S. Ecc. Mons. Bernard Tissier de Mallerais
della Fraternità Sacerdotale San Pio X


CHE COS'E' UN CONCILIO PASTORALE?


PARTE TERZA


Questo studio è stato pubblicato sul n° 67 (inverno 2008- 2009) della rivista Le Sel de la Terre - Intelligence de la foi -  Rivista trimestrale di dottrina tomista a servizio della Tradizione
La rivista, curata da Padri Domenicani collegati alla Fraternità Sacerdotale San Pio X, è una pubblicazione cattolica di scienze religiose e di cultura cristiana, posta  sotto il patronato di San Tommaso d’Aquino, in forza della sicurezza della dottrina e della chiarezza d’espressione del “Dottore Angelico”. Essa si colloca nel quadro della battaglia per la Tradizione iniziata da
Mons. Marcel Lefebvre e si presenta in maniera tale da potersi rivolgere ad ogni cattolico che voglia approfondire la propria fede.


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La traduzione e l'impaginazione sono nostre
Lo studio in formato pdf



Indice
Parte Prima
Parte Seconda
Parte Terza


- Benedetto XVI: un «nuovo rapporto vitale» tra il credente e la fede
- Come Pio XII ha condannato Yves Congar e in anticipo Joseph Ratzinger
- La libertà religiosa conciliare giustificata dalla dialettica hegeliana
- Sbarazzare il tronco della dottrina costante dalle sue incrostazioni parassitarie
- Per giustificare l’assorbimento degli errori, si ammorbidiscono i principi della Tradizione
- Ermeneutica semplicistica ed ermeneutica scientifica
- Il colmo della finezza dell’arte ermeneutica
- «Sentire cum Ecclesia»
- L’ermeneutica praticata dagli antichi concilii, vista dai padri della Chiesa
- Bisogna rigettare «l’ermeneutica della riforma e della continuità»
- Le verità riequilibrate dal Concilio
- Conclusione: un concilio che sembra privo di ogni natura magisteriale
- I frutti anti-pastorali di un concilio pseudo pastorale
- Un «concilio pastorale» che è un concilio anti-pastorale


 
(su)

Benedetto XVI: un «nuovo rapporto vitale» tra il credente e la fede

32. Ora, insiste Benedetto XVI, è proprio questa sintesi che ha voluto Giovanni XXIII e che ha tentato il Vaticano II: presentare la dottrina della fede in modo nuovo, secondo il modo di pensare del nostro tempo, cioè un modo secondo il quale il soggetto entra in interazione con l’oggetto, in maniera tale che l’oggetto non sarà mai l’oggetto bruto, che non ha interessi, ma l’oggetto com’è vissuto: il solo che importi:

È chiaro  - dice Benedetto XVI - che questo impegno di esprimere in modo nuovo una determinata verità esige una nuova riflessione su di essa e un nuovo rapporto vitale con essa; è chiaro pure che la nuova parola può maturare soltanto se nasce da una comprensione consapevole della verità espressa e che, d’altra parte, la riflessione sulla fede esige anche che si viva questa fede. In questo senso il programma proposto da Papa Giovanni XXIII era estremamente esigente, come appunto è esigente la sintesi di fedeltà e dinamica (80).

Con questo soggettivismo, non si tratta più di fare una semplice esposizione della dottrina in sé, semplicemente «elargita» con l’ampiezza di vedute e l’approfondimento del mistero della salvezza fornite dalla saggezza teologica dei Padri: cosa che il padre Congar percepiva come la necessità del momento essendo egli, in questo senso, un progressista classico. No, secondo Benedetto XVI si tratta di una maturazione che non deve niente al passato e deve tutto alla soggettività del credente di oggi, cosa che per lui costituisce l’istanza attuale.
Secondo il padre Congar, questa maturazione tiene conto del piano divino di crescente interiorizzazione della dottrina della fede; essa tende a divenire la conoscenza compiuta del mistero della salvezza e l’espressione scritta della pienezza del mistero, così com’è in sé e come l’hanno conosciuto gli Apostoli e i Padri, «superando» la conoscenza parziale e le espressioni transitorie intermedie dei concilii passati. Per Benedetto XVI invece, l’interiorizzazione è puramente soggettiva, secondo la teoria idealista del progresso della conoscenza in generale: bisogna superare le tesi passate, legate alla passata e troppo oggettivista condizione di spirito, tenere conto delle esigenze attuali della soggettività, ed operare la loro sintesi.
Per il padre Congar, la maturazione del dogma deriva dal progressivo compimento del piano divino; per Benedetto XVI, questa è una delle esigenze dialettiche dell’evoluzione dello spirito umano.
Indubbiamente, è preferibile Congar, ma il risultato è lo stesso, in tre tappe: la svalutazione delle forme passate degli enunciati del magistero, in quanto provvisorie; il loro abbandono in quanto inadeguate; la scelta di nuovi enunciati, col pretesto del progresso. Ecco ciò che condannava il Papa Pio XII dodici anni prima del Concilio, considerando più direttamente i filosofi teorici di questo disegno:

Inoltre, ridotta in tali condizioni la dottrina cattolica, pensano di aprire cosi la via attraverso la quale arrivare, dando soddisfazione alle odierne necessità, a poter esprimere i dogmi con le categorie della filosofia odierna, sia dell’immanentismo, sia dell’idealismo, sia dell’esistenzialismo o di qualsiasi altro sistema.
E perciò taluni, più audaci, sostengono che ciò possa, anzi debba farsi, perché i misteri della fede, essi affermano, non possono mai esprimersi con concetti adeguatamente veri, ma solo con concetti approssimativi e sempre mutevoli, con i quali la verità viene in un certo qual modo manifestata, ma necessariamente anche deformata. Perciò ritengono non assurdo, ma del tutto necessario che la teologia, in conformità ai vari sistemi filosofici di cui essa nel corso dei tempi si serve come strumenti, sostituisca nuovi concetti agli antichi; cosicché in modi diversi, e sotto certi aspetti anche opposti, ma come essi dicono equivalenti, esponga al modo umano le medesime verità divine.
Aggiungono poi che la storia dei dogmi consiste nell’ esporre le varie forme di cui si è rivestita successivamente la verità rivelata, secondo le diverse dottrine e le diverse opinioni che sono sorte nel corso dei secoli (81).
(su)

Come Pio XII ha condannato Yves Congar
e in anticipo Joseph Ratzinger


33. Che venga dall’inadeguatezza dei concetti umani o dalla comprensione solo transitoria o anche dalla eccessiva oggettività passata, Pio XII condanna comunque l’idea della necessaria mutabilità della dottrina della fede. Egli riprova specialmente la tesi di una mutabilità legata all’uso di filosofie differenti: tesi che equivale al relativismo storico e misconosce la sola vera filosofia usata dalla Chiesa.

