S. Ecc. Mons. Bernard Tissier de Mallerais
della Fraternità Sacerdotale San Pio X


CHE COS'E' UN CONCILIO PASTORALE?


PARTE PRIMA


Questo studio è stato pubblicato sul n° 67 (inverno 2008- 2009) della rivista Le Sel de la Terre - Intelligence de la foi -  Rivista trimestrale di dottrina tomista a servizio della Tradizione
La rivista, curata da Padri Domenicani collegati alla Fraternità Sacerdotale San Pio X, è una pubblicazione cattolica di scienze religiose e di cultura cristiana, posta  sotto il patronato di San Tommaso d’Aquino, in forza della sicurezza della dottrina e della chiarezza d’espressione del “Dottore Angelico”. Essa si colloca nel quadro della battaglia per la Tradizione iniziata da
Mons. Marcel Lefebvre e si presenta in maniera tale da potersi rivolgere ad ogni cattolico che voglia approfondire la propria fede.


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La traduzione e l'impaginazione sono nostre
Lo studio in formato pdf

(su)
Che cos'è un magistero pastorale?

Che cos’è un magistero pastorale? Basta dirsi «magistero pastorale» per esserlo? E d’altronde, c’è bisogno che un concilio si dichiari «pastorale»? Tutti i concili ecumenici sono stati pastorali, nel senso che hanno condotto le pecore cattoliche ai verdi pascoli della sana dottrina e le hanno protette dalle pasture avvelenate.

1. I verdi pascoli sono i dogmi, le verità della fede cattolica, gli enunciati dei catechismi, che spiegano con termini propri al senso comune (e alla filosofia dell’essere che ne è il momento scientifico) le verità necessarie alla salvezza, da Dio rivelate e da Lui affidate per questa ragione al magistero della Sua Chiesa.
Le pasture avvelenate sono le eresie, le cattive dottrine, contro cui l’Apostolo San Paolo metteva già in guardia i suoi discepoli: «Lo Spirito dice espressamente che negli ultimi tempi alcuni apostateranno dalla fede, dando retta a spiriti seduttori e a dottrine di demonii» (I Tim. 4, 1).
Il modello di magistero pastorale, non è l’enciclica Pascendi dominici gregis di San Pio X? Le parole con cui essa inizia non evocano il dovere del pastore di pascere le sue pecore?

L'officio divinamente commessoCi di pascere il gregge del Signore ha, fra i primi doveri imposti da Cristo, quello di custodire con ogni vigilanza il deposito della fede trasmessa ai santi, ripudiando “le profane novità di parole e le opposizioni di una scienza di falso nome” (1) . La quale provvidenza del Supremo Pastore non vi fu tempo che non fosse necessaria alla Chiesa cattolica (2).

*

È possibile che le opposizioni di una falsa filosofia, quella dei Lumi, che è divenuta quella della Rivoluzione francese e che era anche quella degli anni cinquanta, abbiano infettato perfino il magistero supremo di un concilio ecumenico che si è detto precisamente pastorale?
Questa è la domanda reale che noi ci poniamo.
La possibilità di una tale infezione non può essere esclusa se si considera che l’eresia modernista condannata dal santo Papa, stava rinascendo nella Chiesa alla vigilia del concilio e che lo stesso San Pio X, nel 1907, ne percepisse la profonda penetrazione all’interno stesso della Chiesa:

Stante che per opera del nemico dell’uman genere, mai non mancarono uomini di perverso parlare (At. X, 30), cianciatori di vanità e seduttori (Tit. I, 10), erranti e consiglieri agli altri di errore (II Tim. III, 13). Pur nondimeno gli è da confessare che in questi ultimi tempi, è cresciuto oltre misura il numero dei nemici della croce di Cristo; che, con arti affatto nuove e piene di astuzia, si affaticano di render vana la virtù avvivatrice della Chiesa e scrollare dai fondamenti, se venga lor fatto, lo stesso regno di Gesù Cristo. […] i fautori dell’errore già non sono ormai da ricercarsi fra i nemici dichiarati; ma, ciò che dà somma pena e timore, si celano nel seno stesso della Chiesa, tanto più perniciosi quanto meno sono in vista. […] si dànno, senza ritegno di sorta, per riformatori della Chiesa medesima.

Certo, il concilio ecumenico Vaticano II, riunendo i vescovi dell’intera Chiesa sotto l’autorità del romano Pontefice, era atto ad esercitare il magistero solenne e infallibile della Chiesa, ma possiamo escludere che sia stato distolto dai suoi fini propri da intenzioni contrarie, da metodi strani, a profitto di errori già striscianti o perfino fiorenti nella Chiesa come una trama di falsità? Ecco il dibattito da aprire, portare avanti e concludere. E tuttavia, non vogliamo rimettere in discussione il principio d’autorità del magistero affidato da Cristo alla Sua Chiesa: «Chi ascolta voi ascolta me» (Lc 10, 16), ma è necessario che lo si comprenda.
È di fede che esiste nella Chiesa un magistero vivente e perpetuo, che gode, per l’assistenza dello Spirito Santo, dell’assicurazione dell’insegnamento infallibile della verità rivelata contenuta nella Sacra Scrittura e nella divina Tradizione orale, e che è la norma «prossima» della fede. I concili ecumenici sono uno dei principali organi di questo magistero.
È possibile che un magistero conciliare venga deviato e diventi uno strumento di corruzione della fede? Per rispondere a questa domanda generale potremmo prima stabilire dei principi e poi trarne le conclusioni, ma preferiamo partire dai fatti, che sono più eloquenti delle tesi di teologia. Preferiamo prendere come punto di partenza ciò che il Concilio ha detto di se stesso: della sua natura e delle sue intenzioni; poi considerare, non tanto i particolari degli errori che avrebbe espresso, quanto gli speciali metodi che ha usato per proporre queste dottrine; e da lì giungere all’autorità di cui esse possano godere. Queste dottrine sono contestate nella Chiesa da cinquant’anni, da voci che se non sono sempre più forti, quantomeno sono sempre più numerose (3). Ma l’autorità romana afferma che, pur avendo un carattere di novità, esse si iscrivono necessariamente nella continuità col magistero precedente (4) che necessariamente sviluppano, come dimostra altrettanto necessariamente una corretta ermeneutica.
Ma un concilio che si dice «pastorale», parla in maniera necessaria o in maniera contingente? Esprime una dottrina atemporale o un insegnamento di circostanza? Dispensa l’insegnamento oggettivo del dogma immutabile della fede della Chiesa o una presentazione soggettiva di esso secondo i tipi del pensiero moderno, cioè secondo i pregiudizi di un’epoca, passeggera per definizione?

