia sulla base del suo impianto che è antitradizionale, e senza il quale non si sarebbero prodotti gli errori stessi, sia sulla base dei suoi sviluppi e delle sue applicazioni che, non solo hanno ampliato gli errori e sostanzialmente confermato le eresie, ma hanno trovato l’avallo del magistero successivo e la loro ulteriore conferma nella pratica della fede promossa dagli ultimi papi.

Così che non v’è alcun bisogno di distinguere, e la supposta esagerazione e l’altrettanto supposto irrigidimento, semplicemente non esistono, poiché denunciare e rifiutare le eresie, fossero pure le più semplici e le più contenute, è il minimo che un cattolico possa e debba fare. Senza che si possa parlare di “caricatura fuori dalla realtà”, perché anche una semplice eresia è già di per sé una caricatura e comporta un disastro per le anime.

Peraltro, dire eresia significa dire separazione, così che è il Concilio che ha rappresentato e rappresenta uno scisma rispetto alla Tradizione e quindi alla vera Chiesa, tale che se oggi qualcuno corre il rischio, rifiutando “rigidamente” il Concilio, di trovarsi in posizione scismatica, questo può considerarsi solo positivo, poiché, come diceva Mons. Lefebvre, attuare lo scisma nei confronti di chi si trova in rottura, in separazione, in stato di scisma con la vera Chiesa, con la Chiesa di sempre, significa proprio rimanere pienamente cattolico e in piena comunione con la Chiesa cattolica, apostolica, romana.

C’è un solo modo per poter considerare coerente il ragionamento svolto in questo passo della lettera, ed è quello che si evince dall’ultima frase: “E questo fatto è uno degli argomenti che mi spinge a non più tardare a rispondere alle istanze romane.”
Siamo al 14 aprile 2012, e il Consiglio generale dichiara espressamente di temere una deriva scismatica, che paventa come una catastrofe, ragion per cui si sente pressato a “rispondere alle istanze romane”.
Ora, è facilissimo considerare che ci sono solo due possibili risposte: o si rifiutano tali istanze, come suggerito e sollecitato dai tre vescovi, con tutto quello che ne consegue, scisma compreso, se è serio e reale parlare di scisma, o, volendo evitare il paventano scisma, si accettano tali istanze. E qui si dice, al 14 aprile, che tali istanze vanno accettate.
Il Consiglio generale grida a gran voce: piuttosto che lo scisma, meglio un accordo con Roma. Mons. Marcel Lefebvre, nel 1988, gridò a gran voce e fece in modo che il mondo intero lo ascoltasse: meglio lo scisma piuttosto che un accordo con Roma.

Se due più due fa quattro, qui ci troviamo di fronte ad un cambiamento di prospettiva palese e indiscutibile.

E questa constatazione è confermata da quest’altro passo della lettera:
«Ampiezza: da una parte si addossano alle attuali autorità romane tutti gli errori e tutti i mali che si trovano nella Chiesa, tralasciando il fatto che esse cercano almeno in parte di liberarsi dai più gravi di essi (la condanna dell’«ermeneutica della rottura» denuncia degli errori ben reali). Dall’altra si pretende che TUTTI siano ancorati a questa pertinacia («tutti modernisti», «tutti marci»). Ora, questo è chiaramente falso. Una gran maggioranza è sempre implicata nel movimento, ma non tutti. Al punto che sulla questione cruciale tra tutte, quella della possibilità di sopravvivere nelle condizioni di un riconoscimento della Fraternità da parte di Roma, noi non arriviamo alla vostra stessa conclusione.»