Da quanto abbiamo detto è chiaro che queste tendenze non solo conducono al relativismo dogmatico, ma di fatto già lo contengono; questo relativismo e poi fin troppo favorito dal disprezzo verso la dottrina tradizionale e verso i termini con cui essa si esprime. Tutti sanno che le espressioni di tali concetti, usate sia nelle scuole sia dal Magistero della Chiesa, possono venir migliorate e perfezionate; è inoltre noto che la Chiesa non è stata sempre costante nell’uso di quelle medesime parole. È chiaro pure che la Chiesa non può essere legata ad un qualunque effimero sistema filosofico; ma quelle nozioni e quei termini, che con generale consenso furono composti attraverso parecchi secoli dai dottori cattolici per arrivare a qualche conoscenza e comprensione del dogma, senza dubbio non poggiano su di un fondamento così caduco. Si appoggiano invece a principii e nozioni dedotte da una vera conoscenza del creato; e nel dedurre queste conoscenze, la verità rivelata, come una stella, ha illuminato per mezzo della Chiesa la mente umana. Perciò non c’è da meravigliarsi se qualcuna di queste nozioni non solo sia stata adoperata in Concili Ecumenici, ma vi abbia ricevuto tale sanzione per cui non ci è lecito allontanarcene.
Per tali ragioni, è massima imprudenza il trascurare o respingere o privare del loro valore i concetti e le espressioni che da persone di non comune ingegno e santità, sotto la vigilanza del sacro Magistero e non senza illuminazione e guida dello Spirito Santo, sono state più volte con lavoro secolare trovate e perfezionate per esprimere sempre più accuratamente le verità della fede, e sostituirvi nozioni ipotetiche ed espressioni fluttuanti e vaghe della nuova filosofia, le quali, a somiglianza dell’erba dei campi, oggi vi sono e domani seccano; a questo modo si rende lo stesso dogma simile a una canna agitata dal vento (82).
(su)

La libertà religiosa conciliare giustificata
dalla dialettica hegeliana


34. Ma non è solo il soggettivismo di tutte queste filosofie moderne che minacciava di corrompere il dogma nelle esposizioni «pastorali» conciliari, c’è anche la maniera di ragionare, il metodo «d’indagine» del pensiero moderno. La teoria hegeliana dell’evoluzione dialettica delle idee è applicata anche al dogma cattolico, per giustificarne l’evoluzione, che si assicura omogenea e che di fatto è fortemente eterogenea!
Non si tratterebbe più di vedere nelle eresie una occasione data provvidenzialmente alla Chiesa per precisare il suo dogma (83), ma di vedere negli errori un mezzo per sviluppare la verità attraverso il processo logico della sintesi dialettica. Un esempio è sufficiente per illustrare questo metodo: l’esempio emblematico della libertà religiosa.

- Tesi (dottrina dei papi del XIX secolo e dei papi Pio XI e Pio XII).
La libertà civile di coscienza e di culto non è un diritto naturale dell’uomo. Infatti, il diritto naturale è precisato dal diritto positivo divino. La religione istituita da Gesù Cristo è la sola vera e gradita a Dio. Solo i suoi seguaci hanno il diritto naturale assoluto di professarla e di non esserne impediti. Gli aderenti ad altre denominazioni religiose hanno anch’essi un diritto naturale al culto divino, ma siccome lo esercitano malamente e non soddisfano al loro dovere di onorare il vero Dio secondo il culto voluto da Dio, il loro diritto è solo putativo. E siccome ogni manifestazione esteriore di un falso culto è: per gli altri uno scandalo (nel senso teologico: un’occasione di peccato), per la Chiesa una causa di eresia o di apostasia e per la società una causa di discordia, questa stessa società e i suoi capi, che sono i luogotenenti temporali di Cristo Re (84), hanno il dovere, per proteggere la società e la Chiesa, di regolare o di proibire le dette manifestazioni esteriori (85).
Più precisamente, lo Stato, procurando il bene comune temporale, deve essere d’aiuto alla salvezza delle anime, che è il fine ultimo delle società, rendere omaggio a Cristo, proteggere la Chiesa e salvaguardare l’unanimità religiosa cattolica, che è un elemento capitale del bene comune; e per far questo ha il diritto di reprimere i falsi culti.

- Antitesi (quella dei liberali e dei modernisti)
Col suo assoluto esclusivismo, la tesi genera la sua contraddizione: le altre religioni sono parimenti degne di rispetto, perché la religione esprime la ricerca della verità (DH 3, 2) e l’ordinazione diretta dell’uomo a Dio (DH 3, 3), in esse l’uomo dev’essere lasciato libero e dev’essere rispettata la sua coscienza (DH 2, 1; GS 41, 2); del resto, la parte più fondamentale del bene comune è il rispetto dei diritti soggettivi di ciascuno (DH 6, 1 e 7, 3).

- Sintesi (quella del Concilio)
Anche quando lo Stato professa e protegge la vera religione (DH 1, 2 e 6, 3), esso, senza approvare l’errore, deve riconoscere a tutti il diritto naturale alla libertà religiosa, per tanto che essa non nuoccia al bene comune, cioè essenzialmente al diritto altrui, conformemente all’ideale democratico moderno dell’eguaglianza giuridica di tutti (DH 6, 4), postulato per una vita pacifica in comune (DH 7, 3).
Così la tesi viene ripresa arricchita dall’antitesi. Lo Stato deve cooperare alla salvezza delle anime, ma vi contribuisce meglio favorendo la vita religiosa di tutti (DH 6, 2), piuttosto che reprimendo l’esercizio di certi culti (DH 3, 5).

35. Una tale progressione della dottrina della fede soddisfaceva alle regole poste dal padre Congar nel suo modello di «vera riforma nella Chiesa»:

1 - Seguire l’umanità nella sua espansione; colmare lo iato fra la Chiesa e il mondo; percorrere con esso delle tappe; adattare al mondo ciò che è adattabile nella Chiesa; entrare in dialogo col mondo odierno; ricevere da esso delle obiezioni sulle istituzioni della Chiesa, sui suoi riti e sulla sua dottrina; accettare la sua offerta di valori positivi, anche se sono impuri (86).

2 - Superare le forme transitorie delle istituzioni, dei riti e della dottrina, utili un tempo, ma oggi tagliate fuori dalla vita (87). Il padre Congar non precisa quali siano queste forme, ma dodici anni più tardi, lui e i suoi amici si spiegheranno: significa concretamente spogliare Roma della sua autocrazia e la liturgia del suo clericalismo, togliere alla Chiesa la pretesa di essere «la sola arca di salvezza» e liberare la Chiesa dalla sua costituzione politica.

3 - Ricevere ed assimilare delle forme nuove (88): è ciò che abbiamo spiegato prima con il padre Congar, il cardinale Ratzinger e la Gaudium et spes a proposito dei «valori liberali» che deve acquisire la dottrina della fede dopo averli purificati e corretti.

4 - Ritornare ai puri principi dell’autentica Tradizione della Chiesa, liberandoli e sbarazzandoli dalle incrostazioni parassitarie con le quali li avevano ricoperti le particolari circostanze storiche (89). A questo punto, i «principi permanenti del cristianesimo» illumineranno i detti valori e giustificheranno la loro adozione da parte della Chiesa. Così la Chiesa sarà in sintonia col mondo.

5 - La riforma può essere introdotta via facti (90), per via di fatto, e malgrado una certa iniziale controversia in seno alla gerarchia (91), occorre farla autenticare dall’autorità della Chiesa, affinché venga «assunta dalla Chiesa e incorporata nella sua unità (92)».
(su)

Sbarazzare il tronco della dottrina costante dalle sue incrostazioni parassitarie

36. Un brano scelto del padre Congar illustrerà la quarta regola, che è la più ambigua:

Quello che occorre – egli dice – è essere fedeli al principio in profondità, e per questo si dev’essere infedeli alle forme che esso ha assunto in superficie; si deve aiutare il principio sempre vivente della tradizione a crearsi le sue forme d’applicazione o d’esistenza nello stile più vero e più efficace per il tempo. Nel far questo si deve stare attenti che, riconoscendo l’evoluzione delle strutture, si onori sempre il principio che si applicava anteriormente sotto tale forma o secondo tale struttura (93).