Un concilio atipico

2. Tutti sono d’accordo nell’attribuire al concilio Vaticano II un carattere atipico tra i concili ecumenici. Giovanni XXIII l’ha voluto «concilio pastorale» e Paolo VI l’ha qualificato come «magistero ordinario supremo» (5). Ora, qui si tratta di novità assolute: un vero concilio «pastorale» deve pascere le pecore col pane di vita e con l’intelligenza del dogma cattolico, dev’essere un concilio dogmatico, che definisce delle verità definitive (per definizione) al fine di escludere ogni dubbio dallo spirito dei fedeli. E il magistero di un concilio ecumenico non è «ordinario», ma «straordinario» per definizione, poiché vi sono riuniti, straordinariamente, tutti i vescovi del mondo attorno al sovrano Pontefice. Dietro questa intrinseca contraddizione dell’espressione «magistero ordinario supremo» può nascondersi la confessione della mancanza di magistero. Vediamolo.
(su)

Un concilio che non ha voluto definire alcunché

3. In contrasto con la maggior parte dei concili ecumenici precedenti, il concilio Vaticano II non ha voluto definire alcunché «definitivamente», come ha spiegato per due volte nel corso del Concilio il segretariato generale, per conto della commissione dottrinale:

Tenuto conto dell’uso conciliare e del fine pastorale del presente Concilio, questo definisce come obbliganti per tutta la Chiesa i soli punti concernenti la fede o i costumi, che esso stesso abbia apertamente dichiarato come tali. Le altre cose che il Concilio propone, in quanto dottrina del magistero supremo della Chiesa, tutti e singoli i fedeli devono accettarle e tenerle secondo lo spirito dello stesso Concilio, il quale risulta sia dalla materia trattata, sia dalla maniera in cui si esprime, conforme alle norme dell’interpretazione teologica (6).

4. Da questa dichiarazione risulta che dal Concilio non è stata insegnata infallibilmente alcuna dottrina, poiché esso non ha prodotto alcuna definizione, tenuto conto che sono infallibili solo le definizioni che stabiliscono che una dottrina debba essere tenuta fermamente dalla Chiesa (7). Naturalmente, il Concilio ha potuto insegnare delle dottrine già insegnate dalla Chiesa come definitive e infallibili, ma esso non v’ha aggiunto da parte sua alcuna infallibilità.
Il Concilio ha potuto anche insegnare delle verità di fede già insegnate dal magistero ordinario universale dell’episcopato diffuso, che è infallibile, come dice Pio IX (8). È il caso dell’assenso di tutti i catechismi preconciliari alle verità riguardanti la fede o i costumi. Il richiesto fermo assenso di fede divina.
Parimenti, il Concilio, col suo insegnamento, ha potuto confermare delle verità che sono solo delle conclusioni teologiche mantenute dal costante consenso dei cattolici, come la natura del Purgatorio e l’esistenza del Limbo, oppure delle conclusioni simili insegnate dai papi o dalle congregazioni romane come teologicamente certe o anche prossime alla fede, verità che richiedono un assenso dell’intelligenza, anche se non di un assenso di fede (9).
E ancora, il Concilio ha potuto insegnare delle verità già insegnate costantemente da uno o più papi in una serie notevole di atti del loro magistero ordinario, e che, come spiegheremo, in ragione di questa continuità e del loro radicamento nella Tradizione, potevano essere insegnate infallibilmente. Un tale insegnamento richiederebbe un fermo assenso dell’intelligenza, quantunque non di fede.
Per contro, la dottrina della sacramentalità dell’episcopato, insegnata ma non definita dalla Costituzione conciliare Lumen gentium (21, 2) e mai definita né tampoco unanimemente insegnata prima, non è insegnata infallibilmente dal Concilio. E la collegialità, l’ecumenismo e la libertà religiosa, mai insegnate dalla Chiesa né propriamente definite dal Concilio, sono parimenti delle dottrine insegnate non infallibilmente. Non si potrebbe pretendere, quindi, di fare di queste dottrine dei quasi-dogmi o perfino delle verità certe, alle quali, per rimanere cattolici, bisognerebbe aderire fermamente.

5. Ma dalla citata dichiarazione del segretariato del Concilio, risulta anche che l’autorità del concilio Vaticano II è ben inferiore a quella degli altri precedenti concili ecumenici. Paolo VI, dunque, si sbagliava e portava fuori strada la Chiesa, dicendo che il Vaticano II è un concilio «che non ha minore autorità e che sotto certi aspetti è perfino ancora più importante del concilio di Nicea (10)», poiché i suoi insegnamenti non sono incontestabili. Probabilmente, con queste parole questo papa voleva sottolineare la profonda riforma della Chiesa attuata dal Concilio, ma non poteva attribuirgli l’infallibilità.
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Un concilio che non ha voluto condannare alcunché

6. La debolissima autorità magisteriale del Concilio appare anche dalla volontà impressagli dal Papa che convocò questa assemblea, di non voler condannare alcunché, promuovendo, nel discorso di apertura del Concilio, la misericordia verso gli errori piuttosto che l’anatema:

Non c’è nessun tempo in cui la Chiesa non si sia opposta a questi errori; spesso li ha anche condannati, e talvolta con la massima severità. Quanto al tempo presente, la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore; pensa che si debba andare incontro alle necessità odierne, esponendo più chiaramente il valore del suo insegnamento piuttosto che condannando. Non perché manchino dottrine false, opinioni, pericoli da cui premunirsi e da avversare; ma perché tutte quante contrastano così apertamente con i retti principi dell’onestà, ed hanno prodotto frutti così letali che oggi gli uomini sembrano cominciare spontaneamente a riprovarle (11).

La «medicina della misericordia» non è evidentemente un rimedio all’errore: si usa misericordia con le persone, con gli erranti pentiti, non con le idee, con le dottrine, che sono incapaci di pentimento e quindi meritano sempre di essere condannate. Quanto alle «necessità odierne», quelle degli anni cinquanta, esse erano caratterizzate dagli attentati contro la liturgia tradizionale, contro le verità di fede sulla divina Rivelazione, contro la natura oggettiva del deposito della fede, contro la divina immutabile Tradizione orale, contro il peccato originale, contro il bisogno del Redentore, contro la necessità della fede in Cristo per la salvezza, contro la Redenzione per mezzo dell’espiazione della Sua Croce, contro la Chiesa sola arca di salvezza, contro il sacerdozio essenzialmente sacrificatore, contro il sacrificio propiziatorio della Messa, senza contare la negazione liberale del regno politico di Cristo Re, le esperienze ecumeniche, la penetrazione del comunismo nel clero, il traviamento dell’azione cattolica, l’oblio del matrimonio ordinato alla procreazione, ecc. Occorreva un’ingenuità disarmante se non un risoluto liberalismo, per pretendere di soddisfare a queste «necessità» senza condannare questo tessuto di errori e questo nuovo modernismo che affliggevano i teologi, i seminari e le università cattoliche e di conseguenza il giovane clero.
L’enciclica Humani generis di Pio XII, del 12 agosto 1950, che condannava una parte di questi errori, era stata accolta in questi ambienti col disprezzo e la ribellione. Era ormai tempo che la Chiesa condannasse questa nuova religione col suo magistero solenne, poiché ciò che «gli uomini sembrano cominciare spontaneamente a riprovare (12)», era proprio la religione cattolica in tutta l’estensione delle sue esigenze di fede integra e di virtù cristiana.

