LA LUCE DEL PENSIERO ETERNO DELLA TRADIZIONE

NEL CAOS ATTUALE


LA CHIESA RIBALTATA

di Enrico Maria Radaelli – ed. Gondolin 2014

(parte prima)

alla parte seconda


di L. P.







L’arrivo di un libro – e che libro! – come “LA CHIESA RIBALTATA” di Enrico Maria Radaelli – ed. Gondolin, Verona 2014 – è come la discesa di una biblica manna sull’arido deserto del moderno piattume dogmatico, morale e liturgico, o come una ristoratrice pioggia che abbevera lande e anime da molto tempo secche e calcinate, o come un ciclone – perché no? – che scuote gli infingardi, torpidi e sonnolenti ambienti curiali e cattoliberali, un ciclone che, per quanto fatto oggetto di indifferenza dalla ufficiale “meteorologìa” ecclesiale, romba, risuona e “fier la selva, e sanza alcun rattento/li rami schianta, abbatte e porta fori” (Inf. IX, 69/70), quei rami sterposi che lo stesso Vate identificò nell’eresìa (Par. XII, 99) e che oggi, peggio che la zizzania, hanno invaso financo i giardini della Sposa di Cristo.
   
Questo libro è l’ultimo frutto del lucido intelletto di Radaelli, colui che vien definito l’allievo/erede di Romano Amerio ma che sarebbe bene considerare, oramai, come autonomo studioso, padrone di pensiero, di cultura e di stile personali al quale van tributati il giusto omaggio e la giusta attenzione.
Ė un libro che si propone di forte, limpida ed incisiva cifra critico/apologetica, che sviluppa, in perfetta coerenza diremmo tomista, i due precedenti lavori: “INGRESSO ALLA BELLEZZA – Ed. Fede e Cultura A. D. MMX” e il recente “ IL DOMANI – terribile o radioso – DEL DOGMA – Domus Aurea A. D. MMXIII”,  fondendone gli assunti, i significati e le deduzioni dacché, per Radaelli, critica ed apologetica non sono due momenti in successione temporale o logica ma sono temi interconnessi in atto, compresenti, complementari e consustanziati talché, nella critica rispettosa, ma rigorosa, mossa alla semantica  pastorale bergogliana, egli contestualmente parla con l’apologetica fornendo, così, al lettore, la giustificazione dell’assunto critico.
   
Un libro tutto in attacco che sollecita noi tradizionisti a spingere il Papa a provare a dogmatizzare le sue novità, se a queste tanto ci tiene (300-3). Se le sue stramberie sono in ordine alla Verità, ci riuscirà, perché il dogma esprime solo verità infallibili e saremo tutti rasserenati, se non ci riuscirà, ringrazierà lui per primo Dio – e noi con lui – di non aver fatto cadere in errore lui e con lui tutta la Chiesa.
E poi: un libro che è, al momento, l’unico che parli della situazione attuale della Chiesa vista da una prospettiva ortodossa. Infatti, anche il libro di Ferrara-Gnocchi-Palmaro, a parte la presenza dell’eterodosso direttore de Il Foglio, è centrato sul Papa ma non si allarga, come invece si distende, questo di Radaelli, sulla Chiesa così ampiamente  e a tutto campo.
   
La ben rifinita prefazione di Mons. Antonio Livi anticipa e lumeggia la concettualità che ferve e vive nelle pagine di quest’opera. Il lettore si avvedrà come lo svolgersi degli argomenti segua una lucida, lineare e mai debordante logica, in pretto stile tomistico, con lo strumento di una sintassi  perfetta e di una discorsività instrutta e confezionata secondo un ductus simplex di espressivo, alto stile con cui il consilium coincide con il thema. Sicché il quadro, di cui daremo ragione nel prosieguo della nostra nota, presenta un percorso coerente e semplice su cui al lettore sarà quanto mai agevole camminare.
   
E perciò non fa testo, per carità, il pigolìo, quel “flatus vocis” con cui A. Socci – e lo citiamo come esempio di quella superficialità manichea che colpisce anche gli ingegni o supposti tali -  scrittore e giornalista in forza CL, sanguigno, e perciò irrazionale, definisce l’opera del nostro come “prolissa e contraddittoria” nella nota di pag. 261 del suo “NON Ė FRANCESCO”, libro/inchiesta in cui propone come illegittima l’elezione di papa Bergoglio, non avvertendo, però, come egli introduca le sue 283 pagine di analisi a colpi di Diritto Canonico legittimando la sua ricognizione su un iniziale SE ipotetico.  Quel SE che, nelle pagine successive, da ipotesi, mercé uno scaltro capovolgimento assiologico, diventa tèsi, e pertanto, più che contraddittorietà, dovremmo definire siffatto metodo, e l’intero libro, una scorrettezza. Il che è più grave.
  