Tutto questo è vero ed è ben detto, occorre anche liberare correttamente il «principio» costante e non sbagliarsi sulle «sue forme d’applicazione più efficaci».
Prendiamo l’esempio della liturgia: la riforma liturgica di San Pio X del 1912, proseguita da Pio XII e conclusa nel 1961 sotto Giovanni XXIII, seguì esattamente la regola: sopprimere le incrostazioni accidentali e onorare il principio: il «principio» era la recitazione settimanale dell’intero salterio nell’ufficio divino e la conservazione integrale dell’ordinario della Messa, per rispetto dell’espressione del sacrificio propiziatorio. E le «incrostazioni» erano un santorale invasivo, l’accavallarsi delle commemorazioni, la moltiplicazione delle ottave, l’anticipazione della vigilia pasquale al sabato mattina, ecc. Ma si noti che per effettuare questa riforma non fu necessario «assimilare» alcuna «nuova forma».
Di contro, la riforma liturgica di Paolo VI ha decisamente soppresso il principio dell’intero salterio settimanale e, cosa ancor più grave, il principio dell’Ordo Missae integrale; essa ha voluto attenuare l’espressione del sacrificio propiziatorio realizzato in persona Christi dal solo sacerdote. Si trattava infatti di assimilare l’idea di uguaglianza e la forma democratica del «mondo attuale». Il «principio» così liberato era quello che i liturgisti degli anni trenta e quaranta aveva preteso di riscoprire: il sacerdozio comune dei fedeli (94), corrispondente alla immaginata liturgia fraterna originaria. Si è cambiata dunque la «forma» gerarchica del culto: altari rovesciati (95), banco della comunione soppresso, instaurazione del dialogo fra il sacerdote e i fedeli, ovviamente, in lingua volgare, al fine di «fare entrare i neo-pagani battezzati del nostro mondo nella sostanza vivente della preghiera liturgica (96)». Poiché lo Spirito non passava più, si accusava la lettera, e poiché la Vita non era più comunicata, si accusava la forma, invece di accusare se stessi di aver perso lo spirito liturgico. Mai un Mons. Lefebvre aveva provato lo iato tra la sua liturgia e la sua pietà, tra una cerimonia impeccabile e la vita di adorazione e di sacrificio: al contrario. E questa unione della forma e della vita, egli la constatava presso i suoi Africani, i quali, senza sapere né leggere né scrivere, né tampoco comprendere il latino, erano in grado di cantare a memoria i vespri e di recitarli «in Chiesa», con tutta la devozione e tutti insieme. È questa alleanza della forma e della vita che Monsignore infonderà alla sua Fraternità sacerdotale, conservando nel contempo e la lettera e lo spirito.
Si può capire allora chi, tra il teologo “uscito dal lager” e il vescovo missionario, fosse il «vero riformatore», il vero «profeta» atteso dalla Chiesa, tanto per usare gli stessi termini del padre Congar. Un profeta, lui diceva, sconvolge l’andamento corrente con la sua apparente novità. Certo, ma si conobbe anche subito l’andamento degli affossatori della Tradizione, che sconvolgevano la reviviscenza di questa Tradizione che rinasceva malgrado loro!
Le cinque regole del padre Congar per una vera riforma appaiono dunque equivoche. Bisognava davvero cambiare la lettera per ritrovare lo spirito? Sono i principi che devono conformarsi alle forme adattate alle circostanze o sono le forme che devono conformarsi ai principi? I profeti predicano la novità o la fedeltà? E che cos’è l’andamento: il cristallizzarsi nella rivoluzione o il combatterla?
(su)

Per giustificare l’assorbimento degli errori,
si ammorbidiscono i principi della Tradizione


37. Il peggior paralogismo di queste regole consiste nel giustificare l’introduzione delle novità con un ammorbidimento, un ampliamento dei principi, operato dalla forza stessa delle novità introdotte.
Il concilio Vaticano II fornisce una quantità di esempii di questo ammorbidimento dei principi. Eccone alcuni. Enunciamo prima i principi tradizionali, subito dopo, con un «ma», mostriamo il loro ampliamento conciliare.

- La Chiesa è certo un’unità di fede, di sacramenti e di governo: ma è prima di tutto una comunione nello Spirito Santo. Quindi, poiché la carità e l’influsso dello Spirito Santo ammettono, più o meno, anche la comunione, certe denominazione cristiane, che sono «in una più o meno grande comunione» con la Chiesa romana, meritano il nome di realtà ecclesiali.

- La Chiesa cattolica è certo la società della salvezza, ma questo «perché possiede la pienezza dei mezzi di santificazione». Ora, le comunità non cattoliche conservano un buon numero di mezzi di santificazione «che appartengono a buon diritto all’unica Chiesa di Cristo». (Unitatis redintegratio, n. 3, 2). Quindi, a seconda del più o meno gran numero e il più o meno gran valore di questi elementi, esse hanno una più o meno comunione con la Chiesa cattolica. Vista la quantità e la qualità dei mezzi di santificazione che queste comunità conservano, si deve dire che «nel mistero della salvezza non sono affatto spoglie di significato e di valore. Lo Spirito di Cristo infatti non ricusa di servirsi di esse come di strumenti di salvezza» (UR, n. 3, 4)

- La Chiesa fondata da Gesù Cristo è la Chiesa cattolica, indubbiamente, ma nel senso che essa perdura nella Chiesa cattolica e non che si identifica con essa. Quindi è più esatto dire che la Chiesa di Cristo «sussiste nella Chiesa cattolica» (Lumen gentium, n. 8, 2). Questo permette di capire che gli elementi di verità e di santificazione che presso i cristiani separati non godono più di questa sussistenza, sono nondimeno degli «elementi ecclesiali».

- La Messa è il sacrificio della croce rinnovato sacramentalmente sull’altare per mezzo del ministero del sacerdote che pronuncia le parole della consacrazione, senza dubbio. Ma la Messa è più che questa immolazione sacramentale di Cristo, essa è il sacrificio di tutta la Chiesa, Capo e corpo, che è offerto con e da Cristo e che si offre con e per lui. Questa verità patristica misconosciuta permette di capire che tutti i fedeli hanno una funzione sacerdotale, che deve esprimersi oggi nel rito, nella lingua e nella posizione dell’altare, cosa che giustifica una riforma liturgica.

- Cristo deve regnare socialmente, sicuro, e la società civile ha dei doveri verso Dio, certo; essa deve indubbiamente sottomettersi al suo scettro, senza dubbio; quindi lo Stato deve professare la sola religione accetta a Dio, la religione cattolica. Ma questo vale nella situazione storica che vede un monarca cristiano come l’imperatore Costantino o nella congiuntura di una società unanimemente cattolica, come nel Medio Evo. Occorre dunque ricercare il principio più puro, indipendentemente dalle circostanze storiche. Ora, questo principio più autentico, più elevato e più universale è semplicemente la libertà della Chiesa nella predicazione del messaggio evangelico. Si comprende così che, per principio, la Chiesa non deve cercare lo statuto di religione ufficiale, né lo Stato deve accordarle un riconoscimento speciale.

