Nuova frattura
in seno alla Fraternità San Pio X


di Giovanni Servodio



I decani della Fratenità che dissentono da Menzingen


Se c’è una cosa che procura particolare dispiacere ai fedeli cattolici tradizionali è la difficoltà in cui si è venuta a trovare la Fraternità San Pio X in questi ultimi anni, soprattutto a partire dalle alterne vicende relative alla tentata riconciliazione con il Vaticano.
Quello che addolora di più è vedere la Fraternità, che nonostante tutto è ancora un serio baluardo contro il dilagare dello sfacelo in seno al cattolicesimo odierno, frazionarsi gradualmente sempre a causa delle divergenze che continuano a sorgere tra i suoi membri e la dirigenza. Inutile chiedersi dove sta la maggiore responsabilità: di fronte al manifestarsi delle divergenze, ormai da più di cinque anni, ciò che conta sono le conseguenze più che le recriminazioni.

Il fatto evidente che nella Fraternità sia in atto, tra il corpo e la testa, una frattura latente che si manifesta ad ogni nuova occasione, sta a dimostrare che la sua conduzione non è come dovrebbe essere. E dal momento che il principale oggetto del contendere è questa contrastata riconciliazione col Vaticano, si deve pensare che non di metodo si tratti, ma di merito.

Per quanto ci riguarda, la prima domanda che sentiamo di dover porre a noi stessi è: riconciliazione, con quale Vaticano?
Perché, se è vero che Roma è pur sempre la Sede di Pietro, è parimenti vero che è da questa stessa Sede che origina quella che si continua a chiamare “crisi”, ma che, anno dopo anno, ha assunto i connotati di un vero sfacelo: dottrinale, morale e pastorale. La netta sensazione è che sia rimato ormai ben poco da recuperare e quindi chiedersi: con quale Vaticano?, si dimostra essere più che giustificato.
Visto come stanno le cose, la vera riconciliazione non è da farsi tra la Fraternità e il Vaticano, ma tra il Vaticano e se stesso; così che appare quanto meno misterioso il vero motivo per cui la Fraternità dovrebbe “riconciliarsi” con questo Vaticano che non riesce a riconciliarsi con se stesso.

Ogni volta che è cambiato il Papa, si sono aperte nuove possibilità di riavvicinamento e quindi di riconciliazione, ma ogni volta l’ostacolo da sormontare e insormontabile è stato il Vaticano stesso, che ha confermato la sua ferma volontà di rimanere quello che è: la fucina della confusione e della deriva anticattolica.
Col regno tutt’altro che fausto di Francesco si è aperto un nuovo filone, tra il politico e il pragmatico: in attesa della sempre auspicata riconciliazione, Francesco ha incominciato a concedere alla Fraternità spezzoni di giurisdizione, mettendo i vescovi di fronte al fatto compiuto. La tecnica permette di superare a pie’ pari l’insanabile questione dottrinale, riconoscendo alla Fraternità pezzi di quella giurisdizione che potrebbe avere solo con la regolarizzazione canonica, che a sua volta potrà arrivare dopo un qualche accordo dottrinale… una sorta di gatto che si morde la coda.
La nuova tecnica usata da Francesco ha certo alcuni risvolti pratici convenienti, ma lasciando permanere la confusione non può essere ben vista da tanti sacerdoti e fedeli della Fraternità.
Se non si vive come si pensa, si finisce col pensare come si vive; e cioè se si accetta di convivere con la Roma attuale, sempre meno cattolica, anche solo occasionalmente e non formalmente, saranno possibili certi benefici pratici, ma si finirà perlomeno con l’avallarne l’ambivalenza, l’equivocità e infine la deriva.

Dopo la giurisdizione occasionale relativa alle confessioni amministrate dai sacerdoti della Fraternità, Francesco ha offerto la possibilità di una giurisdizione per la celebrazione dei matrimoni, cosa un po’ più complicata di quella delle confessioni e lasciata nelle mani dei vescovi, che potranno facilitare, ma anche ostacolare questa possibilità. In concreto, tra una concessione e un’altra, la Fraternità si è ritrovata nelle condizioni di dover ringraziare il Vaticano per la “concessione” di qualcosa che le spetterebbe di diritto in quanto opera della Chiesa, che in realtà essa è.