Radaelli non esordisce con un SE, ma il suo lungo ragionamento critico si attesta con presa tenace e perspicua acribìa, su documenti papali, come l’enciclica “quadrimaneLUMEN FIDEI, e l’esortazione apostolica EVANGELII GAUDIUM, da cui  distende, ai fini di un’apologìa della Tradizione, l’indagine estetico/semantica sulla deviata teologìa, sul Concilio pastorale, sul desacralizzato Novus Ordo Missae, su forma e  linguaggio del magistero di papa Francesco quale appare nelle omelìe martane o negli eventi di risonanza mediatica, citando a proposito le interviste all’ateo Eugenio Scalfari o a Civiltà  Cattolica, e con l’epilogo di forte contenuto e di alta esegesi sulla figura del “Katéchon” così come si legge nella pericope paolina di  II Tess. 2, 6/7. E tutto ciò mantenendo, per ogni pagina, come  centro del percorso, il Dogma quale indefettibile, stabile  parametro di valutazione e di confronto.
   
Per chi è pratico di semantica si sa che un’indagine sul linguaggio, sulle forme espressive o sul lessico non è mero catalogo di luoghi retorici o di peculiarità sintattico/grammaticali ma intervento e studio filosofico su una delle più alte connotazioni umane: la parola, misterioso meccanismo di livello metafisico, che rende manifesto e intelligibile, mercé l’adozione formale del synbolon -  il suono e la lettera -  il pensiero nelle sue profondità concettuali e le coordinate della personalità; Parola che Radaelli fa risalire e riassumere al divino LOGOS di cui il Dogma è esso stesso espressione e natura.
E quale parola, se non quella del pontefice romano, può assurgere ad espressione di importante significazione, degna di vigile attenzione, tanto nelle manifestazioni straordinarie quanto in quelle ordinarie ed estemporanee?
Il volume, s’è detto, riporta l’analisi, estesa e puntuale, sulla cultura conciliare che, in modo innegabilmente spettacolare e pervasivo, coagula, residua e conclude nella pastorale del “diversamente papa” Bergoglio.
   
L’autore formula le proprie riflessioni e ne verifica l’ortodossìa alla luce della Tradizione e del Dogma di cui, con copia di prove documentali, rileva una lenta e perversa opera di dislocazione e di attenuazione condotta dal magistero in questi 50 anni di postconcilio.
   
Il volume – confezionato tipograficamente secondo i canoni della Bellezza quale viene espressa nella misteriosa “sezione aurea” – si snoda, dopo le XXI prefatorie di Mons. Antonio Livi, per 303 pagine, tutte indissolubilmente legate da un vincolo di successione coerente e tutte marcate da densi e preziosi contenuti tali da costringere la nostra lettura a continue soste, sottolineature, chiose e commenti a margine e ad appunti più estesi. Un lavoro di raccolta e di scavo agevolato da una prosa limpida, lessicalmente nobile, aristocratica epperò chiarissima, ma, soprattutto, da un criterio compositivo di ascendenza tomista.
   
Cinque sono le parti che, per necessità didattica, scandiscono l’unitarietà  del discorso, così rappresentate:
1) Il Magistero di Papa Francesco (13 - 56); 
2) Filosofìa e teologìa estetica della “Lumen Fidei (57 – 132);
3) Se lex minus credendi, allora lex minus orandi (133 – 164);
4) I primi nove mesi di Magistero di Papa Francesco (165 – 253);
5) Alcune considerazioni finali e conclusione (254 – 303).
La contenuta misura delle carte, ordite per questa nostra ricognizione, ci interdice la possibilità e la volontà di tratteggiare dovutamente, congruamente e ad alto rilievo l’intero tessuto degli argomenti posti nelle rispettive parti.
Ne tenteremo alcuni esempî sperando di offrire ai lettori la dimensione e la qualità di quanto Radaelli abbia prodotto, in termini di analisi e di commento e  col ricorso al sempre valido ed ineliminabile principio di non contraddizione, acciò che, fornita la chiave di lettura, si desti opportuno stimolo di approfondimento per chi volesse tenerne piena contezza.
  