- La libertà di ogni culto, quale che sia, non è un diritto naturale della persona, così che lo Stato, per il bene comune, può contenerlo nei confronti dei non cattolici, su questo non c’è dubbio. Ma il diritto è inteso qui nel senso di diritto oggettivo: il vero culto per il vero Dio. Ora, occorre pure tenere conto della soggettività delle persone, del loro dovere di seguire la loro coscienza e di cercare liberamente la verità (Dignitatis humanae, n. 2, 2) e quindi del culto che esse praticano di fatto e col quale si ordinano direttamente a Dio (DH, n. 3, 3). Questo permette di capire che nessuna autorità umana può impedire loro di rendere il loro culto secondo la propria coscienza: è ciò che, nell’ordine civile, si chiama diritto soggettivo alla libertà religiosa.
(su)

Ermeneutica semplicistica ed ermeneutica scientifica

38. Il nostro scopo non è di confutare tutti questi paralogismi, che sono ben evidenti, ma quello di mostrare il loro vizio comune. Dal momento che i valori moderni che bisogna «introdurre nel cristianesimo» contraddicono i principi della Tradizione, si cerca di cambiare questi principi o quanto meno di renderli più morbidi: renderli più permeabili ai nuovi valori, più ampi, per poterveli integrare. In tal modo si aggira il principio di non contraddizione.
L’ampliamento dei principi consiste nel reinterpretarli alla luce dei nuovi valori da assimilare. Questa reinterpretazione è il compito dell’ermeneutica, scienza dell’interpretazione. Fino al Concilio si interpretavano le novità alla luce, cioè col vaglio, della Tradizione, e generalmente per rigettarli. Secondo i progressisti, da questa ermeneutica semplicistica derivava la rigidità, l’intorpidimento, la cristallizzazione della Chiesa in forme desuete e separate dal mondo com’esso era divenuto a partire dal 1789. Un concilio pastorale, preoccupato di rendere accettabile agli uomini «del mondo attuale» il mistero della salvezza, doveva cambiare le forme di presentazione. Ora, le nuove forme contraddicevano i principi in vigore, dunque bisognava trovare loro dei principi adatti. E il procedimento più semplice consisteva, non nel far rinunciare alla Chiesa i suoi principi, ma semplicemente nel reinterpretarli, grazie all’ermeneutica storicista moderna.
Al tempo stesso, si emendavano le forme nuove dai loro eccessi di soggettivismo, per metterle in precisa sintonia con i principi reinterpretati.
Il tal modo, si sarebbe realizzata una duplice e reciproca purificazione, o una correzione dei principi con la novità e della novità con i principi. Così, la Tradizione veniva revisionata per far posto alla novità e la novità veniva debitamente emendata per rientrare nella Tradizione.

Per tornare al Concilio, la rilettura del magistero passato, debitamente revisionato alla luce delle idee liberali, a loro volta debitamente ripulite, permetteva di realizzare la loro sintesi e la loro conciliazione: tale conciliazione è il Concilio.
Parimenti, cinquant’anni più tardi,  la nuova rilettura del passato alla luce delle affermazioni conciliari anch’esse debitamente ripulite, permette di effettuare la «conciliazione della conciliazione (97)» e di comprendere che il magistero conciliare si integra nella continuità dell’autentica Tradizione della Chiesa.
L’ermeneutica unitaria è dunque una scienza preziosa che permette, esattamente come la dialettica hegeliana, di superare una contraddizione ed affermare una continuità là dove non ve n’è alcuna.
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Il colmo della finezza dell’arte ermeneutica

Il punto d’applicazione più raffinato dell’arte ermeneutica è la giustificazione della dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa. Bisogna scartare, dice il Papa Benedetto XVI, l’«ermeneutica della rottura», che risulterebbe, in materia, da una lettura superficiale della dichiarazione Dignitatis humanae e da una lettura prioritaria delle dichiarazioni di Gregorio XVI, Pio IX, Leone XIII, San Pio X, Pio XI e Pio XII. Questa cattiva ermeneutica porterebbe effettivamente a vedere nella Dignitatis humanae una dottrina contraria alla dottrina tradizionale della Chiesa. Ora, questo è impossibile, vista la natura necessariamente magisteriale del Concilio. Il magistero della Chiesa non può contraddirsi. L’assistenza dello Spirito Santo di cui ha necessariamente goduto il Concilio, ha necessariamente impedito ogni contraddizione.
Ma noi abbiamo già fornito diverse buone ragioni per le quali il Concilio non è magisteriale, e la più grave è sicuramente la sua intenzione di introdurre delle novità pretendendo che siano tradizionali.

39. Certo, vi sono delle novità che realmente non sono tali. Esse urtano abitudini inveterate, ma si iscrivono nella Tradizione autentica. Così, San Francesco d’Assisi e i suoi «mendicanti» facevano temere una rinascita dei catari o dei valdesi, ma vi era una differenza: che è una regola generale:

il movimento eterodosso colpisce per il suo aspetto critico e negativo: un’opposizione aspra al clero cattolico. Al contrario, è notevole che negli scritti e nelle parole relativamente numerose che noi abbiamo di San Francesco, non si trovi alcuna critica dello stato delle cose e degli uomini della Chiesa; vi si esprime invece un grandissimo rispetto del sacerdozio, dei sacramenti, delle cerimonie della Chiesa, nei confronti delle quali gli «apostolici» dimostrano chiaramente di ritrarsi (98).

E San Francesco voleva far vivere ai suoi fratelli solo la radicalità del Vangelo. La novità era solo quella del Vangelo, che evidentemente è la Tradizione autentica.
Parimenti, il ritorno alla liturgia romana promosso nel XIX secolo da Dom Prosper Guéranger e il ripristino del canto gregoriano nelle parrocchie promosso da San Pio X all’alba del XX secolo, furono delle riforme tradizionali: che hanno fatto vivere alla Chiesa la novità dello Spirito, rinnovandola con delle tradizioni autentiche che erano state abbandonate un tempo per spirito di novità!
(su)

«Sentire cum Ecclesia»

40. Per discernere tra spirito di novità e novità dello Spirito, Dio fornisce dei segni, che sono di quelli che Sant’Ignazio di Loyola enuncia nelle sue «regole per sentire con la Chiesa». Eccone alcune:

1. Messo da parte ogni giudizio, dobbiamo avere l’animo disposto e pronto a obbedire  in tutto alla vera sposa di Cristo Nostro Signore che è la nostra santa Madre Chiesa gerarchica. 2. Si lodi la confessione fatta al sacerdote… 3. Si lodi l’ascoltare spesso la Messa, così pure i canti, i salmi e le lunghe preghiere… 4. Si lodino molto gli ordini religiosi, la verginità e la continenza… 5. Si lodino i voti religiosi di obbedienza, povertà, castità… 6.  Si lodino le reliquie dei Santi, venerando quelle e pregando questi… 11. Si lodi la dottrina positiva e quella scolastica, perché… è più proprio degli scolastici, quali San Tommaso… definire o chiarire nei nostri tempi, le cose necessarie alla salute eterna, anche in vista di meglio combattere e spiegare tutti gli errori e tutti gli inganni dei nemici della Chiesa (99).

Si vede quanto i desideri di riforma delle forze impulsive del Concilio contraddicano queste regole di discernimento degli spiriti: questi riformatori non «sentivano con la Chiesa». Il magistero conciliare – o ciò che si dava per tale – era imbevuto di spirito di novità e non di novità dello Spirito. Le novità che promuovevano questi innovatori non si iscrivevano realmente nella Tradizione autentica; occorreva l’uso di un’ermeneutica viziosa per farli entrare come a forza nella Tradizione, «interpretando» quest’ultima a loro piacere, vale a dire correggendola secondo i loro bisogni.
(su)

