Mons. Guido Pozzo
Segretario della Commissione Ecclesia Dei
e la sua interpretazione del
Motu Proprio Summorum Pontificum


Riprendiamo un articolo dell'abbé Paul Aulagnier, dell'Istituto del Buon Pastore, da lui pubblicato nel sito della Rivista Item (da lui animata) il 26 febbraio 2010.
L'articolo fa parte della rubrica Regards sur le monde, ed è reperibile, in francese, a questo indirizzo

(i neretti sono nostri)

I benedettini dell’Immacolata, fondati da Padre Jehan (OSB) in Italia, - egli fu il primo discepolo di Dom Gérard Calvet, a Bédouin -, hanno pubblicato sul loro sito, con un certo ritardo, una sintesi dell’incontro che hanno avuto, il martedì 11 agosto 2009, con Mons. Pozzo, nuovo Segretario della Commissione Ecclesia Dei. Essi hanno essenzialmente affrontato due problemi: il Motu Proprio di Benedetto XVI Summorum Pontificum e la sua interpretazione circa l’uso delle «forma ordinaria e straordinaria della Messa romana»; poi il Concilio Vaticano II e la sua interpretazione.
Eravamo a qualche settimana dall’inizio delle discussioni teologiche tra Roma e la Fraternità San Pio X.

Qui voglio commentare solo la prima parte del testo, quella relativa all’interpretazione del Motu Proprio Summorum Pontificum, lasciando la seconda parte – il Concilio – per un’altra volta.

Questo commento di Mons. Pozzo è importante

In effetti, Mons. Pozzo è il nuovo Segretario della Commissione Ecclesia Dei. Questa Commissione è incaricata dell’applicazione del Motu Proprio di Benedetto XVI. È la missione di questa Commissione. Cosa che è espressamente detta nell’ultimo articolo, l’art. 12, del documento pontificio: «La stessa Commissione, oltre alle facoltà di cui già gode, eserciterà l’autorità della Santa Sede vigilando sulla osservanza e l’applicazione di queste disposizioni [del Motu Proprio]».
Essa deve dare la giusta interpretazione del documento: rappresenta «l’autorità della Santa Sede».

Si sa che la legislazione liturgica prevista dal Motu Proprio, pubblicato il 7 luglio 2007, è nuova. Infatti, Benedetto XVI, in 12 nuove norme, precisa il nuovo quadro giuridico dell’applicazione della riforma liturgica uscita dal Concilio. Cosa che è chiaramente detta nel testo di Benedetto XVI. Questa legislazione annulla tutte le disposizioni anteriori dei suoi predecessori: « Tutto ciò che da Noi è stato stabilito con questa Lettera Apostolica data a modo di Motu proprio, ordiniamo che sia considerato come “stabilito e decretato” e da osservare dal giorno 14 settembre di quest’anno [2007], festa dell’Esaltazione della Santa Croce, nonostante tutto ciò che possa esservi in contrario».

Per tutte queste ragioni, il testo di Padre Jehan che riassume il pensiero di Mons. Pozzo sul Motu Proprio è capitale.


L’analisi del testo

Che ci dice?

« Mons. Pozzo ha voluto precisare che, secondo la lettera di accompagnamento al Motu Proprio Summorum Pontificum, il rito romano esiste nelle due forme e che nessun sacerdote “può rifiutare per principio di celebrare secondo l’una o l’altra forma”. Concretamente ciò implica, per lui, che se un sacerdote, che normalmente celebra secondo la forma straordinaria, si trovasse in una situazione di necessità pastorale nella quale l’autorità competente esigesse una celebrazione secondo la forma ordinaria, egli dovrebbe accettare di farlo».

Si tratta di un chiaro riconoscimento del bi-ritualismo, della sua necessità giuridica, della sua necessità pastorale.