A -  Nella prima parte, l’autore compie un periplo investigativo della formalità e dell’intenzionalità caratterizzanti la comunicazione di papa Bergoglio configurata ed incasellata in quella che Radaelli chiama “Mediasfera “ o “Semiosfera”, dimensione mediatica moderna ove virtualità e concretezza convivono fino a fondersi e rimescolarsi ed ove il messaggio subisce ribaltamenti  non tanto del simbolo ma, quel che è più nocivo e deleterio, del segno. Nel famoso, mieloso, estraneo e nefasto “buonasera” con cui Francesco salutò la cattolicità ad elezione papale appena ottenuta, e che l’autore definisce esordio congruo più a un “pontificato laico” (29) che al magistero del Vicario di Cristo, si scorge il lento formarsi di un “anti-Corpo mistico” da cui si diparte una vera e reale guerra alla Forma divina del Logos (18).
   
Nell’adozione di un linguaggio convenzionale semanticamente ribassato e solo intraneo a un mero galateo, ricco “di bonomìa e placidità: due facce più patologicamente false dell’amore quando l’amore è deprivato della verità” (44), e perciò alieno dalla sfera di un’ontologìa sacra che tutta e sempre circonda ogni gesto ed ogni parola del pontefice, è evidente un riduzionismo metafisico “etsi Deus non daretur” - il Dio “non cattolico” che Bergoglio illustrò allo Scalfari (43) - per il quale la realtà divina della Chiesa, nelle proiezioni teologiche, morali e liturgiche, viene ridimensionata a istituzione umana, ente pastorale e caritativo e, con essa, la stessa ieraticità della persona del Papa – vicario di Cristo, successore di Pietro – muta e declassa, con precisa consapevolezza, in una funzione semplicemente giurisdizionale di “Vescovo di Roma”.
   
Lo stesso chiamarsi “Francesco” o, come scrive Radaelli, un “già ben definito «diversamente Francesco» fa intendere che si atterrà “fedelmente non tanto all’originale, ma alla sua interpretazione di tale originale” (38) del che – chiosa nostra – è prova la visibilissima povertà quale si vuole dimostrare con il risiedere nell’ostello di Santa Marta, con la comune borsa nera, con le scarpe dai lacci ciondoloni o con l’utilitaria di media cilindrata.
   
Considerata la “forma pastorale” quale abuso prevaricante la forma dogmatica,  l’autore si domanda se essa non costituisca pericoloso precedente che, immesso nelle vie della semiosfera ove riceverebbe accoglienza e approvazione, diverrebbe regola e prassi. E per dimostrare quanto di consapevolezza e volontarietà ci sia in siffatto proposito – che noi definiamo eversivo -  Radaelli, per concludere la prima parte, descrive la strategìa che “delinea l’obiettivo del magistero di papa Francesco” (49). Parafrasando il detto di Marshall Mc Luhan “il mezzo è il messaggio”, che vuol dire: il gesto vale più della parola, Bergoglio attua, la sua rivoluzione, secondo le seguenti operazioni:
1Condotta (apparentemente) francescana;
2Serrata velocità infracomunicazionale;
3Bonomìa ingenua e contadina;
- Sistematico spiazzamento dell’interlocutore;
- Programmata intenzionalità innovativa.
   
Ė questo, scrive Radaelli, lo stile Bergoglio che, raccolti tutti i valori semantici diffusi dalle cinque componenti, tende a realizzare, “con umiltà ed orgoglio” – come ebbe a confessare allo Scalfari -  due disegni non ancora avviati:
grandiosa, felice e totale riforma della Chiesa;
conclusione e fedele attuazione del Concilio Vaticano II. (59).
Lasciamo al lettore l’esame di questi due ultimi aspetti con cui l’autore mette a nudo il disegno eversivo, tessuto dagli uomini della stessa Katholika ma nascosto da mere, verbali attestazioni a pro dell’ortodossìa.