Passo che va letto, non dall’inizio, ma dalla fine: «Al punto che sulla questione cruciale tra tutte, quella della possibilità di sopravvivere nelle condizioni di un riconoscimento della Fraternità da parte di Roma, noi non arriviamo alla vostra stessa conclusione».
E cioè: noi siamo convinti che una volta che Roma riconoscesse la Fraternità, questa potrebbe continuare a sopravvivere. E perché? Perché sarebbe falso che a Roma “tutti siano ancorati a questa pertinacia”, perché sarebbe falso che siano tutti modernisti e tutti marci… lo è la maggioranza, ma non tutti.
Questa distinzione, in bocca a chi da 40 anni si batte contro le autorità romane, per il bene della Chiesa, è davvero curiosa, poiché, a rigor di logica, è proprio in forza di tale maggioranza che vanno rigettate le istanze romane, come affermano i tre vescovi. Tranne che della minoranza che non sarebbe implicata, non facciano parte il Papa e i cardinali, cioè quelle stesse autorità romane di cui si parla.
Un curioso ed amletico modo di esprimersi, che obbliga a pensare che in quel 14 aprile, il Consiglio generale sapesse con certezza che il Papa e i cardinali avessero rinunciato agli errori del Concilio e avessero smesso di sostenere il Concilio stesso. Notizia clamorosa, che il Consiglio generale avrebbe tenuto inspiegabilmente nascosta ai tre vescovi, come se non facessero parte della Fraternità con la massima dignità.
Notizia, però, che è “chiaramente falsa”, perché non c’è bisogno di far parte del Consiglio generale della Fraternità per sapere con certezza che la verità è tutto il contrario. Lo sanno anche le pietre. Tale che questa distinzione tra “maggioranza” e “minoranza” delle autorità romane, in realtà si rivela essere un espediente per far passare per certezze oggettive le impressioni e le gratuite deduzioni del Consiglio generale, chiaramente scaturite dal mutamento di prospettiva e poggianti sul desiderio manifesto di concludere un accordo con Roma per paura di cadere nello scisma nei confronti della scismatica neo-Chiesa conciliare.

E questa non è una nostra gratuita e prevenuta illazione, ma è ciò che sta scritto in queste stesse righe che abbiamo riportato.
Rileggiamo: «da una parte si addossano alle attuali autorità romane tutti gli errori e tutti i mali che si trovano nella Chiesa». 
Ora, gli errori e i mali della Chiesa non possono essere attribuiti alla Chiesa stessa, perché la Chiesa è santa, quindi è inevitabile che debbano essere attribuiti agli uomini di Chiesa, così oggi come in duemila anni di storia della Chiesa. Ma attribuirli agli uomini di Chiesa, non significa attribuirli ai semplici fedeli, significa solo che vanno attribuiti ai pastori e ai pastori dei pastori, ai vescovi, ai cardinali e ai papi. A chi se no?
E i vescovi e i cardinali e i papi sono esattamente quelle autorità che il Consiglio generale scagiona, così che quella contraddetta dal Consiglio generale è una realtà che prima ancora di essere oggettiva è una realtà tecnica: gli uomini di Chiesa sono le autorità ufficiali… è un fatto incontrovertibile per la natura stessa della Chiesa visibile.

E quest’altra espressione rafforza questo nostro semplice ragionamento: «esse [le attuali autorità romane] cercano almeno in parte di liberarsi dai più gravi di essi (la condanna dell’«ermeneutica della rottura» denuncia degli errori ben reali)».

È da anni che seguiamo questa problematica, ma è la prima volta che leggiamo che le attuali autorità romane cercano di liberarsi dai più gravi degli errori e dai mali che derivano dal Concilio e che stanno demolendo la Chiesa. Anche a voler ammettere che le cose stiano effettivamente così, in questa lettera si sarebbe dovuto menzionare almeno uno di questi tentativi, invece è tutto lasciato sul generico perché anche questa affermazione non corrisponde alla realtà.
Primo perché non esiste un elenco ufficiale, o ufficioso, degli errori e dei mali, né semplice, né per ordine di gravità – tolti i vari elenchi stilati dalla stessa Fraternità.
Secondo perché sono proprio gli errori più gravi, segnalati ed esaminati ormai da 40 anni, che i papi, i cardinali e vescovi hanno praticato ed esaltato e continuano a praticare e ad esaltare. E il Consiglio generale sa che stiamo parlando dell’ecumenismo, della libertà religiosa, della collegialità e della riforma liturgica, perché proprio di questo si è parlato dentro e fuori la Fraternità da 40 anni… fino a questa lettera del 14 aprile.

A voler credere a quanto scritto qui, sembrerebbe che, per esempio, l’attuale massima autorità romana, il Papa Benedetto XVI, si sia rifiutato di recarsi ad Assisi, il 27 ottobre 2011, per cercare di liberarsi dai gravi errori del suo predecessore.

O siamo noi che siamo informati male o è male informato il Consiglio generale.

E a leggere l’inciso contenuto in questo passo della lettera (la condanna dell’«ermeneutica della rottura» denuncia degli errori ben reali), non v’è dubbio che si tratta proprio di questo secondo caso. Il Consiglio generale, non solo manifesta una cattiva informazione, ma dà l’impressione di non aver mai letto tutto quello che deriva dallo stesso documento papale che cita implicitamente.