7. Ora, la Chiesa aveva sempre insegnato la verità rivelata in occasione della condanna degli errori opposti. Dopo il concilio di Efeso, nel 431 (13), e più propriamente dopo il concilio di Costantinopoli, nel 553 (14), essa li aveva riprovati con degli anatemi. La Chiesa aveva sempre messo meglio in luce la sua dottrina in occasione delle eresie, proscrivendole «con la massima severità» del suo magistero (15). Così aveva fatto il concilio Vaticano I, dicendo senza ambiguità nel suo preambolo della Costituzione dogmatica Dei Filius sulla fede cattolica:

Noi, basandoci sulla parola di Dio scritta e trasmessaci dalla tradizione così come noi l’abbiamo ricevuta, santamente custodita e sinceramente esposta dalla chiesa cattolica, abbiamo deciso di professare e dichiarare da questa cattedra di Pietro, al cospetto di tutti, la salutare dottrina di Gesù Cristo, proscrivendo e condannando gli errori contrari, in nome dell’autorità che ci è stata data da Dio [DS 3000].

Il concilio di Trento era stato ancora più pesante nel suo preambolo della sessione XIII sull’eucarestia:

Il sacrosanto concilio Tridentino, ecumenico e generale… benché si sia riunito grazie a una particolare guida e protezione dello Spirito Santo, allo scopo di esporre la vera e antica dottrina sulla fede e i sacramenti, e portare rimedio a tutte le eresie e agli altri gravissimi disordini che in questo tempo travagliano miseramente la Chiesa di Dio e la dividono in molte e diverse parti, questo, tuttavia, fin da principio si è prefisso in modo particolare: strappare fin dalle radici la zizzania degli abominevoli errori e degli scismi, che l’uomo nemico in questi nostri tempi turbolenti ha seminato sopra la dottrina della fede, l’uso e il culto della sacrosanta eucarestia… [DS 1635].

E questi due concili, come i concili precedenti, dopo aver esposta con precisione questa dottrina della fede, la precisavano anche in termini brevi e senza equivoci nelle formule negative chiamate canoni, condannando gli errori esposti sotto pena di anatema: «Se qualcuno dice che… sia anatema». E per consenso dei teologi, solo le formule finali dei «canoni» comprendenti l’anatema sono certamente infallibili, e non i testi dei capitoli.
Questo a significare che il modo normale e abituale d’insegnamento del magistero dei concili è la riprovazione degli errori opposti alla dottrina della fede, sia con dei simboli o delle professioni di fede, sia con degli anatemi. Si vede quindi come il concilio Vaticano II, fin dall’inizio e per principio, abbia abbandonato questo modo di esercitare il magistero e l’autorità corrispondente, rifiutandosi di condannare alcunché e volendosi limitare a «valorizzare le ricchezze della dottrina» della Chiesa.
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Il rifiuto di condannare il comunismo

8. Nel Concilio, la volontà di non condannare alcunché si è manifestata particolarmente a proposito del comunismo. Mosca temeva più di ogni altra cosa una sua solenne condanna. Per impedirla, il Cremlino propose la partecipazione al Concilio di osservatori del patriarcato di Mosca, a condizione che il Vaticano II non parlasse del comunismo. L’accordo fu concluso a Parigi nell’agosto del 1962 e confermato a Metz tra l’arcivescovo ortodosso di  Yaroslav, Nikodim, e il cardinale Tisserant (16). Così, ogni volta che un vescovo voleva affrontare in Concilio la questione del comunismo, interveniva il cardinale Tisserant per ricordare la consegna del silenzio voluta dal Papa. Una petizione di 332 Padri conciliari (recante infine 454 firme), consegnata da Mons. Lefebvre al segretariato generale del Concilio il 9 novembre 1965, «si perse in un cassetto». La costituzione Gaudium et spes ha tutto un capitolo sull’ateismo contemporaneo che va « annoverato fra le realtà più gravi del nostro tempo (17)», ma il comunismo come tale vi è menzionato solo con mano di velluto e per l’aspetto militante del suo ateismo:

Tra le forme dell’ateismo moderno non va trascurata quella che si aspetta la liberazione dell’uomo soprattutto dalla sua liberazione economica e sociale La religione sarebbe di ostacolo, per natura sua, a tale liberazione, in quanto, elevando la speranza dell’uomo verso il miraggio di una vita futura, la distoglierebbe dall’edificazione della città terrena. Perciò i fautori di tale dottrina, là dove accedono al potere, combattono con violenza la religione e diffondono l’ateismo anche ricorrendo agli strumenti di pressione di cui dispone il potere pubblico, specialmente nel campo dell’educazione dei giovani.
La Chiesa, fedele ai suoi doveri verso Dio e verso gli uomini, non può fare a meno di riprovare, come ha fatto in passato, con tutta fermezza e con dolore, quelle dottrine e quelle azioni funeste che contrastano con la ragione e con l’esperienza comune degli uomini e che degradano l’uomo dalla sua innata grandezza (18).

Ma l’analisi del comunismo come tecnica di schiavitù di massa e come pratica della dialettica (19), manca totalmente; e l’interdizione di Pio XI di collaborare per niente con il comunismo è passata sotto silenzio, al pari della sua affermazione che «Il comunismo è intrinsecamente perverso e non si può ammettere in nessun campo la collaborazione con esso da parte di chiunque voglia salvare la civiltà cristiana (20)», solo un discreto richiamo in nota rinvia all’enciclica Divini Redemptoris di Pio XI.
Una tale disinvoltura dottrinale e pastorale segna la vergogna di questo concilio che si è piccato di voler cogliere i «segni dei tempi» e che ha taciuto dottrinalmente e pastoralmente sul più mostruoso segno dei tempi.
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Un concilio che non contiene alcun decreto disciplinare