Questo bi-ritualismo è chiaramente espresso non solo nella lettera di accompagnamento del Motu Proprio ai Vescovi, come lascia intendere Mons. Pozzo, ma nello stesso Motu Proprio. Nell’art. 1 è detto: « Il Messale Romano promulgato da Paolo VI è l’espressione ordinaria della lex orandi della Chiesa cattolica di rito latino. Tuttavia il Messale Romano promulgato da S. Pio V e nuovamente edito dal Beato Giovanni XXIII deve venir considerato come espressione straordinaria della stessa lex orandi e deve essere tenuto nel debito onore per il suo uso venerabile e antico. Queste due espressioni della lex orandi della Chiesa non porteranno in alcun modo a una divisione nella lex credendi della Chiesa; sono infatti due usi dell’unico rito romano».

È anche vero che la lettera di accompagnamento che Benedetto XVI ha indirizzato ai Vescovi giustifica dottrinalmente, giuridicamente e pastoralmente questo bi-ritualismo post-conciliare. La ragione principale – com’è affermato chiaramente – è che il rito «antico», quello di San Pio V, non è stato mai abolito: «…questo Messale non fu mai giuridicamente abrogato e, di conseguenza, in linea di principio, restò sempre permesso». Vista la sua antichità, bisogna salvaguardarlo: «Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso. Fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e di dar loro il giusto posto».
Tuttavia, prosegue il Papa: « Ovviamente per vivere la piena comunione anche i sacerdoti delle Comunità aderenti all’uso antico non possono, in linea di principio, escludere la celebrazione secondo i libri nuovi. Non sarebbe infatti coerente con il riconoscimento del valore e della santità del nuovo rito l’esclusione totale dello stesso».

Mons. Pozzo, riconoscendo la necessità attuale del bi-ritualismo, il suo diritto, la sua ragione dottrinale e pastorale, si trova in linea col Motu Proprio.
Egli interpreta bene il testo e il pensiero del legislatore Benedetto XVI. Chi potrebbe dire il contrario?

Si può dunque legittimamente concludere: «Un sacerdote che celebra abitualmente la Messa secondo la forma “straordinaria” non potrebbe rifiutasi, se le circostanze pastorali lo esigono e le legittime autorità lo chiedono, di celebrare la Messa nella forma “ordinaria”» - o più semplicemente «la Messa di Paolo VI».


Alcune osservazioni

Tutto questo ci suggerisce alcune riflessioni:

Riconosciamo, innanzi tutto, che questo indirizzo che richiama formalmente il diritto della Messa antica è nuovo nella Chiesa.

Non è il pensiero e la legislazione espresse, per esempio, nella lettera di Giovanni Paolo II Quattuor abhinc annos del 1984, né nel Motu Proprio Ecclesia Dei dello stesso Papa.
Certo, la lettera del 1984 prevedeva sì il ritorno, - un certo ritorno -, della Messa «tridentina» nella Chiesa, cosa affermata più chiaramente anche in Ecclesia Dei adflicta, ma esse non facevano che «concedere» tale rito antico ai sacerdoti e ai fedeli che lo richiedessero. Il Papa Giovanni Paolo II si limitava a conferire ai Vescovi l’autorizzazione – un indulto – a «concedere» questa Messa di San Pio V, a condizione che «questi sacerdoti ed i rispettivi fedeli in nessun modo condividano le posizioni di coloro che mettono in dubbio la legittimità e l'esattezza dottrinale del  Messale Romano promulgato dal Papa Paolo VI nel 1970».
Il «diritto» alla Messa «antica» non era dunque riconosciuto. Si parlava solo di «concessione», di «indulto». Il legislatore lo voleva solo come «temporaneo», per ottenere «una certa pace ecclesiale».
Questo è quello che diceva chiaramente Mons. Re, all’epoca Sostituto per gli Affari Generali alla Segreteria di Stato, in una lettera a De Saventhem, Presidente onorario di Una Voce Internazionale: «Le diverse disposizioni prese dopo il 1984 avevano lo scopo di facilitare la vita ecclesiale di un certo numero di fedeli, senza tuttavia perpetuare le forme liturgiche anteriori. La legge generale rimane l’uso del rito rinnovato dopo il Concilio, mentre l’uso del rito anteriore attualmente deriva da privilegi che devono mantenere il carattere di eccezioni… Il primo dovere di tutti i fedeli è di accogliere e di approfondire le ricchezze di significato contenute nella liturgia in vigore in spirito di fede e di obbedienza al Magistero, evitando ogni tensione che danneggi la Comunione ecclesiale».

