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Intervista al Prof. Enrico Maria Radaelli: La Chiesa ribaltata Del sito Cooperatores Veritatis su cui è stata pubblicata Presentazione del sito Cooperatores Veritatis ![]() Il prof. Enrico Maria Radealli, docente di Filosofia dell’estetica, è discepolo del grande teologo italo-svizzero Romano Amerio, nonché curatore unico della sua opera omnia. Ha scritto diversi articoli sull'origine della bellezza pubblicati dall'Osservatore Romano, ed è autore di diversi libri in difesa del Depositum fidei della Chiesa cattolica: i più recenti Il domani - terribile o radioso? - del dogma, Prefazione di Roger Scruton, Milano, Aurea Domus 2013 (presso la libreria Hoepli a Milano e la Coletti e la Leoniana a Roma) e La Bellezza che ci salva, Prefazione di Antonio Livi, Milano, Aurea Domus 2012 (presso la libreria Hoepli a Milano e la Coletti e la Leoniana a Roma). Recentemente è stata pubblicata dalla Gondolin Editrice la sua ultima fatica, intitolata "La Chiesa ribaltata - Indagine estetica sulla teologia, sulla forma e sul linguaggio del magistero di Papa Francesco", in cui il prof. Radaelli studia attentamente i quattro atti più significativi dei primi nove mesi del pontificato del papa regnante. Molto gentilmente, ha accettato di rilasciare al nostro staff quest'intervista. Lo ringraziamo sentitamente e speriamo che la sua opera in difesa del Dogma porti abbondanti frutti. ![]() La prima
esauriente risposta, e tutta fuori dal coro, agli spiazzanti
interrogativi portati dal magistero di Papa Francesco. È
un'Indagine estetica sulla teologia, sulla forma e sul linguaggio del
magistero del papa argentino, anche alla luce del pensiero gnostico sul
mistero d’iniquità come esposto nella 2a lettera ai
Tessalonicesi. Lo studio prende in considerazione sia il magistero
papale nel suo insieme che nei quattro atti più significativi
avvenuti nei primi nove mesi del pontificato: la Lettera enciclica
Lumen Fidei, l’intervista a Civiltà Cattolica, l’intervista a
Eugenio Scalfari e l’Esortazione apostolica Evangelii gaudium. Il
discepolo di Romano Amerio dimostra in questo libro che la pratica di
un amore senza la sua legge rischierebbe persino – se solo fosse
possibile – il ribaltamento dell’essenza della Chiesa.
Cliccare qui per l'acquisto del libro, per avere una copia con dedica, richiederlo direttamente all'Autore con questa E-MAIL. Cliccare qui per leggere alcuni estratti. INTERVISTA D. - Prof. Radaelli, grazie per averci concesso quest’intervista. Cominciamo subito dal titolo del suo ultimo libro “La Chiesa ribaltata”. Perché “ribaltata”? R.
- Ritengo particolarmente importante l’occasione che mi date di questa
intervista, perché in essa, potendo parlare del mio ultimo
saggio, La Chiesa ribaltata,
cercherò di esporre quella che ritengo l’unica e vera
ermeneutica da seguire del Vaticano II et postea per salvare la Chiesa
dallo smarrimento in atto del suo magistero. Il titolo “La Chiesa ribaltata” vuol essere un
segnale d’allarme. In realtà noi sappiamo (v. p. 149 del libro)
che la Chiesa non può ‘ribaltarsi’ nel senso compiuto di
‘perdere la propria essenza’. Può però – e ciò sta
avvenendo da cinquant’anni – ribaltare l’ordine con cui procede da
sempre la virtù di religione su cui essa è imperniata,
ordine metodologico ricordato fin dal II secolo dal grande vescovo e
martire sant’Ignazio di Antiochia: «La fede è il principio, l’amore il
fine» (v. p. 86) sulla base di innumerevoli indicazioni
testamentarie (p. es. Gv
14,15: «Se mi amate, osservate
i miei comandamenti», dove la condizione dell’amore a Dio
è l’osservanza della sua legge). Il ribaltamento cui mi
riferisco è ciò che Romano Amerio, illustre pensatore
cattolico italo-svizzero del secolo scorso, tutt’ora misconosciuto
malgrado sia stato di gran lunga il primo in tutto il mondo a mettere i
Papi del concilio davanti alle loro potenti contraddizioni metafisiche,
affigge con una definizione rigorosa, precisa e appunto metafisica:
«dislocazione della divina
Monotriade» (R. AMERIO, Iota unum,
p. 315 Lindau). Questa «dislocazione»
consiste nello spostare la Terza Persona della ss. Trinità sulla
Seconda e questa sulla Terza: l’amore al posto del Logos, la volontà prima
dell’intelletto, la libertà in luogo della legge, il sentimento
sopra la ragione. In tutti i miei libri prima o poi si incontra questa
dislocazione di essenze, e in molti essa costituisce il centro
metafisico del loro argomentare, qualsiasi sia il loro orizzonte
tematico. Ma, riferendomi a questo preciso lavoro sul magistero di Papa
Bergoglio – La Chiesa ribaltata
–, ci tengo a dire che tutto il libro è una precisa, argomentata
e circostanziata denuncia di tale sovversione, rivoluzione,
ribaltamento, avvenuta nella Chiesa, nella civiltà, nel mondo.
