COMMENTO AL CARDINALE RAYMOND BURKE


di L. P.





La Direzione di www.unavox.it ci consenta un commento all’intervista, concessa dal Cardinale R. Burke al giornalista Thomas McKenna e riportata su questo sito ( cfr. “A proposito di omosessualità – io devo giudicare gli atti  – Il cardinale Burke smantella “chi sono io per giudicare?”), relativamente alla necessità di denunciare gli atti peccaminosi e, soprattutto, alla frase interrogativa bergogliana riportata in parentesi.
   
Siamo, certamente, d’accordo sul sentimento di compassione che, come afferma il cardinale, il cristiano deve nutrire ed esprimere verso il peccatore, così come siamo d’accordo sulla necessità di promuovere ogni opportuna iniziativa che tenda al riscatto dello stesso. E d’accordo più che mai laddove il porporato afferma che il pavido silenzio con cui la cristianità osserva, inerte, l’avanzata  della campagna omosessualista, porterà alla distruzione della società.
Ma obiettiamo al cardinale la sua dichiarata non-intolleranza verso coloro che si sentono attratti da persone dello stesso sesso perché sarebbe come smentire il Signore che reputa tali affetti odiosi e degni di castighi, come dimostrò con Sodoma e Gomorra. Ma si sa: la conoscenza biblica è, oggi, un accessorio che sbiadisce accanto alla sociologìa mediatica – twitter/facebook – a cui la Gerarchìa fa ricorso per le proprie esternazioni. E strana affermazione, dopo che lo stesso, poco sopra, ha messo in guardia la cattolicità  dal silenzio pavido che rende muta la Chiesa davanti al tristo fenomeno dell’omosessismo.
E ci sentiamo di obiettare allorché, in fine intervista, citando il caso di una signora, madre di una figlia lesbica convivente con altra donna, che si lamenta per la durezza dell’intervento del cardinale, reo di aver definito la giovane “il male”, egli risponde e argomenta che: “No, gli atti che commette tua figlia sono male. Tua figlia non è il male, ma lei necessita di arrivare a comprendere la verità sulla sua situazione”.

E spieghiamo perché.
   
Riaffiora, in questa considerazione, con evidenza malcelata, la distinzione tra errore ed errante resa da Giovanni XXIII. Del che abbiamo ad obiettare dacché la Chiesa, con divina e bimillenaria saggezza, ha sempre ritenuto e precisato l’aspetto del peccato e del peccatore come elementi sì differenziati, ma complementari, interdipendenti e connaturati, tanto da provvedere, in casi di forte necessità e di pericolo per la fede, con lo strumento della scomunica e dell’anatema comminati agli eresiarchi, se non, come nel caso del santo vescovo Ambrogio nei confronti dell’imperatore Teodosio, della pubblica esecrazione.
Ma, con il Concilio Vaticano II, questa saggezza s’è trasformata in ambigua e giulebbosa dottrina con cui s’è fatta netta la separazione dei due aspetti, sicché ne deriva che l’atto, espressione comportamentale individuale della persona, diventa un ente assoluto – ab-solutus – cioè sciolto, tale da essere considerato elemento altro dall’uomo.
    
A latere di questa interpretazione, ricordiamo come il Magistero abbia analogamente, nel clima di una predicata concordia con il mondo, accettato in toto la separazione dei poteri, quello divino e quello umano, sopprimendo la dottrina della subordinazione del secondo al primo giusta sentenza di Gesù: «Tu non avresti nessun potere su di Me, se non ti fosse stato dato dall’alto» (Gv. 19, 11).
   
Dobbiamo essere chiari: l’atto buono, così come l’atto perverso, in tal caso il peccato, non esiste in quanto entità in sé/per sé e sussistente, perché è il prodotto della volontà dell’uomo che decide di peccare, dell’uomo che sceglie di peccare, perché è la connotazione di una condotta negativa e, pertanto, senza volontà umana, senza l’uomo il peccato non esiste così come non esiste il bene. Ė, quindi, uno stato morale che si attua per un atto di libero arbitrio dell’uomo. Non esiste l’ERRORE che vaga per il mondo e che entra nell’uomo, ma c’è un UOMO che erra, che sceglie di violare la legge di Dio. Dire che un atto illecito è male è dire giusto a patto che non lo si consideri come un alcunché slegato dalla persona a cui necessariamente va riferito. In definitiva: non esiste  un atto astratto e non esiste un uomo astratto, ma c’è un uomo concreto che compie un atto concreto e, a seconda della natura di questo, l’uomo produce il bene o il male.

Non è lecito, perciò, scindere la PERSONA dalle proprie opzioni storiche – gli atti - le quali son quelle che lo qualificano eticamente. L’errore, pertanto, è la persona stessa che pecca e che necessita, naturalmente nella prospettiva di fede e di salvezza – e chi lo nega? – di essere redento mediante un percorso di pentimento, di espiazione e di purificazione.