L’ermeneutica praticata dagli antichi concilii,
vista dai padri della Chiesa


41. Si potrebbe obiettare che il Vaticano II,  nella sua reinterpretazione del magistero anteriore, non ha fatto altro che seguire l’esempio dei concilii di Efeso e di Calcedonia (100). Il concilio di Nicea, che nel 325 aveva proclamato contro Ario la consustanzialità del Verbo col Padre, sembrava non bastasse ad evitare ogni nuova eresia. Con ripugnanza, i concilii successivi acconsentirono ad aggiungere delle precisazioni al simbolo della fede di Nicea. Il concilio di Efeso, nel 431, proclamando la Vergine Maria «Madre di Dio», Theotokos, contro Nestorio, nel suo primo canone operò la prima precisazione sotto pena di anatema (Dz 113, DS 252). Il concilio di Calcedonia, nel 451, contro l’eresia monofisita di Eutiche, si decise a presentare una definizione (horos) della fede, una novità: «Consonanter omnes docemus» (Dz 148, DS 301). Esso definiva la distinzione delle due nature, divina e umana, di Cristo in una sola persona, quella del Verbo. Poco dopo, nel 458, i vescovi conclusero che Calcedonia fosse stato «un’interpretazione più ampia» di Nicea. Il termine interpretazione (hermeneia) è usato anche da Sant’Ilario (syn. 91), quando parla dei Padri che, dopo Nicea, hanno «interpretato religiosamente la proprietà del consustanziale». In questa interpretazione non si trattò di una rilettura o di una revisione del simbolo di Nicea, ma di una spiegazione più dettagliata. Tale è, quindi, il senso dell’hermeneia realizzata da Calcedonia. Più tardi, Vigilio di Tapso, al cospetto delle eresie apparse nuovamente, affermerà la necessità di «definire dei nuovi decreti che tuttavia mantengano intatto ciò che i precedenti concilii hanno definito contro gli eretici (101)». In seguito, Massimo il Confessore dichiarerà che i Padri di Costantinopoli hanno solo confermato la fede di Nicea, contro quelli che cercavano di cambiarla secondo il loro intendimento: per Massimo, Cristo che sussiste «in due nature» non costituisce un’altra professione di fede (allon pisteos symbolon), ma solo una visione più penetrante (tranountes) di quanto affermato da Nicea, che dovrà essere ulteriormente difeso contro le interpretazioni deformanti, con delle interpretazioni e delle messe a punto ulteriori (epexegoumenoi kai epexergazomenoi) (102).
In tal modo, riguardo sia al fine sia alla forma, è precisata l’ermeneutica (hermeneia) che i primi concilii hanno praticato nei confronti del magistero anteriore.
Riguardo al fine, non si trattava di adattare la Chiesa ad una mentalità moderna, ma di combattere tale mentalità moderna e di neutralizzare l’impatto delle filosofie moderne sulla fede (è proprio infatti degli eretici ridurre la fede a delle speculazioni filosofiche moderne che la corrompono).
Riguardo alla forma, non si trattava di proporre le idee moderne in nome di una fede rivisitata, ma di condannarle in nome della fede immutata, apportando una precisazione all’espressione di questa stessa fede.
(su)

Bisogna rigettare
«l’ermeneutica della riforma e della continuità»


42. L’ermeneutica dei Padri è un’ermeneutica della precisazione, non della revisione.
L’ermeneutica revisionista proposta da Benedetto XVI, per fare ammettere le dottrine e le riforme del concilio Vaticano II, è estranea al pensiero dei Padri; è dunque il caso di rivederla radicalmente.
Bisogna rigettare una «rilettura» che distorce i principi tradizionali a forza di affermazioni audaci. Bisogna condannare un’interpretazione deformante che applica al magistero anteriore la falsa luce delle dottrine contrarie a questo magistero, perfino  da esso condannate.
Bisogna quindi necessariamente rigettare come fallace una «ermeneutica della continuità» che fabbrica una continuità artificiale tra le dottrine, con una deformazione della Tradizione.
L’ermeneutica della riforma e della continuità parte da una petizione di principio: bisogna assolutamente acquisire i valori liberali per fecondare con essi la dottrina della fede. E il processo di questa assimilazione consiste essenzialmente nel rendere permeabili a questi valori i principi della Tradizione, pretendendo di epurare tali valori dal loro liberalismo.
La nostra protesta contro questo procedimento manifestamente grossolano riguarda in particolare il caso emblematico della libertà religiosa, che il Concilio e i suoi avvocati vogliono far passare come conforme alla Tradizione ed il cui insegnamento, dicono, si situerebbe in continuità col magistero precedente. Ma la rilettura che essi fanno del magistero anteriore presuppone a sua volta che nella Chiesa la Tradizione non sia immutabile, ma progredisca continuamente.
Per noi, dietro la pretesa continuità della dottrina conciliare con il precedente insegnamento della Chiesa, si nasconde la rinuncia all’insieme degli insegnamenti costanti ed unanimi dei Padri, dei papi e dei teologi, approvati dalla Chiesa fino alla vigilia del Concilio. Ma  non si può negare che per i progressisti, poiché la Tradizione progredisce, questo insegnamento inanime è soggetto a revisione. Non si rinuncia ai principi, li si corregge solamente.

- Quanto alla Tradizione divina, che abbiamo appena menzionata, il Concilio non osa chiamarla una «fonte della rivelazione» distinta dalla Sacra Scrittura (Dei Verbum 7, 2), e tuttavia essa ha una consistenza propria distinta dalla Sacra Scrittura, poiché tutto ciò che Gesù ha insegnato ai suoi Apostoli non è stato affidato alle Scritture (vedi Gv. 21, 25).
Il Concilio insegna invece (DV 8, 2) che «Questa Tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa». Ma questo è equivoco e perfino falso se con questo si intende che «così la Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina» (DV 8, 2), cosa impossibile.  Infatti, la Rivelazione pubblica è chiusa con la morte dell’ultimo degli Apostoli (103) e nessuno può aggiungervi alcunché. Nel Vecchio Testamento, certo che il mistero della salvezza è stato sempre più esplicitamente rivelato, ma nel Nuovo, i misteri della fede sono semplicemente sempre più esplicitamente insegnati. L’accrescimento si ha in esplicitazione. E ciò che i teologi e i contemplativi di oggi scoprono ed esprimono delle profondità e delle altezze del mistero della salvezza, non supera l’intelligenza che ne ebbero gli Apostoli e i primi Padri e non sorpassa ciò che questi ci svelano nei loro scritti, poiché essi ne ebbero le primizie in tutta pienezza (104). Di conseguenza, è falso fondare la revisione del magistero anteriore sul progresso della Tradizione. Il vero progresso della Tradizione – progresso in esplicitazione – condanna la rilettura di questa stessa Tradizione secondo i pregiudizi dell’uomo moderno.
(su)

Le verità riequilibrate dal Concilio

43. L’ermeneutica conciliare appare essere a doppio senso: una lettura del presente alla luce del passato e una rilettura del passato alla luce del presente. Il perfetto circolo vizioso. Ma in realtà questa ermeneutica si rivela essere puramente e chiaramente a senso unico: la revisione e la correzione della Tradizione sotto l’incalzare della novità. E questo emendamento della Tradizione si fa con dei silenzi, degli spostamenti d’accento, dei riequilibri, di cui diamo qui una campionatura.

- La Chiesa è una comunione, afferma il Concilio; e al seguito, Giovanni Paolo II sottolinea che è una comunione fraterna: «voi siete tutti fratelli», dice Gesù ai suoi discepoli (Mt. 23, 8). Ora, la comunione nella fede è ridotta alla comunione di «tutti quelli che guardano con fede verso Gesù Cristo Salvatore». Lumen gentium mette l’accento su una comunione di preghiera e di carità (105). Così si riequilibra la comunione. Un tempo essa era troppo unilateralmente centrata sulla fede cattolica e la disciplina: si richiamava la comunione nella stessa fede cattolica, la partecipazione agli stessi sacramenti e la sottomissione allo stesso capo, il pontefice romano. E se uno di questi elementi difettava in alcuni, questi non erano affatto in comunione col tutto. La comunione ecclesiale non ammetteva del più o del meno. Il Concilio ha superato questa rigidità (Unitatis redintegratio 3, 6; 4, 1 e 10), perché la Chiesa cattolica fosse più simpatica ai fratelli separati e non li dichiarasse «extra Ecclesiam».

