La ragion d'essere della
Fraternità Sacerdotale San Pio X

(terza e ultima parte)

(alla prima parte) (alla seconda parte)

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di Belvecchio


Ragion d’essere in problematica?

 

Nel chiudere la seconda parte di queste riflessioni, dicevamo: “Ma questo non basta per poter concludere che la Fraternità abbia mutato o non abbia mutato la propria ragion d’essere”.
In effetti, occorre esaminare quanto è stato espresso ultimamente in maniera ufficiale da alcuni organi della Fraternità. Per far questo guarderemo ancora alle dichiarazioni dei quattro vescovi, richiamandoci, ove occorra, alle dichiarazioni e alle decisioni del Capitolo generale e della Casa Generalizia.

Il 16 settembre scorso, Mons. Bernard Tissier de Mallerais, ha tenuta una conferenza a Gastines, in Francia, dal titolo: “Lo spirito della Fraternità Sacerdotale San Pio X”. L’ultima parte di questa conferenza è riportata nel nostro sito, quindi qui richiameremo solo alcuni passi salienti.
«Evidentemente, nel 1988 la Santissima Vergine non aveva voluto che questo accadesse, … l’accordo immaginato nel 2011-2012 è durato sei mesi, non è stato benedetto dalla Santa Vergine. […] Io vi dico ciò che penso. E penso anche che voi non dovete avere paura, perché non sono il solo a pensarla così nella Fraternità. E poi, ecco, dobbiamo avere fiducia nella Santa Vergine che ci ha trattenuti dal fare un passo molto sbagliato, è vero. Quest’anno Ella ci ha impedito di fare questo passo sbagliato, non ha voluto saperne di questa storia dell’accordo. Cioè del fatto che andassimo a Roma a sottometterci alle autorità conciliari. Certo, si tratta delle autorità della Chiesa, il Papa è il successore di Pietro, ma egli è anche il rappresentante di questo sistema di Chiesa, che imbavaglia la Chiesa, che paralizza la Chiesa, che avvelena la Chiesa, il rappresentante di ciò che si chiama, per comodità di linguaggio, la Chiesa conciliare. Non è un’altra Chiesa, è un nuovo tipo di Chiesa, è una nuova religione che è penetrata nella Chiesa cattolica, col sostegno dei papi e di tutta la gerarchia, di tutti i vescovi, salvo alcune rarissime eccezioni. […] Come volete che saremmo sopravvissuti in tali condizioni? … Ecco, questa è la mia determinazione come vescovo della Fraternità e penso che questa sia la determinazione di tutti. […] Allora, si è svolto questo Capitolo generale che abbiamo riunito nel mese di luglio, e lì abbiamo preso delle decisioni molto dolci, morbide, come si dice. Cioè, presentare a Roma degli ostacoli tali che Roma non osi più importunarci, porre delle condizioni praticamente irrealizzabili per impedire che ci facciano delle nuove proposte».

Dal canto suo, Mons. Alfonso de Galarreta, il 13 ottobre scorso, in una conferenza a Villepreux , in Francia, anch’essa reperibile sul nostro sito, ha detto:
«Il Capitolo si è svolto come vi ho detto e io penso che noi abbiamo veramente tratto delle lezioni utili dalle prove che abbiamo vissute, anche se non tutto è perfetto, cosa che costituisce un altro aspetto di cui bisogna tenere conto. […] Secondo me, noi abbiamo veramente superato la crisi, l’abbiamo lasciata alle spalle, e com’era necessario, soprattutto nelle misure pratiche, grazie alle discussioni che ci hanno permesso di chiarire tra noi alcuni punti, di valutare bene gli argomenti, sotto tutti gli aspetti, di selezionarli, di giungere ad una visione più chiara, più lucida della situazione, cosa che costituisce il vantaggio delle prove, se se ne traggono delle lezioni. A partire da queste discussioni estremamente importanti e ricche, abbiamo stabilito delle condizioni che potrebbero permettere di considerare ipoteticamente una normalizzazione canonica, e a questo proposito, se riflettete bene, ciò che è stato fatto equivale all’aver preso tutta la questione dottrinale e liturgica per farne una condizione pratica. […] E in questo Capitolo è stato anche deciso che mai la Casa generalizia potrà pervenire a qualcosa di valido e di interessante con queste condizioni, vi sarà un Capitolo deliberativo, il che significa che la sua decisione vincolerà. […] Un Capitolo deliberativo significa che la decisione presa dalla maggioranza assoluta – la metà più uno, cosa che ci è sembrata ragionevole – tale decisione sarà seguita dalla Fraternità. Come ha provato il recente Capitolo, il giorno in cui abbiamo potuto parlare tra noi, come si doveva, abbiamo superato il problema dei disaccordi che avevamo conosciuti. È evidente che un Capitolo deliberativo costituisce una misura molto saggia e sufficiente per approvare eventualmente ciò che si sarà potuto ottenere da Roma. Poiché è quasi impossibile che la maggioranza, il Superiore della Fraternità – dopo una discussione franca, un’analisi approfondita di tutti gli aspetti, di tutti i pro e i contro -, è impensabile che la maggioranza si sbagli in materia prudenziale. In questa vita, non v’è alcuna garanzia assoluta, perché ciascuno – a cominciare da me stesso – non ha tutte le garanzie su ciò che farà domani. Così un Capitolo è largamente sufficiente per uscire dallo stallo nel quale ci trovassimo, poiché, se voi guardate bene, questo nostro ultimo Capitolo ha posto esattamente le stesse condizioni di Roma, ma al contrario. Loro esigono da noi la tal cosa, noi il contrario. Evidentemente la possibilità di un accordo si allontana e soprattutto il rischio di un cattivo accordo, a mio avviso, è definitivamente scartato. Definitivamente, cioè non per sempre, ma per questa volta qui. Noi abbiamo anche evitato una divisione tra noi, e questo non è poca cosa, bisognava quanto meno riflettervi e comprendere che andavamo a dividere tutto, nella Fraternità, nelle Congregazioni, nelle famiglie, e siccome noi siamo piuttosto temibili nella battaglia, ci saremmo dilaniati con una forza, una costanza… voi l’immaginate! La realtà era proprio questa. Ma grazie a questa comprensione tra noi, grazie a questa decisione, anche se è imperfetta, abbiamo superato una divisione che sarebbe stata una sorta di disonore per ciò che difendiamo, per la vera fede, per la nostra battaglia, per quelli che ci hanno preceduti, Mons. Lefebvre e Mons. de Castro Mayer».