Il “sistema Papa Francesco” D. - Sino allo scorso anno, quando ci si riferiva al Vicario di Cristo, si diceva “il papa”, al di là del nome. Oggi, invece, quando si parla dell’attuale vescovo di Roma, si dice sempre “papa Francesco”. Infatti, nel suo libro, Lei sostiene che «papa Francesco non è più solo una persona, ma in qualche modo è un sistema» (pag. 36). Secondo Lei, d’ora in avanti, il papato sarà modellato sul “sistema Francesco” anziché sul modello tradizionale? R.
- Il “sistema Francesco” è delimitato alla persona che
attualmente ricopre l’altissima carica: è la sua
personalità, e, più ancora, le sue specifiche intenzioni:
dare al papato la particolare nota che nel libro (p. 35 sgg.) definisco
“sistema”: Papa Bergoglio è teso a infondere nella Chiesa la
qualità specificamente “pastorale” nata nel Vaticano II con la
sovversione della divina Monotriade che si diceva, precisamente nella
forma pastorale con cui quel concilio fu aperto (forma pastorale
ricevuta dalla forza dell’essenza “amore” da cui dipende),
contravvenendo alla corretta forma che si sarebbe dovuta dare a un
concilio universale – un concilio dove è presente il Papa, che
ha giurisdizione universale, è automaticamente universale se
egli vuole esercitare in tale adunanza pienamente tale sua
giurisdizione –, dati i problemi gravi e pressanti che in ordine alla
fede e alla morale gravavano già all’epoca: materialismo,
semiarianesimo, semipelagianesimo, Nouvelle
Théologie, liberalismo, modernismo i più
importanti. La forma corretta avrebbe dovuto essere quella dogmatica,
determinata dall’essenza “logos”.
Il dovere morale di ogni Papa che raduna un concilio universale
è dare le risposte adeguate ai problemi di fede e di morale
presenti nella Chiesa al momento, e tali risposte, dinanzi a
problematiche dottrinali come le sopra viste, possono essere adeguate
solo se garantite dal carisma dell’infallibilità. Se fallibili,
per definizione non sono e non possono essere adeguate. La Chiesa ebbe
anche due concili universali in cui non fu esercitato il carisma
(Laterano I e Lione I), ma solo perché le problematiche che li
avevano resi necessari erano di natura disciplinare, non dottrinale.
Chiesa e mondo, cinquant’anni fa, avevano bisogno di definizioni
dottrinali dogmatiche (e dei complementari anatemi). Il “sistema
Francesco” vorrebbe completare sistematicamente
l’opera iniziata con la forma “pastorale” del Vaticano II, ma
ciò non fa che estremizzare la volontà de-dogmatizzante iniziata con quel
concilio. Il papato però non potrà modellarsi
esemplarmente sul sistema adogmatico di Papa Francesco perché
prima o poi dovrà per sua natura – la natura della Chiesa
è il dogma – tornare alla propria origine dogmatica. In altre
parole, la «dislocazione della
divina Monotriade», per quanto sia di certo la più
grossa, la più potente, la più subdola e misconosciuta
astuzia di satana per vincere Dio, sarà temporanea, di certo
vinta prima della fine della Storia dal ripristino fulgente e splendido
della corretta disposizione delle essenze: il Logos è e resta la
seconda Persona della Trinità, l’Amore è e resta la
Terza. È l’ordine che avrà l’ultima parola nel mondo, non
il disordine. La verità, non la falsità. Se fosse la
falsità, come lo si capirebbe?