9. Al rifiuto di condannare, il Concilio ha aggiunto l’omissione di produrre alcun decreto disciplinare, perfino nei «decreti» sulla formazione dei sacerdoti, Optatam totius (= OT), e sulla vita e il ministero dei sacerdoti, Presbyterorum ordinis (= PO), accontentandosi di considerazioni generali su «la prima funzione del sacerdote» che consiste nell’annuncio della parola di Dio (PO 4, 1), sull’assemblea eucaristica (PO 5, 3), sull’approfondimento dello spirito di preghiera (PO 5, 3), sul presbiterato (PO 7, 1), sull’obbedienza sacerdotale impregnata di spirito di cooperazione (PO 7, 2), e su tante altre cose vaghe o equivoche, cioè false. Solo alcune indicazioni sono pertinenti, ma senza carattere obbligatorio né concrete direttive. Quanto ai seminari, si trova il suggerimento di «stabilire un congruo intervallo di tempo da dedicare a un tirocinio spirituale più intenso» (OT 12), cosa che Mons. Marcel Lefebvre realizzerà con l’anno di spiritualità che precede gli studi filosofici e teologici: «una sorta di noviziato per i futuri sacerdoti». Quanto ai sacerdoti, essi trovano il consiglio di fare col sacrificio della Messa l’offerta della loro vita (PO 5, 3) e l’incoraggiamento a condurre una qualche vita in comune tra loro (PO 8, 3), cosa che Mons. Lefebvre realizzerà con la sua fraternità sacerdotale di vita in comune senza voti.
Per non essere ingiusti nei confronti del Presbyterorum ordinis, aggiungiamo che lo stesso Mons. Lefebvre considerava questo decreto come il miglior documento del Concilio, in forza del suo capitolo sulla «Chiamata dei presbiteri alla perfezione», e delle sue righe sulla castità, il celibato e la povertà volontarie dei sacerdoti. Questo ci spinge a non «rigettare in blocco» il concilio Vaticano II. Cosa che non corrisponde al nostro pensiero e che non costituirà mai la nostra posizione. In realtà, nei documenti di questo Concilio si incontra della verità e del bene. Ma la domanda che noi poniamo nel presente studio è quella sull’autorità e sulla natura del Concilio. Ed è a questa domanda che vogliamo rispondere.
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Un concilio che si pretende
«pastorale» e «non dogmatico»


10. Al rifiuto di condannare e all’assenza di ogni decreto disciplinare concreto, il Concilio aggiunge l’asserzione di volersi «pastorale». Come se i concilii precedenti, tutti e ciascuno, non fossero stati pastorali ed eminentemente pastorali per la loro preoccupazione dogmatica e disciplinare! E come se l’ufficio dei pastori non fosse innanzi tutto di interdire alle pecore l’accesso alle pasture avvelenate e poi di condurle fermamente ai buoni pascoli. Da subito, questa volontà «pastorale», contrapposta alla cura dottrinale tradizionale, suonava falsa e lasciava aleggiare sul concilio appena iniziato il sospetto di equivoco o quantomeno di mancanza di chiarezza d’intenzione. La formulazione tortuosa e contraddittoria del discorso di apertura del Concilio di Giovanni XXIII rafforzava l’infelice impressione di una grande dissimulazione:

Al presente bisogna invece che in questi nostri tempi l’intero insegnamento cristiano sia sottoposto da tutti a nuovo esame, con animo sereno e pacato, senza nulla togliervi, in quella maniera accurata di pensare e di formulare le parole che risalta soprattutto negli atti dei Concili di Trento e Vaticano I; occorre che la stessa dottrina sia esaminata più largamente e più a fondo e gli animi ne siano più pienamente imbevuti e informati, […] occorre che questa dottrina certa ed immutabile, alla quale si deve prestare un assenso fedele, sia approfondita ed esposta secondo quanto è richiesto dai nostri tempi. Altro è infatti il deposito della Fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione. Va data grande importanza a questo metodo e, se è necessario, applicato con pazienza; si dovrà cioè adottare quella forma di esposizione che più corrisponda al magistero, la cui indole è prevalentemente pastorale. […] la Sposa di Cristo … pensa che si debba andare incontro alle necessità odierne, esponendo più chiaramente il valore del suo insegnamento piuttosto che condannando (21).

Neanche le assicurazioni circa l’ortodossia e la fedeltà al deposito della fede riescono a coprire la loro stessa debolezza, poiché esse vengono smentite dalla distinzione capziosa tra «forma» e «contenuto», che permette di cogliere l’intenzione di cambiare la «forma», cioè la formulazione della dottrina della fede, per una sedicente preoccupazione di adattamento ai pretesi bisogni di un’epoca. Era del tutto prevedibile che cambiando la forma delle verità di fede se ne sarebbe cambiato il contenuto: Pio XII, nella Humani generis, aveva messo in guardia contro il «disprezzo verso la dottrina tradizionale e verso i termini con cui essa si esprime» e contro l’idea assurda che la teologia debba sostituire «nuovi concetti agli antichi», cosa che corrisponde ad un cambio della filosofia (22). Certo, Pio XII ammetteva che le espressioni utilizzate dal magistero «possono venir migliorate e perfezionate», ma la limatura delle parole doveva sempre essere fatta sulla base della più grande precisione e nient’affatto avendo in vista un adattamento, per di più transitorio, ad un auditorio di un’epoca particolare, quella degli anni sessanta, che fatalmente non sarà quello del duemila. Si può dunque dire che, in ragione del «cambiamento di forma», la serietà del Concilio risultava problematica e la sua autorità compromessa da subito.
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Che cos’è un «insegnamento pastorale»?

11. Posto tutto questo a priori, sforziamoci adesso di comprendere storicamente questo progetto di insegnamento «pastorale». Esso corrispondeva a delle tendenze e a delle aspirazioni di una certa teologia contemporanea: ritorno alle fonti e sintesi della fede. Lasceremo ad un difensore di queste aspirazioni la cura di spiegarle. In ogni caso, esse non corrispondono allo scopo di un concilio, che è quello di insegnare le verità necessarie alla salvezza, riaffermandole e precisandole contro quelli che le negano.
Si metteva avanti il fatto che ciascuno dei concili precedenti, ciascuno degli insegnamenti dei papi di prima, mirassero a trasmettere delle parti della dottrina cattolica secondo i bisogni immediati dei tempi, ma senza pretendere di essere l’ultima parola né di considerare l’insieme di questa dottrina.

- Ora, per prima cosa la verità rivelata - si diceva - è sottomessa nel tempo al piano della divina Provvidenza, che ha previsto un processo di interiorizzazione progressiva della verità, in base al quale questa verità, progressivamente rivelata nella Scrittura, deve completarsi nella Chiesa progressivamente (23). Del pari, l’idea e la natura di un sacrificio offerto a Dio, inizialmente erano state quelle di un sacrificio esteriore di animali uccisi, che era solo il «sacramento» del sacrificio interiore e la prefigurazione del sacrificio futuro. Da cui, come dichiarato e annunciato dai profeti, si sarebbe giunti al sacrificio perfetto dell’Uomo-Dio che realizza la coincidenza del sacrificio esteriore col sacrificio interiore, sacrificio perpetuato sugli altari così come l’aveva definito il concilio di Trento come sacrificio propiziatorio. Ma questa prima interiorizzazione doveva essere completata da una seconda: il sacrificio del sacerdote-ostia doveva completarsi anche nella e dalla Chiesa, col vero sacrificio del cristiano, sacrificio universale che costituisce, secondo Sant’Agostino, il Corpo mistico di Cristo.

Bisogna leggere in Sant’Agostino – esorta il padre Congar – i mirabili testi, vertici della contemplazione teologica, in cui questo Dottore dimostra che il vero sacrificio del cristiano, quello nei confronti del quale gli altri sono solo dei «sacramenti», mezzi di realizzazione destinati ad essere superati, non è altro che il corpo di Cristo totale, la tota redempta  Civitas (24).