Mons. Richard Williamson, nei suoi commenti settimanali del periodo interessato, tutti reperibili sul nostro sito, ha sostenuto che non si può accettare l’idea di un accordo pratico senza la previa verifica che Roma abbia abbandonato gli errori del Vaticano II. Citiamo ad esempio due frasi. Una relativa alla S. Messa:
«Fino a quando Roma crederà nella sua dottrina conciliare non potrà non utilizzare un tale accordo per spingere la FSSPX in direzione del Concilio, e il contesto di ogni Messa celebrata dalla FSSPX diverrebbe conciliare, se non rapidamente, certo nel lungo periodo. Uomo avvisato è mezzo salvato» (Infezione conciliare. Commento 263 del 28 luglio 2012).
Ed una relativa alla dottrina:
«I Romani conciliari sono trainati dal Vaticano II, ed è questa loro nozione centrale che li porta a cancellare la FSSPX, che rigetta il Vaticano II, e finché non riusciranno in questo, o cambieranno tale loro nozione centrale, continueranno ad essere portati a dissolvere la FSSPX di Mons. Lefebvre. Di contro, il centro motore dei chierici e dei laici della FSSPX è il raggiungimento del Paradiso, partendo dall’idea che il Paradiso e l’Inferno esistono, e che Gesù Cristo e la Sua vera Chiesa forniscono il solo e unico modo sicuro per andare in Paradiso. Essi sanno che questa dottrina che li guida non è una loro fantasiosa invenzione, quindi non vogliono che essa possa essere minata o sovvertita o corrotta dai miserabili neo-modernisti della neo-Chiesa, guidati dalla loro falsa, conciliare, nozione di Dio, dell’uomo e della vita. Lo scontro è totale» (Ancora la dottrina. Commento 266 del 18 agosto 2012)..

Mons. Bernard Fellay, com’è logico, si è espresso in diverse occasioni, proprio in forza del fatto che è il Superiore generale della Fraternità; richiameremo qui solo qualche passo significativo strettamente legato alla possibilità di stabilire o meno un accordo con Roma.
«È con la Chiesa reale che noi abbiamo dei problemi. Ecco cosa rende le cose ancora più difficili: il fatto che è con essa che abbiamo dei problemi. Questo non ci autorizza, per così dire, a sbattere la porta. Al contrario, è nostro dovere andare sempre a Roma, bussare alla porta e chiedere, non di entrare (poiché siamo già dentro), ma pregarli di convertirsi, di cambiare e di ritornare a ciò che fa la Chiesa […] Questa prova finirà, non so quando. Talvolta questa fine sembra approssimarsi, tal’altra sembra allontanarsi. Dio conosce i tempi, ma, umanamente parlando, bisognerà attendere un bel po’ prima di cominciare a vedere che le cose migliorano – cinque, dieci anni. […] È per questo che nei nostri colloqui dottrinali con Roma noi eravamo, per così dire, bloccati. In questi colloqui con Roma, la questione chiave era in definita quella del Magistero, dell’insegnamento della Chiesa. Ci dicono: «noi siamo il Papa, noi siamo la Santa Sede», cosa che accettiamo. E loro proseguono… E loro insistono: … E loro ordinano: «allora, obbedite», e noi diciamo: «no». Loro ci rimproverano di essere dei protestanti, perché poniamo la nostra ragione al di sopra del Magistero odierno. E allora noi rispondiamo: «voi siete dei modernisti, voi pretendete che l’insegnamento di oggi possa essere diverso da quello di ieri». […] Loro affermano che dev’esserci Tradizione, che dev’esserci continuità, e quindi vi è continuità. Il Vaticano II è stato fatto dalla Chiesa, nella Chiesa dev’esserci continuità, dunque il Vaticano II appartiene anche alla Tradizione. E noi subito: «scusate, cos’è che dite? […] Quali parole troveremo per dire che siamo d’accordo o che non lo siamo? Se loro accettano i principi che abbiamo sempre sostenuto, è perché questi principi per loro significano ciò che loro pensano, e che è in esatta contraddizione con ciò che affermiamo noi. Credo che non ci si possa spingere oltre nella confusione.» (Omelia a Winona, USA, 2 febbraio 2012).


Dalla lettura di questi passi si comprende come i quattro vescovi abbiano una visione concorde sui rapporti con Roma e, in sostanza, confermino che la ragion d’essere della Fraternità è quella indicata fin dall’inizio da Mons. Lefebvre, come sintetizzato dallo stesso Mons. Fellay: «La prima questione, per noi che siamo stati consacrati da Mons. Lefebvre, era quella della sopravvivenza della Tradizione» (Intervista a DICI, 8 giugno 2012).

Tuttavia, com’è noto, e come ha spiegato Mons. de Galarreta, soprattutto in quest’ultimo anno la Fraternità ha vissuto «il problema dei disaccordi che avevamo conosciuti». Disaccordi che il Capitolo generale del luglio scorso avrebbe superato, ma dei quali è necessario comprendere la causa, perché se è vero che in qualche modo «noi abbiamo veramente superato la crisi», è anche vero che non si è trattato di disaccordi di metodo, bensì di disaccordi di merito, tali da comportare, non solo la messa in problematica della ragion d’essere della Fraternità, ma la sua stessa esistenza, viste le rotture che si sono prodotte e che possiamo sintetizzare nei due fatti più eclatanti: l’espulsione o l’allontanamento di più di dieci sacerdoti, e l’“esclusione” di uno dei quattro vescovi. Due fatti che parlano di una vera e propria crisi.

Con modalità e accenti diversi, questa crisi si è prodotta intorno alla possibilità di poter concludere o meno un accordo con Roma nelle condizioni attuali. Ora, se tutto si fosse svolto sul piano del confronto delle posizioni, mai si sarebbe giunti ad una crisi. Se questo è accaduto è perché non si è trattato di posizioni da confrontare, ma di decisioni da accettare o da respingere. Decisioni che, in maniera più o meno dichiarata, erano state potenzialmente assunte dal Consiglio generale e aspettavano solo di essere ratificate. Ne testimoniano due elementi cruciali del Capitolo di luglio: l’arrivo della lettera del Papa e la decisione assunta dal Capitolo di convocare “eventualmente” un Capitolo deliberativo.