D. - Papa Francesco, sicuramente, è un grande comunicatore e un trascinatore di folle. Durante le udienze, gli Angelus, etc…, i “fedeli” gridano “Francesco! Francesco!”: non riescono a gridare “Gesù!”. Siamo, secondo lei, ormai al culto della personalità di papa Francesco? Forse, involontariamente, essi vedono nell’attuale vescovo di Roma non il Vicario, ma addirittura il “successore” di Cristo? R.
- Credere ancora impossibile, dopo i Papi del secolo di
ferro, o Papa Onofrio, o Papa Alessandro VI, tanto per dire i
più distruttivi che la conformazione storica della Chiesa da se
stessa si sia data, che la Divina Provvidenza permetta che sieda sul
Trono più alto non solo un peccatore – tutti gli uomini sono per
definizione peccatori –, ma anche un vero e proprio nemico della
Chiesa, come non solo è ipotizzabile in linea teorica e
plausibilissimo, ma è anche configurato con precisione da quel 2 Ts 2, 6-7 che pongo a incipit di ognuna delle cinque
parti in cui divido il mio libro, è cosa di un’ingenuità
che, come mi faceva rilevare un mio amico carissimo, strenuo difensore
della fede, a tratti diventa colpevole. Quanti sono stati i Papi
simoniaci? e i lussuriosi? e i vanagloriosi? e tutti questi non erano
forse nemici della Chiesa? Certo: lo erano in senso improprio, ma
ciò rendeva comunque possibile che poi si potesse realizzare
anche il senso proprio. Come rilevo a p. 247 del mio lavoro, Papa
Francesco liscia il pelo del gregge sempre dal verso giusto, e non si
sa chi è più narcisista: se le folle acclamanti o il
Pastore acclamato. «Dalla
vanagloria – ricorda san Gregorio Magno, v. p. 256 – nascono le stravaganze dei novatori»,
e noi, negli ultimi cinquant’anni, di questi novatori, di questi Papi
novatori, ne abbiamo visti passare ben cinque, uno dopo l’altro,
ciascuno con il suo lascito di “stravaganze”, cioè di errori, di
ricercate “dimenticanze”, di vere e proprie scorrettezze dottrinali
anche al limite dell’eresia (v. Iota
unum, passim), tutte però – e qui si annida l’astuzia che
però noi potremo a nostra volta mettere nel sacco con la terza,
ma unica vera, ermeneutica del Concilio et postea – elargite a un grado
di magistero non duramente e inequivocabilmente impegnativo per i
Pastori come sarebbe il grado dogmatico. Bergoglio, come dimostro riga
per riga nel mio libro, è la polarizzazione vivente di tutto
questo.
D. - Papa Francesco, nell’E.G., parla di «conversione del papato». Effettivamente, da quando Paolo VI depose la propria tiara, non è stato forse creato il “pontificato ad personam”? Il simbolo delle tre autorità del romano pontefice è stato sostituito, a suo avviso, con la personalità del papa regnante? R. - In La Chiesa ribaltata mi soffermo a
lungo (pp. 60-7) sul significato da dare al particolarissimo plurale
maiestatico papale: il suo abbandono va inquadrato nella generale
intenzione sopra vista di de-dogmatizzazione.
Si può notare, in generale, un certo larvato sempre maggiore
distacco, nella “narrazione religiosa” del colloquio con i fedeli da
parte di Papa Bergoglio, dalla figura di Cristo, ma è ancora
presto per arrivare a delle conclusioni.
D. - Qualcuno ha definito papa Francesco “il primo vero ‘papa conciliare’”. Lei condivide questa definizione? R.
- In realtà, è il suo sogno. Ma cosa vuol dire “Papa
conciliare”? Nell’accezione che possiamo cogliere da Papa Bergoglio,
ciò vuol dire due cose: primo,
‘Papa la cui autorità vale in ordine all’autorità del
concilio (Vaticano II)’, o ‘conferitagli dal concilio (Vaticano II)’,
il che, se fosse professato apertis
verbis, sarebbe un’eresia, ovvero l’eretica concretizzazione dei
dettami del conciliabolo di Pisa e del concilio di Costanza prima
dell’intervento correttivo di Papa Gregorio XII; secondo, ‘Papa che attua pienamente
il concilio Vaticano II’, come ho già accennato, e anche questa
è un’accezione ereticale, tanto quanto sono ereticali i dettami
di quel concilio (v. libertà religiosa, collegialità
episcopale, antropologia antropocentrica, sacramentalità delle
altre fedi, condivisione del medesimo ente divino con ebraismo e
islamismo eccetera), e in se stessa, specialmente, lo è la forma
stessa data a quell’adunanza che, come ricordo nei miei Il domani del dogma e La Chiesa ribaltata, non corrispose
alla misura con cui avrebbe dovuto corrispondere alle esigenze presenti
nella Chiesa al momento in cui fu indetto – le fu impressa una forma mere pastorale e dunque non
risolutiva invece che la forma rigorosamente dogmatica e giudiziale
dovuta –.