Ciò è perfettamente ammirevole, e beato il cristiano che medita e contempla questo mistero. Ma l’inconveniente di questo sacrificio «completato» è che non è più propiziatorio. Per cui, quando il padre Congar invitava la Chiesa ad elevarsi a questo stato definitivo di interiorizzazione della verità rivelata e a questo culmine dello sviluppo dogmatico in profondità e in altezza, non invitava il magistero a superare la considerazione intermedia del sacrificio propiziatorio del solo Cristo?
E dal momento che – diceva il padre Congar - «Sant’Agostino spiega la verità del sacerdozio in maniera esattamente corrispondente», non doveva, il magistero, ampliare il sacerdozio a tutto il Corpo mistico?

- Inoltre, per seconda cosa, gli insegnamenti dogmatici dei precedenti concili erano stati dispensati per opporsi a degli errori; le decisioni erano rimaste condizionate da queste riprovazioni. Ne erano derivati dei sospetti su delle verità assolutamente cattoliche, causati dagli errori che le avevano deformate e falsate allontanandole completamente dalla dottrina della fede (25). Si dava come esempio il silenzio, dopo Trento, sul «sacerdozio dei fedeli», falsato da Lutero e per questo condannato, ma che, una volta ben compreso, meritava adesso di essere riabilitato. Quindi, per il bene del popolo cristiano, conveniva recuperare e riacquisire queste verità a torto deprezzate.

- D’altra parte, per terza cosa, dall’orientamento esclusivo del magistero precedente verso la riprovazione delle dottrine erronee, derivava inevitabilmente una frammentazione e un restringimento della dottrina a causa di vedute parziali e unilaterali (26). Mancava una veduta d’insieme che legasse in un tutto armonioso i punti di questa dottrina, tanto nei suoi grandi capitoli, come la salvezza e la redenzione per la croce, la stessa Chiesa (la sua natura, la sua gerarchia, la sua missione), i sacramenti, ecc, quanto nel suo insieme complessivo.
Dunque, il Concilio doveva approntare delle esposizioni «più ampie», in cui utilizzare le lettere di San Paolo e gli scritti dei Padri della Chiesa, ricchi di intuizioni vaste e profonde. Si sarebbe così sviluppata la dottrina, non in precisione ed esplicitazione, ma in pienezza, in bilanciamento e in ampliamento.
La saggezza di un’elite di cristiani vi avrebbe certo trovato il suo vantaggio, poiché le verità della fede sarebbero state viste «dall’alto», unificate per la loro coerenza con certe linee generali del piano della saggezza divina, come si sforzava di fare la teologia contemporanea. Un tal modo di presentare la dottrina, secondo Giovanni XXIII, sarebbe stato più idoneo a far conoscere e stimare la Chiesa cattolica dalle persone esterne ad essa, e anche a «fecondare maggiormente» i cattolici, diversamente di come accadeva con quella specie di offerta per pezzi successivi fino ad allora proposta dal magistero.
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Schemi dottrinali preparatori eliminati a favore di schemi pastorali

12. Questo audace progetto era realmente conforme ai bisogni contemporanei degli uni e degli altri? Era realizzabile? Era idoneo a raggiungere il suo scopo? Vi era bisogno di un concilio per realizzarlo? Era realmente più efficace dei nostri semplici catechismi? Non presentava degli inconvenienti? Quale sarebbe stata la sua autorità magisteriale?
Noi rispondiamo che questa esposizione generale della dottrina era adatta ad un immaginario tempo di pace della Chiesa, nel quale i fedeli conoscano perfettamente le verità necessarie alla salvezza, cioè il loro catechismo, e nel quale la gerarchia non debba combattere alcun errore e deviazione, e nel quale i teologi abbiano solo da contemplare placidamente «la verità certa e immutabile ben conosciuta da tutti», come diceva Giovanni XXIII nel suo ottimismo irenico.
Ora, la realtà degli anni cinquanta era ben altra. Il primo bisogno dell’epoca era in tutta evidenza quello di colmare l’ignoranza crescente dei fedeli circa le verità necessarie alla salvezza; e come restaurare la fede, se non con un catechismo dei fanciulli e degli adulti (27) preoccupato dell’ortodossia e della precisione, se non con la redazione di un catechismo che fosse un modello universale, secondo l’esempio del catechismo di San Pio X (28)? E vi era anche bisogno, come abbiamo già detto, di una nuova e solenne riprovazione (29) degli errori correnti che tendevano a concepire sia una nuova Chiesa più ampia, come se la Chiesa cattolica non fosse più la sola arca di salvezza, sia una nuova religione senza ordine soprannaturale gratuito, senza offesa di Dio per i peccati, senza soddisfazione offerta da Gesù Cristo (30). D’altronde, era proprio un concilio per la condanna di questi errori che concepivano il cardinale Alfredo Ottaviani, segretario del Sant’Uffizio, e i suoi collaboratori; e così l’avevano inteso la maggior parte delle commissioni che, sui temi messi in dubbio, avevano elaborato degli schemi preparatori forse troppo numerosi, ma notevoli per la loro concisione e i riferimenti al magistero precedente. Ora, a causa del fatto che tutti questi schemi erano stati redatti in «stile scolastico» e non corrispondevano alla «più ampia» presentazione dottrinale auspicata da Giovanni XXIII, essi furono scartati (salvo quello del padre Annibale Bugnini sulla liturgia) già all’inizio della prima sessione del Concilio, il 20 e il 21 novembre 1962 (31).
Al posto di questi schemi, considerati «troppo dogmatici e scolastici», Mons. Lefebvre propose (32) che il Concilio elaborasse due tipi di testo per ogni argomento: un testo «pastorale», come auspicavano i progressisti, e un testo dogmatico dal linguaggio ben preciso e con la condanna degli errori per mezzo di «canoni»; ma la cosa venne trascurata. Si sarebbe anche potuto concepire, come abbiamo già detto, la redazione di un catechismo mondiale, che avrebbe incluso la risposta agli errori moderni, richiesta dagli uni, e delle introduzioni di sintesi che avrebbero soddisfatto le richieste degli altri. Ma soprattutto, per far questo non era necessaria un’assemblea deliberante di duemila vescovi, era preferibile una commissione episcopale e delle sotto-commissioni di teologi e pastori d’anime.
Ma poiché il Concilio era già avviato, al posto degli schemi approntati furono febbrilmente prodotti, con l’avallo di Giovanni XXIII, degli altri schemi, ad opera degli esperti degli episcopati delle «rive del Reno (33)», redatti nello stile «pastorale» voluto, che fu quello delle costituzioni pastorali, delle costituzioni «dogmatiche» (che erano certo dottrinali, ma non dogmatiche), dei decreti e delle dichiarazioni (come quella sulla libertà religiosa) del Concilio. Quindi, questo insegnamento preteso «pastorale» era certo possibile e di fatto sarà dispensato, ma al prezzo del sacrificio di tutto il lavoro preparatorio compiuto a Roma in due anni. Bisogna sottolineare la grave imprudenza commessa da Giovanni XXIII nell’accettare un tale capovolgimento. Con questo, la teologia romana rischiava di essere rimpiazzata dalla «nouvelle théologie». Senza dubbio rimaneva la speranza dell’assistenza dello Spirito Santo, ma sarebbe stato più saggio non affliggerlo da subito.
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Schemi imprecisi, regressivi e inconsistenti

13. Le esposizioni «più ampie» sarebbero state almeno più fruttuose da meditare? Senza dubbio, ma l’adattamento di questo lavoro alla sua epoca sarebbe nullo, come abbiamo detto. Peraltro, l’autorità di una tale opera, perfino conciliare, dipenderebbe dalla sua consistenza e dalla sua fedeltà alla dottrina trasmessa fino ad allora; e l’influenza di un tale studio dipenderebbe dal progresso che farebbe fare alla catechesi e alla predicazione dei pastori d’anime.