Circa il fatto che il Papa Benedetto XVI abbia praticamente evitato la spaccatura della Fraternità, leggiamo quanto raccontato da Mons. de Galarreta:
«E appena prima del Capitolo, durante il ritiro che l’ha preceduto, Monsignore ricevette una risposta – era la prima volta che vi era una risposta del Papa a Mons. Fellay – e a tavola alla fine del ritiro ci disse: ho ricevuto una lettera del Papa nella quale mi conferma che la risposta della Congregazione della Fede è la sua risposta, che egli l’ha approvata. Ed egli ricorda, riassumendole i tre punti, le loro esigenze, le loro condizioni sine qua non per un riconoscimento canonico: 1) riconoscere che il magistero vivente è l’interprete autentico della Tradizione, cioè le autorità romane; 2) che il concilio Vaticano II è in perfetto accordo con la Tradizione, che bisogna accettarlo; 3) che noi dobbiamo accettare la validità e la liceità della nuova Messa» (Conferenza a Villepreux, Francia, 13 ottobre 2012).

Praticamente, fino alla mattina del 9 luglio il Consiglio generale era convinto che le condizioni poste da Roma non fossero le condizioni del Papa, così che si sarebbe potuto definire un accordo sulla base del convincimento che il Papa avrebbe deciso “motu proprio”, non tenendo conto dei documenti della Congregazione per la Dottrina della Fede.
Vedremo dopo come questo convincimento fosse stato più volte ribadito ed avesse provocato la reazione di tanti chierici e laici, fino alla disubbidienza. Reazione che, per un verso, il Consiglio generale ha trattato in maniera “burocratica”, con le pesanti conseguenze che ne sono derivate, ma che per altro verso è stata determinante per far sorgere dei dubbi al Consiglio generale stesso, fino al punto di indurlo a chiedere direttamente al Papa cosa volesse veramente.
Ora, mentre va dato atto al Consiglio generale della opportunità di quest’ultima decisione assunta, è inevitabile porsi la domanda: se nel Consiglio generale non si fosse prodotto un mutamento di prospettive, come sarebbe stato possibile anche solo pensare che il Papa potesse non chiedere sine qua non ciò che ha sempre chiesto e che adesso ha ribadito?
Uno degli elementi che ha prodotto la crisi è stato proprio questo mutamento di prospettive che, come ha ricordato Mons. Tissier de Mallerais, ha beneficiato dell’intervento di Dio con la solenne smentita dello stesso Papa.

L’altro elemento, è indicato dalla decisione assunta dal Capitolo: «Abbiamo definito ed approvato delle condizioni necessarie per una eventuale regolarizzazione canonica. Si è stabilito che, in questo caso, sarà convocato prima un Capitolo straordinario deliberativo».
Una decisione che avrebbe dovuto rientrare nella prassi ordinaria, vista soprattutto l’importanza della posta in giuoco, e che invece rivela una grossa lacuna nella politica decisionale del Consiglio generale. Se si è sentito il bisogno di mettere per iscritto l’obbligo di una procedura che avrebbe dovuto essere semplicemente logica, è perché è stato implicitamente riconosciuto che fino al 9 luglio il Consiglio generale non aveva seguito tale semplice logica, ma aveva inteso imporre il proprio esclusivo convincimento, provocando dissensi e rifiuti e rischiando di fare esplodere la Fraternità.
Intendiamoci, tutto è bene quel che finisce bene, ma ciò non toglie che le cause vadano approfondite, chiarite e fugate. E per far questo è necessario rileggere certe dichiarazioni e coglierne i punti deboli.

«Bisogna riconoscere che questi colloqui hanno permesso di esporre chiaramente i diversi problemi che noi riscontriamo a proposito del Vaticano II. Ciò che è cambiato è che Roma non fa più dell’accettazione totale del Vaticano II una condizione per la soluzione canonica. Oggi, a Roma, certuni ritengono che una diversa comprensione del Concilio non è determinante per l’avvenire della Chiesa, poiché la Chiesa è più del Concilio. Infatti la Chiesa non si riduce al Concilio, essa è molto più grande. Occorre dunque dedicarsi a risolvere i problemi più vasti. Questa presa di coscienza può aiutarci a comprendere ciò che accade realmente: noi siamo chiamati ad aiutare a portare agli altri il tesoro della Tradizione che abbiamo potuto conservare. […] Certo, questo non annulla tutti i problemi, vi sono ancora della gravi difficoltà nella Chiesa: l’ecumenismo, Assisi, la libertà religiosa… ma il contesto sta cambiando e non solo il contesto, la situazione stessa… Io distinguerei tra le relazioni esterne e la situazione interna. Le relazioni con l’esterno non sono ancora cambiate, ma per ciò che accade nella Chiesa le autorità romane cercano di cambiarlo un po’ la volta. Evidentemente, oggi permane ancora un gran disastro, bisogna esserne coscienti, e noi non diciamo il contrario, ma bisogna anche vedere ciò che si sta facendo. […] In questa situazione, attualmente presentata da certuni come una situazione impossibile, ci si chiede di venire a lavorare come hanno fatto tutti i santi riformatori di tutti i tempi. Certamente, questo non elimina il pericolo. Ma se noi abbiamo sufficiente libertà per agire, per vivere e per svilupparci, questo si deve fare. Penso davvero che questo si debba fare, a condizione che noi si abbia la protezione sufficiente. […] Ma penso realmente che la preoccupazione principale tra noi sia piuttosto quella della fiducia nelle autorità romane, col timore che quello che potrebbe succedere sia una trappola. Personalmente sono convinto che non sia così. Da noi non ci si fida di Roma, perché si sono subiti troppi rovesci, è per questo che si pensa che si possa trattare di una trappola. Vero è che i nostri nemici possono pensare di utilizzare questa offerta come una trappola, ma il Papa, che vuole veramente questo riconoscimento canonico, non ce lo propone come una trappola. […] Si, è il Papa che lo vuole e l’ho detto a più riprese. Sono in possesso di sufficienti elementi precisi per affermare che ciò che dico è vero, benché io non abbia avuto delle relazioni dirette col Papa, ma con i suoi stretti collaboratori. Circa la loro posizione [dei tre vescovi], io non escludo la possibilità di un’evoluzione. La prima questione, per noi che siamo stati consacrati da Mons. Lefebvre, era quella della sopravvivenza della Tradizione. Io penso che se i miei confratelli vedono e comprendono che in linea di diritto e di fatto nella proposta romana vi è una vera possibilità per la Fraternità di «restaurare tutto in Cristo», malgrado tutti i problemi che sussistono oggi nella Chiesa, allora potranno correggere il loro giudizio, - allora, significa con lo statuto canonico in mano e i fatti sotto gli occhi. Sì, io lo penso. Lo spero. E noi dobbiamo pregare con questa intenzione.» (Intervista di Mons. Bernard Fellay, rilasciata a DICI, l’8 giugno 2012)