Come è accaduto altre volte, alle concessioni di Francesco sono seguiti i tempestivi ringraziamenti e gli attestati di riconoscenza della Casa Generalizia, che oltre ad un comunicato questa volta ha pubblicato un documento esplicativo della lettera ufficiale inviata dal cardinale Müller agli Ordinari di tutto il mondo. Comunicato e documento avrebbero dovuto rappresentare la realtà della situazione, ma considerazioni critiche sono sorte da più parti, e il giorno 7 di maggio alcuni sacerdoti della Fraternità, tra i maggiorenti, insieme ad alcuni Superiori delle comunità amiche, hanno ritenuto opportuno informare i fedeli sulla reale portata del documento vaticano.
Sarebbe sciocco supporre che questa iniziativa non abbia tenuto conto di quanto già pubblicato dalla dirigenza della Fraternità, quindi essa ha avuto origine dalla consapevolezza che occorresse apportare i necessari chiarimenti.
Non è la prima volta che questo accade e come le altre volte i Superiori della Fraternità si sono risentiti, accusando i firmatari di comportamento sovversivo. Il Superiore del Distretto di Francia ha rimproverato ai sacerdoti che prima di diffondere la lettera avrebbero dovuto parlarne con i Superiori, e la cosa sembra tanto ovvia da chiedersi subito come mai essi non l’abbiano fatto.
Il Superiore di Francia, invece di riprendere duramente i sacerdoti e tre giorni dopo rimuoverli, avrebbe dovuto porsi lui questa domanda, perché, data la valenza personale dei firmatari e data la loro competenza, se non l’hanno fatto è perché – e siamo certi di non sbagliare – una consultazione preventiva dei Superiori non sarebbe servita a niente e semmai avrebbe comportato loro un monito ed una diffida.
Ma allora, dove sta il problema vero? Sta nel fatto che la dichiarata unità di intenti nella Fraternità da qualche anno non esiste più; e mentre i Superiori proseguono per la loro strada, si lasciano dietro scontenti e dissensi che a volte sfociano in aperta ribellione; e questo è un chiaro segno della precisa volontà dei Superiori di non volere tenere conto dei convincimenti dei loro sottoposti e di pretendere poi che essi si attengano al dovere di ubbidienza. E’ da qui che sono nati gli abbandoni e le espulsioni, e questo non come situazioni episodiche, ma come andazzo che dura ormai da più di cinque anni.
Quello che è accaduto in questi giorni è solo l’ultimo di tanti casi poco piacevoli che hanno portato alla nascita di un nuovo ambito tradizionale, che ha finito col chiamarsi “Resistenza cattolica” avendo in vista sia lo sfacelo della Chiesa ufficiale, sia la linea assunta e portata avanti dai Superiori della Fraternità riguardo ai rapporti con Roma.

Si dice che i Superiori godano della grazia di stato, ma se questi sono i frutti prodotti da tale grazia, sempre chiamata in causa a sostegno delle decisioni degli stessi Superiori, c’è da pensare che in concreto si tratti di un modo di dire piuttosto che di una realtà. Vero è che sono i Superiori che dirigono i sottoposti, ma questa direzione non può prescindere dai sottoposti stessi, come se fossero solo delle comparse.
Si dice anche che sono i Superiori che fanno i sottoposti, e questo sembra corrispondere meglio alla reale situazione esistente oggi in seno alla Fraternità: se i sottoposti sono nervosi, se scalpitano, se sentono di doversi distinguere, se perfino si pongono in contrapposizione con i Superiori, non v’è dubbio che a fianco delle loro responsabilità ci sta, in maniera preponderante, il tipo di direzione esercitata dai Superiori stessi. Una direzione che realizzerà tante cose corrette, ma realizza anche quello scontento e quella divisione che ordinariamente i Superiori addebitano invece ai sottoposti che dissentono dalla loro direzione.
Non si tratta di democrazia, ma di capacità e di buon senso, il Superiore che non ha il polso dei suoi sottoposti e in presenza del loro agitarsi ritiene di dover comunque perseguire le sue intenzioni, è un Superiore solo di nome, ma senza le qualità necessarie per esercitare la sua superiore responsabilità.

Comunque si voglia affrontare la complessa questione, e a prescindere da una ipotetica teorica obbedienza che senza i giusti lumi sarebbe solo cieca, ingiustificata e anticattolica, resta il fatto che nella Fraternità è in atto una frattura che prima di essere disciplinare è dottrinale: ormai due diverse visioni teologiche e pastorali si affrontano in seno all’organismo fondato da Mons. Lefebvre per resistere alla Roma modernista e permettere la sopravvivenza della fede cattolica. E queste due visioni ripropongono lo stesso schema dei tempi in cui nacque la Fraternità: da un lato una testa che vacilla e pende verso un cattolicesimo liberale e aggiornato, oggi pragmatico e benvoluto dal mondo; e dall’altro un corpo che resta ancorato al cattolicesimo nel quale è cresciuto, al di là di ogni prassi corrente e di ogni consenso mondano.
E tale stato di cose in fondo è tipico di questi tempi bui nei quali viviamo: tempi di oscuramento e quindi anche di divisione e confusione, dove l’unico ancoraggio rimasto è il profondo sentire dei fedeli che, col loro sensus fidei, percepiscono che oggi più che mai il dovere del fedele di Cristo è di resistere forte nella fede a prescindere dalle strutture ecclesiali, siano esse romane o svizzere o altro, perché “obedire oportet Deo magis, quam hominibus” (Atti, 5, 29).



maggio 2017
AL SOMMARIO ARTICOLI DIVERSI