Gesù, morendo in Croce, non ha redento “l’errore”, non ha riscattato un’astrazione ma ha redento e riscattato i peccatori, ha redento l’umanità peccatrice. “Ecce Agnus Dei qui tollit peccata mundi” – Ecco l’Agnello di Dio che si accolla i peccati del mondo. L’evangelista non scrive: “i peccati” ma, come è evidente, “i peccati del mondo”, dell’umanità, dell’uomo, cioè, in quanto persona.

Che l’affermazione di Giovanni XXIII abbia provocato lo sbiadimento della forza della Chiesa e un equivoco teologico, non è nostra convinzione rampollata da pregiudizio, ma lo rileva un eminente teologo, il cardinale Giacomo Biffi il quale così commenta:
« - Bisogna distinguere tra l’errore e l’errante Ė un’altra massima che fa parte dell’eredità morale di Giovanni XXIII e ha anch’essa influenzato il cattolicesimo successivo. Il principio è giustissimo e attinge la sua forza dallo stesso insegnamento evangelico: l’errore non può che essere deprecato, odiato, combattuto dai discepoli di Colui che è le Verità ; mentre l’errante – nella sua inalienabile umanità – è sempre un’immagine viva, pur se incoativa, del Figlio di Dio incarnato; e pertanto va rispettato, amato, aiutato per quel che è possibile.
Io, però, non potevo dimenticare, riflettendo su questa sentenza, che la storica saggezza della Chiesa non ha mai ridotto la condanna dell’errore a una pura ed inefficace astrazione. Il popolo cristiano va messo in guardia e difeso da colui che di fatto semina l’errore, senza che per questi si cessi di cercare il suo vero bene e pur senza giudicare la responsabilità soggettiva di nessuno, che è nota solo a Dio.
Gesù a questo proposito ha dato ai capi della Chiesa una direttiva precisa: colui che scandalizza col suo comportamento e con la sua dottrina, e non si lascia persuadere né dalle ammonizioni personali, né dalla più solenne riprovazione della ecclesìa, “sia per te come un pagano e un pubblicano”(Mt. 18, 17); precedendo e prescrivendo così l’istituto della scomunica” (Giacomo cardinale Biffi: Memorie e digressioni di un italiano cardinale -  Ed. Cantagalli 2007, pag. 179).

Nella frase del cardinale Burke, dove egli distingue tra “l’atto che è male” e la “figlia che non è il male” si fa avanti l’impressione che la donna, rea di concubinaggio omosessuale, sia altra cosa dal suo peccato. Ė vero: ella NON Ė IL MALE, e non abbiamo difficoltà ad evidenziare questa verità in quanto l’uomo, creatura di Dio, non può esserlo, ma dobbiamo affermare che ella Ė NEL MALE, perché, nel momento di persistere nello stato illecito, essa vive nel peccato, è tutt’una col peccato, si nutre del peccato, è permeata dal peccato che, volontariamente, ha voluto commettere, e volontariamente rimanervi, in contrasto con la legge di Dio.
Questa nostra convinzione è avvalorata dall’episodio evangelico, dove, con inaudita severità e drammaticità Gesù si rivolge a Pietro, a colui al quale poco prima ha consegnato le chiavi della Sua Chiesa, con aspre parole: «Lungi da me, satana! Tu mi sei di scandalo perché non pensi secondo  Dio, ma secondo gli uomini!» (Mt. 16, 23). Gesù non distingue tra Pietro e il suo atto ma accomuna questo alla persona che l’ha prodotto e solo in tale interpretazione è possibile accettare la durissima Sua invettiva.

Le forti dosi di tenerume e di misericordia che sostanziano l’attuale Magistero papale, che taluno ha definito vero e proprio dopaggio, e che timidamente si manifestano nella parte finale dell’intervista del cardinale Burke, stanno indebolendo anche l’aspetto penitenziale/espiativo del sacramento della Confessione.
Non a caso il Papa, l’11 maggio 2014, nel rito di ordinazione di  tredici sacerdoti officiato in San Pietro, ha rivolto ai neo consacrati l’esortazione ad essere pietosi con i peccatori: «Provo dolore quando trovo gente che non va più a confessarsi perché è stata bastonata, sgridata: hanno sentito che le porte delle chiese si chiudevano in faccia. Per favore non fate questo: abbiate misericordia, tanta».
Non ci sembra sia stato un insegnamento opportuno perché ci saremmo aspettati che avesse inserito, in questo pistolotto, anche l’accenno seppur minimo alla fase di contrizione e avesse sottolineato il senso di umiliazione che, necessariamente, si configura quando si confessa il peccato.

Ė ciò che il grande Poeta tomista afferma quando scrive:
«Una medesma lingua pria mi morse/sì che mi tinse l’una e l’altra guancia/ e poi la medica mi riporse” (Inf. XXXI, 1/3) e come in altra passo analogamente dice: «Più non si va, se pria non morde/anime sante il foco…» (Purg. XXVII, 10/11) a significare che non v’ha sacramento della Confessione senza l’esposizione dei peccati, senza la vergogna di essi, senza l’umiliazione e senza l’espiazione.
La misericordia non sta nel confortare il penitente per non farlo sentire a disagio, quasi a minimizzarne la colpa, ma essa consiste nel PERDONO che Dio concede tramite il suo ministro, la fase ultima cioè con la quale si riacquista la grazia , subordinata però alla pratica della penitenza, così come conferma ancora il nostro sommo poeta quando riporta le parole dell’angelo portiere a proposito delle due chiavi con cui aprire la porta del Purgatorio:
«Da Pier le tegno, e dìssemi ch’i’ erri/anzi ad aprir che tenerla serrata/pur che la gente a’ piedi mi s’atterri» (Purg. IX, 127/129).
Misericordia sì, larghezza al perdono sì, a patto che il penitente “s’atterri”, si umilî, si batta il petto, si vergogni e proponga di commettere più alcun peccato.