In questa intervista dell’8 giugno, che richiama quanto accaduto nei mesi precedenti, a partire dalla consegna del famoso preambolo dottrinale, si precisa in maniera decisiva che la chiave di lettura degli eventi, che deve guidare la decisione della Fraternità nei confronti dell’offerta di Roma, è il fatto che «Ciò che è cambiato è che Roma non fa più dell’accettazione totale del Vaticano II una condizione per la soluzione canonica». Un convincimento basato su una certezza: «Si, è il Papa che lo vuole e l’ho detto a più riprese. Sono in possesso di sufficienti elementi precisi per affermare che ciò che dico è vero, benché io non abbia avuto delle relazioni dirette col Papa, ma con i suoi stretti collaboratori».

Ora, qui era in ballo, non solo il futuro della Fraternità, ma anche il futuro della sopravvivenza della Tradizione nella Chiesa. Era in ballo la stessa ragion d’essere della Fraternità in funzione del perdurare della testimonianza della verità e del perseguimento del bene delle anime. Così che appare evidente che, a quella data, il Consiglio generale avesse deciso che l’accordo potesse e dovesse essere concluso, e che i dissensi dovessero rientrare sulla base di questo suo convincimento. Riferendosi ai tre vescovi, infatti, nell’intervista è detto: «Io penso che se i miei confratelli vedono e comprendono che in linea di diritto e di fatto nella proposta romana vi è una vera possibilità per la Fraternità di «restaurare tutto in Cristo», malgrado tutti i problemi che sussistono oggi nella Chiesa, allora potranno correggere il loro giudizio».
Quindi, non solo la possibilità della regolarizzazione canonica, ma perfino la «vera possibilità per la Fraternità» di capovolgere l’attitudine attuale della Chiesa conciliare, fino a «restaurare tutto in Cristo».
Un convincimento che, ovviamente, non poteva accettare dissensi e disubbidienze, poiché queste sarebbero equivalse al voler rinunciare al felice epilogo di quarant’anni di lotta, sulla base di opinioni personali che non tenevano conto dei dati oggettivi.
Non v’è dubbio che, messe così le cose, il Consiglio generale dovesse esercitare tutta la sua autorità per impedire che le opinioni personali di pochi mettessero in problematica l’ormai raggiunto accordo per il bene della Tradizione. È da qui che sono nati i problemi ed è nata la crisi che ha portato la Fraternità sull’orlo di una profonda spaccatura. È da qui che è nata la diffidenza e perfino la sfiducia nella direzione della Fraternità, poiché ciò che al Consiglio generale appariva chiaro ed evidente, a molti appariva invece inverosimile, fino a far trapelare il sospetto della colpevole leggerezza o perfino del dolo. Eppure, alla luce dei fatti accaduti, sembrerebbe che i dati in possesso del Consiglio generale dovessero essere talmente incontrovertibili da giustificare tutti i provvedimenti disciplinari presi.

Per cercare di comprendere se questo è vero ci si deve rifare all’ultima omelia di Mons. Bernard Fellay, dell’11 novembre. In essa, il Superiore generale espone lo stato delle cose e la conclusione che ne deriva.

«E questo mistero [della coesistenza del buon grano e della zizzania] ci ha toccati un po’ più intimamente in questi ultimi mesi. Noi l’abbiamo visto fin nella nostra cara Fraternità: una confusione, una mala erba, una zizzania, un disordine. Dio l’ha permesso, come lo permette nella Chiesa, come lo permette, si può dire, in ogni società. È un grande mistero del Buon Dio. […] Voglio guardare con voi, molto brevemente, a questi mesi che hanno causato non poche sofferenze, per trarne qualche lezione; anche al fine di poterci ritrovare, se è necessario. Voi sapete che questi tempi di disordine – sì, parlo delle nostre relazioni con Roma e di ciò che ha prodotto delle reazioni tra noi, come una delle conseguenze dolorose, la perdita di uno dei nostri vescovi… che non è cosa da poco! E qui tengo a precisare e a confermare che non è stato il problema delle nostre relazioni con Roma ad essere la causa di questa partenza. Questa è stata l’occasione, la conclusione di un problema che durava da tanto tanto tempo. Un problema di disciplina interna alla Fraternità. Che alla fine si è manifestato con una sorta di ribellione aperta contro l’autorità, diciamo con un falso pretesto».

Qui si parla di “confusione, mala erba, zizzania, disordine” e si dice che si tratta di un grande mistero. In verità, in tutto questo non v’è nulla di misterioso: il Consiglio generale era convinto che Roma fosse cambiata, anche se non totalmente, e quindi non c’era altro da fare, per il bene della Chiesa, che concludere un accordo. Altri, all’interno della Fraternità, erano convinti che a Roma non fosse cambiato alcunché, che le cose stessero esattamente come nel 1988, e che quindi non era possibile alcun accordo, se non al prezzo della distruzione della Fraternità. Si era parlato di questo per mesi e non v’era alcunché di misterioso, tranne gli elementi giustificativi noti solo al Consiglio generale e di cui non si aveva notizia alcuna.

Ciò nonostante, un elemento misterioso è davvero presente: “la perdita di uno dei nostri vescovi… che non è cosa da poco!” Perdita che, viene chiarito, è di fatto “una partenza”, la quale non avrebbe niente a che vedere con “il problema delle nostre relazioni con Roma”. Troppo sibillina, questa affermazione, tanto da costringerci a soffermarci.

«Mons. Richard Williamson, avendo preso da diversi anni le distanze dalla direzione e dal governo della Fraternità Sacerdotale San Pio X, e avendo rifiutato di manifestare il rispetto e l'ubbidienza dovuti ai suoi legittimi superiori, è stato dichiarato escluso dalla Fraternità Sacerdotale San Pio X, per decisione del Superiore generale e del suo Consiglio, il 4 ottobre 2012» (Comunicato della Casa Generalizia del 24 ottobre 2012).