Quando, il 22 dicembre 2005, il neo eletto Pontefice formula la sua ipotesi di lettura dei documenti del Concilio secondo una “ermeneutica della riforma nella continuità”, è verissimo che denuncia gli errori della “ermeneutica della rottura”, ma parla testualmente di “ermeneutica della discontinuità e della rottura”, indicando così, come è stato ripetuto in questi sette anni a destra e a manca e in basso e in alto, non solo gli errori dei modernisti spinti, ma anche i supposti errori della Fraternità, ed è ad entrambi che egli chiede di adottare la sua ipotesi di corretta ermeneutica: ai primi invitandoli a recedere da certi eccessi, alla Fraternità invitandola ad accettare il Concilio alla luce della sua “ermeneutica della riforma nella continuità”.
È sorprendente che il Consiglio generale glissi su questo aspetto, ed elogi di fatto la pretesa del Papa di voler correggere quelli che lui ritiene siano gli errori della Fraternità. E ci limitiamo a dire che è sorprendente, perché non vogliamo arrivare a pensare che il Consiglio generale abbia già sposato e fatta sua l’ipotesi inconsistente di Benedetto XVI.

Considerati tutti questi elementi, si rimane esterrefatti di fronte al periodo conclusivo di questa lettera:
«Voi non potete sapere quanto in questi ultimi mesi la vostra attitudine – molto diversa per ciascuno di voi – sia stata dura per noi. Essa ha impedito al Superiore generale di comunicarvi e di farvi partecipi di queste grandi preoccupazioni, alle quali vi avrei molto volentieri associato, se non si fosse trovato davanti ad una incomprensione così forte e così passionale. Quanto avrebbe amato poter contare su di voi, sui vostri consigli per sostenere questo passo così delicato della nostra storia. È una grande prova, forse la più grande del suo superiorato. Il nostro venerato fondatore ha assegnato ai vescovi della Fraternità un compito e dei doveri precisi. Egli ha mostrato che il principio che fa l’unità della nostra società è il Superiore Generale. Ma già da un certo tempo voi cercate – ciascuno in maniera diversa – di imporgli il vostro punto di vista, anche sotto forma di minacce, e perfino pubblicamente. Questa dialettica tra verità/fede e autorità è contraria allo spirito sacerdotale. Egli avrebbe almeno sperato che voi cercaste di comprendere gli argomenti che lo spingono ad agire come ha agito in questi ultimi anni, secondo la volontà della divina Provvidenza».

Ora, che il Superiore generale sia il “principio che fa l’unità” della Fraternità è certamente una metafora, poiché il principio di una cosa è, scontatamente, la sua ragion d’essere, l’elemento superiore che fonda la cosa stessa e ne assicura l’unità. E in questa ineludibile ottica, il Superiore generale è uno dei componenti della Fraternità, certo il più importante e il più carico di responsabilità, quello che detiene l’onere della sua gestione sulla base di questa ragion d’essere. Ma non è un’entità che agisce in assoluta autonomia perché ritiene, lui, di agire “secondo la volontà della divina Provvidenza”.
E un Superiore generale che svolge scrupolosamente il suo compito oneroso, non può cavarsela dicendo che «Voi non potete sapere quanto in questi ultimi mesi la vostra attitudine – molto diversa per ciascuno di voi – sia stata dura per noi. Essa ha impedito al Superiore generale di comunicarvi e di farvi partecipi di queste grandi preoccupazioni, alle quali vi avrebbe molto volentieri associato, se non si fosse trovato davanti ad una incomprensione così forte e così passionale».
Il compito teorico e pratico di un qualsiasi Superiore generale di un qualsiasi organismo, è proprio quello di cogliere le diverse comprensioni dei suoi sottoposti, soprattutto se, come in questo caso, si tratta di sottoposti rivestiti della dignità episcopale, e nel coglierle, valutarle sulla base della ragion d’essere dell’organismo che è stato chiamato a dirigere, e non sulla base della sua personale preoccupazione e del suo personale convincimento, tale che decide di non consultare tutti coloro che egli stesso ritiene non siano d’accordo con lui.
Per assolvere al meglio il proprio compito, il Superiore generale consulta proprio quelli che ritiene non siano d’accordo con lui,  perché consultare solo quelli che sono d’accordo è come consultare se stesso nel proprio angolo privato. E il far questo non significa avallare una “dialettica tra verità/fede e autorità”, “contraria allo spirito sacerdotale”; non significa instaurare una “conferenza episcopale” della Fraternità; tutt’altro, significa assolvere il proprio dovere di stato, cercando di comprendere le ragioni degli altri vescovi; significa dare prova di prudenza e di attenzione, soprattutto quando si tratta di questioni tanto importanti e delicate, che, tra l’altro, stanno provocando turbamento e confusione e divisione tra i chierici e i laici; significa dimostrare di avere a cuore il bene dell’organismo che si dirige, e non solo il proprio personale convincimento. E quanto più le incomprensioni altrui appaiono “così forti e così passionali”, tanto più il Superiore generale deve sentirsi in dovere di mettere da parte il proprio io, per mettere in primo piano il bene dell’organismo che dirige, che non è il suo, ma è di tutti e, in questo caso, è addirittura quell’organismo che è nato e sopravvive per il bene della Chiesa e delle anime.