- Quanto alla fedeltà alla Tradizione degli ampi elaborati conciliari, per il fatto che intendesse parlare non solo ai fedeli, ma anche al mondo (34), il Concilio si prese delle libertà d’espressione nei confronti della sana dottrina, allo scopo di conciliarsi il favore di questo mondo passabilmente ateo e fargli accettare l’offerta di collaborazione della Chiesa. Nella costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, assunse questo linguaggio: «Credenti e non credenti sono generalmente d'accordo nel ritenere che tutto quanto esiste sulla terra deve essere riferito all'uomo, come a suo centro e a suo vertice» (GS 12, 1).
Ora, tale «accordo» è equivoco e maschera un disaccordo fondamentale: infatti, per l’ateo le cose del mondo sono «per l’uomo», punto e basta; ma per il credente, per il cristiano, «le altre cose sulla faccia della terra sono create per l’uomo affinché lo aiutino al raggiungimento del fine per cui è stato creato», cioè «per lodare, riverire e servire Dio nostro Signore e per salvare, in questo modo, la propria anima (35)». Il che è molto diverso.
Certo, lo stesso documento conciliare precisa più avanti che Dio «è il fine ultimo dell’uomo» (GS 41, 1), ma l’equivoco di partenza rimane. Potrebbe la Chiesa fondare la sua collaborazione col mondo su un equivoco? E questa proposta di «collaborazione» da parte della Chiesa costituiva un inimmaginabile abbassamento della dignità della Sposa di Cristo, svilita e ridotta a degli obiettivi puramente naturali e terreni, ed anche un tradimento della missione della Chiesa, che è quella di combattere questo mondo oppure di convertirlo.

- Quanto al progresso della dottrina nell’ambito di vedute «più ampie», in fatto di sviluppo i teologi che patrocinavano queste vedute più ampie avrebbero dovuto confessare che, lungi dall’apportare uno sviluppo dottrinale, esse operano una vera regressione della dottrina dall’esplicito all’implicito, poiché ciò che si guadagnerebbe in armonia e in contemplazione lo si perderebbe in pertinenza e in concisione. Il famoso «sacerdozio comune», in un primo tempo abbaglierà i fedeli e in seguito farà loro disprezzare il sacerdozio propriamente detto e abbasserà la stima dei sacerdoti per il loro stesso sacerdozio.
Si perderebbe in scienza teologica semplice e netta e in catechesi breve e precisa, ciò che si acquisterebbe in saggezza contemplativa troppo riequilibrata e pretenziosa.
In fondo, diceva Mons. Marcel Lefebvre a proposito di questo concilio pastorale: «Le sue affermazioni valgono solo quanto può valere una predica, una predica fatta sicuramente per un’assemblea, per l’assemblea dei vescovi: ma una predica»(36).
Onestamente, questo non è quello che ci si poteva attendere da un concilio, perché mai un concilio aveva acconsentito ad accantonare o a sfumare alcunché di quanto acquisito in precisione dottrinale.

- Quanto alla consistenza della dottrina del Concilio, essa non appare sempre. Ecco per esempio un paragrafo della Lumen gentium:

Siccome oggigiorno l’umanità va sempre più organizzandosi in una unità civile, economica e sociale, tanto più bisogna che i sacerdoti, consociando il loro zelo e il loro lavoro sotto la guida dei vescovi e del sommo Pontefice, eliminino ogni causa di dispersione, affinché tutto il genere umano sia ricondotto all’unità della famiglia di Dio. [LG, 28, 4]

I sacerdoti, i vescovi e anche il Papa potrebbero condurre l’umanità intera… L’unità del genere umano si trasformerebbe nell’unità cattolica… Oppure il contrario (37)? Per quale colpo di bacchetta magica? L’irenismo basterebbe a superare le «divisioni», cioè l’ignoranza, l’incredulità, l’eresia, la persecuzione? Siamo in pieno idealismo.

14. L’influenza reale dei testi «pastorali» equivarrebbe al massimo a quella delle «introduzioni al mistero della salvezza» dei moderni manuali degli anni sessanta. E l’autorità che conferirebbe loro lo stesso magistero «supremo» di questo concilio ecumenico non sarebbe superiore a quella del magistero ordinario del pastore universale, come per esempio l’autorità di un’enciclica. E allora, a che serve? Si tratterebbe solo dell’autorità di una lunga enciclica conciliare.
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Un’autorità che non è neanche quella di
una lunga enciclica


A prima vista, quest’autorità non sarebbe nulla, se ci si attiene a ciò che diceva
Pio XII dell’autorità delle encicliche:

Né si deve ritenere che gli insegnamenti delle Encicliche non richiedano, per sé, il nostro assenso, col pretesto che i Pontefici non vi esercitano il potere del loro Magistero Supremo. Infatti questi insegnamenti sono del Magistero ordinario, di cui valgono poi le parole: “Chi ascolta voi, ascolta me” (Lc. X, 16); e per lo più, quanto viene proposto e inculcato nelle Encicliche, è già per altre ragioni patrimonio della dottrina cattolica. Se poi i Sommi Pontefici nei loro atti emanano di proposito una sentenza in materia finora controversa, è evidente per tutti che tale questione, secondo l’intenzione e la volontà degli stessi Pontefici, non può più costituire oggetto di libera discussione fra i teologi (38).

Certo, un’enciclica contiene numerose dottrine già insegnate anche definitivamente dal magistero. Quanto ai giudizi dei papi su delle questioni fino ad allora disputate, se essi sono precisati e «se il Papa manifesta nettamente la sua intenzione di chiudere definitivamente un dibattito, di fissare irrevocabilmente un punto di dottrina rivelata» (39), essi sono infallibili.
Se non hanno questa solennità, cioè questo carattere preciso e irrevocabile, non sono infallibili; piuttosto che dei giudizi, essi sono degli enunciati. Ma tali enunciati potrebbero avere nondimeno una grandissima autorità ed essere perfino infallibili, posto che si iscrivano in una continuità di enunciazioni dei papi su uno stesso punto di dottrina, pronunciate in nome della parola di Dio scritta o trasmessa (40). Tale è, per esempio, l’insegnamento, rimarchevole per la sua continuità, dei papi Gregorio XVI (Dz 1614-1615), Pio IX (Dz 1755; 1777-1778) e Leone XIII (Dz 1867, 1874), sulle relazioni fra la Chiesa e lo Stato e la tolleranza; come pure l’insegnamento di Pio XII sulla malizia della contraccezione e sulla limitazione delle nascite, date con una patente continuità e con una precisione crescente in tutta una serie di semplici allocuzioni. Tali dottrine non si possono più mettere in discussione.