Ebbene, in questo comunicato ufficiale non si parla né di perdita, né di partenza, si dice che, per decisione del Superiore e del suo Consiglio, Mons. Williamson “è stato dichiarato escluso”. Cioè?
Nessuno saprebbe spiegare il vero significato di questa espressione.
Certo, se ne potrebbe dedurre che Mons. Williamson si sia dimesso dalla Fraternità, ma non è così. Oppure che Mons. Williamson si rifiuti comunque di considerarsi parte della Fraternità, ma non è così. Oppure che Mons. Williamson sia passato a far parte di altro organismo diverso dalla Fraternità, ma non è così. Oppure che Mons. Williamson sia stato espulso della Fraternità, ma non è così. Oppure che Mons. Williamson sia stato riconosciuto colpevole di qualcosa che ipso facto, per Statuto, lo pone fuori dalla Fraternità, ma non è così.
Ma allora, come stanno le cose?
È inevitabile concludere che, com’è accaduto in questi ultimi mesi, le decisioni e i convincimenti del Consiglio generale, continuano ad essere avvolti dal mistero. Tale che le cose, invece di chiarirsi, finiscono col complicarsi.
Dal momento che contro Mons. Williamson non è mai stata aperta una qualche procedura canonica, le uniche giustificazioni sono quelle qui addotte: «avendo preso da diversi anni le distanze dalla direzione e dal governo della Fraternità Sacerdotale San Pio X, e avendo rifiutato di manifestare il rispetto e l'ubbidienza dovuti ai suoi legittimi superiori».

Questa premessa è così poco chiara che induce inevitabilmente a pensare ad una totale mancanza di rispetto per tutti i membri della Fraternità e per i fedeli laici. In un caso così grave, come l’allontanamento di un vescovo, il Consiglio generale avrebbe dovuto sentire il dovere di dire con chiarezza cosa fosse accaduto.

Cosa significa: «avendo preso da diversi anni le distanze dalla direzione e dal governo della Fraternità Sacerdotale San Pio X»?
Può solo significare che Mons. Williamson ha espresso il suo dissenso nei confronti della politica portata avanti dal Consiglio generale.
Ora, questo è vero e sono pure noti i  modi e i contenuti di tale dissenso, perché Mons. Williamson li ha sempre espressi pubblicamente e per iscritto. Ma così com’è vero, è anche legittimo, poiché nulla vieta ad un membro della Fraternità di dichiararsi in disaccordo con “la direzione e il governo” della stessa.
Da questo punto di vista, quindi, la premessa è infondata, poiché addebita una colpa inesistente.
Piuttosto, com’è possibile che il Consiglio generale non abbia tenuto nel debito conto il dissenso di uno dei quattro vescovi consacrati da Mons. Lefebvre? La risposta è contenuta nella lettera ai tre vescovi del 14 aprile, che abbiamo già esaminata: «Voi non potete sapere quanto in questi ultimi mesi la vostra attitudine – molto diversa per ciascuno di voi – sia stata dura per noi. Essa ha impedito al Superiore generale di comunicarvi e di farvi partecipi di queste grandi preoccupazioni, alle quali vi avrebbe molto volentieri associato, se non si fosse trovato davanti ad una incomprensione così forte e così passionale».

Il Consiglio generale, per principio, non tiene conto di tutto ciò che contrasta col proprio convincimento e non consulta tutti coloro che non sono d’accordo con lui. Cosa davvero sorprendente, poiché è chiaro anche ai bambini che l’autorità si esercita solo attraverso la prudenza e il consiglio, diversamente si scade nell’autoreferenzialità, che con l’autorità ha solo in comune l’“auto”.

Per di più, in una congregazione religiosa, la dignità di vescovo impone che l’esercizio del suo ministero venga svolto in piena autonomia anche rispetto ai Superiori, come si evince dal Codice di Diritto Canonico vigente (Can. 705) e dal Codice del 1917 (Can. 627) (si veda la breve nota riportata a parte), quindi il “prendere le distanze” rientra nelle prerogative e, per molti aspetti, nei doveri del vescovo. Così che la premessa è infondata anche dal punto di vista canonico.

La seconda parte di tale premessa: «avendo rifiutato di manifestare il rispetto e l'ubbidienza dovuti ai suoi legittimi superiori», ancorché indimostrata, per il mistero che continua ad avvolgere le decisioni del Consiglio generale, appare anche contraddittoria fino al punto di rivelarsi contraria al vero.

Mons. Williamson è stato rettore del seminario di Winona, negli Stati Uniti, fino al 2003, ed è evidente che la sua collocazione in quel seminario era del tutto coerente con il fatto che fosse di madrelingua inglese, come peraltro dimostra la sua designazione sul posto voluta da Mons. Lefebvre. Ciò nonostante, per motivi di opportunità noti solo al Consiglio generale e che quindi non possiamo prendere in esame, venne trasferito in Argentina, al seminario di La Reja. Non risulta che abbia disubbidito.

Nel 2009, dopo la remissione della scomunica e la nota speculazione orchestrata dai mezzi di comunicazione per screditare a loro modo la Fraternità, Mons. Williamson venne rimosso e consegnato agli “arresti domiciliari”, per così dire, a Wimbledon, Londra, dove è rimasto fino a poco dopo l’“esclusione”. Non risulta che abbia disubbidito.

In vista dello svolgimento del Capitolo, il 25 giugno, il Segretario generale diramò una lettera circolare ai Superiori, nella quale comunicava che «in virtù del Canone 2331 ¶ 1 e 2 (n.c. 1373), il Superiore generale ha privato dell’ufficio di capitolare Mons. Williamson, per le sue prese di posizione che chiamano alla ribellione e per la sua disobbedienza continuamente ripetuta. Gli ha anche vietato di recarsi ad Ecône per le ordinazioni». Non risulta che abbia disubbidito.