Non vogliamo essere irriverenti, ma con la tirata del pontefice sembra quasi che, a scusarsi del peccato, debba essere il Signore. Vi immaginate san Pio da Pietrelcina, di cui è nota l’austerità di vita e di confessore, sciogliersi in geremìadi mielose con i penitenti? La sua storia, invece, ci dice che dopo aver ricevuto dal santo pizzicotti, schiaffi, frustate, bastonate essi uscivano dal confessionale con una serenità e una pace indescrivibili, il segno, cioè, della grazia riacquistata che ben valeva la sofferenza patita. E non ne condannava solo gli atti in sé, ma rappresentava al peccatore, con parole per lo più aspre e paternamente rudi, il suo pericoloso stato di dannazione dal quale gli si chiedeva di liberarsi. Non condannava solo gli atti ma anche l’uomo che li aveva commessi al quale, da ultimo, porgeva la gioia della riconciliazione.

Ma l’esempio del santo di Pietrelcina è stato oscurato da una pastorale che non usa più spargere il sale sulle ferite dell’anima, preferendo l’utilizzo immediato del balsamo, nel solco di una teologìa morale neoterica e modernista che, imbevuta ed intristita di psicoanalisi, ritiene la pietas e la compassione come unica e sola medicina, così come affermò Giovanni XXIII quando annunciò l’abbandono dello strumento punitivo e correttivo a vantaggio esclusivo della misericordia. Gli errori, in quest’epoca di maturità – disse -si correggono da soli. Ed, infatti, i risultati sono sotto gli occhi di tutti, anche dello stesso papa (Gaudet Mater Ecclesia).

Non stiamo lontani dal vero se ipotizziamo, per un futuro imminente, un rito penitenziale condotto sul filo di un dialogo freudiano in cui, eliminate la responsabilità dell’analizzato e la carità dell’analista, le colpe saranno addebitate alla società o a determinati traumi pregressi, conseguendo, con la cancellazione del senso di colpa e del timor di Dio, una serenità e una pace che, però, si configurerà come stordimento ed autoinganno.
Vietato parlare di peccato, vietato parlare di Satana, essi  non esistono.
La moderna società parla solo di disagio, come se questo non fosse proprio la conseguenza del peccato originale.

Vogliamo riportare, quale esempio di questa tendenza, quanto avvenuto in una parrocchia di nostra conoscenza e di cui fummo testimoni de visu e de auditu.

Una signora, divorziata e convivente con altro uomo e resasi libera, per morte del legittimo marito, desiderando regolarizzare col rito religioso l’illecita sua condizione, chiese al parroco di potersi confessare del pregresso stato peccaminoso. Costui, spirito moderno, di maniche non solo larghe ma senza maniche, uno di quelli che tiene le porte aperte ma incustodite, le rispose, testualmente: «Non ne hai bisogno, il tuo parroco ti conosce. Vai in pace e auguri». Col risultato che non solo non giudicò gli atti peccaminosi ma fece credere alla signora che di essi non doveva sentire  il peso, quasi che, a lei estranei, fossero ammennicoli e sciocchezzuole tali da non necessitarne la confessione. Si trattò, in pratica, di una rottamazione del sacramento della Confessione. La donna, stando all’evidenza di fatti – fatto salvo il giudizio di Dio – si sposò con rito religioso ma col precedente carico non confessato, e il parroco, disattendendo a un suo sommo e primario officio, si rese responsabile di  una mancanza di cui necessaria sarà la resa dei conti al Giudice.

Noi, tornando al cardinal Burke, e concludendo, ci saremmo aspettati che il porporato, ritenuto un “tradizionista”, avesse detto chiaro a quella sua fedele che, certamente, gli atti della figlia, concubina omosessuale, sono il male ma aggiungendo che ella, perciò, era nel male, nel suo male, nel male da lei stessa  prodotto e, quindi, in totale disgrazia di Dio con l’inferno in attesa. Ma tant’è: il virus sottile, vaporoso e dolciastro del Concilio - il timore di procurare tremiti e inquietudini, la ricerca del garbo e del tatto -  s’è infiltrato, lente et sine intermissione, anche in coloro che, fino a ieri sentinelle dell’ortodossìa, hanno deciso, un po’ per stanchezza e un po’ per inconscio ripensamento rivestito di buona fede, immettersi nella cultura “conciliarmente corretta”.

Tutti, così, potranno vantarsi dei proprî peccati nella vulgata che essi, essendo meri atti, non appartengono ad alcuno.

Deus misereatur nostri.



settembre 2014

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