- La Chiesa – dice il Concilio – ha due capi, ma inadeguatamente distinti: il Papa solo e il collegio dei vescovi sotto il Papa. Che la Chiesa avesse un solo capo visibile, il Vicario di Gesù Cristo, significava attribuirle una struttura monarchica desueta. Si è dunque sfumato e perfino passato sotto silenzio il fatto che il corpo episcopale, riunito in concilio o diffuso, è pur sempre sottomesso al Papa per diritto divino. Il concilio Vaticano I aveva definito, perfino con un canone sotto anatema, che «il romano pontefice… ha pieno e supremo potere di giurisdizione su tutta la Chiesa … questo potere… è ordinario e immediato su tutte e ciascuna delle chiese, come su tutti i ciascuno dei singoli pastori e fedeli (106)». Conveniva riequilibrare questa monarchia, riconoscendo al collegio episcopale (sotto e con il suo capo) un potere proprio e distinto su tutta la Chiesa.

- La missione divina della Chiesa è solo il battesimo degli uomini singoli, poiché solo delle persone possono essere battezzate ed essere oggetto della grazia. Bisognava dunque rivedere l’idea di un battesimo delle nazioni e reinterpretare il comandamento di Gesù Cristo ai suoi Apostoli: «ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole…» (Mt. 28, 20). Si doveva rinunciare a credere che la missione integrale della Chiesa e del suo sacerdozio fosse la cristianizzazione delle società civili. Questo avrebbe potuto essere lo scopo del missionario Marcel Lefebvre in Africa. Una volta, erano i capi di Stato che la Chiesa aveva voluto battezzare per primi, allo scopo di guadagnare con più sicurezza tutto il popolo a Cristo. Ma in realtà, per la Chiesa, la libertà della sua predicazione sarebbe la condizione sufficiente della sua missione: il nec plus ultra. Di fronte alle minoranze o alle maggioranze non cattoliche, la Chiesa deve oggi limitarsi a rivendicare la sua libertà, non può più avere la pretesa di diventare la sola religione. Anche se rimane teoricamente vero che la società ha dei doveri verso Gesù Cristo, il riconoscimento, da parte dello Stato, della religione cattolica come la sola vera è solo una situazione storica.

- La libertà dei falsi culti, un tempo era considerata solo come una «tolleranza» da parte dello Stato in regime cattolico. Quando lo Stato non poteva impedire un male per il rischio di inconvenienti per il bene comune, gli si lasciava la libertà. Questa libertà era solo un’esigenza del bene comune della società. Essa non avrebbe potuto essere eretta a diritto naturale degli adepti di tali culti, poiché, si diceva, non v’è alcun diritto naturale all’errore e contro i diritti di Gesù Cristo. Per questo motivo, se lo Stato accordava una libertà civile ai culti non cattolici, questa libertà sancita da un diritto civile non era mai altro che una tolleranza. Era questo, in tutta la sua ampiezza, il principio troppo esclusivamente oggettivo della dottrina costante di un tempo. Dignitatis humanae ha riequilibrato questa dottrina, invocando un diritto soggettivo della persona, il suo diritto alla libertà in quanto a immagine di Dio. Questo diritto soggettivo dell’uomo controbilancia il diritto oggettivo di Cristo e della sua Chiesa.
(su)

Conclusione:
un concilio che sembra privo di ogni natura magisteriale


44. In realtà questo riequilibrio è un falso equilibrio, un confronto senza accordo possibile, un antagonismo insolubile, tra il diritto dell’uomo senza Cristo e il diritto di Cristo sull’uomo; è ciò che Paolo VI confessa come il più chiaro risultato del Concilio pastorale, quando dice, nel suo discorso di chiusura del Concilio: «La religione del Dio che si è fatto Uomo s’è incontrata con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio. Che cosa è avvenuto? uno scontro, una lotta, un anatema? poteva essere; ma non è avvenuto. … Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso.»
La natura del concilio Vaticano II è la simpatia; l’autorità del Concilio è dunque l’autorità di una simpatia. È possibile riassumere la storia di questa simpatia, la storia di questo Concilio?
È la storia di un concilio che si è detto «pastorale» e che, a volerci credere, è stato il primo concilio pastorale della storia.
Un concilio di pastori che, contrariamente a tutti i concilii precedenti, non hanno voluto prescrivere né proscrivere alcun pascolo alle loro pecore.
Un concilio pastorale che non ha prodotto alcun decreto pastorale su norme disciplinari precise.
Un concilio che ha voluto cambiare le formulazioni della dottrina della fede usando un linguaggio adattato, cioè meno preciso e dunque permeabile alle nuove idee, per rispondere alle esigenze di un’epoca.
Esigenze che portano il magistero a non riaffermare più la dottrina immutabile, ma ad integrarla nei nuovi modi di pensare, estranei ed opposti a questa dottrina.
Un magistero che ha sostituito alle nozioni tradizionali nozioni nuove e non definite: la Chiesa popolo di Dio, la Chiesa sacramento, la Chiesa comunione, ecc.
Nozioni nuove che corrispondono ad un cambiamento della filosofia: la filosofia soggettivista e personalista degli anni cinquanta.
Degli ampii elaborati che presentano la Chiesa, il sacerdozio e le sue funzioni, spostandone gli accenti e sfocandone i dogmi più deplorati dallo spirito dell’epoca; in altre parole, ampliando le vedute e rinunciando alla precisione dottrinale, nonché procedendo a dei riequilibrii tendenziosi secondo lo spirito del convenzionale «uomo moderno».
Delle nozioni e delle proposizioni equivoche, manipolate secondo un principio che invece di far progredire la dottrina, la fa regredire dall’esplicito all’implicito.
Quindi un concilio di una natura e di un’autorità equivalenti a quelle di una lunga predica o, tutt’al più, a quelle di una lunghissima enciclica.
Un’enciclica che non avrebbe nemmeno l’autorità di un’enciclica, poiché nei suoi grandi temi essa non si iscrive, come dovrebbe fare in maniera patente, nella continuità col magistero anteriore (la continuità è la nota di un magistero autentico – poiché magistero implica trasmissione e trasmissione implica Tradizione).
Una lunga enciclica di un magistero che sembra non autentico, poiché le sue idee centrali non confermano alcuna serie di insegnamenti che si possono reperire negli enunciati del magistero precedente: un insegnamento sui iuris, vale a dire ex nihilo.
Un insegnamento che non è la risultante dell’insegnamento unanime dispensato alla vigilia del Concilio dall’episcopato diffuso, ma il risultato di una fermentazione accelerata degli spiriti dei Padri conciliari nel corso di tre anni (1962-1965), sotto l’influenza di teologi modernisti e liberali condannati di recente dalla Chiesa.
Un insegnamento che, cinquant’anni dopo il Concilio, continua ad essere discusso e perfino rifiutato nella Chiesa, senza che ne risulti eresia o scisma, se non da parte di certi adepti delle dottrine conciliari.
Delle dottrine che pretendono riconciliare la Tradizione col modernismo scavalcando il principio di non contraddizione con l’uso della dialettica hegeliana: tesi, antitesi, sintesi.
Una sintesi che il Concilio s’è proposta come suo scopo originario, sua intenzione essenziale: realizzare l’assimilazione alla dottrina della fede dei «valori liberali» partoriti dalla rivoluzione, invece di volerli condannare nuovamente o invece di riaffermare i «valori» cristiani soprannaturali, di cui i primi sono una contraffazione naturalista.
Un’intenzione fondamentale che è stata una contro-intenzione, privando ipso facto il Concilio, nella misura in cui la si è seguita, di tutta la sua natura magisteriale, contrastando da subito l’assistenza dello Spirito Santo promessa alla Chiesa «non per scoprire una dottrina nuova, ma per conservare santamente ed esporre fedelmente il deposito rivelato (107)».
L’intenzione di produrre la detta sintesi con un procedimento di «purificazione» degli errori liberali da «acquisire», accompagnato da un reciproco processo di «correzione» della Tradizione per renderla permeabile ai detti errori, realizzando così un magnifico circolo vizioso.
Una «ermeneutica della riforma e della continuità», in cui i due termini si rivelano essere in intima contraddizione, indicando l’inanità del processo.

