Mons. Brunero Gherardini

Il Vaticano II
Alle radici di un equivoco

Dopo aver pubblicato diversi saggi relativi alla problematica sempre più articolata intorno alla portata del concilio Vaticano II e alla interpretazione dei documenti da questo prodotti, Mons. Gherardini si vede costretto ad abbandonare il suo distacco dall'agone polemico che è seguito alla pubblicazione dei suoi due titoli più “politicamente scorretti”, secondo la pubblicistica cattolica conformista.
Dopo Il Concilio Vaticano II. Un discorso da fare (2009) e Il Concilio Vaticano II. Il discorso mancato (2011), l'Autore, noto teologo della “Scuola romana”, è diventato oggetto di attacchi concentrici da parte di tutti i moderni cattolici convinti che il concilio Vaticano II debba essere considerato come la nuova e più avanzata versione dell'insegnamento della Chiesa: una sorta di “Quinto Vangelo”, per parafrasare un vecchio titolo del Card. Giacomo Biffi.
Evidentemente la misura era colma e, come dice Mons. Gherardini, a tutto c'è un limite. Una risposta polemica e piccata? No, una messa a punto che inevitabilmente, con lo stile chiaro che contraddistingue l'Autore, finisce col dare unicuique suum.

Mons. Brunero Gherardini, Concilio Vaticano II. Alle radici di un equivoco, Ed. Lindau, Torino, 2012, formato 14 x 21, pp. 412, €  26,00





Il libro, reperibile nelle librerie cattoliche,
può essere richiesto direttamente alla casa editrice:
Lindau s.r.l.
Corso Re Umberto 37 - 10128 Torino
tel. +39 011 517.53.24
fax +39 011 669.39.29
pagina per ordinazioni




Per  rendersi conto del tenore del libro, pubblichiamo
il prologo, scritto dall'Autore





Questo libro non è come gli altri. Come nessuno degli altri. È, a suo modo, polemico, mentre in ognuno degli altri la polemica – intendo quella personale – fu quasi sempre assente. A chi mi criticava o non rispondevo o, se proprio necessaria, mi limitavo a qualche indiretta rettifica, perché fosse chiaro che il mio interesse si fermava alle idee e non alle persone che le sostenevano. Ho fatto, quando ne vedevo la ragione, qualche mess’a punto in tal senso: o in merito alla teologia di Karl Barth, o nell’ambito della Lutherforschung, o relativamente a non poche questioni ecclesiologiche insorte dai documenti conciliari e dalla loro interpretazione. In rari
casi, quasi tutti relativi a questo terzo settore, qualcuno vide in me un inguaribile assertore d’un’ecclesiologia sorpassata. Uno di essi, riferendosi al rinnovamento ecclesiologico avviato dal Vaticano II, mi relegò nell’ambito del «Vecchio Testamento» con l’evidente intenzione di darmi dell’anticonciliare. Fedele alla mia consegna, sulle persone mantenni il mio silenzio, lasciando alle mie pubblicazioni il compito di rispondere: alludo alle varie edizioni de L’Arca dell’Alleanza, a La Chiesa è sacramento, La Chiesa oggi e sempre, La Chiesa santa o peccatrice?, La Chiesa mistero e servizio, e ad altre ancora, con le quali, senza contestare formalmente e direttamente il magistero conciliare, tentavo – oggi devo dire un po’ ingenuamente – d’allinearlo con quello della Tradizione. Siccome non c’è più sordo di chi non vuol ascoltare, i miei oppositori han continuato a dipingermi lancia in resta contro il Vaticano II ed a far pesare il loro giudizio. Ultimamente, non si son tirati indietro neanche dinanzi alla calunnia ed alla denigrazione.
A tutto c’è un limite: quello della verità e della decenza, supposto che per qualcuno sia un lusso quello della carità. E sulla base della verità e della decenza, mai allontanando lo sguardo dalle questioni di metodo e di contenuto, è nata la presente pubblicazione. È tutta, anche là dove tale non sembra, una contrapposizione: fondamentalmente una contrapposizione d’idee e qualche volta, in forma almeno sottintesa, anche personale. Non sempre indico con nome e cognome gli autori cui mi contrappongo; preferisco soffermarmi sulle strade divergenti più che sulle persone che le percorrono. Anche quando l’accusa raggiunge una’incandescente indecenza e alla sua scottatura non è possibile – e forse nemmeno giusto – far finta di niente, parlo solo attraverso eloquenti reticenze. E tiro avanti in sant’indifferenza. In rarissimi casi, quando il solo accenno al tizzone incandescente non prospetta in controluce il nome di chi con esso mi colpisce, mi trovo costretto mio malgrado a metterlo allo scoperto.
Questo libro, pertanto, non avrebbe mai visto la luce se non vi fossi stato tirato per i capelli. Sul Vaticano II, in verità, avevo già scritto non tutto in assoluto, ma quant’avevo da scrivere, perché risonasse com’efficace richiamo ad un atteggiamento meno superficiale e più criticamente attento a tutt’i documenti conciliari, nonché alle dichiarazioni che li contornano. Risvegliando l’attenzione critica dei pastori e degli studiosi, speravo di provocar un dibattito serio e coerente. Il dibattito, anche se non di vertice ed ufficiale (1)  ma più modesto, a livelli personali e di gruppo, esplose. Ero pago. Avevo ottenuto, tutto sommato, non poco di quant’avevo sollecitato.
Poi, improvvisamente, mi sentii davvero tirare per i capelli. Abdicando alla sua proverbiale seriosità e dando voce ad effervescenze da trivio, il quotidiano «ufficioso» della Santa Sede, in data 15 aprile 2011, dedicò l’intera pagina 5 al mio Concilio Vaticano II. Il discorso mancato. Non mi si rivolgeva un complimento: era una mannaia che s’abbatteva sul mio collo. Mi si rimproverava di tutto: «Accuse non fondate e non condivisibili», mancata distinzione tra il dettato conciliare e «gli sconsiderati arbitri del postconcilio», falsa interpretazione del movimento liturgico, in un quadro di «tesi preconcette ed inaccettabili».
Distribuirò la risposta nel corso del presente scritto. Desidero, tuttavia, osservare fin d’ora che «tesi» si dice d’un argomento da svolgere e da dimostrare. Poiché son solito – né mi sono smentito ne Il discorso mancato – svolger e dimostrar ogni mio assunto con tanto di nomi cognomi citazioni e diretti richiami, ne discende che non di «tesi» ho parlato, e neanche di preconcetti, ma di dati di fatto. Questi, e non la loro presentazione sulla base del necessario apparato critico con documentazione perfino dei punti e delle virgole, potran considerarsi inaccettabili, tutte le volte che se ne dimostri l’infondatezza formale e sostanziale, nonché la discontinuità rispetto alla Tradizione ecclesiale. In tal caso bisogna darne la prova; la semplice accusa non basta. Non so se testatina, titolo e sottotitolo sian redazionali o no. Ma confluendo essi nella gratuita accusa di «ricostruzione infelice» con lo scopo di «denigrare», ricordo anzitutto che questo verbo significa «annerire, offuscare, ottenebrare» per esempio la realtà delle cose, o la fama di qualcuno, donde il significato corrente di «diffamare». Poiché, in ossequio ad un principio morale che coincide con la carità cristiana, son assolutamente alieno dal diffamare e mi vergognerei se non seguissi un tale principio; e poiché oggettivamente i dati di fatto non diffamano, l’accusa a dir poco è incauta. Tanto incauta da qualificare storicamente infondato il mio accenno alle devianze del movimento liturgico e da definirmi «sicuro che dopo la Sacrosanctum Concilium lo Spirito Santo abbia sonnecchiato o sia andato in ferie». Sulle devianze ho le spalle coperte da fior di storici della Chiesa, pur bastando un solo nome come quello d’E. Iserloh (2); anzi, son coperto dallo stesso Pio XII, che per ovviar a tali devianze scrisse e promulgò nel 1947 l’enciclica Mediator Dei (3) . Quanto alla semiblasfema allusione ai sonni o alle divagazioni dello Spirito Santo, grazie a Dio non è farina del mio sacco. E nemmeno lo è la polemica che scaraventa alla cieca accuse tanto gravi quanto gratuite, né il cicaleccio delle famose Merry Women of Windsor: questione di gusti e di qualcos’altro.
Nel «qualcos’altro», latitante essendo ormai la carità cristiana, dovrebbe primeggiare l’onestà intellettuale di chi, leggendo i discorsi programmatici di papa Roncalli e suoi successori, non può non avervi colto la svolta antropologica, ovviamente in salsa pastorale, ivi chiara come il sole. Quando R. Amerio richiamò l’attenzione su di essa, contro di lui si decretò la politica del silenzio. Non s’ebbe il coraggio di far altrettanto con C. Fabro – pervenuto alle medesime conclusioni – in ossequio, forse, alle dimensioni internazionali della sua persona. Ma né con l’uno né con l’altro si trascese mai fin alla soglia, ed oltre, della villania. Oggi però, a me che ripropongo la stessa attenzione alla svolta antropologica del Vaticano II, si può tranquillamente rivolgere l’accusa di falso e preconcetto e denigratore e diffusore di «vistose aberrazioni». Mi domando se si conosca davvero il valore delle parole. E di quelle offensive, in particolare. E se, qualora il valore delle parole sia noto, non ne scaturisca l’imprescindibile dovere morale della ritrattazione e della riparazione, proprio così com’insegnava la teologia sorpassata, quella che, come la mia, a certe parole collega il peccato «ex genere suo» e l’obbligo di ritrattare rettificare e riparare.
È vero, e son il primo a riconoscerlo, che ho osato metter sott’esame il Vaticano II, avendone rilevato ambiguità di linguaggio e di contenuto – professione di fede soprannaturale e decisa sterzata antropologica, adesione alla Tradizione di sempre e suo naufragio nel mare magnum delle note innovazioni – ma nessuno può fondatamente accusarmi d’aver dipinto un Concilio «schizofrenico che pensa una cosa e ne fa un’altra». La fragilità sul piano storico, come le osservazioni sul movimento liturgico dimostrano, è grave; ma la fragilità sul piano logico è fonte d’un discredito maggiore. Ne consegue che se avessi qualificato il Concilio di «schizofrenia » (4), l’avrei destituito di quelle responsabilità che tutt’il mio discorso invece gli rimprovera: la «schizofrenia» è infatti una psicosi che ottunde il libero arbitrio. Pertanto, qualunque cosa si voglia o si possa rimproverar al Vaticano II, d’una cosa sola non potrà mai esser accusato: di «schizofrenia».
Se poi avessi rinfacciato al Concilio la superficialità d’un «gioco da ragazzi», pur avendo osservato ch’è proprio un «gioco da ragazzi» il trarre le conseguenze da determinate premesse, ne avrei ancor una volta ed almeno in parte attenuato le responsabilità. Insomma, sarei stato un illogico, esattamente com’è chi nemmeno scorge certe connessioni tra premesse e conseguenze.
Che oggi le parole sian costantemente violentate trova conferma nell’ultimo attacco dell’incauta illogica e pretestuosa accusa cui sto riferendomi: in essa si definisce «attorcigliata ed infelice» la mia ricostruzione dei fatti. «Attorcigliare» è parente prossimo del latino tortilis, cioè «ritorto». Questo – anche per chi non abbia risciacquato i panni in Arno – è il participio passato di «ritorcere», usabile anche come aggettivo e come aggettivo sostantivato. Da «ritorcere» deriva «ritorsione», ch’è rimettere un’accusa all’autore di essa. Nella mia Prato «ritorto » è il filo di lana o di cotone, ormai pronto per la tessitura. Non riesco a vedere in che senso possa esser «attorcigliata» la mia ricostruzione. Forse perché scritta male? Qualcuno dice esattamente il contrario. Ma da chi violenta abitualmente le parole non c’è da aspettarsi molto di meglio. Ne ebbi già la riprova nel 1983, in occasione del XX Congresso Eucaristico Nazionale, celebratosi dal 14 al 22 maggio a Milano, dove, con la firma che figura pure nell’indegno articolo dell’«Osservatore Romano», si scrisse che «Gesù istituì il suo corpo e il suo sangue». Come se corpo e sangue non facessero già parte della costituzione fisica di Gesù. Per aver corretto la frase nel modo seguente: «Istituì il sacramento del suo corpo e del suo sangue», venni denigrato, cioè diffamato acrimoniosamente villanamente ripetutamente su varie testate in Italia e all’estero, particolarmente in Olanda. Oggi la denigrazione continua. Tacqui allora; mi sembra che non possa far altrettanto oggi.
Sulla mia posizione di fronte al Concilio ecumenico del 1962-65, non c’è bisogno d’insistere. L’ho già precisata più volte e particolareggiatamente. Chi poi mi conosce non mi chiede che gliene parli; sa tutto da sé. Se solo dopo essere stato preso per i capelli mi permetto d’accennarvi ancora, è perché quelli che mi conoscono son pochi e per i più non sono che un Carneade qualunque. Ed allora, prima che costoro pensino male, o finiscano sotto la macchina schiacciasassi di chi affida alla polemica la stroncatura, o sian raggiunti dagli strilli di qualche zelota in cerca di notorietà, evito loro l’occasione d’un giudizio temerario e ripeto il mio atteggiamento dinanzi al Vaticano II.