È evidente: la legislazione della Chiesa, dal Concilio fino all’elezione di Benedetto XVI, non accordava alcun diritto alla Messa antica. Il Messale di San Pio V era soppresso. Non si osava dire «abrogato».
Eravamo nel 1994, il 17 gennaio del 1994.

Tuttavia, in questa materia liturgica qualcosa si muoveva, poiché nel 1998, il 24 ottobre del 1998, il Card. Ratzinger, futuro Benedetto XVI, si opponeva e riconosceva, appoggiandosi all’autorità del Card. Newman, che «la Chiesa nella sua storia non aveva mai abolito o vietato delle forme liturgiche ortodosse, perché sarebbe stato del tutto estraneo allo spirito della Chiesa».
L’affermazione era nuova e del tutto opposta a quella di Mons. Re.

Comunque sia, nel 1994, la legge generale della Chiesa per la liturgia rimaneva l’uso del rito rinnovato a partire dal Concilio. Era quanto affermava Mons. Re.

Conosciamo la meravigliosa risposta di De Saventhem: che insite sull’affermazione: « senza tuttavia perpetuare le forme liturgiche anteriori».
«Anche ecclesiologicamente, questa clausola sembra indifendibile. La “liturgia classica” del rito romano della Messa era già dotata di perennità intrinseca in quanto monumento incomparabile della fede. Il suo uso universale e plurisecolare, risalente a ben prima della Costituzione Apostolica “Quo Primum”, le conferiva inoltre la perennità canonica della “consuetudo immemorabilis”. Di conseguenza, la “perpetuazione” della liturgia classica di cui parla la sua lettera oggi non è né da concedere, né da vietare, è semplicemente da riconoscere e da far rispettare nelle disposizioni che regolano il suo uso a fianco dei riti riformati».

Ben detto!

È quello che molto felicemente ha fatto il Card. Ratzinger una volta eletto Papa. Il Motu Proprio di Benedetto XVI, del 2007, è chiaro: «Perciò è lecito celebrare il Sacrificio della Messa secondo l’edizione tipica del Messale Romano promulgato dal Beato Giovanni XXIII nel 1962 e mai abrogato, come forma straordinaria della Liturgia della Chiesa» (Art. 1, § 2).

Tuttavia, pur riconoscendo il diritto della Messa antica, della «liturgia classica» del rito romano, e pur dichiarando questo diritto, il Papa Benedetto XVI chiede chiaramente il rispetto e il riconoscimento di ciò che chiama «la forma ordinaria (Messale di Paolo VI) del rito romano». La Messa detta di San Pio V e la Messa di Paolo VI, per lui sono due espressioni del solo e medesimo rito romano, «due usi dell’unico rito romano».

Eccoci con un bi-ritualismo dichiarato di diritto.
È l’oggetto dell’art. 1 che abbiamo citato prima.

Nella sua lettera ai Vescovi, egli afferma «Non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del Missale Romanum». Vi è solo «crescita e progresso, ma nessuna rottura». Ed è per questo che dice che «i sacerdoti delle Comunità aderenti all’uso antico non possono, in linea di principio, escludere la celebrazione secondo i libri nuovi».
Il bi-ritualismo è di diritto.

Non è che il bi-ritualismo nella Chiesa latina crei qualche problema. La Chiesa latina ha sempre avuto molti riti diversi: il rito domenicano, il rito lionese… Ma è la coesistenza «pacifica» di queste due «espressioni», «ordinaria» e «straordinaria», del Messale romano che crea dei problemi.

Per certuni e per me, non può trattarsi dello stesso e unico Messale romano. Mons. Gamber, questo grande liturgista, è tassativo.


Ecco sollevato un altro problema!

Problema che Padre Jehan ha dovuto presentare a Mons. Pozzo, lasciandogli intendere le difficoltà che certuni hanno provato e provano ancora nel celebrare la «nuova Messa» non ancora «riformata», come auspicato chiaramente da Benedetto XVI nella lettera di accompagnamento, ove parla di una più grande «sacralità» della celebrazione della Messa di Paolo VI.
Il Padre Jehan ha dovuto avanzare a Mons. Pozzo l’argomento del diritto proprio ed esclusivo alla Messa tridentina reclamato da certe nuove comunità di diritto pontificio. Queste affermano che le loro costituzioni, i loro statuti canonici, riconosciuti da Roma, accordano loro questo diritto.