D. - Un pontificato, quello di Francesco, fatto di gesti, parole, silenzi, etc…, ma senza un vero e proprio magistero. La Chiesa non ha più nulla da insegnare ai suoi figli e al mondo intero? R.
- Attenzione: la de-dogmatizzazione
di cui stiamo parlando – e che Papa Francesco si è prefisso di
portare a termine compiutamente allorché dice di voler “compiere
il Vaticano II” – consiste proprio in questo: non insegnare, di fatto,
più nulla. Ossia non
insegnare più nulla che non piaccia al mondo. La Chiesa,
come denuncio a p. 186 del libro, fino al Vaticano II Mater et Magistra del mondo, ora
non solo non è più né Mater né Magistra, privando il mondo di
quell’amore materno e di quella verità suprema di cui è
l’unica portatrice, ma, del mondo una volta suo discepolo, essa si
è fatta ligia e acquiescente discepola. E figlia: sempre attenta
a non urtare l’esasperata sensibilità del nuovo suo “maestro”.
E, tutto ciò (v. san Gregorio Magno), per pura vanagloria
(cioè per superbia).
Il primato dell'ortoprassi sull'ortodossia D. - Formalmente e ufficialmente – molti sostengono – il “depositum fidei” non sarà cambiato, ma sarà svuotato di significato per mezzo della “nuova pastorale”, basata sulla casistica personale, sociale e culturale. La Chiesa ha smesso di evangelizzare, ma si è impegnata nel campo della sociologia? R.
- La mia tesi fondamentale, fortemente esposta in tutti i miei lavori,
specie nei due ultimi, è che nella “pastoralizzazione” totale e
universale dell’insegnamento della Chiesa i Pastori
“vaticansecondisti”, ossia seguaci della dottrina, della forma e del
linguaggio de-dogmatizzanti
dello spurio e meramente pastorale concilio Vaticano II, svuotato il depositum fidei senza però
intaccarne formalmente l’integrità, non hanno nulla da temere
sul lato dogmatico, ossia non possono venire in alcun modo accusati di
cambiare la dottrina, perché in effetti, formalmente, dogmaticamente, non la stanno
affatto cambiando. Ciò che io denuncio nei miei libri (pp. 192-5
de Il domani del dogma e pp.
70-1 de La Chiesa ribaltata)
è proprio questo: che devoce essi sostengono (v. le celebri
distinzioni ermeneutiche di Benedetto XVI nel Discorso
alla Curia Romana del Natale 2005) di tenere una continuità
con il magistero della Tradizione che de
facto smentiscono nella più spregiudicata rottura. Questa
terza ermeneutica, né “continuista” come la scuola
ratzingeriana, né “di rottura” come la bolognese e la
sedevacantista, ma “falso-continuista”, cioè sostanzialmente
equivoca, non è considerata da nessuno, né tra i
“vaticansecondisti”, come si può capire, né, stranamente,
tra i tradizionisti, ma è l’unica vera: essa è la strada,
semplice semplice, aperta dai novatori per potersi spostare impunemente
dalla dottrina veridica alle falsificazioni correnti, approfittando
dell’anello debole del magistero, il pastorale, che è chiamato a
essere coerente con i suoi due gradi dogmatici solo “moralmente”, e,
come si sa, il vincolo morale è un vincolo forte solo se
è forte l’imperativo di chi lo deve osservare. I nemici della
Chiesa (oggi infiltrati a tutti i livelli) stanno lavorando
perché i loro molto distruttivi insegnamenti dilaghino nella
Chiesa senza alcun controllo approfittando precisamente di questa molto
alta e sottilissima discrezionalità.
D. - Mettendo in “congelatore” il dogma, dando la supremazia alla prassi, non si rischia di costruire la casa non sulla roccia, ma sulla sabbia? R.