1. No, non sono contro. Non voglio né posso esserlo. Se me lo permettessi, non potrei dirmi ancora cattolico: perderei, infatti, la «pretiosa margarita» della mia identità, quella perla d’inestimabile valore, per il cui possesso uno può privarsi di tutto (cfr. Mt 13,46-7). Son contro – bonariamente, s’intende, e non certo col mitra imbracciato – coloro che deformano, o han concorso a deformar il Vaticano II. Coloro che, da mezzo secolo in qua, lo ridimensionano a loro misura e lo dipingono a propria immagine e somiglianza (cfr. Gn 1,26). E se ne fanno uno scudo, per cercar in esso, trovandole, le più infondate ed inattendibili legittimazioni dei loro deformanti pensieri ed aberranti comportamenti. Penso in particolar modo ai fautori della così detta Teologia della liberazione, autolegittimatisi in base ad una loro lettura politico-marxiana dell’ultimo Concilio, secondo la quale i documenti conciliari sarebbero una versione aggiornata del Capitale (5) ed il Capitale un’eco fedele del messaggio evangelico. Soprattutto son contro, nel senso anzidetto, chi non esitò affatto ad imbracciar il mitra, e non in senso puramente metaforico, in nome di questa vera e propria perversione conciliare. Son pure contro quell’alternarsi o contrapporsi d’ermeneutiche nelle quali, più che il genuino insegnamento conciliare, è facile riconoscere la base ideologica che le suggerisce, il sadismo di chi schiaccia gli altri sott’il proprio tallone, la smania d’emerger a tutt’i costi, compresi quelli della giustizia, della verità e della carità. E son contro, infine, una certa linea metodologica, presente già almen in parte nei documenti conciliari, ma trionfante poi nelle ermeneutiche appena ricordate: la linea dell’asseverazione senz’esame e senza fondazione critica degli asserti, e quella aggravata da qualche caso di stupefacente non corrispondenza tra l’asserto e la fonte alla quale lo si ricollega. L’esempio più perspicuo, ma anche il più doloroso ed, in termini cattolici, il meno tollerabile, è quello della Tradizione. Se ne proclama la continuità e se ne auspica pure la non rottura, nell’atto stesso di proporre idee o dottrine che o non ebbero mai un posto al sole della Tradizione, o non han titoli per esser ad essa ricondotte. Ritornerò certamente in argomento.