La prima regola di una sana ermeneutica è che bisogna interpretare l’oscuro col chiaro e non il chiaro con l’oscuro: in questo caso interpretare le audacie e gli equivoci del Concilio alla luce della Tradizione, vale a dire attraverso il vaglio del magistero anteriore; e non certo rileggere e reinterpretare le passate decisioni del magistero alla luce di dottrine inconsistenti o ambigue quae sapiunt novitatem (che sanno di novità).
Bisogna ritrovare il principio del «sentire cum Ecclesia», secondo il quale è l’attaccamento alla Tradizione che dà il senso ecclesiale ed è il gusto della novità che lo fa perdere. E osservare il principio secondo il quale il magistero della Chiesa è certo la regola prossima della fede, ma a condizione di essere una regola regolata: regolata dalla Tradizione, e non certo una regola autonoma senza chiare radici tradizionali.

Che ci si dica, al termine di questa storia della simpatia degli uomini di Chiesa per la Rivoluzione, se le intenzioni, i metodi e le dottrine centrali di questo concilio «pastorale», permettono di riconoscergli una qualche autorità magisteriale. Poiché questo Concilio è un tutto, ha la sua logica, la sua coerenza complessiva. Anche le cose eccellenti che ha detto sono inficiate indirettamente dalla mancanza d’autorità degli insegnamenti centrali avvelenati, secondo la regola: «Bonum ex integra causa, malum ex quocumque defectu» (una cosa è buona quando in essa tutto è buono, è cattiva quando ha anche un solo difetto).
(su)

I frutti anti-pastorali di un concilio pseudo pastorale

45. Ma dal momento che l’albero si giudica meglio dai suoi frutti, ci resta da descrivere alcuni dei frutti pastorali di questo magistero pastorale.

- La libertà religiosa degli adepti di tutte le religioni non ha favorito la laicizzazione degli Stati ancora cattolici, la moltiplicazione delle sette, la costruzione di moschee nei paesi cristiani, in contrasto con la giustizia del bene comune?

- Nostra aetate vede dei raggi di luce e dei semi del Verbo nelle false religioni (non cristiane) e Giovanni Paolo II conferma che  «Cristo è il compimento dell'anelito di tutte le religioni del mondo e, per ciò stesso, ne è l'unico e definitivo approdo» (Tertio millennio adveniente). Perché stupirsi dunque se queste religioni inventate dal diavolo per perdere gli uomini, siano prese per delle vie di salvezza?

- L’ecumenismo considera le comunità cristiane non cattoliche come degli «elementi ecclesiali», cioè delle «Chiese particolari» «di cui lo Spirito Santo non rifiuta di servirsi» (Unitatis redintegratio 3, 4): perché stupirsi allora se questo produce il risultato di bloccare le conversioni dei non cattolici alla Chiesa e di protestantizzare i riti cattolici?

- Il preteso «sacerdozio comune» dei fedeli battezzati (Lumen gentium), non ha svalutato il sacerdozio ministeriale dei sacerdoti e capovolti i santuari e la liturgia? Di conseguenza, non ha inaridito le vocazioni sacerdotali, svuotato i seminari e contribuito a far perdere agli stessi sacerdoti il convincimento della loro identità sacerdotale?

- La costituzione conciliare sulla liturgia, non ha programmato il nuovo Ordo Missae di Paolo VI senza l’offertorio a carattere sacrificale, giudicato come una deplorevole anticipazione della consacrazione? E questa nuova liturgia non è stata fatta per essere detta dal sacerdote faccia al popolo e in lingua volgare? Ed essa non ha condotto ad offuscare la presenza reale di Cristo nell’eucarestia, confusa con la sua presenza spirituale nell’assemblea dei fedeli (Institutio generalis, 7)? Non ha quasi taciuto sulla natura propiziatoria del sacrificio eucaristico? Non ha diminuito il ruolo gerarchico del sacerdote all’altare e la sua funzione di consacratore come ministro di Cristo Sacerdote? Non è responsabile del fatto che, vent’anni dopo la sua approvazione nel Vaticano II, una gran parte del clero e dei fedeli non credeva più a queste verità di fede definite come dogmi dal concilio di Trento?

- La costituzione Sacrosanctum concilium, non ha condotto la Chiesa ad una banalizzazione del culto liturgico, divenuto privo di bellezza e di attrattiva, una volta privato del canto gregoriano (latino) e dei diversi movimenti dei ministri sacri nel santuario d’un tempo? Non è la misera povertà dei riti «rinnovati» che ha gettato numerosi fedeli assetati di mistero e di simbolismo nelle braccia delle sette gnostiche o carismatiche eterodosse? Invece di una nuova primavera della Chiesa, non abbiamo conosciuto una rapida desertificazione dei riti e una diserzione delle chiese?

- Il nuovo Codice di Diritto Canonico promulgato il 25 gennaio 1983 da Giovanni Paolo II come «un grande sforzo di tradurre in linguaggio canonistico questa stessa dottrina, cioè l’ecclesiologia conciliare», ha voluto riprendere «la “novità” fondamentale del concilio Vaticano II, in linea di continuità con la tradizione legislativa della Chiesa» (108). In realtà, questa sua nota di “novità” non sembra offuscare quella di Tradizione? Essa esalta infatti il «popolo di Dio» a spese della gerarchia sacra; il potere dei collegi episcopali a spese dei poteri, di diritto divino, del Papa sull’intera Chiesa e dei vescovi sulle loro diocesi; i diritti della persona a spese dell’autorità gerarchica; - il tutto sulla base dell’ideologia democratica. E di conseguenza, non ha favorito l’indisciplina del clero e l’arbitrio di un potere pontificio e di un potere episcopale indeboliti e per contraccolpo inflessibili? (vedi il De delictis et poenis, che scusa spesso i delinquenti, e il De iudiciis, che li consegna troppo facilmente alla procedura amministrativa del potere giudiziario della Chiesa). E la perdita dell’autorità a tutti i livelli nella Chiesa, non sfocia infine nella contestazione e nella ribellione dei chierici?