- A p. 191 di La Chiesa ribaltata
rilevo che continuando sulla strada falsissima intrapresa la sabbia con
cui si sta costruendo la Chiesa oggi diverrà presto fango, e a
p. 271 faccio notare che nel frattempo però si fa credere che la
sabbia è basalto, l’argilla ferro, l’acqua roccia. E questo, di
nascondere la finzione, è cosa ancora più grave della
finzione in sé.
La «dislocazione della divina Monotriade» D. - Santa Ildegarda da Bingen, Dottore della Chiesa, nel 1200 profetizzò che l’Anticristo avrebbe convinto tutti che ciò che conta è “volersi bene”, tutto il resto, cioè la Verità, è superfluo. Infatti, viviamo in un mondo in cui si può “peccare per amore”. L’Agape, come ha rilevato per primo Romano Amerio, ha preso il posto del Logos nella Chiesa, distorcendo la SS. Trinità stessa. Può parlarci della «dislocazione della divina Monotriade» denunciata magistralmente da R.A.? R.
- Per decenni lo Iota unum
di Romano Amerio fu l’unico libro – e sottolineo l’unico – che i
tradizionisti di tutto il mondo lessero e alzarono a bandiera della
loro giusta resistenza al falsificante magistero della Chiesa
“vaticansecondista”. Mi chiederò però per tutta la vita
come mai nessuno di essi – e sottolineo nessuno –, né nessuno
degli stessi “vaticansecondisti”, ritenne doveroso e necessario
rilevare almeno il principale dei due fari che il grande Luganese fece
risplendere nel suo capolavoro, parlo appunto della «dislocazione della divina Monotriade»
che abbiamo visto giusto all’inizio. Il mio Maestro, a dir la
verità, come rilevo nella mia monografia su di lui, Romano Amerio. Della Verità e
dell’Amore (Marco Editore, Lungro di Cosenza 2005), ebbe forse
il torto di non elaborare, su tale basilare concetto, un intero libro,
ma le gravi parole con cui apre l’orizzonte del suo pensiero al
decisivo argomento non lasciano dubbi sulla superficialità dei
suoi lettori e di chi ancora oggi – forse non maliziosamente, ma il
risultato è lo stesso – non ne vuole parlare: «Alla base del presente smarrimento vi
è un attacco alla potenza conoscitiva dell’uomo…»
(R. AMERIO, Iota unum, p. 314
Lindau). Parole gravi, potenti, che fanno sentire in tutta la
vastità della loro deflagrazione nella mente quanto fossero
annientanti sull’uomo gli effetti ultimi del relativismo, ossia quanto
andasse alla radice antropologica della nostra stessa civiltà un
semplice spostamento di due essenze, non mai da nessuno più di
tanto considerato, né prima né dopo: il logos e l’amore. Spostamento
realizzato nei secoli già da personalità storicamente e
culturalmente di prima grandezza come Maometto e Cartesio, dunque
nient’affatto secondario (v. il mio Theomachia
ultima. Metafisica delle tre “grandi religioni monoteiste”:
Cristianesimo, Ebraismo e Islam, p. 39 sgg.) Eppure è
proprio così: forse non ne ho mai più parlato così
bene come in quella monografia (pp. 72-6), ma non c’è un mio
lavoro in cui non ne faccia cenno, e se ha un senso questo saggio de La Chiesa ribaltata, esso è
proprio in riferimento alla dislocazione delle essenze trinitarie, che
percorre tutto il libro. Perché il mondo non ne parla?
perché la Chiesa “vaticansecondista”, che è ancora da
più del mondo, non ne parla? perché i tradizionisti, che
sono da più del mondo e della Chiesa “vaticansecondista”, non ne
parlano? Eppure la radice di quello che il filosofo italo-svizzero
chiamò garbatamente «smarrimento»,
e che oggi si può e anzi si deve diagnosticare senza pudore come
‘maligno tumore in metastasi al quarto grado’ di Chiesa, di
civiltà e di mondo, è ancora solo qui:
nell’intronizzazione delle due ancelle Caritas e Libertas sul seggio altissimo della
maestà di Veritas,
loro e nostra Regina, così nascondendoci l’unica via per la
nostra salvezza. Se la Verità non può librarsi assoluta
nel cielo terso dato unicamente dalla sua propria realtà, ma,
spostata dopo l’amore, viene posta come “relativa a”, “dipendente da”
questo amore che così la condiziona, essa perde la
qualità sua più intima, che è quella di essere un
assoluto in se stessa e basta. Tutto il magistero di Papa Bergoglio
è sotto l’impronta tumorale di questa drammatica e ultimativa
dislocazione. Ma, come ho già detto e ricordo anche nel libro
(p. es. alle pp. 298 e 299), il mondo non finirà se non quando
il tumore sarà debellato, perché la Verità si
può riconoscere, la falsità no, e non si possono chiudere
le pagine della vita del mondo senza sapere chi ha vinto: questa
certezza la dà solo la Verità.