2. Quel postconcilio che si distinse come l’esaltatore acritico dell’Assise conciliare, o che pose una pseudo-critica alla base di tale esaltazione, parlò spesso di fonti e non raramente nei termini più appropriati: fonti del Concilio come fatto storico, fonti del suo insegnamento e fonti com’esigenza critica dei suoi documenti. Non pochi tra i suoi commentatori sintetizzaron il Concilio nell’idea-guida della Nouvelle Théologie: aux sources. Il Concilio avrebbe fatto il salto di qualità che «l’asfittica situazione teologica» di quel momento sembrava esigere: l’affossamento definitivo di san Tommaso e del metodo scolastico. Fossero almeno esatti nel riferir e nell’espressione stessa del loro riferire: non è esatto, infatti, l’uso univoco di neoscolastica com’espressione delle dottrine tomiste e della corrispondente metodologia; gli studi di C. Fabro sulla peculiarità dell’esse tomasiano e del tomismo da lui detto essenziale lo dimostrano. Eppure c’è chi, facendo d’ogni erba un fascio, confonde il deprecabile abbandono del Dottore Angelico e della metodologia scolastica con l’abbandono della neoscolastica (6); il colmo è che, grazie a tale abbandono, il Concilio – «risum teneatis, amici» (7) – avrebbe ricuperato la grande Tradizione ecclesiale. Chi proprio questo colmo sostiene, non l’afferma con mezze parole né a denti stretti, bensì a voce alta e con la presunzione dei ben informati: «Il Concilio segna il ricupero della grande Tradizione della Chiesa e la sua svolta deriva proprio da questo fatto»: deriva cioè dall’aver preso la distanza «da alcuni orientamenti, che avevano segnato il magistero immediatamente precedente e da quella teologia neoscolastica depositata nei manuali, che ne alimentava la comprensione nella pretesa di poter esaurire tutta la Tradizione» (8).
Non è sempre facile capire i neoterici d’ameriana ascendenza. Parrebbe certo, tuttavia, che il Vaticano II, sì, proprio il Concilio dell’innovazione per antonomasia, avrebbe ricuperato tutta la Tradizione ecclesiale imprimendo alla Chiesa una svolta verso la Tradizione stessa nella misura in cui girava le spalle alla neoscolastica.
Qualcuno ha capovolto tranquillamente i dati di fatto consegnati per sempre alla storia del Concilio, per poter precisare verso che cosa, in concreto, la detta svolta era avvenuta. Si tratterebbe d’una svolta operata fin dall’inizio del Vaticano II in direzione d’«un grande ritorno alle fonti, alle fonti bibliche, alle fonti patristiche» (9). Ora, chi ha letto qualcosa di san Tommaso, non può non aver notato che nessuna delle verità di Fede da lui lumeggiate ha una fondazione diversa da quella biblica e patristica. Il grande ritorno alle fonti biblico-patristiche, dunque, non avrebbe potuto coincidere con l’abbandono di san Tommaso. Sarà opportuno insistere su tale argomento, per dimostrar in che cosa sia effettivamente consistita la celebrata svolta conciliare.

3. Tra le intuizioni di maggior peso sulla scialba attenzione riservata per lunghi decenni al Vaticano II e solo in questi ultimi tempi evolutasi in un vero, se pur ancor modesto dibattito, vanno annoverate le analisi storico-teologiche ratzingheriane. Il loro insigne Autore le rilasciò lungo le varie fasi della propria parabola ecclesiale: da giovane teologo e «perito » conciliare, da vescovo e cardinale, da Sommo Pontefice. Esse non presentano scarti notevoli, tali da indurre il sospetto d’una contraddizione; ma non son nemmeno piatte ripetizioni di quei primissimi giudizi che portan indirettamente alla sua persona, anche se a pronunciarli era il cardinale J. Frings, di cui Ratzinger era allora il perito personale. Mentre quei primi giudizi marcavan a fuoco la mancanza – tutta da provare – nello schema de Ecclesia dei requisiti essenziali relativi alla cattolicità della Chiesa, al suo magistero, alla sua missione, alla sua Tradizione orientale ed occidentale (10), i successivi interventi riguardaron il Concilio a cose fatte e si potrebbero puntualizzare così:
a) 1975: analisi dei primi dieci anni dalla fine del Concilio;
b) 1985: esclusione della stessa possibilità per la Chiesa d’una «rottura» col suo passato, essendo essa di natura sua «continuità»;
c) 2005: allocuzione alla Curia sulla «continuità del soggetto Chiesa e la sua «riforma».
Con il riferimento al 1975, alludo ad un ben noto articolo, pubblicato quell’anno in «Communio» e dedicato, forse in modo un po’ troppo schematico, all’«audience» riscossa in quel decennio dal Vaticano II (11). Secondo il giovane, ma già affermato Autore, i primi tre anni del postconcilio sarebbero stati contrassegnati da una diffusa euforia, poi sostituita da un senso di delusione e di crisi tra il 1968 ed il 1975, con chiari segni, in codesto stesso anno, di ripresa e di crescente consolidamento. Si tratta non d’un’analisi acuta, ma solo d’un primo tentativo per capir le ragioni della differenziata ricezione. D’altra parte, fin a che l’interesse al Vaticano II non sarà accompagnato dal coraggio di metterne in chiaro l’equivoco di fondo, d’analisi acute sarà impossibile parlare.
Dieci anni dopo, nel 1985, non più da semplice se pur celebrato teologo, ma da cardinale prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, Ratzinger pubblicò il suo primo Rapporto sulla Fede (12). In esso il Vaticano II era presente come un sicuro punto di riferimento per il cristiano e per la Chiesa stessa. Scartando il giudizio di chi lo considerava sorpassato al punto da desiderar un Vaticano III e di chi gli opponeva resistenza sugli spalti dell’incrollabile Tradizione, Ratzinger lo presentava come l’autorevolissima realtà dell’oggi ecclesiale, mentre, con un occhio rivolto al passato ed uno all’avvenire, veniva sottolineando la continuità della Chiesa e della sua dottrina (13). Il tema fu da lui ripreso nel 1988, parlando il 13 luglio all’episcopato cileno e colombiano, per insistere sulla continuità del Vaticano II con tutt’il precedente magistero e per dichiarare sia la «necessità» dell’ultimo Concilio come «parte della Tradizione ecclesiale», sia l’insostenibilità della sua riduzione ad anno zero, per ricominciar tutto daccapo quasi che non si trattasse «d’una parte dell’intera ed unica Tradizione della Chiesa e della sua Fede» (14). Il tema della continuità è qui pressante, non nel senso d’un ritorno al passato, bensì in quello dello stesso passato che con la sua continuità sospinge il presente della Chiesa verso il Signore che viene. In questa seconda fase pre-papale va registrato pure un altro intervento, uno anzi dei più importanti per l’idea di continuità che lo suggerisce: «Diventa sempre più evidente che i testi del Concilio si collocan in assoluto nella continuità della Fede» senza che ciò autorizzi alcuno a far del Vaticano II «un super-concilio» (15). L’importanza è data dall’insistenza sulla continuità, qui detta della Fede (in senso oggettivo); più tardi sarà detta del «soggetto Chiesa» (in senso soggettivo).
Si è giunti così al terzo momento, quello della ben nota allocuzione alla Curia romana del 22 dicembre 2005: da pochi mesi Joseph Ratzinger era diventato papa Benedetto XVI. Gl’interventi sul Vaticano II, tutti all’insegna della continuità e sempre a supporto del Concilio come «parte dell’intera Tradizione» non eran cessati negli anni precedenti l’elezione al soglio papale. Nessuno, tuttavia, ebbe la chiarezza e la risonanza dell’accennata allocuzione. Benedetto XVI impostò il discorso sulla «giusta ermeneutica» del Vaticano II», distinguendo «quella della rottura e della discontinuità e quella della riforma, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato». A supporto di quest’ermeneutica, il novello Pontefice pose l’accento su un’altra distinzione, quella tra «forma» e «principi»: e quindi tra «decisioni contingenti» perché relative a realtà pure contingenti e «decisioni di fondo» perché riguardanti ciò che resta perennemente valido. La conclusione parve scontata: le decisioni di fondo han tutta la validità dei principi cui si riferiscono, ma nulla impedisce che «le forme nella loro applicazione a contesti nuovi possano cambiare» (16).
L’allocuzione ebbe echi in tutt’il mondo. Un po’ superficialmente la critica se ne impossessò per dar risalto all’ermeneutica della continuità contro quella della discontinuità e per coniugare l’idea della riforma con quella della continuità, identificando invece la rottura nella discontinuità. Superficialmente, ho detto. Fermo restando che la discontinuità è rottura, non è necessario aver un acume eccezionale per capire che anche la riforma, almeno in certa misura, è discontinuità, e quindi rottura, perfino quando ristabilisce il contatto con la continuità perduta. A mio avviso non era questo il punto dell’allocuzione sul quale si doveva rifletter un po’ più coerentemente. Quel punto riguardava la continuità del «soggetto unico» – la Chiesa – a garanzia della continuità dottrinale, nonché il passaggio riguardante «le decisioni contingenti» attesa l’indole contingente dell’oggetto al quale esse vengon riferite. Son parole che metton in moto un formidabile problema: la conciliazione del fatto che la Chiesa dipende dalla Parola di Dio (17) con quello ch’essa, in pari tempo, è da Dio costituita arbitro della sua vera Parola. Una conciliazione possibile soltanto nei limiti chiaramente indicati dalla Rivelazione scritta (Gv 14,26; 16,13), ininterrottamente praticati dalla Tradizione ecclesiale e ripetuti da DV 10/b: «Docens nonnisi quod traditum est». Il problema allora si pone in altri termini, questi: Il Vaticano II insegna veramente e soltanto ciò che fu rivelato e trasmesso?
È evidente che qui non c’è spazio per il balletto delle ermeneutiche antitetiche: c’è un’ermeneutica sola, oggettiva, legata al valore nativo delle parole, in base al quale la precedente domanda rimbalza così aggiornata: il senso oggettivo delle parole usate dal Vaticano II corrisponde a quello del precedente Magistero ed in ultim’analisi a quello della divina Rivelazione?
La continuità del soggetto-Chiesa si riscontra poi, chiaramente riaffermata dallo stesso Pontefice, nel contesto delle «decisioni contingenti». Con esso Benedetto XVI richiamava l’attenzione sia alle «concrete situazioni storiche» ed alle «loro esigenze», sia ai «principi di fondo», nonché al «processo di novità nella continuità» in cui consisterebbe «la vera riforma». Quanto alle situazioni storiche, il riferimento andava necessariamente alle conseguenze di quel 1789, che avevan messo in essere un dissidio tra Chiesa e modernità. Col Vaticano II quel dissidio veniva neutralizzato, senza pregiudizio per i principi di fondo e per il soggetto-Chiesa che li garantiva. Si parlò esplicitamente d’«unilateralità» di Pio IX e Pio X nel contrapporre la Chiesa alla novità postrivoluzionaria, determinando una dissociazione tra Chiesa e mondo, di cui in misura modesta, «anche in assenza d’alcun nuovo fondamentale pronunciamento», qualche stato aveva già iniziato la ricomposizione, mentre altri, «con forti maggioranze cattoliche», si consolidavano nella loro «attitudine sostanzialmente prerivoluzionaria». L’esempio dei concordati spagnolo ed italiano, «sul terreno dell’educazione e rispetto al metodo storico-critico della scienza moderna», dava evidenza ad «un obsoleta configurazione del rapporto Chiesa-Stato». Per tale motivo il Vaticano II «ha rivisto o anche corretto alcune decisioni storiche » e la Chiesa, «in questa apparente discontinuità ha invece mantenuto ed approfondito la sua intima natura e la sua identità. La Chiesa è, tanto prima quanto dopo il Concilio, la stessa Chiesa una santa cattolica e apostolica in cammino attraverso i tempi» (18).
Come l’allocuzione del 2005 non era il primo, così non fu l’ultimo degl’interventi dedicati da Benedetto XVI al Concilio. Se questa fosse la sede opportuna, dovrei durar un bel po’ solo per darne un veloce ragguaglio. C’è un dato, tuttavia, da non sottovalutare, ma da tenere nella massima evidenza per le conseguenze da trarne. È del 2009. In una lettera all’episcopato cattolico sulla remissione della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani, il Papa scrisse ch’«è impossibile obbedir al Concilio senz’accettare la Fede professata nei secoli». La ragione? «Il Concilio racchiude l’intera storia dottrinale della Chiesa» (19). Aveva detto e ripetuto, in precedenza, che «non era un superconcilio, ma parte dell’intera Tradizione». Ora, che ne è il contenitore assoluto. A Seewald, che l’aveva interrogato sul suo impegno papale, senz’un attimo d’insicurezza rispose: innanzi tutto il Concilio (20).