15. Tutti questi principi bisogna applicarli alla «lunga enciclica conciliare». Per esempio, nelle tre dottrine maggiori del Concilio: collegialità, ecumenismo e libertà religiosa, vi è una patente continuità col magistero precedente? Si è avuta una serie di enunciati magisteriali di cui le dichiarazioni conciliari sarebbero in tutta evidenza il compimento e la piena maturazione? Si è avuta, grazie al Concilio, quella conferma finale di una dottrina tradizionale, che è il segno dell’assistenza dello Spirito Santo di cui avrebbe beneficiato l’episcopato?
(su)

Lievitazione di dottrine senza radici nel
magistero tradizionale


Al contrario, si constatano due fatti innegabili:

Innanzi tutto, durante il concilio Vaticano II si produsse «un processo di lievitazione di tre anni» (41), un’evoluzione accelerata delle idee dei Padri conciliari nel senso di una riforma liberale della Chiesa, a fronte del fatto che la più parte di essi non avevano minimamente pensato, nelle loro diocesi, ad una tale riforma. Certo, ognuno si augurava una qualche riforma puntuale, certi ampliamenti disciplinari, nonché delle riaffermazioni dottrinali contro gli errori, ma erano rari coloro che si auguravano un adattamento allo spirito del mondo liberale. Ora, questo spirito fu loro infuso al momento del Concilio, dai padri più liberali e dai loro teologi (i loro «esperti») ancora di recente sospettati di eterodossia o già sanzionati dal Sant’Uffizio (42). E questa influenza fu amplificata dalla potente pressione dell’opinione pubblica creata dai media, di cui quasi solo i liberali sapevano servirsi.
A differenza dei concili precedenti, Trento e Vaticano I, non si può dunque dire che le maggiori dottrine del concilio Vaticano II riflettano la dottrina quasi unanimemente insegnata dal magistero ordinario diffuso dai vescovi nelle loro diocesi, alla vigilia del Concilio. Ora, questa «unanimità nello spazio» del magistero diffuso è un segno dell’«unanimità nel tempo»: in effetti, ciò che tutti i vescovi insegnano e che unanimemente credono tutti i fedeli in una data epoca, può essere solo una dottrina derivata da una lunga tradizione (43). Si dice, in apologetica, che l’unanimità di una dottrina rivela la sua apostolicità. Così, il riflesso dell’unanimità antecedente dell’episcopato è un segno della verità della dottrina di un concilio; è quindi questa fedeltà riflessa che fonda l’autorità del suo insegnamento, secondo l’adagio di san Vincenzo di Lerino: «Quod ubique, quod semper, quod ab omnibus», si deve credere ciò che è insegnato e creduto ovunque, ciò che è insegnato e creduto sempre, ciò che è insegnato e creduto da tutti. Noi parafrasiamo volentieri così: ciò che è creduto e insegnato ovunque, perché è quello che è stato creduto e insegnato sempre, ecco cos’è che tutti devono credere e insegnare, id quod ubique, eo quod semper, hoc ab omnibus credentum est.
Per conseguenza, queste tre dottrine, che non erano insegnate alla vigilia del Concilio, non sono apostoliche, non risalgono agli Apostoli e dunque non hanno autorità magisteriale.

- Secondo poi, nessuna delle tre maggiori dottrine del Concilio si presenta certo come un giudizio definitivo, né tampoco come la conferma di una serie di insegnamenti precedenti che si possano facilmente reperire negli atti del magistero, tale da imporre per questo l’assenso. Chiederemmo invano ai protagonisti della collegialità, dell’ecumenismo e della libertà religiosa, di produrre le serie di enunciati magisteriali che sfociano in tali dottrine e le confermano. È così che lo schema Bea sulla libertà religiosa comprendeva quindici pagine di testo e cinque di note senza alcun riferimento al magistero della Chiesa, mentre lo schema Ottaviani sulla Città cattolica e le religioni conteneva nove pagine concise di testo e quattordici di note che si riferivano, con numerose citazioni, al magistero pontificio da Pio IX a Pio XII. Quali di questi due schemi preparava un documento di natura magisteriale?
Ne consegue che è anche per queste due ragioni che non possiamo concludere che le tre dottrine principali del Concilio abbiano autorità magisteriale.
E ugualmente, al contrario, se dopo il Concilio, una dottrina da esso insegnata continua per decenni ad essere nella Chiesa oggetto di discussioni e perfino di proteste, senza che ne derivi scisma o eresia da parte dei contestatori, non si tratta del segno che nella materia trattata non è stata impegnata l’autorità del magistero ordinario? È esattamente il caso delle tre dottrine maggiori del concilio Vaticano II: la collegialità, l’ecumenismo e la libertà religiosa, che sono state costantemente negate da due vescovi, Mons. Lefebvre e Mons. de Castro Mayer. E questo rifiuto prosegue ancora, quarant’anni dopo il Concilio. La perseveranza nel mantenerlo, la profondità delle motivazioni, la forza con cui sono affermate queste proteste, non sarebbero un argomento storico tale da costituire l’argomento principe, ancor più dell’argomentazione tratta dal contenuto stesso di queste dottrine contraddittorie, argomento che da solo mette in dubbio queste tre dottrine maggiori e dunque rigetta la loro autorità magisteriale? La Chiesa, infatti, non può insegnare una dottrina che lasci posto al dubbio. D’altronde, il 3 dicembre 1965, due settimane dopo il penultimo voto sullo schema della libertà religiosa, il cui computo aveva dato 249 voti contrari all’insieme del documento su un totale di 1954 voti, uno specialista di diritto internazionale, Mons. di Meglio, aveva dichiarato:
Dal momento che la dichiarazione sulla libertà religiosa è sprovvista di valore dogmatico, i voti negativi dei Padri conciliari costituiranno un fattore di grande importanza per lo studio futuro della dichiarazione stessa e in particolare per l’interpretazione che ne sarà data (44).

Ma una dottrina che occorre ancora interpretare, è una dottrina degna del magistero?

16. Stabilito, dunque, che in mancanza di radicamento nel magistero anteriore e della volontà di confermare quest’ultimo, l’insegnamento delle dottrine maggiori del Concilio è sprovvisto di autorità, possiamo adesso rispondere all’ultima domanda più generale: una presentazione «pastorale» della dottrina da parte del Concilio, non presenta da subito degli inconvenienti, dei pericoli, per un insegnamento magisteriale?