Piuttosto, a questo proposito, è necessario notare che il qui richiamato Can. 1373, recita testualmente: «Chi pubblicamente suscita rivalità e odi da parte dei sudditi contro la Sede Apostolica o l’Ordinario per un atto di potestà o di ministero ecclesiastico, oppure eccita i sudditi alla disobbedienza nei loro confronti, sia punito con l’interdetto o altre giuste pene». Ora, a parte l’aspetto ridicolo del richiamo a questo Canone da parte del Superiore di una Congregazione che, dal punto di vista canonico, sussiste quasi esclusivamente sulla base di esso, non v’è dubbio che questo non è applicabile al caso in specie, sia perché la Fraternità non ha un “Ordinario”, né è la Sede Apostolica, sia perché un vescovo non rientra tra i “chi” citati dal Canone, anzi ne è escluso ed è chiaramente tutelato in questo senso dal Canone 705 che abbiamo citato prima.
E questo elemento controverso, e per molti versi arbitrario, è stato confermato dal fatto che il 9 luglio, prima dell’apertura dei lavori del Capitolo, i presenti sono stati chiamati a “confermare” questa decisione del Superiore generale. Una procedura quanto meno insolita, quella di chiedere ad un consesso incompetente, e a posteriori, di confermare una decisione dell’autorità, da questa stessa ritenuta legittima e già applicata.

Un pasticcio.
Per di più aggravato dal fatto che, trattandosi di uno dei quattro vescovi, ed essendosi prodotto il risultato di 29 voti a favore e di 9 contro, la prudenza e il consiglio di un Superiore che non fosse preoccupato solo di se stesso, avrebbe dovuto portare alla sospensione dello svolgimento del Capitolo stesso, mentre invece tutto si è svolto come se niente fosse, come se l’esclusione di uno dei vescovi equivalesse a decidere se il Capitolo avesse dovuto aprirsi alle 9 piuttosto che alle 8.

Davvero un pasticcio e una leggerezza, che recitano a carico di una gestione un po’ farfallona della Fraternità San Pio X.
E diciamo farfallona, per non dire di più, dal momento che in questa stessa circolare si comunica un’altra decisione del Superiore generale, il quale: «ha deciso di differire le ordinazioni dei religiosi Domenicani di Avrillé e Cappuccini di Morgon, previste per il prossimo 29 giugno a Ecône. Questo procrastinare le ordinazioni gli è stato semplicemente dettato dalla preoccupazione di assicurarsi della lealtà di queste comunità, prima d’imporre le mani sui loro candidati».

Una decisione che, più che perplessità, ha destato sconcerto, sia perché incredibilmente assunta cinque giorni prima delle ordinazioni, sia perché, ancora una volta, non si capisce quale grave motivo abbia potuto indurre il Superiore generale a “differire” ciò che la Fraternità aveva fatto da tanti anni. Solo il disaccordo con la politica del Consiglio generale ha potuto motivare una decisione come questa, che di fatto ha subordinato l’ordinazione di nuovi sacerdoti cattolici, e quindi uno degli elementi che compongono la ragion d’essere della Fraternità, alla “sottomissione” ai convincimenti del Consiglio generale. Ancora un pasticcio, dove si è finito col confondere un’opinione del Consiglio generale, con lo scopo della Fraternità; una visione di parte con la visione generale.
Tanto più che queste stesse comunità sono divenute improvvisamente e miracolosamente “leali”, l’11 ottobre successivo, quando a Bellaigue, Francia, hanno potuto godere dell’ordinazione dei loro candidati.
Evidentemente, la decisione del 25 giugno era solo un gesto clamoroso per affermare pubblicamente l’autorità indiscutibile del Superiore generale: un chiarissimo gesto che, pur volendo essere di forza, ha rivelato un’incredibile debolezza.

Per tornare alla disubbidienza di Mons. Williamson, l’unica che sembrerebbe possibile addebitargli è il rifiuto di sospendere le sue lettere settimanali “Commenti Eleison”.
Richiesta avanzata dal Consiglio generale in maniera del tutto illegittima, poiché non si può imporre d’autorità anche il come si debba esercitare il ministero episcopale.

A onor del vero, si è anche “detto” che con queste sue lettere settimanali egli arrecasse danno alla Fraternità. Ma di questo non v’è nulla di ufficiale, né mai è stato iniziato un processo canonico nei suoi confronti per motivi del genere.
Si potrebbe dire che a norma di Diritto Canonico l’unico foro competente per un vescovo è quello di Roma, quindi il Consiglio generale non avrebbe potuto iniziare alcun procedimento canonico, ma questo conferma solo che il Consiglio generale non aveva neanche il potere di “dichiarare escluso” il vescovo. L’unico potere che aveva e che ha è quello di ingiungere ai responsabili delle sue case, di non ospitare più Mons. Williamson, costringendolo di fatto a vivere a casa sua. Ma questo non si chiama “esclusione”, si chiama semplicemente sfratto, cioè esercizio del potere del padrone di affittare a chi vuole e come vuole la sua casa.

In effetti, il Consiglio generale non poteva e non ha potuto “escludere” Mons. Williamson dalla Fraternità, non avendo il potere di affermare che egli, per decisione del Consiglio generale, abbia smesso di essere un vescovo della Fraternità San Pio X.

Tutta la vicenda, insomma, non potendo in alcun modo rivestire un carattere “disciplinare”, come erroneamente è stato detto da alcuni, si riduce ad una controversa decisione unilaterale del Consiglio generale, certo dettata dalla riconosciuta irriducibilità del vescovo a piegarsi ai suoi  momentanei e problematici convincimenti.

In questa omelia dell’11 novembre, il Superiore generale spiega:
«Cos’è successo in tutti questi mesi? Dove si trova la causa di tutti questi trambusti! Penso che essa è molteplice, ma la base, la base è una contraddizione a Roma. Contraddizione che avevamo constatato, che avevamo già spiegata fin da almeno il 2009. Contraddizione che, direttamente per noi, si manifesta nelle decisioni, nelle dichiarazioni della stessa autorità, cioè della Santa Sede, ma che vengono da persone diverse della Santa Sede, e sono dichiarazioni diverse, opposte e anche contraddittorie. […] Da cui una difficoltà che esiste già da diversi mesi, da diversi anni, circa il comprendere cosa voglia veramente il capo, cioè il Santo Padre, il Sommo Pontefice. In linea di principio, ciò che si chiama la Santa Sede, il Vaticano, è nelle sue mani. Non si fa distinzione tra la Santa Sede e il Papa». 
E continua spiegando nel dettaglio in cosa sia consistita questa contraddizione, fino a ricordare la famosa lettera del Papa del 30 giugno, in cui questi chiede alla Fraternità di “accettare che il magistero è il giudice della Tradizione apostolica”, che “il Concilio fa parte integrante di questa Tradizione” e che la nuova Messa, non solo è valida, ma anche lecita.
E conclude:
«Ecco, miei cari fratelli, la situazione. Ed ecco perché è evidente che dal mese di giugno – l’abbiamo annunciato alle ordinazioni – le cose sono bloccate. È un ritorno al punto di partenza. Noi ci troviamo esattamente allo stesso punto di Mons. Lefebvre negli anni 1975, 1974. E dunque la nostra battaglia continua».