B – In questa sezione l’autore entra nello specifico esame del linguaggio del “diversamente papa”, con l’analizzare la filosofìa e la teologìa estetica dell’enciclica “Lumen Fidei”. Intanto si domanda “quanti saranno, del più di un miliardo e duecento milioni di cosiddetti fedeli… coloro che si impegnarono a leggere i 4 capitoli, ossia i 59 paragrafi… della prima lettera enciclica di papa Jorge Mario Bergoglio – Francesco” (57).
Un’enciclica scritta a quattro mani che porta verso la de-dogmatizzazione (58) del corpus dottrinario cattolico laddove, come sottolinea l’autore, evidente appare nell’abbandono del solenne NOI a favore di un io. Un gesto inaudito e rivoluzionario su cui Radaelli, in otto pagine dense di vis apologetica, dimostra come non tràttasi di mero gioco grammaticale ma del ribaltamento assiologico di un profondo significato collegato e consustanziale a Cristo.
Vale leggere la parte iniziale di questo affondo che così dice:
Il plurale majestatis, va ricordato, è quella figura retorica introdotta nella prassi del governo ecclesiastico nel IV secolo da quell’accorto Pastore che fu Papa Damaso I (366-384), attraverso la quale il Sommo Pontefice ricorda (a se stesso, oltre che all’universo di fedeli cui si rivolge) che la propria locuzione di Dottore della Chiesa universale non germina unicamente dal proprio cuore, ma lo fa in unione intenzionale con il Dottore e Maestro soprannaturale della Chiesa, il Signore nostro GESU’ Cristo, di cui egli è per sua grazia Vicario, così da dover necessariamente pronunciare un ‘Noi’ che raccoglie misticamente, cioè realmente pur se non fisicamente, due io: l’io proprio e l’io di Cristo, cioè di Dio. Non solo: ma rappresentando ed essendo la propria vicarietà in continuità temporale ininterrotta, tale da garantire la continuità di insegnamento veritativo come fosse un solo e unico insegnamento malgrado la sua estensione nei secoli e nei millenni, la sua locuzione ha per soggetto un ‘Noi’ che raccoglie, oltre l’io di Cristo e l’io proprio, anche gli ‘io’ di tutti i papi che quel singolo io hanno preceduto e seguiranno, così da raccogliere la somma Autorità dei cento e cento Papi in un solo ‘Noi’ puntiforme, che fa e che dà unità di voce all’universo intero in unione al suo Creatore” (61).
   
Il lettore comprende come, dopo l’abbandono della sedia gestatoria, della tiara, dopo l’abolizione del S. Uffizio (vanto del perito conciliare J. Ratzinger ! – nostra nota), del Vetus Ordo Missae, dopo il passaggio dalla benedizione trinitaria “In nomine Patris…” all’insipido “buonasera”, l’abbandono del NOI  è ulteriore segno della caduta verticale di un magistero ridottosi alla stregua di una cattedra qualsiasi  pennellata di avvilente spirito “democratico”.
   
E, infatti, subito dopo l’autore tocca un tasto estremamente delicato: quello della libertà religiosa per la quale, assunta la coscienza individuale a giudice unico e assoluto, si può liberamente, senza scrupolo alcuno, cambiare religione, pur anco quella unica, vera di Cristo. E, a questo punto, Radaelli si domanda se questa sia la tanto decantata “ermeneutica della continuità” di Benedetto XVI, coautore dell’enciclica (70).
Dal documento conciliare, che ha sancito la libertà personale quale intoccabile ed  esclusivo potere umano, attraverso le varie fasi dei precedenti pontefici, si è arrivati all’adozione, sancita e sottoscritta, di un io gretto e individuale che Bergoglio ha imposto col rimuovere il noi  solenne ed universale.
   
Radaelli ha buon gioco a dimostrare – Decalogo alla mano – quanto questa idolatrata giacobina libertà di coscienza, in opposizione alla legge di Dio (72), sia diventata lo stendardo dei movimenti del tipo CL per i quali la fede plana nel sentimentalismo edulcorato dell’esperienza “con l’apporto decisivo della teologìa immanentista che si diceva di Rahner e di De  Lubac cui vanno aggiunti Maritain e Péguy” (84).  
Nell’enciclica, il linguaggio porta in auge la teologìa della visione scardinando ab imis la conoscenza per fede col perseguire lo scopo di “trasformare l’uomo e non di convertirlo” (95), cosa che papa Bergoglio si è fatto premura di ribadire all’ateo Scalfari (95).
   