(su)

NOTE

1  - I Tm 6, 20.
2  - SAN PIO X, enciclica Pascendi, 8 settembre 1907.
3  - Si veda: Card. RATZINGER, Les Principes de la théologie catholique, Paris, Téqui, 2005, p. 435.
4  - Si veda: BENEDETTO XVI, discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005, ove si parla di «apparente discontinuità» e di «vera identità».
5  - PAOLO VI, udienza generale del 12 gennaio  1966.
6  - Notificazioni fatte dall’Ecc.mo Segretario generale nella congregazione generale 123a. Allegate al testo della Costituzione dogmatica Lumen Gentium.
- «Cum… doctrinam de fide vel moribus, ab universa Ecclesia tenendam definit» (definizione dell’infallibilità del sovrano Pontefice, CONCILIO VATICANO I, Costituzione Pastor aeternus, 4), «quando… definisce… che una dottrina in materia di fede o di morale dev’essere ammessa da tutta la Chiesa», il Papa è infallibile dell’infallibilità della Chiesa (DS 3074); e questo vale anche per un concilio ecumenico.
- PIO IX, Lettera Tuas libenter all’arcivescovo di München-Freising, 21 dicembre 1863. Dz 1683, DS 2879.
9  - Ibidem, Dz 1684, DS 2880.
10  - Lettera di Paolo VI a Mons. Marcel Lefevbre, del 29 giugno 1975, pubblicata sul n° 205 ter (fuori serie) di Itinéraires, agosto1975, p. 67.
11  - GIOVANNI XXIII, Discorso di apertura del Concilio Vaticano II, 11 ottobre 1962, 7, 2.
12  - Ibidem.
13  - CONCILIO DI EFESO, anno 431, anatemi o «capitoli» di San Cirillo contro Nestorio, Dz 113-124, DS 252-263.
14  - II CONCILIO DI COSTANTINOPOLI, anno 553, anatemi dei «tre capitoli», Dz 213-228, DS 421-438.
15  - Per riprendere il discorso di apertura del Concilio, di Giovanni XXIII.
16  - Si veda JEAN MADIRAN, «L’accordo di Metz» tra Cremlino e Vaticano, Ed. Pagine, Roma, 2011; ROBERTO DE MATTEI, Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta. Ed. Lindau, Torino, 2010, pp. 174-175.
17  - CONCILIO VATICANO II, costituzione pastorale Gaudium et spes, 19, 1.
18  - Ibidem, 20, 2 e 21, 1.
19  - Si veda JEAN MADIRAN, La vieillesse du monde, essai sur le communisme, Paris, NEL, 1966, 1° e 3° parte.
20  - PIO XI, enciclica Divini Redemptoris, 19 marzo 1937, 58 (AAS 29, [1937], p. 96).
21  - GIOVANNI XXIII, discorso di apertura del Concilio: Gaudet mater Ecclesia, 11 ottobre 1962.
22  - PIO XII, enciclica Humani generis, Dz 2310-2311, DS 3881-3882.
23  - È l’idea della Rivelazione continua nella Chiesa con la sua progressiva realizzazione nella storia della Chiesa; idea equivoca, poiché la Rivelazione si è conclusa con la morte dell’ultimo Apostolo. Quest’idea sarebbe stata insegnata da San Bonaventura, almeno è questa l’opinione sulla dottrina del Dottore serafico che verrà proposta da don Joseph Ratzinger nella sua tesi di abilitazione all’insegnamento universitario e che verrà scartata dal suo professore perché «pericolosamente modernista»; si veda JOSEPH RATZINGER, La mia vita, Autobiografia, Torino, San Paolo, 1997, p. 75.
24  - YVES CONGAR, Vraie et fausse Réforme dans l’Église, Paris, Cerf, 1950, p. 138 [Vera e falsa riforma nella Chiesa, Milano, Jaca Book, 1995].
25  - Ibidem, pp. 242-245: «Pericolo di unilateralismo».
26  - Ibidem, pp. 246-247: «La verità giunge fino alle frontiere dell’errore».
27  - Secondo gli ordini dati da San Pio X nella sua enciclica Acerbo nimis del 15 aprile 1905.
28  - Il Catechismo della dottrina cristiana, pubblicato nel 1912 per ordine di San Pio X e imposto alla diocesi di Roma con l’auspicio che fosse adottato dalle altre diocesi d’Italia.
29  - Erano trascorsi dodici anni dall’enciclica Humani generis di Pio XII, che riprovava gli errori della nuova teologia. Sarebbe stato opportuno rendere quest’opera più precisa e più completa.
30  - Si veda: Pio XII, enciclica Humani generis « Circa alcune false opinioni che minacciano di sovvertire i fondamenti della Dottrina cattolica», 12 agosto 1950: errori sul dogma: Dz 2318-2319.
31  - Si veda: ROBERTO DE MATTEI, Das Zweite Vatikanische Konzil, ed. Kirchliche Umschau, 2011, III, 9, pp-295-296 [Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta. Ed. Lindau, Torino, 2010, pp. 235-238].
32  - MONS. MARCEL LEFEBVRE, intervento orale al Concilio, 27 novembre 1962, in Accuso il Concilio, Ed. Ichthys, Albano Laziale, 2002, p. 51.
33  - Si veda: RALPH M. WILTGEN, Le Rhin se jette dans le Tibre, Ed. du Cèdre, Paris, 1975, pp. 23-24 [Ed. italiana: Il Reno si getta nel Tevere].
34  - VATICANO II, costituzione pastorale Gaudium et spes, 2, 1: « Per questo il Concilio Vaticano II, avendo penetrato più a fondo il mistero della Chiesa, non esita ora a rivolgere la sua parola non più ai soli figli della Chiesa e a tutti coloro che invocano il nome di Cristo, ma a tutti gli uomini».
35  - SANT’IGNAZIO DI LOYOLA, Esercizi spirituali, n. 23: Principio e fondamento.
36  - MONS. MARCEL LEFEBVRE, Conferenza a Caussade, 2 luglio 1985.
37  - Come dice l’ultima strofa del canto dell’internazionale comunista: «e domani l’Internazionale sarà il genere umano».
38  - PIO XII, enciclica Humani generis, 12 agosto 1950, Dz 2313 [DS 3885].
39  - FR. THOMAS-M. PÈGUES, O. P., L’autorité des encycliques pontificales d’après saint Thomas, in Revue Thomiste, 1904, p. 529.
40  - Si veda DOM PAUL NAU, Une Source doctrinale, les encycliques, Paris, Cèdre, 1952, pp. 74-75.
41  - CARD. JOSEPH RATZINGER, Les Principes de la théologie catholique, p. 423.
42  - Karl Rahner, Hans Küng, Henri de Lubac, Yves Congar, Edward Schillebeeckx, ecc.
43  - A meno che non si riscontri nel tempo un avvenimento che abbia causato una perversione comune e universale della fede.
44  - RALPH M. WILTGEN, Le Rhin se jette dans le Tibre, Cédre, Paris, 1975, p. 248.



agosto 2012

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