Insomma, l’11 novembre, il Superiore generale, smentendo tutto quanto affermato nei mesi precedenti, dichiara che le cose sono ferme al 1974-75, nemmeno al 1988, volendo dimostrare con questo che egli è più drastico e più duro di tutti.
Ora, pur tralasciando le voci che riferiscono che il Superiore generale avrebbe dichiarato di essere stato ingannato, è evidente che in questa omelia il Superiore generale si lascia andare in una requisitoria contro il Superiore generale: cosa ben possibile se non si scontrasse con l’assurdo che si tratta della stessa persona.

Ebbene. Nella lettera di risposta ai vescovi, del 14 aprile, il Consiglio generale, mentre rimproverava ai tre vescovi che la loro descrizione dello stato delle cose fosse «macchiata da due difetti relativi alla realtà della Chiesa; manca del soprannaturale e nel contempo di realismo», ricordava decisamente «Questa situazione concreta, con la soluzione canonica proposta, è molto diversa da quella del 1988. E quando paragoniamo gli argomenti offerti all’epoca da Mons. Lefebvre, ne concludiamo che egli non avrebbe esitato ad accettare ciò che ci viene proposto. Non perdiamo il senso della Chiesa, che era così forte nel nostro venerato fondatore».

Il 14 aprile tutto era diverso dal 1988, e la cosa più saggia era fare l’accordo, l’11 novembre tutto è al punto del 1974-75, così che nessun accordo è possibile.

Cos’è accaduto nel frattempo? Nulla, assolutamente nulla.

Quindi se ne deduce che in aprile il Consiglio generale si sbagliasse clamorosamente.
Perché?
Si dice a causa della contraddizione a Roma.
Ma se il Consiglio generale avesse conosciuto Roma e la Curia romana solo da poco, la scusa potrebbe essere giustificata, invece conosce Roma e la Curia romana da 40 anni e l’essersi lasciato fuorviare dalla “contraddizione” romana può significare solo due cose: o il Consiglio generale non era in grado di giudicare in coerenza con le sue responsabilità o aveva, in cuor suo, caldeggiato una soluzione, qualunque essa fosse, pur di mettere fine alla irregolarità canonica… costi quel che costi.
Nell’un caso o nell’altro, non si può parlare più di errore di valutazione, ma di gravissima colpevole responsabilità.

Ci si chiede: era davvero necessario condurre la Fraternità fino all’orlo del collasso, espellere tanti sacerdoti, rimproverare i vescovi, bisticciare con tante “comunità amiche”, bacchettare tanti fedeli, “escludere” un vescovo, per poi concludere che tutti questi avevano ragione e l’unico ad avere torto era proprio il Consiglio generale? Qualcosa non torna!
Certo, si potrebbe obiettare che il problema della disubbidienza rimane, almeno per alcuni, ma non ci si può appellare alla virtù dell’obbedienza quando questa contrasta, non solo con la verità, ma perfino col buon senso… come dimostrano i fatti.

E quest’omelia si conclude in modo appropriato, ma enormemente sorprendente:
«E noi sappiamo bene che la soluzione verrà dal Buon Dio e si può anche dire per mezzo della Santa Vergine. Lo si può dire, è un’evidenza dei nostri tempi, significata da queste apparizioni, belle, magnifiche: la Madonna de La Salette, la Madonna di Fatima, che annunciano quest’epoca, dolorosa, terribile. Roma diventerà la sede dell’Anticristo, Roma perderà la fede… è questo che è stato detto a La Salette. La Chiesa sarà eclissata. Queste non sono parole da poco. Si ha veramente l’impressione che è oggi che si vede tutto questo. Non bisogna agitarsi. È terrificante, certo, e allora bisogna ancor più rifugiarsi presso la Santa Vergine, presso il Suo Cuore Immacolato. È il messaggio di Fatima: Dio vuole dare al mondo questa devozione al Cuore Immacolato di Maria. E questo non è per niente! Chiediamo in tutte le nostre preghiere, in ogni Messa, questa grazia della fedeltà, di non cedere in niente, costi quel che costi. E che il Buon Dio ci protegga e ci guidi, fino in Cielo».

Appropriato perché la situazione in cui versa la Chiesa conciliare è esattamente quella descritta, quella stessa che la Fraternità denuncia da 40 anni.

Sorprendente perché queste parole sembrano uscire dalla bocca di chi in questi due ultimi anni ha fortemente contrastato la politica dell’accordo portata avanti dal Consiglio generale, e per questo si ritrova ad essere annoverato come tra i nemici della Fraternità, mentre oggi si dimostra che, se di nemici si può parlare, questi sono proprio quelli che, avendo voluto ignorare i richiami e i rimproveri dei vescovi, dei sacerdoti, delle comunità amiche e dei fedeli, hanno portato la Fraternità alla divisione e oggi si cospargono il capo di cenere con la scusa di essersi ingannati.

Qui è detto: «Chiediamo in tutte le nostre preghiere, in ogni Messa, questa grazia della fedeltà, di non cedere in niente, costi quel che costi ».

Se queste parole fossero state pronunciate due anni, un anno, sei mesi fa, non ci sarebbero stati i trambusti e le prove di cui qui si parla, e la Fraternità sarebbe oggi ancor più compatta e forte di prima, invece di ritrovarsi nella incresciosa situazione di dover sanare le profonde laceranti ferite riportate per colpa di una politica unilaterale e sconsiderata.

Il Consiglio generale, in coerenza con queste parole, provvederà a richiamare tutti quelli che ha allontanato, riconoscendo che erano loro ad avere ragione ed esso ad avere torto?

Lo abbiamo detto prima: tutto è bene quel che finisce bene.

Soprattutto perché, con nostra soddisfazione, che è quella che poi conta davvero molto poco, adesso possiamo dire che la ragion d’essere della Fraternità non è cambiata.
A fronte della disastrosa situazione in cui si trova oggi la Chiesa cattolica per colpa dei nuovi preti e dei nuovi vescovi, dei moderni cardinali e papi, tutti votati a trasformarla in Chiesa conciliare e protestante… la Fraternità assolve il suo compito di testimonianza, seguendo gli insegnamenti del Signore Gesù,… costi quel che costi!