4. Era doveroso render omaggio all’ininterrotto servizio reso da Ratzinger al Vaticano II per segnalarne la linea interpretativa in cui s’incontravan le ragioni conciliari della continuità e del rinnovamento. Quel servizio, tuttavia, nemmeno si proponeva di capire perché il Vaticano II andava suscitando alterne ed antitetiche reazioni: gli bastava l’osservazione delle due ermeneutiche in contrasto, escludendo o formalmente o praticamente che il contrasto nascesse da qualche equivoco del Concilio stesso.
Il sospetto dell’equivoco non è un giudizio temerario. Debbo dire, peraltro, che non son il primo a sollevarlo. Ma proprio per questo intendo continuare, sia pur brevemente, la rassegna degl’interventi sul Vaticano II, scegliendo fra i più sintomatici. Il fatto che, nell’arco di cinquant’anni, il mondo intero ha assistito al rinnovarsi di tali interventi, e scontrarsi e contestarsi ed eludersi a vicenda, riporta in primo piano il sospetto dell’equivoco: o non intravisto o volutamente taciuto.
In altri scritti ho parlato di volgata conciliare. Così ho definito l’ufficialità dei giudizi, confluiti in un ditirambo gratuito, per il quale il Vaticano II sarebbe stato un inestimabile dono di Dio alla Chiesa e quanto potesse darsi di più positivo e di più efficace in relazione ai problemi del momento: un linguaggio nuovo, un’esposizione aggiornata della dottrina cattolica, un rinnovamento strutturale sull’asse dell’invariata ed invariabile Tradizione, un balzo in avanti incontro alla nuova realtà socio-culturale, un’effettiva pacificazione della Chiesa col mondo. All’interno di codesta volgata mai una sola voce si levò per spiegare come «l’inestimabile dono di Dio» potesse sussistere nei disordini e perfino nello scandalo che avevan obnubilato, ed in certi casi letteralmente sfigurato, il volto della Chiesa conciliare. O per discutere se l’aggiornamento espositivo della dottrina cattolica fosse o no fedele ad essa, nel senso d’un sostanziale ed omogeneo rispetto della Tradizione. E se la pacificazione col mondo non fosse una capitolazione dinanzi ad esso. No, la volgata sapeva soltanto ripetersi e batter le mani. E nessuno s’aspetti che sappia anche pensare.
Le fece da contraltare il fronte degli scontenti, più numeroso di quanto si potesse pensare: di chi cioè aveva sperato in un vero e proprio «balzo in avanti», in un radicale cambiamento di rotta, in una svolta che mettesse fine al prima per dar immediato inizio al dopo.
Al fronte anzidetto apparteneva chiunque aveva inutilmente sognato che il prima-dopo coincidesse col Vaticano II, con quel grandioso «evento» dal quale il prima avrebbe dovuto esser definitivamente chiuso dal dopo, lanciato felicemente in orbita dalla pista di lancio conciliare. L’effetto, ch’era stato previsto ed inutilmente sperato, era quello d’una netta alternativa tra Chiesa pre e Chiesa post Vaticano II. L’alternativa, però, non si verificò e la delusione, dop’aver costatato che alle parole non seguivan i fatti, fu grande. Al medesimo fronte apparteneva pure chi si lamentava – e non eran pochi, in Italia e all’estero – che la Curia romana, uscita dal Concilio con le ossa rotte, se ne fosse subito appropriata e ne impedisse la corretta applicazione. Di ciò s’incolpava perfino papa Wojtyła, del quale tutto potrà dirsi, ma non che abbia impedito le istanze conciliari. Da chi moveva codeste lamentele venne pure la già ricordata richiesta del Vaticano III, nell’attesa insoddisfatta che una nuova e grandiosa Pentecoste rinnovasse la faccia della terra (cfr. Sal 104 [103], 30).
È doveroso allargare l’attenzione anche allo schieramento di decisi oppositori: per gli uni, molto meno numerosi e non solo per questo meno importanti, il Vaticano II sarebbe illegittimo ed illegittime quindi le sue decisioni, nonché i tentativi d’applicarle e gli uomini che tali tentativi promuovono: la Chiesa sarebbe, infatti, in uno stato di «sede vacante». Gli altri son i figli di monsignor M. Lefebvre, raccolti nella «Fraternità Sacerdotale San Pio X» attorno al valore teologico-dogmatico della Tradizione ed apostolicamente operanti, sia pur in uno stato canonicamente non riconosciuto. Essi contestan il presunto valore dogmatico del Vaticano II, ma dichiarano che, qualora esso fosse reinterpretato alla luce della Tradizione apostolica, non avrebbero difficoltà ad accettarlo. Si son effettuati in tal senso, con la speranza e la volontà di neutralizzar il contenzioso, vari incontri tra una commissione della Santa Sede ed una della Fraternità; i risultati non si conoscono. Se le esigenze delle due parti potessero convenire su un condiviso concetto di Tradizione, la Fraternità, che non ha mai fatto mistero sopra il suo sentirsi legata alla Roma del Papa e del Magistero, potrebbe nuovamente sperimentar il calore della casa paterna e la Chiesa avvalersi della sua opera preziosa, soprattutto in ordine alla formazione e santificazione del clero.