Le aspettative sui prossimi sinodi dei vescovi D. - Prof. Radaelli, l’opinione pubblica mondiale ha grandi attese sui prossimi sinodi sulla famiglia. Quali dovrebbero essere le attese dei cattolici? R.
- Nei primi secoli cristiani, le due “visioni del mondo”
che si confrontavano, la pagana e la cattolica, erano consapevolmente
antitetiche. L’“opinione pubblica” dell’Impero Romano, se vogliamo dir
così l’ipotetico pensiero che percorreva la Gens Romana dell’epoca nei
confronti della nuova religione che andava affermandosi pur tra le dure
persecuzioni, sapeva che non erano molti gli apprezzamenti che poteva
attendersi dalla Gens Christiana
che andava insegnando per tutto l’Impero ideali da realizzare mai
sentiti fino ad allora, p. es. l’indissolubilità del matrimonio.
Oggi l’Impero Liberale – come chiamo il mondo d’oggi in La Chiesa ribaltata – sa che la sua
controparte spirituale è caduta nella trappola che con ogni cura
le aveva preparato, e che, come era da prevedere, almeno per ora al
tutto carnale liberalismo (tutto carnale malgrado si ammanti
doviziosamente e in ogni momento di valori carpiti alla Chiesa quali
pace, dignità della persona, libertà, eccetera, ma
rivoltati come un guanto e svuotati di senso nel Liberalismo
truffatore) essa non sa trovare forti argomenti spirituali da opporre:
i cattolici – intesi nella loro accezione di ‘masse di fedeli’ – hanno
le stesse attese del mondo, dell’Impero, cioè del nemico,
perché hanno perso la loro identità spirituale e si sono
conformati al liberalismo mondano. Provvidenzialmente, sono però
molto presenti Pastori come il cardinale Müller, il cardinale
Bürke, o come i teologi americani – sette dell’Ordine Domenicano –
di Nova et Vetera, tanto per
dare qualche nome di chi sa opporsi con fermezza, rigore e coraggio
alle aspettative fuorvianti, suicide e – diciamolo pure – peccaminose
della maggioranza. Essa si nasconde la realtà: il divorzio ha
ucciso il matrimonio, ma, come faccio ben notare nel mio lavoro (p.
288), con tale fellonesca strage i Liberali stanno uccidendo, anzi
stanno “suicidando”, la civiltà: i figli, bene primario in
assoluto perché sono il futuro di ogni cosa: spirito, filosofia,
cultura, arte, economia o altro che sia, hanno bisogno di
stabilità, e l’unica condizione di stabilità al loro
sviluppo è la fedeltà e solidarietà assolute dei
due fiori che, incontrandosi, li hanno fruttificati.
L’indissolubilità del matrimonio è la sola garanzia
all’indissolubilità della società. La sua
dissolubilità è mediatamente e immediatamente la
dissolubilità della società, e con essa dei divini valori
che porta: verità, virtù, bellezza, unità, e con
essi quello che Amerio chiama «cristianesimo
secondario»: il benessere materiale e sociale in ogni suo
risvolto più umano. Il 29 maggio la Camera dei deputati ha
approvato la legge sul cosiddetto “divorzio breve”. Lascia attoniti la
percentuale dei sì: 92%. Il 92% dei rappresentanti degli
italiani non ritiene valore necessario e primario riconoscere al
matrimonio durata perpetua, ossia la necessaria stabilità della
prole nell’essere, roccia
inalienabile, imprescindibile, di costituzione
divina, per contrastare le perturbazioni non sempre positive del
divenire, della società, del mondo (e di satana).
D. - Vorremo chiederLe un commento sull'Instrumentum Laboris, presentato recentemente in Vaticano dal cardinal Baldisseri e dal vescovo Bruno Forte: si tratta, come qualcuno ha detto, di “sociologa spicciola”, oppure è, come qualcun altro ha scritto, un ottimo documento pastorale? R.