E questo induce ad un’importante riflessione.
Se negli ultimi tre anni la Fraternità ha conosciuto scossoni e trambusti, se negli ultimi due anni ha sperimentato prove pesanti e dubbi atroci, se nell’ultimo anno ha corso il rischio di esplodere, con tanti pezzi lasciati per strada, la responsabilità, per quanto riguarda la Fraternità stessa, è dell’attuale direzione… soprattutto per aver dimostrato di avere la disposizione a lasciarsi ingannare dal nemico.
Può la stessa direzione portare avanti una battaglia che appena ieri era convinta di poter condurre in modo opposto?
Possono questi stessi responsabili agire in coerenza. quando per anni si sono esercitati a convincersi e a convincere del contrario?
Soprattutto, è possibile esercitare l’autorità dopo aver dimostrato di avere sbagliato l’analisi e di avere mirato al contrario di quanto fosse necessario?
È possibile seguire una politica interna con gli stessi metodi usati fino ad ora?

Nella Dichiarazione del Capitolo del 14 luglio è detto: «Abbiamo definito ed approvato delle condizioni necessarie per una eventuale regolarizzazione canonica. Si è stabilito che, in questo caso, sarà convocato prima un Capitolo straordinario deliberativo».

E Mons. de Galarreta ha spiegato: «E in questo Capitolo è stato anche deciso che mai la Casa generalizia potrà pervenire a qualcosa di valido e di interessante con queste condizioni, vi sarà un Capitolo deliberativo, il che significa che la sua decisione vincolerà necessariamente (i membri della Fraternità). Quando vi è un Capitolo consultivo, si chiede consiglio, e dopo l’autorità decide liberamente. Un Capitolo deliberativo significa che la decisione presa dalla maggioranza assoluta – la metà più uno, cosa che ci è sembrata ragionevole – tale decisione sarà seguita dalla Fraternità» (Conferenza a Villepreux del 13 ottobre 2012).

Da qui si deducono due cose.
La prima, che l’ultima decisione del Capitolo contempla la possibilità di un accordo sulla base delle condizioni poste dal Capitolo stesso. Ora, questa decisione sembra essere superata dall’omelia dell’11 novembre, e tuttavia essa è là a far da testo di riferimento, così che non meraviglierebbe se la primaria intenzione di giungere ad un accordo, facesse passare in secondo piano quest’ultima decisione “di non cedere in niente, costi quel che costi”.
Tutta questa nostra disamina ha ricordato una serie di dichiarazioni contraddittorie.

La seconda, che in ogni caso verrà convocato un apposito Capitolo deliberativo che deciderà a maggioranza semplice: la metà più uno. Ora, il Capitolo è composto essenzialmente dai Superiori e dai vescovi, e non è peregrino, né specioso, ricordare che i Superiori sono nominati dal Consiglio generale, mentre per i vescovi, come si è visto, possono essere esclusi dal parteciparvi su semplice disposizione del Superiore.
Sembra quindi poco significativa questa cautela teorica dell’ultimo Capitolo. Almeno fino a quando non cambierà la politica interna dell’attuale direzione. Cosa che, ci sembra logico, può verificarsi solo se cambierà la direzione stessa.

Per concludere, possiamo dire che se, grazie a Dio, la ragion d’essere della Fraternità non è cambiata, di certo questa è stata guidata in maniera improvvida e inadeguata, fino al punto che tale ragion d’essere potesse cambiare e con essa potesse svanire la stessa Fraternità.

Come abbiamo detto all’inizio, chi scrive non è membro della Fraternità, che è una congregazione prettamente religiosa, ma un semplice fedele cattolico che, grazie a Dio, gode da anni del ministero dei vescovi e dei sacerdoti della Fraternità, quindi non spetta a noi avanzare richieste o raccomandazioni, e tuttavia ci sembra onesto ed equilibrato offrire dei consigli, proprio alla luce del buon senso del semplice fedele, che, tra l’altro, gode anch’egli della propria grazia di stato.

Per rispondere agevolmente alle domande che ci siamo posti prima, la cosa più logica ci sembra che la Fraternità cambi il proprio organo direttivo, magari per lodevole iniziativa dei suoi stessi componenti, in modo da ripartire per la nuova battaglia, lasciandosi alle spalle tutte le contraddizioni e tutti i dubbi che l’hanno afflitta in questi ultimi anni.

Che il Signore illumini i dirigenti della Fraternità e continui a preservarla dagli errori degli uomini, sempre più drammaticamente possibili in questo nostro mondo così fuorviato e fuorviante.


 
NOTE

CIC 1983, can. 705.  
Religiosus ad episcopatum evectus instituti sui sodalis remanet, sed vi voti oboedientiae uni Romano Pontifici obnoxius est, et obligationibus non adstringitur, quas ipse prudenter iudicet cum sua condicione componi non posse.
Il religioso elevato all’episcopato continua ad essere membro del suo istituto, ma in forza del voto di obbedienza è soggetto solamente al Romano Pontefice e non è vincolato da quegli obblighi che, nella sua prudenza, egli stesso giudichi incompatibili con la propria condizione.

CIC 1917, can. 627.
§ 1. Religiosus, renuntiatus Cardinalis aut Episcopus sive residentialis sive titularis, manet religiosus, particeps privilegiorum suae religionis, votis ceterisque suae professionis obligationibus adstrictus, exceptis iis quas cum sua dignitate ipse prudenter iudicet componi non posse, salvo praescripto can. 628.
§ 2. Eximitur tamen a potestate Superiorum et, vi voti obedientiae, uni Romano Pontifici manet obnoxius.
§ 1. Il religioso, eletto Cardinale o Vescovo, residenziale o titolare, rimane religioso, partecipa dei privilegi della sua religione, è soggetto ai voti e a tutte le altre obbligazioni della sua professione, eccetto quelle che, in base alla sua prudenza, egli stimi come non compatibili con la sua dignità, salvo quanto prescritto dal Can. 628. [il Can. 628 tratta solo il diritto dei beni materiali].
§ 2. Egli è esente comunque dalla potestà dei suoi Superiori e, in forza del suo voto d’obbedienza, rimane sottomesso solo al Romano Pontefice.

novembre 2012

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