5. La superficialità della volgata s’è poi riflessa in non pochi tentativi d’interpretazione del Concilio, con la conseguenza, forse non voluta, di dar vita ad un’orgia celebrativa al di fuori delle più elementari esigenze critiche; l’orgia tuttora continua. C’è solo da augurarsi che le già previste celebrazioni giubilari – nel 2012 per l’inizio e nel 2015 per la chiusura del Vaticano II – procedan in direzione opposta. Non son mancati, però, ed occorre riconoscerlo apertamente, dei tentativi che, per la loro serietà o buona volontà, avrebbero potuto avviar il Discorso da fare ancor prima che ne presentassi una pubblica richiesta (21). In qualche caso, fu anche intravista la presenza d’un equivoco di fondo e lo si dichiarò senz’ambagi. A solo scopo esemplificativo, do qualche riferimento, rimandandone a più tardi ulteriori approfondimenti.
Per importanza e dimensioni merita il primo piano l’opera in ben cinque volumi, nota come Herders theologischer Kommentar zum zweiten Vatikanischen Konzil (22). Non proprio tutta mi sembra libera dall’intento puramente celebrativo, ma la sua atmosfera è quella dell’analisi e relativa discussione. Gli autori, i ben noti P. Hünermann e B. J. Hilberath, si staccano finalmente dalle contrastanti ermeneutiche e soprattutto dal bla-bla d’occasione e danno del Vaticano II una lettura ch’essi dicon «teologica» in un quadro d’attenzione, di fedeltà e di coerenza al testo. Il fatto nuovo del loro Kommentar è esattamente un nuovo concetto di testo, differenziato da quello classico-medievale per averne aggiornato i moduli comunicativi, con il risultato della continuità e dell’aggiornamento. S’avrebbero così «testi costituzionali» ed «altri tipi di testo». La continuità, benché non ripetitiva della formula classica, neanche nei testi così detti costituzionali avrebbe formalmente l’efficacia dogmatizzante della «definitio», pur esigendo l’obbedienza di Fede; all’aggiornamento, atteso il suo intento pastorale d’introdurre mediante «gli altri tipi di testo» il messaggio cristiano nelle mutate relazioni socio-politiche del momento, né può né deve mancar un’analoga obbedienza ed il religioso rispetto (23) per le sue nuove modalità d’accesso alla modernità.
Al Kommentar di Hünermann-Hilberath non mancherà, probabilmente, qualche seria obiezione; ma si dovrà pacificamente riconoscere ch’esso è lontano le mille miglia dalla melensa attenzione al Concilio di certi documenti curiali, di comunicati episcopali, di corsi e dichiarazioni accademiche e d’una valanga di scritti quasi sempre imprigionati nell’angusto limite d’un ripetutissimo peana.
A corto d’argomenti plausibili, i novatori d’ogni estrazione ben presto fecero fronte comune per difendere la loro visione del Vaticano II e le prospettive di novità ch’esso aveva aperto, dall’attacco del «retrivo» ambiente conservatore e dal suo «tradimento» della maggioranza che aveva trionfato nell’aula conciliare (24). E mentre si rimproverava ai loro oppositori «una nozione incompleta e contraddittoria di Tradizione» che non terrebbe «nel debito conto il carattere vivente» di essa (25), con superficiale trionfalismo s’inneggiava alla novità dinamica del Vaticano II che si lasciava dietro le spalle un secolare vecchiume; alla svolta epocale che ne seguiva; al superamento dell’ormai trapassato remoto, medievale e tridentino; all’evento che ricapitola nel presente la secolare realtà cristiana, configurandola ad esso sia come proiezione d’un passato che, proprio perché passato, non è più, sia com’apertura ad un futuro che incombe.
<>Già in precedenza mi son più volte riferito ai lavori d’un inconcludente R. McInerny e d’un molto più positivo J. O’-Malley. L’uno, con un titolo mozzafiato (26), promette e non mantiene, perché invece d’individuare «ciò che durante il Vaticano II andò storto», si limita a documentare la ribellione pressoché generale, ma soprattutto americana, all’enciclica Humanæ vitæ di Paolo VI. L’altro, professore alla Georgetown University, nella rivista «Theological Studies» dove già nonpochi altri americani avevan preso posizione sul Vaticano II (L. I. O’Donovan, A. Dulles, M. A. Fahey, R. J. Davettere), si pone una domanda analoga (27), ma per approdare su ben altre sponde: anzitutto su un trittico che vorrebb’esser la sintesi dello stesso Concilio:  aggiornamento/sviluppo/ritorno alle fonti; e sulla dimostrazione, poi, che la continuità, come prerogativa del Vaticano II, non esclude il cambiamento; a dir il vero, nemmeno il Tridentino l’escludeva. Chiara, inoltre, ma non originale la sua analisi sul genere letterario del Concilio.
<>
Fra le voci forse più incisive nell’intento di dar un perché al Vaticano II risuona quella di C. Theobald, il quale raccoglie e coordina l’insegnamento conciliare come un grandioso «corpus» signoreggiato dalla distinzione di Suenens e di Montini fra «Ecclesia ad intra et Ecclesia ad extra», con intelligente collocazione dei documenti dall’una e dall’altra parte, non senza prevedere la trasversalità d’un asse irriducibile sia all’una che all’altra, per la natura dei documenti che lo costituiscono: per esempio la DV in merito alla trasmissione delle verità rivelate, e la DH, nonché Næ in relazione ai problemi di coscienza che pongono (28).
Theobald, grazie a Dio, non è il solo. Pur lontano dal far un rendiconto di quant’è stato scritto finora sul Concilio – impresa pressoché impossibile e sarei stolto se non me ne rendessi conto – mi limito a segnalar alcune di quelle pubblicazioni che, in qualche misura e per qualche serio motivo, mi sembran meritevoli d’esser qui recensite. Ad altre, per la ragione che mi riguardano e, criticandomi, dando del Vaticano II una valutazione diversa dalla mia, cerco di rispondere, non senz’ammirazione per chi sa rimaner a livelli di correttezza e di fedeltà alla propria linea metodologica, anche s’essa non combacia con la mia. Un po’ d’attenzione dedico pure ad alcune pubblicazioni che ho trovato non del tutto estranee al mio stesso tema, tra le quali quelle che si sono staccate più o meno decisamente dalla solfa comune. Mi riferisco, per esempio, pur non pensandola come lui, a L. Boeve il quale, in un suo lungo articolo sulla ben nota allocuzione papale del 22 dicembre 2005, annota che non basta parlare d’ermeneutica per entrar in contatto con il magistero conciliare; l’accesso ad esso, infatti, sarebbe assicurato soltanto dalla lingua e dalla storia – una tesi, questa, piuttosto discutibile ed appartenente ai principi gnoseologici della postmodernità – nonché dall’impostazione bonaventuriana del teologo Ratzinger, secondo il quale la Rivelazione avviene e non può per questo ridursi ad una collezione di «dati rivelati» (29). Nemmeno con W. Kasper può esserci un pieno accordo, a motivo delle posizioni d’avanguardia da lui assunte e soprattutto di quella sua strana logica che, giustificandole, le deduce dal solco stesso della Tradizione e nel rispetto d’una continuità dinamica, che salvaguarda l’unità della lettera e dello spirito (30). Sulla continuità dinamica son anch’io d’accordo, ma bisogna dire di quale continuità e unità si tratti.
Nel cuore delle grandi ed altisonanti celebrazioni d’occasione non son mancati dei palpiti autentici, nonostante il prevalente impegno a storicizzare, con approcci equivoci, il magistero conciliare o il magistero in generale. Alludo al contributo di H. J. Pottmeyer per l’opera in collaborazione, a cura di R. Fisichella, Il Concilio Vaticano II: ricezione e attualità alla luce del Giubileo (31), dove l’Autore, forse richiamandosi alla ben nota tripartizione del giovane Ratzinger, articola considerazione ed interpretazione del Concilio in tre momenti successivi: quello degl’inizi e della promettente fioritura, quello dell’amara delusione e quello della sintesi (32).
L’unica discussione seria sul Vaticano II è stata, quando effettivamente c’è stata, quella sulla sua ermeneutica. Non era, però, un richiamo alla sola ermeneutica l’intervento con cui P. Hünermann (33) sottolineò la centralità del «testo» e ne rilevò l’indole teologica, già oggetto di precisazione nel suo Kommentar. Come a dire che la centralità del testo è il testo in quanto tale e soprattutto il suo valore «costituzionale» per la vita della Chiesa. Da qui la centralità del Concilio. Il sovrapporgli criteri interpretativi legati all’instabile evoluzione culturale della modernità, il prestargli le proprie idee per farne magistero della Chiesa, la stessa contrapposizione di continuità/discontinuità così frequente specie dopo la ricordata allocuzione papale del 2005, potrebbero alla resa dei conti risolversi in una manomissione del «testo». Certamente, la continuità/discontinuità non dovrebbe mai prescindere da una visione «diacronica» e «sincronica» non soltanto dei documenti conciliari (34), ma di tutt’i Concili ecumenici e di tutta la storia ecclesiastica. Una visione siffatta consentirebbe di rilevare, unitamente alla permanenza del sostanziale e costituzionale all’interno della Tradizione, anche il non raro ripetersi delle discontinuità, dovute non solo all’adattarsi di certe teologie alle condizioni storiche del momento, ma anche alla stessa storicità della Chiesa. Continuità/discontinuità, allora, come contrappunto al dinamismo ed alla fedeltà tradizionale della Chiesa stessa, dinanzi alla quale il Concilio sta così com’è e per quello che è (35).