- Né l’uno né l’altro. L'Instrumentum
Laboris è il tipico documento di una Chiesa che, davanti
agli enormi problemi di cui il mondo la circonda per soffocarla,
risponde con una inadeguatezza che diremmo patetica se non fosse quella
della nostra Madre. Sono cinquant’anni che la Chiesa, di fronte ai
problemi, si è inventata il concetto di “sfida” con cui ha
riempito anche il presente documento, e sono cinquant’anni che
regolarmente perde tutte quelle sfide che proclama a destra e a manca:
non ne vince una. Come mai il mondo non proclama mai alla Chiesa una
sfida che sia una? Non c’è un’entità del mondo che abbia
proclamato o proclami “sfida” il divorzio, l’aborto, le unioni civili e
di fatto, la libera sodomia, il gender,
la comunione ai divorziati risposati, ma le vince tutte. Se la Chiesa
smettesse di battere su terminologie così vetuste e paranoiche,
che pongono i problemi come fossero ogni volta montagne gigantesche ed
erte, avrebbe forse qualche possibilità di tornare a riconoscere
– come prima del Vaticano II – la realtà. E la realtà
è che essa ha con sé gli strumenti spirituali e gli
argomenti logici della verità più che adeguati per
affrontare il mondo e anche vincerlo. Il dogma e le virtù
schierate dalla caritas sono
qualità forti, di cui il mondo è privo. La Chiesa
riprenda a usarli, invece di porsi nell’ambiguità di un
linguaggio inclusivo e tutto teso alla “amorevole comprensione” come
quello usato nella Instrumentum
Laboris. Questo suo linguaggio le fa perdere di vista la forza
dogmatica della verità e la spiritualità potentissima
delle virtù soprannaturali, p. es. della castità.
D. - Se, disgraziatamente, si decidesse di riconoscere, più o meno in modo informale, lasciando l’apparenza di non aver cambiato dottrina, queste “famiglie irregolari”, come dovranno comportarsi i cattolici fedeli all'immutabile comando evangelico «Non osi separare l'uomo ciò che Dio ha unito»? R.
- Questo riconoscimento, che certo avrà le più forti e
impensabili spinte, a livello dogmatico non avverrà. La Chiesa
potrà essere dilaniata dall’alto in basso, ma il comando
evangelico, a livello dogmatico, non sarà calpestato. Ma
è possibile che lo venga a livello pastorale, in quella falsa
pastoralità in uso oggi. Già oggi quei teologi americani
che si diceva rilevano l’importanza della virtù di
castità come mezzo inatteso ma fecondo per far giungere l’uomo a
traguardi cui egli con i soli propri mezzi non potrebbe giungere, ma
cui la Chiesa cattolica, l’unica Chiesa al mondo che sia viatrice di
grazie, può far giungere, proprio a dimostrazione della
bontà del proprio erto cammino per liberarsi dalle trappole del
Liberalismo da cui siamo partiti. Ricordiamoci di ciò che scrive
Amerio sulla legge della conformazione storica della Chiesa: «La Chiesa non va perduta nel caso che non
‘pareggiasse la verità’, ma nel caso che ‘perdesse la
verità’» (Iota
unum, p. 28 Lindau). È possibile, p. es., che nel caso
dei divorziati risposati il Papa giunga anche a enunciare dottrine
permissive in nulla conformi alla Sacra Scrittura e alla Tradizione
(come già avvenuto in questi cinquant’anni, p. es., per dirne
una, sulla libertà religiosa, v. La Chiesa ribaltata, pp. 73-4). Ma
le sue enunciazioni saranno a livello pratico, (pseudo)pastorale, e non
teoretico, cioè non dogmatico, sicché la verità e
la Chiesa non saranno «perdute»,
ma soltanto «spareggiate».
La cosa resta di una gravità massima, ovviamente, come si legge
anche nel mio libro. In realtà, lì scrivo e concludo (pp.