Questa seconda parte è assai estesa (57-132) onde siamo obbligati a tralasciare molti punti che, in una circostanza più larga di spazio e di tempo, avremmo avuto agio di lumeggiare. Diamo, perciò, conto di alcuni per passare, poi, alla terza sezione.
   
Notevole il commento sull’ovile cattolico, lasciato incustodito  non per distratta incuria quanto per volontaria decisione di uccidere il cane pastore – il Dogma (101) - avendo scientemente aperto le porte del sacro recinto ai lupi liberali ovvero ai suggerimenti del mondo che hanno convinto la Gerarchìa, il Papa, a mettersi, finalmente, nel flusso della mondanità onde dimostrarsi ed ostentarsi come Chiesa spalancata ed attenta alle esigenze e ai diritti dell’uomo, come realtà calata nell’immanenza storicistica  hegeliana ed  aliena da qualsiasi connotazione metafisica. 
   
I pifferi e i canti, che suonano un duetto d’amore tra il diletto (il mondo) e l’amata (la Chiesa) hanno trovato, a detta di Radaelli, il proprio trionfo nella vertigine discotecara di Copacabana, in quel di Rio, nei giorni della GMG, luglio 2013.  Lì si è evaporato il dogma e si è avuta notizia certa della sua morte  mentre intorno rombava un’atmosfera bacchica di musiche sincopate, stregate al cui ritmo ballava ed ondeggiava la schiera di  giovani e senescenti chierici “novatori” (107).
   
Il modulo pastorale, che sta imbastardendo la cattolicità, si radica su una pretesa “bonomìa” peraltro già marcata da Giovanni XXIII e sfociata, con la “Gaudet Mater”, nella rovinosa rinuncia alle “armi del rigore” (117), rinuncia che si profilò nel carattere e nella cultura del futuro Pontefice quando, nel 1903 giovane chierico, rifiutò l’invito a rendere visita allo scrittore A. Fogazzaro – tenuto in puzzo di eresìa modernista – “per non compromettere la carriera” (116). Una preoccupazione non proprio pastorale o indiziaria di quella santità che gli sarebbe voluta riconoscere, e un’occasione persa per tentare un’opera di conversione…
  
Questa seconda parte conclude con l’esame lucido e argomentato del nebbioso pensiero di Benedetto XVI e della “sua” partecipata enciclica Lumen Fidei in cui di tutto si parla ma non di questa virtù teologale, né di Logos, né di dogma, né di Inferno, né di peccato, né di Paradiso, ma si fa puro sfoggio di tematiche antropologiche e di dottrina orizzontale (123). Un ingannare il “popolo di Dio” ben sapendo, gli scaltri pastori, che “Quandoquidem populus vult decipi… decipiatur” – dal momento che il popolo vuol essere ingannato, lo sia. Opportuna riflessione che - si noti  l’astuzia della storia -  pare sia stata coniata dal napoletano cardinal Carlo Carafa.

C – Ė questa la sezione più breve ma non meno densa di approfondimenti ove l’autore, con attenta visione del tema, svolge l’esame critico, esaltandone contemporaneamente la controaffermazione apologetica, della supposta equazione “Se lex minus credendi” allora anche “lex minus orandi”, un’ipotesi che rampolla dal precedente scavo condotto:
1) sull’essenza della fede descritta da Ratzinger/Bergoglio per come appare nella comune enciclica Lumen Fidei;
2) sull’avvitamento de-dogmatico in azione da 50 anni di gestione pastorale deprivata, con il Novus Ordo Missae di Paolo VI, dell’ossatura dogmatica. “Ci si aspettava che da una lettera enciclica sulla fede emergesse potente questo legame quasi trinitario (guidata essendo la fede dalla Ratio del Logos, l’adorazione lo è dall’effluvio di Caritas dello Spirito Santo), ma non ve n’è cenno” (133).
   