6. In genere, i commentatori del Vaticano II – che si tratti di teologi o di storici non ha qui molta importanza – si guardan bene dal pronunciar una sola parola in opposizione all’avanguardismo di moda; o, se ne parlano, lo fanno nell’atteggiamento un po’ schizzinoso del «vade retro, satana». Alcuni, anzi, incasellando nella categoria del rifiuto più netto chiunque parteggi – come il sottoscritto – per la Tradizione apostolico-ecclesiale e ne tragga motivo per riserve ai testi conciliari e loro interpretazioni, lo qualificano con uno spregiativo «lefebvriano», appartenga o no alla «Fraternità San Pio X». Ed è un grave errore: di sostanza e di metodo. È infatti evidente che nella vicenda lefebvriana c’è qualcosa di sostanziale, ben al di là delle ragioni puramente comportamentali (la disobbedienza) e canoniche (le sanzioni che ne conseguono); così com’è del pari evidente che il metodo del «dagli-all’untore» non è dettato da un atto di carità, coinvolge in una medesima condanna lefebvriani e no, e priva la Chiesa, in ultim’analisi, di contributi che, almen in qualche caso, potrebbero rivelarsi preziosi.
Chi segue il dibattito teologico n’è al corrente ed i «condannati» non han bisogno di me, «condannato» al pari di loro, per imporsi all’attenzione di chi sappia e voglia onestamente giudicare. Mi soffermo su un solo nominativo, forse non il più rappresentativo della fascia ermeneutica sempre respinta perché lefebvriana, e tuttavia meritevole d’un più vasto interesse per le cose che, proprio come lefebvriano, va dicendo e scrivendo. Mi riferisco a don D. Pagliarani.
È una penna non solo prolifica, ma efficace perché dotata di notevole chiarezza, d’agile fraseggio e di forte consequenzialità. Il suo indirizzo a favore della Tradizione è scontato; in nome e sulla base della Tradizione, svolge l’analisi critica dei documenti conciliari, nonché «l’ermeneutica dell’ermeneutica», com’egli ha chiamato l’analisi delle varie interpretazioni. Non è un caso che diriga un periodico intitolato «La Tradizione Cattolica» (36). Da parte sua, a quanto mi consta, è assente il preconcetto; insiste nella critica seriamente ragionata e confrontata non con una delle tante tradizioni che interessano la sociologia in genere e quella religiosa in particolare, e nemmeno con la Tradizione cattolica secondo il labile concetto che, di essa, il postconcilio ha largamente diffuso, ma con la Tradizione nella sua accezione teologico-dogmatica che risale all’origine stessa della Chiesa, alle sue determinazioni magisteriali e, fra queste, specialmente a quelle del Tridentino e del Vaticano I. Il suo procedere per via dimostrativa è talvolta impietoso: inchioda tutti, lettori e maestri, anche quei «maestri in Israele» (cfr. Gv 3,10) che «lo Spirito pose alla guida della Chiesa» (At 20,28), sul dato incontrovertibile della Tradizione. Saldamente ancorato ad essa, ha rivendicato al Magistero d’esser il suo unico interprete, in opposizione all’andazzo d’un Concilio «sistematicamente spiegato ed applicato attraverso l’unica, autosufficiente, autoreferenziale, indiscutibile autorità del Concilio stesso». Gli si potrebbe osservare che anche il Concilio è Magistero ed è quindi l’unico interprete di se stesso; son certo che risponderebbe: sì, l’unico interprete, ma non il suo ripetitore. Nell’allocuzione papale del 2005 ha visto «un cauto invito a ricuperare qualcosa della Tradizione – naturalmente senza metter in discussione il Concilio», ma ha anche registrato «la generale levata di scudi» contro un tale invito, «unitamente all’indifferenza di parecchi vescovi», la qual cosa fa pensare che sia «lo stesso collegio episcopale ad aver assimilato un’avversione per il passato della Chiesa umanamente inguaribile e ad incarnar in se stesso, e nel proprio atteggiamento, quella rottura di cui Benedetto XVI vorrebbe limitar i danni». In un «purtroppo» vien quindi individuato «il frutto più rappresentativo del Concilio e del postconcilio, maturatosi lentamente negli ultimi cinquant’anni» (37).
La copulativa «e» che congiunge insieme Concilio e postconcilio ha la funzione d’evidenziare l’unità, o quanto meno l’inscindibilità dei due soggetti, a rettifica di non poche analisi che riconducon al solo postconcilio la responsabilità d’attuali ed evidenti errori. Prendendo spunto dalla superdogmatizzazione del Concilio, già lamentata da Ratzinger a Santiago del Cile, don Pagliarani osserva che «se si super dogmatizzasse il dogma dell’Incarnazione», ciò «non condurrebbe mai […] ad un errore […] Aumenterebbe la conoscenza esplicita di questo dogma e attraverso di essa tutto il plesso dogmatico cattolico ne uscirebbe rinvigorito». La conclusione che ne trae è semplicemente ovvia: la superdogmatizzazione del Vaticano II «è indice che il Concilio stesso contiene  intrinsecamente elementi non in sintonia con la Tradizione» (38).

7. Quali? Son cinquant’anni che, fatte poche eccezioni, si tace al riguardo. La nuova generazione sia di vescovi e di preti, sia di semplici laici resta spesso interdetta e reagisce perfino atteggiandosi a «defensor Fidei» – intendi, del Vaticano II – quando qualcuno osa sollevare qualche dubbio sulla continuità di esso con la dottrina delle origini. Mezzo secolo d’ininterrotto martellamento non passa invano, non senza cioè frutti amari «di cenere e tosco». Son frutti resi ancor più amari dalla tacitazione pratica, se non formalmente imposta, d’una Tradizione che ha varcato un vallo di venti secoli, prima che in nome del Vaticano II qualcuno ne bloccasse la corsa come realtà «pietrificata» o come valore ecclesiale «incompleto e contraddittorio». Di vero c’è il fatto che né il Vaticano II può in essa pienamente e pacificamente riconoscersi, né essa può armonizzarsi sul diapason del Vaticano II. Son due spartiti reciprocamente non sintonizzabili sulla «dominante », non a motivo di qualche nota marginale, ma perché intrinsecamente l’uno è diverso dall’altro; e a tratti anche
opposto.
Non avrei alcuna difficoltà a rilevare, documento dopo documento, tutte le «alterità», e quelle antitetiche in particolare, dei detti spartiti. L’elenco coinvolgerebbe interi documenti, come GS, DH, UR e Næ, accanto a punti o dottrine peculiari: per esempio l’incarnazione del Verbo in ogni uomo, il «subsistit in», la collegialità dei vescovi sotto il profilo non del «corpus episcoporum» ma dell’organo di governo universale della Chiesa, la comunione incompleta, la Chiesa di Cristo come somma di chiese o di comunioni ecclesiali. Non è questo il punto. O non quello al quale è dedicata la presente pubblicazione. Anche se lo sviluppo del mio ragionamento non potrà evitare del tutto di richiamarsi a questa o a quella particolare «alterità» conciliare nei confronti dell’ininterrotta Tradizione ecclesiale, la ragione per cui scrivo s’identifica non con l’elenco delle dette «alterità», bensì con l’intento di provare l’infondatezza delle obiezioni rivolte o a me o a chi la pensa come me, e con l’idea di fondo dalla quale tali obiezioni dipendono. Già nel titolo ho chiamato «equivoco
» codesta idea. Procedo per dimostrarlo.