- Secondo Gaudium et spes (GS 48), il legame sacro del matrimonio è stabilito «In vista del bene dei coniugi, della prole e anche della società»; e «l’istituto del matrimonio e l’amore coniugale sono ordinati alla procreazione e alla educazione della prole»; e «Questa intima unione, in quanto mutua donazione di due persone, come pure il bene dei figli, esigono la piena fedeltà dei coniugi e ne reclamano l'indissolubile unità». Ma da queste tre affermazioni non emergono né la natura né l’ordine esatto dei due fini del matrimonio che, secondo la Tradizione, sono: «la procreazione e l’educazione della prole», come fine primario, e «il mutuo aiuto e il rimedio alla concupiscenza», come fine secondario (Codice di Diritto Canonico, 1917, can. 1013, § 1).
Ora, il nuovo codice di diritto canonico (can. 1055, § 1), tace sulla concupiscenza e il suo rimedio e, invertendo l’ordine dei due fini, pone «il bene dei coniugi» prima della procreazione e dell’educazione dei figli, contrariamente a tutta la Tradizione e contrariamente alle esplicite monizioni del Papa Pio XII (cfr. AAS, t. 36, anno 1944, pp. 63-66). Così facendo, il nuovo codice, confermando l’opera di offuscamento del Concilio, ha fuorviato la dottrina del matrimonio: esso ha favorito la contraccezione e l’aborto e, grazie ai nuovi canoni 1095 (2 e 3) e 1098, ha causato innumerevoli dichiarazioni di nullità di consenso, nulle a loro volta.
(su)

Un «concilio pastorale» che è un concilio anti-pastorale

46. Da quanto abbiamo esposto fin qui, è evidente che questi frutti mortiferi sono il prodotto dell’impossibile assimilazione delle idee liberali, democratiche e personalistiche da parte della dottrina della fede, grazie all’opera del Concilio. Alle domande iniziali poste da Giovanni XXIII: come rimediare alla fede superficiale degli anni cinquanta; come guarire la Chiesa dal suo tranquillo torpore sociologico; come riportare di nuovo alla fede e far vivere di essa le anime cristiane contemporanee; il Concilio pastorale ha pensato di dover rispondere: «Cambiamo il volto della Chiesa e riformiamo la dottrina della fede nella maniera adatta per un mondo al quale esse erano divenute entrambe estranee». Ad un problema vero, il Concilio pastorale ha apportato una falsa soluzione. Ha mancato di prestare attenzione all’eco della voce di San Pio X che gli diceva: «No! Non è questo che bisogna fare, o sventurati! Predicate invece Gesù Cristo, Sacerdote e Re, il suo sacerdozio, il suo sacrificio, il suo regno sociale! E così riunirete tutti sotto un solo capo, Cristo! (Ef. 1, 10).
Ahimè, questa voce accalorata di un magistero realmente pastorale fu soffocata e al suo posto si è installato un nuovo magistero, un magistero deviato, un magistero invertito, più preoccupato di adattare Dio all’uomo che gli uomini a Dio. Conservando l’apparenza dell’autorità di Cristo, questo magistero parla il linguaggio dell’uomo, dell’uomo anti-Cristo. «un’altra bestia che aveva due corna simili a quelle di un agnello, che però parlava come un drago (109)». Questo genere di magistero pastorale, in realtà è anti-pastorale: indebolito dal partito preso di non definire alcunché, sovvertito dalla contro-intenzione e dai metodi che abbiamo svelato, questo genere di magistero, malgrado le verità che può enunciare, ha un’autorità magisteriale rovinata. Non merita il credito dovuto ad un vero magistero della Chiesa, il cui carattere è di essere tradizionale.
(su)
NOTE

80 - BENEDETTO XVI, Discorso alla Curia romana, 22 dicembre 2005.
81 - PIO XII, enciclica Humani generis, 12 agosto 1950, Dz 2310, DS 3882.
82 - Ibidem, Dz 2312, DS 3883.
83 - Si veda JOHANN ADAM MÖHLER, Athanasius, I, 112-113; citato e commentato da JOSEF RUPERT GEISELMANN, Die Katholische Tübinger Schule, Herder, Freiburg, 1964, pp. 79-80: cap. 4, Die Lehre Möhlers von der Entwicklung und von dem dogmatischen Fortschritt.
84 - Si veda: PIO XI, enciclica Quas primas, 11 dicembre 1925: «Che se i principi e i magistrati legittimi saranno persuasi che si comanda non tanto per diritto proprio quanto per mandato del Re divino…».
85 - Si veda lo schema sulle relazioni fra la Chiesa e lo Stato e la tolleranza, proposto dalla commissione di teologia (card. Ottaviani) al concilio Vaticano II. Questo testo presentava lo stato della teologia cattolica e dell’insegnamento dei seminari alla vigilia del Concilio. Pubblicato su Le Sel de la terre 39, p. 74 ss.
86 - Si veda: YVES CONGAR, Vraie et fausse réforme dans l’Église, «Application à l’Église», pp. 149-152 e 171.
87 - Ibidem, «La tentation de pharisaïsme», pp. 156, 159, 160; «Fidélité au principe et étapes à franchir», pp. 141 e 171; «Tentation de devenir synagogue», pp. 179-180.
88 - Ibidem, «Retour au principe», pp. 344-346.
89 - Ibidem, «Retour au principe», pp. 346-347.
90 - Ibidem, «Patience, respect des délais», pp. 319-325; JOSEPH RATZINGER, Les Principes de la théologie catholique, pp. 426-427.
91 - Ibidem, «Double tentation de l’[Eglise», p. 152; «Tentation de devenir “synagogue”», pp. 174.
92 - Ibidem, «Rester dans la communion du tout», pp. 282-283.
93 - Ibidem, pp. 179-180
94 - Pio XII, nella Mediator Dei del 20 novembre 1947, accettava e raccomandava anche l’idea del sacerdozio comune, ma al tempo stesso insegnava che «il popolo [cristiano] non può affatto godere del diritto sacerdotale» (Dz 2300). Infine, egli arrivava a definire le funzioni di questo sacerdozio comune solo con l’unione, manifestata nel rito, dei voti dei fedeli con l’intenzione del sacerdote (Dz 2300).
95 - Di fronte al silenzio dell’iconografia e dell’archeologia, si supponeva che l’altare originario avesse la forma della tavola; Pio XII, nella Mediator Dei, condanna il ritorno alla «forma originaria di tavola».
96 - YVES CONGAR, Ibidem, p. 185.
97 - MONS. ALFONSO DE GALARRETA, sermone delle ordinazioni, Ecône, 29 giugno 2011.
98 - YVES CONGAR, Vraie et fausse réforme dans l’Église, «Conclusion», p. 556.
99 - SANT’IGNAZIO DI LOYOLA, Esercizi spirituali, «regole per sentire con la Chiesa», nn. 353-363.
100 - Si veda MONS. TISSIER DE MALLERAIS, L’étrange théologie de Benoît XVI, , Ed. Le Sel de la terre, Avrillé, 2010, chap. I, «L’herméneutique à l’école des Péres de l’Église», p. 15 [La strana teologia di Benedetto XVI, Ed. Ichthys, Albano Laziale, 2012, cap. I, «L’ermeneutica alla scuola dei Padri della Chiesa», p.16].
101 - VIGILIO DI TAPSO, Contra Eutyches, 5, 2.
102 - Si veda: MICHAEL FIEDROWICZ, Theologie der Kirchenväter, Grundlagen frühchristlicher Glaubensreflexion, Herder, 2007, p. 34, che cita MASSIMO IL CONFESSORE, opuscolo 4, PG 91, 260.
103 - SAN PIO X, decreto del Sant’Uffizio Lamentabili, 8 luglio 1907, DS 4321; e la stessa DV 4, 2.
104 - Si veda SAN TOMMASO D’AQUINO, commento a Romani 8, 23: «Ma anche noi, cioè gli Apostoli, che possediamo le primizie dello Spirito, poiché gli Apostoli hanno ottenuto le primizie nell’ordine del tempo e più abbondantemente di tutti gli altri lo Spirito Santo, come accade per i frutti della terra: quello che perviene per primo alla maturità è il migliore e il più ricercato».
105 - Cfr. CONCILIO VATICANO II, Costituzione Lumen gentium, n° 50, 3.
106 - CONCILIO VATICANO I, Costituzione Pastor aeternus, cap. 3, canone, DS 3064.
107 - CONCILIO VATICANO I, Costituzione Pastor aeternus, cap. 4, Dz 1836.
108 - GIOVANNI PAOLO II, Costituzione Apostolica Sacrae disciplinae leges.
109 - aliam bestiam… et habebat cornua duo similia Agni, et loquebatur sicut draco (Ap. 13, 11)



ottobre 2012

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