Chiaro è che, posti tali termini, l’autore non può non concludere sull’esistenza in atto di un reale moto de-adorativo che porta fatalmente a una desacralizzazione della stessa liturgìa e, soprattutto, a una generale tiepidezza, se non freddezza, della coscienza dei fedeli.
A dimostrazione di quanto Radaelli afferma, egli opera una ricognizione critica proprio sul Novus Ordo Missae, punto focale e fomite del processo di  De-Adorazione  che l’autore spiega in ben 14 pagine provando come la cosiddetta “riforma liturgica” abbia risentito nell’intimo l’eco e la parentela a quella luterana, una “de-forma” scaturita dall’impasto della filosofia dell’immanenza antropologica di Rahner, di De Lubac, di Maritain  con la deviata teologìa anglicana.
Con siffatta operazione, la gerarchìa ha, in pratica, messo in un cantone la Trinità Divina, con un’operazione che Amerio e Radaelli chiamano “dislocazione della Divina Monotriade”, con conseguente abbandono dell’atto adorativo.
Dall’intenso, terso e lineare esame condotto su questo argomento eminente, si comprende la vastità del disastro che ne è seguito perché papa Montini, sovvertendo l’ordine proprio, ha posto la carità quale principio e la fede quale fine. Posta la fede come fine va da sé che l’intero rapporto uomo/Dio si fonderà sul sentimentalismo e non più sull’atto conoscitivo dell’intelletto – credo ut intelligam, intelligo ut credam” o la tomistica “eadem via quae ascendit et descendit” - sicché da questa sovversiva dottrina scaturisce quella freddezza e quella tiepidezza che caratterizza l’attuale liturgìa ove né il sacerdote, né il fedele ritengono di inginocchiarsi davanti al Mistero dell’Altare.
A conferma di ciò, noi, per esperienza personale, aggiungiamo che ogniqualvolta ci occorre di intervenire rimproverando taluni fedeli di questo atteggiamento irrispettoso, ci sentiamo rispondere, quasi come un mantra: “L’importante è avere Dio nel cuore”.
Ecco: la carità, ossia il sentimento giulebboso cardioneurovegetativo da cui nasce la Fede.
   
Noi non possiamo che concordare con l’autore: la Santa Messa, Sacrificio della Croce rinnovato sull’altare, è diventato banchetto, sinassi cioè assemblea, dove tutti, compreso il celebrante – scusate -  il presidente, sono amici convenuti per un incontro conviviale dove, appunto, si inizia con un “buongiorno, fratelli e sorelle”, ci si stringe la mano, si accede alla mensa e si termina con “buona giornata e buon pranzo”.
Ecco così dimostrata l’equazione che Radaelli aveva impostato all’inizio di questa sezione: legge del credere meno, uguale legge del pregare e dell’adorare meno. Noi rincariamo:  per niente.
   
L’autore, a questo punto, si incarica di indicare, nel Summorum Pontificum dell’ex Benedetto XVI una qual certa persistenza dell’eterna Tradizione che, purtroppo, come dimostra la recente vessatoria vicenda dei Frati Francescani dell’Immacolata custodi del Vetus Ordo, è stata cancellata da papa Bergoglio, colui che pubblicamente si esibisce in  ampie e solenni affermazioni di misericordia e di pietas, di attestazioni di stima e di affetto per il predecessore papa-emerito, ma che, nel segreto degli atti curiali, ne vìola e ne smentisce sprezzante il magistero mediante l’azione persecutoria condotta contro il predetto Ordine.
Nessun documento – afferma il grande liturgista Gamber, citato qui da Radaelli – neanche il CDC, dice espressamente che il papa, in quanto Supremo Pastore della Chiesa, ha il diritto di abolire il Rito tradizionale. Nemmeno si parla in alcun luogo di un suo diritto di modificare abitudini liturgiche” (147).
  
Che cosa è possibile fare onde arginare il collasso della fede e ripristinare la corretta gerarchìa Fede - Carità?
Radaelli afferma che “nella Chiesa, se a Dio (alla realtà) non obbediscono i superiori, debbono obbedirgli almeno gli inferiori”.
A sostegno di questo pronunciamento, l’autore porta due testimonianze inconfutabili:
1 – “Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (At. 5, 29);
2 -  pertanto “non si deve obbedire al superiore contro il precetto di Dio” – perché se così non facesse “peccherebbe sia lui, che chi gli obbedisse” (S. Th. II-II, q 33, a 7 ad 5um) -  (158).
La Messa, secondo il NOM è stato qualcosa di davvero abnorme, altro che ‘pericolo per la fede’, difatti lo vedi pure tu, caro papa, come la Chiesa si stia liquefacendo, altro che ‘ospedale da campo’: checché ne dica il beato Roncalli con la sua ingiusta invettiva contro i ‘profeti di sventura’, se la Chiesa oggi non è ancora una Hiroshima, poco ci manca” (163).

- continua -


ottobre 2014

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