8. Sarà un procedere non già astratto e puramente teorico, ma anche e soprattutto comparato. Percorrerò dunque la via analitica e dovrò indicare, strada facendo, dei riferimenti precisi – come sempre, del resto. Un’esigenza metodologica suggerirebbe, a tal fine, l’anticipo in specifiche sigle, degli autori e delle opere citate. So peraltro che un siglario troppo diffuso, anziché facilitarla, complicherebbe la lettura. Preferisco quindi ridurre al minimo indispensabile le sigle utilizzate; ed eviterò l’accennata difficoltà di lettura riportando per intero, almeno nella prima citazione se non in quelle ripetute, il nome degli Autori citati e delle opere segnalate.

Tutto questo, genericamente parlando. Quindi non in assoluto. Qualche sigla infatti e nonostante tutto si rende necessaria. Oltre a quelle che utilizzo abitualmente per le citazioni dall’Antico e dal Nuovo Testamento, o anche per intuitive contrazioni di frasi, mi son permesso le seguenti:
• ASS = Acta Sanctæ Sedis (Roma 1865-1908)
• AAS = Acta Apostolicæ Sedis (Roma 1909ss)
• CSEL = Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latinorum (Vienna 1866ss)
• ML = Patrologiæ Cursus completus, Series Latina (P. Migne, Ed. Jacques, Paris 1844ss)
• MG = Patrologiæ Cursus completus, Series Græca (P. Migne, Ed. Jacques, Paris 1857ss)
• DS = Enchiridion Symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum (a cura di H. Denzinger, A. Schönmetzer, Herder, Freiburg Br. 197335)
• DThC = Dictionnaire de Théologie Catholique (Paris 1930ss)
• EC = Enciclopedia Cattolica (Firenze 1948ss)
• CJC = Codice di Diritto Canonico (Unione Editori e Librai cattolici italiani, Roma 1997)
• RGG3 = Die Religion in Geschichte und Gegenwart (Tübingen 19623)
• DV = Dei Verbum, Constitutio dogmatica de Divina Revelatione
• LG = Lumen gentium, Constitutio dogmatica de Ecclesia
• SC = Sacrosanctum Concilium, Constitutio de Sacra Liturgia
• GS = Gaudium et Spes, Constitutio pastoralis de Ecclesia in mundo huius temporis
• CD = Christus Dominus, Decretum de pastorali Episcoporum munere
• OT = Optatam totius, Decretum de institutione sacerdotali
• PO = Presbyterorum ordinis, Decretum de Presbyterorum Ministerio et vita
• PC = Perfectæ caritatis, Decretum de accommodata renovatione vitæ religiosæ
• UR = Unitatis redintegratio, Decretum de OEcumenismo
• AA = Apostolicam actualitatem, Decretum de laico rum apostolatu
• IM = Inter mirifica, Decretum de instrumentis communicationis socialis
• AG = Ad gentes divinitus, Decretum de missionali Ecclesiæ activitate
• OE = Orientalium Ecclesiarum, Decretum de Catholicis Orientalibus Ecclesiis
• GE = Gravissimum educationis, Decretum de educatione christiana
• DH = Dignitatis humanæ, Declaratio de libertate religiosa
• Næ = Nostra ætate, Declaratio de Ecclesiæ habitudine ad nonchristianas religiones

9. Alla Vergine Santa affido queste mie povere riflessioni, pregandola con filiale insistenza perché, come notoriamente fu ed è il maglio dell’eresia «in universo mundo», così salvaguardi l’identità cattolica e precluda la strada che conduce all’eretico accomodamento della Tradizione apostolico/ecclesiale con i principi ideologici e la cultura della modernità.