300-3) che tutta la Chiesa dovrebbe spingere il Papa a fare un’ordalia:
sì, un vero e proprio giudizio di Dio. E ciò
perché dopo cinquant’anni la Chiesa è arrivata a un punto
di avvitamento finale e ultimo, in un magistero de-dogmatizzato che la rende sempre
più irriconoscibile. È una situazione insostenibile: non
può durare più a lungo. Si provi dunque il Papa, se ci
riesce, con i verbi “forti” giuridici e con il plurale maiestatico
pontificale necessari in tali casi (“Noi stabiliamo, decretiamo e
dichiariamo”, “Nos statuimus,
sancimus et declaramus”), a dogmatizzare una qualsiasi delle
inaccettabili e fellonesche novità di cui vuol riempire la
Chiesa: essendo il dogma infallibile, portando sopra il fuoco del dogma
i suoi sogni, la Chiesa sarà infallibilmente garantita della
perfetta e adamantina bontà delle decisioni così
enunciate. Ma se il Papa non riuscirà a enunciarle, tali
sognanti novità – e non vi riuscirà punto –, vuol dire
che esse, come si sa, erano false, e l’infallibile verità del
dogma, anche inmoribus, le ha smascherate.
La drammatica rinuncia di Benedetto XVI D. - Infine, nel ringraziarLa per la sua cortese disponibilità, Le chiediamo la sua opinione riguardo alla rinuncia al ministero petrino di Benedetto XVI. R. - Anche quello è stato un atto che non si capirebbe se non venisse inserito nella generale e deplorevole de-dogmatizzazione data dalla «dislocazione della divina monotriade». Canonicamente corretto, muove però a tutte le perplessità se si prova a giustificarlo, perché sottrarsi alle difficoltà non sembra propriamente ciò che può permettersi il Vicario di Cristo. Esso è l’ultimo degli atti con cui oggi la papalità è stata declassata, snervata della sua pienezza soprannaturale, della sua potenza di autorità somma e di autorità somma in quanto ricettiva di un mandato divino. «Pasci i miei agnelli». «Rinuncio». La rinuncia è un atto umano che l’uomo compie proprio in quanto si è del tutto liberato dell’aiuto di Dio. È un atto senza alcuna vicarietà. E non solo manca il logos, in esso, perché non c’è nessun insegnamento, nessuna ragione e nessuna giustificazione, tutte proprietà del logos, ma manca anche l’amore nel senso suo proprio: la caritas di dedizione, quello che viene chiamato “amore altruistico”. Tale perdita è una tipica conseguenza della «dislocazione», perché quando il pensiero che pensa l’ente viene spostato oltre l’ente, e l’ente non è più pensato, ma vale per ciò che è, quell’ente perde le connotazioni e le determinazioni che riceveva dal pensiero che lo pensava, perde la sua identità. L’amore, non più pensato dal Logos divino, diviene un’accozzaglia confusa: ora questo, ora quello, ma mai il giusto. O davvero si pensa che Benedetto XVI abbia rinunciato al proprio ufficio per non mettere in difficoltà la Chiesa con il sopravanzare della sua vecchiaia? avremo dunque altri Papi cosiddetti “emeriti”? Il suo successore non lo esclude. Ma ciò significa solo che se un evento eccezionale diviene la regola, toglie alla regola precedente la forza che la sosteneva, e l’ufficio del papato diviene un ufficio come un altro. Questa poi è una rinuncia a metà, e lo stesso rinunciante affermò (all’Udienza generale del Pontificato, 27-2-13) che il suo sarebbe stato, da quel momento in poi, un munus papale “passivo”, cioè un potere papale, in contrapposizione a quello attivo che avrebbe esercitato il suo successore. Ma non si può dare un munus “passivo”: un esercizio di potere o si fa o non si fa, ma quando non si fa si è fermi, e anche la sua potenza, che lo rende appunto potenzialmente in essere, dev’essere azzerata: in caso contrario non c’è rinuncia, ma sospensione della cosa. Che l’atto sia alquanto confuso lo si riscontra anche dalla veste, che è rimasta fondamentalmente quella papale, confondendo la gente, che in effetti parla di “due Papi”: Celestino V rinunciò anche alla veste, e riprese quello dell’eremo. Benedetto XVI avrebbe dovuto riprendere la sua veste da cardinale. Sempre ammesso che la sua rinuncia, oltre che canonicamente ineccepibile, fosse anche moralmente giustificabile. Lo era? Ho le mie riserve: «Pasci i miei agnelli». «No. Rinuncio». Vi ringrazio qui di questa intervista e delle molto interessanti domande che mi avete proposto, perché ciò mi ha permesso di mettere ulteriormente a fuoco concetti che ritengo possano avere una qualche importanza, nel loro che, per la nostra amata Chiesa, per la nostra tribolata civiltà, per il mondo stesso, forse, mai però da me sviluppati prima nelle direzioni qui prese. (torna
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settembre 2014 |