Com’è stato possibile che il Consiglio generale sia giunto a scegliere di governare la Fraternità in una sorta di “splendido isolamento”?
La risposta la si trova in una citazione di Mons. Lefebvre apparsa nel Comunicato della Casa Generalizia del 24 ottobre 2012: «Come può esercitarsi l'autorità se bisogna chiedere a tutti i membri di partecipare all'esercizio dell'autorità?»
Parole sante! Che ricordano che l’esercizio dell’autorità è, per definizione, un atto non democratico.

Questa citazione, però, che avrebbe l’aria di porre un punto fermo, in realtà introduce un’ulteriore problematica, perché presenta ad un tempo: un elemento negativo e un elemento problematico.
L’elemento negativo è che essa non è applicabile al modo in cui il Consiglio generale ha inteso esercitare l’autorità in questi ultimi mesi: qui Mons. Lefebvre dice che non si può esercitare l’autorità con la democrazia, cioè senza l’autorità; ebbene, nessuno ha mai chiesto al Consiglio generale di partecipare all’esercizio della sua autorità, tantomeno i tre vescovi.
L’elemento problematico è che questa citazione mette ancor più in risalto il fatto che il Consiglio generale ha inteso esercitare la sua autorità prescindendo dalla responsabilità, dalla prudenza e dal consiglio. Ha esercitato l’autorità per l’autorità, ritenendo di non dover tenere conto della sensibilità e della competenza degli altri membri della Fraternità. Ritenendo che fosse impossibile che la volontà della divina Provvidenza potesse esprimersi anche attraverso i “punti di vista” diversi dal suo. Una concezione dell’autorità che la Fraternità ha rigettato e combattuto da 40 anni, perché ha portato e sta portando alla demolizione progressiva della Chiesa.
E la cosa curiosa è che, trattandosi della stessa concezione dell’autorità che si continua a coltivare a Roma, non si può fare a meno di ritenere che, in questo famoso 14 aprile, il Consiglio generale avesse deciso di accettare le istanze romane proprio sulla base di questa “comunione d’intenti”: … similes cum similibus congregantur.

Abbiamo trovato la risposta alla domanda che ci siamo posti all’inizio?
Solo in parte, perché per adesso possiamo dire di avere individuato un corposo mutamento di prospettiva nel Consiglio generale. Ma questo non basta per poter concludere che la Fraternità abbia mutato o non abbia mutato la propria ragion d’essere. Tanto più che le divergenze all’interno della Fraternità e la posizione dei tre vescovi rispetto al Consiglio generale, fanno pensare chiaramente che non c’è identità tra quest’ultimo e la Fraternità.

Peraltro, mentre stilavamo queste note, si sono verificati dei fatti nuovi, tutti attinenti all’argomento che abbiamo trattato qui, e di una rilevanza enorme. Fatti che si possono sintetizzare in questa frase pronunciata, nel corso di un'omelia, dal Superiore generale l’11 novembre scorso a Parigi, nella chiesa di Saint Nicolas du Chardonnet, simbolo della opposizione della Fraternità nei confronti di Roma: “Chiediamo in tutte le nostre preghiere, in ogni Messa, questa grazia della fedeltà, di non cedere in niente, costi quel che costi”.

Il che ci obbliga a completare con una terza parte queste nostre riflessioni, sia per onestà intellettuale, sia, e soprattutto, perché queste novità mandano in frantumi tutta la politica del Consiglio generale nei confronti di Roma e tutta l’azione da esso condotta all’interno nei confronti del Capitolo, dei sacerdoti e dei fedeli.



 


novembre 2012

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