Note
1 - A questo mi riferivo con: Concilio Vaticano II. Il discorso mancato, Ed. Lindau, Torino 2011.
2 - E. Iserloh, Movimenti interni alla Chiesa e loro spiritualità, in H. Jedin (a cura di), Storia della Chiesa, Jaca Book, Milano 1980, vol. X/1, pp. 237-242; Id., Die Geschichte der liturgischen Bewegung, in «Hirschberg» 12 (1959), pp. 113-122; T. Maas-Ewerd, Die Krise der liturgischen Bewegung, Regensburg, 1977.
3 - Si veda specialmente AAS 39 (1947), p. 532 ed ancor più pp. 552-557 sul falso e sul vero concetto di sacerdozio dei fedeli.
4 - A proposito, a «L’Osservatore Romano» si sa, o no, che «schizofrenia» si scrive con una sola «z»?
5 - K. Marx, Das Kapital. Kritik des politischen Ökonomie, Ed. B. Kautsky, Leipzig 1930. In data 6 agosto 1984 la Congregazione per la Dottrina della Fede emanò una Instructio de quibusdam rationibus «Theologiæ Liberationis», in AAS 76 (1984), pp. 876-909. Poco dopo all’importante dichiarazione fece seguito una non men importante Notificatio su uno scritto del padre L. Boff, Ordinis Fratrum Minorum (OFM), che toccava anche l’argomento politico del potere e della liberazione, in AAS 77 (1985), pp. 756-762.
6 - G. Ruggieri, Ricezione e interpretazioni del Vaticano II. Le ragioni d’un dibattito, in A. Melloni, G. Ruggieri (a cura di), Chi ha paura del Vaticano II?, Carocci, Roma 2009, p. 20.
7 - Orazio, Ars poetica, 5.
8 - G. Ruggieri, Ricezione e interpretazioni del Vaticano II cit., p. 21.
9 - Ivi, p. 20.
10 - Il testo, ovviamente sotto il nome del cardinal J. Frings, può leggersi in Acta Synodalia sacrosancti Concilii OEcumenici II 1970-1980, Typis Vaticanis, Città del Vaticano 1970, vol. I/4. pp. 218-220. Oggi si dispone degl’interventi che fecero del giovane «perito conciliare» «un ardent partisan du renouveau que le Concile voulait apporter»: J. Ratzinger, Mon Concile Vatican II. Enjeux et perspectives, Ed. Artège, Perpignan 2011.
11 - J. Ratzinger, Der Weltdienst der Kirche, in «Communio» 4 (1975), pp. 439-454. L’articolo fu ripubblicato anche successivamente, per esempio, in Les principes de la Théologie catholique, Téqui, Paris 1985, pp. 423-454. «Communio» restò,  comunque, nel cuore di Ratzinger, sempre, fin al punto di confessare che «gli anni di lavoro comune con i redattori, hanno allargato i miei orizzonti, facendomi imparare molte cose», La mia vita. Autobiografia, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 1997, p. 112.
12 - Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 1985 (19983).
13 - Ivi, pp. 15-37 et alibi.
14 - In «L’Osservatore Romano», luglio 1988; ed in www.ratzinger.us.
15 - J. Ratzinger, Le sel de la terre, Flammarion-Cerf, Paris 1997, p. 75.
16 - Si veda «L’Osservatore Romano» del 22 dicembre 2005 e «Documentation Catholique» 2350 (2006), sp. pp. 59-62.
17 - Lo dichiara esplicitamente proprio il Vaticano II in DV 10/b: «Quod quidem Magisterium non supra Verbum Dei est, sed eidem ministrat, docens nonnisi quod traditum est [il corsivo è mio], quatenus illud, ex divino mandato et Spiritu Sancto assistente, pie audit, sancte custodit et fideliter exponit, ac ea omnia ex hoc uno fidei deposito haurit, quæ tamquam divinitus revelata credenda proponit». (Da un grande maestro di latino, autore d’un’autorevole Sintassi, O. Tempini, appresi che «ac» non precede mai lemmi che hanno inizio con una vocale.)
18 - Per i riferimenti si veda il testo citato alla nota 12. Nessuno dimenticherà che l’ancor giovane Ratzinger s’era già pronunciato al riguardo delle «decisioni contingenti» e delle «concrete situazioni storiche» e «loro esigenze», quando lesse nei documenti conciliari GS, DH e Næ, «una revisione del Syllabus di Pio IX, una sorta di contro-Syllabus» e confermò il suo giudizio in Principes de la théologie catholique. Esquisse et matériaux, Téqui, Paris 1985, p. 427.
19 - Benedetto XVI, Lettera del 10 marzo 2009 all’episcopato universale, in «L’Osservatore Romano» di quel giorno ed in «Documentation Catholique» 2421 (2009), pp. 319-320.
20 - In Luce del mondo, LEV, Città del Vaticano 2010, p. 133: «È l’eredità del Concilio Vaticano II e di tutta la storia della Chiesa che ho difeso», e p. 141: «[Il Papa] è vincolato al Concilio Vaticano II».
21 - B. Gheradini, Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, Casa Mariana Editrice, Frigento (Av) 20092: in brevissimo tempo il volume ebbe varie traduzioni (francese, inglese, tedesca ed ora anche portoghese e spagnola). È un opuscolo che ha scosso l’inerzia di non pochi ed ha aperto, nella base se non ai vertici, un dibattito che va allargandosi.
22 - Freiburg Br., 2004-2006.
23 - Del Kommentar si veda soprattutto il contributo di P. Hünermann, Der Text: Werden - Gestalt - Bedeutung. Eine hermeneutische Reflexion, vol. V, pp. 5-102. Il medesimo Autore, in Il testo. Un complemento all’ermeneutica, in A. Melloni, G. Ruggieri (a cura di), Chi ha paura del Vaticano II? cit., p. 101, considera i così detti «testi costituzionali» del Vaticano II sulla falsariga delle «moderne costituzioni nazionali […] a servizio dei diritti umani». Quando un tale scopo è impedito o difficilmente raggiungibile, «vi è la possibilità – anzi, il dovere – d’aspirare a riforme costituzionali». Segue un’analogia dei «testi confessionali» alle moderne costituzioni nazionali: non ne è tratta la conseguenza della possibilità e del dovere di riformarli, ma pare d’avvertirla. Se così fosse, avrei le mie obiezioni da fare.
24 - Le pubblicazioni in questo senso non si contano: portan lo stigma d’un anno fatale – 1968 – e ne diffondon le spinte ribelloidi. Si veda, per esempio, N. Buonasorte, Tra Roma e Lefebvre. Il tradizionalismo cattolico italiano e il concilio Vaticano II, Studium, Roma 2003; Id. (a cura di), Araldo del Vangelo. Studi sull’episcopato e sull’archivio di Giacomo Lercaro 1952-1968, Il Mulino, Bologna 2004. Ed inoltre É. Fouilloux, Une Église en quête de liberté: la pensée catholique française entre modernisme et Vatican II: 1914-1962, Desclée de Brouwer, Paris 1998; S. Scatena, In populo pauperum. La Chiesa latino-americana dal concilio a Medellin 1962-1968, Il Mulino, Bologna 2008; G. Ruggieri, Delusioni alla fine del concilio. Qualche atteggiamento nell’ambiente cattolico francese, in J. Doré, A. Melloni (a cura di), Volti di fine concilio. Studi di storia e teologia sulla conclusione del Vaticano II, Il Mulino, Bologna 2001, pp. 193-224; P. Brand, E. Schillebeeckx, A. Weiler (a cura di), Vent’anni di Concilium. Bilancio e prospettive, in «Concilium» 10 (1983). Senza dir una sola parola sul concetto di «fine» (ovviamente della Chiesa preconciliare) teorizzato da R. Rouquette, M.-D. Chenu, H. Küng, Y. Congar ed altri ancora.
25 - L’espressione è di Giovanni Paolo II, rivolta a monsignor Lefebvre nel documento con cui lo scomunicò per «l’atto scismatico» della consacrazione episcopale di quattro membri della Fraternità, cfr. Motu proprio «Ecclesia Dei afflicta», § 4 in «Documentation catholique» 1967, p. 788.
26 - R. McInerny, What Went Wrong with Vatican II, 1998, trad. it. di C. Delnevo, Vaticano II: che cosa è andato storto?, Fede&Cultura, Verona 2009.
27 - J. O’Malley, Vatican II. Did Anything Happen?, in «Theological Studies» 67 (2006), pp. 3-33. Si tratta d’uno storico navigato, d’indubbie capacità analitiche e serietà d’intenti anche là dove sembri non pienamente condividibile.
28 - C. Theobald, Introduction, in Vatican II. L’intégralité, Ed. Bayard, Paris 2002, pp. I-XXXIV: Id., Mise en perspective. Transmettre l’histoire du Vatican II ou/et commenter ses textes. Un débat nouveau sur la réception du Concile, in C. Theobald (a cura di), Vatican II sous le regard des historiens. Colloque du 23 septembre 2005. Centre Sèvres-Facultés jésuites de Paris, Paris 2006, pp. 3-23; si veda soprattutto Id., La réception du Vatican II: Accéder à la source, Éd. Du Cerf, Paris 2009. Da vedere, infine, A. Melloni, C. Theobald, (a cura di), Vaticano II. Un futuro dimenticato?, in «Concilium» (2005).
29 - L. Boeve, La vraie réception du Vatican II n’a pas encore commencé, in «Ephemerides theologicæ lovanienses» 85/4 (2009), pp. 305-339.
30 - W. Kasper, Il futuro dalla forza del Concilio. Sinodo straordinario dei vescovi, 1985, Queriniana, Brescia 1986; Id., Die bleibende Herausforderung durch das Zweite Vatikanische Konzil. Zur Hermeneutik der Konzilsaussagen, in Id., Theologie und Kirche, Magonza 1987, pp. 290-299; Id., Kirche – wohin gehest du? Die bleibende Bedeutung des II.Vatikanischen Konzils, Paderbon 1994.
31 - Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2000.
32 - H. J. Pottmeyer, Dal Sinodo del 1985 al Grande Giubileo dell’anno 2000, in R. Fisichella (a cura di), Il Concilio Vaticano II cit., pp. 11-25.
33 - Il «testo». Un complemento all’ermeneutica del Vaticano II, in A. Melloni, G. Ruggieri, Chi ha paura del Vaticano II? cit., pp. 85-105.
34 - P. Hünermann, Der Texte: Werden - Gestalt - Bedeutung, in Id., Herders theologicher Kommentar cit., pp. 7-9.
35 - Qualcosa del genere in G. Routhier, A 40 anni dal Concilio Vaticano II. Un lungo tirocinio verso un nuovo – l’attesa del «nuovo» è proprio diventata una fisima – tipo di cattolicesimo, in «La Scuola Cattolica» 133/1 (2005), pp. 19-52.
36 - Rivista ufficiale del Distretto italiano della «Fraternità Sacerdotale San Pio X», giunta già al suo XXIII anno e consultabile anche in rete all’indirizzo: www.sanpiox.it.
37 - D. Pagliarani, L’ermeneutica dell’ermeneutica. Riflessioni sulle implicazioni e sulle conseguenze ultime dell’ermeneutica della continuità, in «La Tradizione Cattolica» XXI/3 (76) [2010], pp. 8-9.
38 - Ivi, p. 17.

 





Qualche informazione su Mons. Gherardini

Mons. Brunero Gherardini è nato a Prato il 1° febbraio 1925, ed è stato ordinato sacerdote il 29.6.48 a Pistoia
Residente presso la Canonica Vaticana, Città del Vaticano, 00120 Roma

Consultore della Congregazione delle Cause dei Santi
Canonico nella Basilica Papale San Pietro in Vaticano
Già Professore presso la Pontificia Università Lateranense


Già membro e responsabile della Pontificia Accademia Teologica Romana e della Pontificia Accademia di S. Tommaso, (da cui si è volutamente staccato “quando le Accademie Pontificie vennero "rifondate").
Postulatore della causa di beatificazione di S. S. Pio IX
Direttore della rivista Divinitas.
Riconosciuto studioso tomista, allievo di C. Fabro, ha approfondito lo studio del Protestantesimo e della Riforma in genere.


maggio 2012