Questo era l’argomento avanzato già nel 1999 dal Padre de Blignière, Superiore dei padri di Chemére, nel n° 68 della sua rivista Sedes Sapientiae. Ed è anche ciò che pensa il Padre Jehan a riguardo delle costituzioni del monastero di Le Barroux. Lo stesso che chiede e pensa l’abbé Philippe Laguérie per conto dell’IBP.
Il Padre Jehan si basa sull’autorità di Mons. Stankiewicz, decano del Tribunale della Rota. Mons. Pozzo ascolta e si interessa alla sua argomentazione: « Mons. Pozzo ha tuttavia ascoltato l’opinione che Mons. Stankiewicz, decano del tribunale della Sacra Rota, aveva espresso a P. Jehan dopo avere attentamente letto le costituzioni di Le Barroux, e secondo la quale un monaco prete di Le Barroux non ha diritto di celebrare secondo il Novus Ordo Missae, sia all’esterno che all’interno del monastero. In questo modo l’obbligo di celebrare secondo l’antico rito sarebbe un diritto-dovere particolare che si applica ai monaci di Le Barroux e questo è vero in qualsiasi posto si trovino».

Io voglio credere che questa è l’interpretazione che dà Mons. Stankiewicz delle costituzioni del monastero di Le Barroux, ma Dom Gérard non sembrava così categorico in questa questione… Eppure era lui il vero legislatore di Le Barroux, lui che poteva dare la giusta interpretazione, visto che era stato lui a scriverle.


Le giuste critiche alla Messa di Paolo VI

Per comprendere questa istanza, questa richiesta di esclusività del rito di San Pio V, bisogna conoscere la pertinace resistenza che è stata condotta per quasi 40 anni da persone eminenti della Chiesa, che hanno rifiutato la nuova Messa in ragione del suo carattere equivoco.
Mons. Lefebvre parlava di «Messa bastarda».
Bisogna ricordarsi del Card. Ottaviani e del Card. Bacci che presentarono al Sommo Pontefice Paolo VI una lettera di supplica che chiedeva l’“abrogazione” della nuova Messa o quanto meno che non fosse tolta ai fedeli «la possibilità di continuare a ricorrere alla integrità feconda di quel Missale Romanum di San Pio V… dall’intero mondo cattolico così profondamente venerato ed amato».
Essi ne precisavano il motivo. « il Novus Ordo Missæ, … rappresenta, sia nel suo insieme come nei particolari, un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa, quale fu formulata nella Sessione XXII del Concilio Tridentino, il quale, fissando definitivamente i «canoni» del rito, eresse una barriera invalicabile contro qualunque eresia che intaccasse l’integrità del Mistero».
Essi presentarono al Sommo Pontefice numerose critiche – il Breve esame critico – che si può riassumere nella scandalosa definizione della Messa data dall’art. 7, talmente lontana dalla dottrina cattolica. Essa dovette essere modificata prima della pubblicazione definitiva della Costituzione Missale Romanum e della nuova Messa – senza la minima variazione al rito stesso…
Per di più, l’espressione narratio institutionis che si trova nell’Istitutio generalis per esprimere l’azione sacerdotale compiuta col Canone romano non è meno sconcertante.
La Messa non è affatto una narrazione, né una semplice commemorazione del Sacrificio della Croce, ma è esattamente il Sacrificio della Croce perpetuato sotto forma sacramentale, incruenta. Le formule della Consacrazione sono dette dal sacerdote in maniera «intimativa» e non «recitativa».
Erano queste le ragioni, tra molte altre, del padre Calmel, dell’abbé Dulac, di Mons. Lefebvre, di Mons. De Castro Mayer, di Jean Maridan, di Luce Quenette.  Erano le ragioni dei loro « non possumus», per principio, non volendo minimamente, né gli uni né gli altri, mettere le mani nell’ingranaggio di questa riforma liturgica «equivoca».

È quello che esprimeva meravigliosamente De Saventhem sempre nella sua risposta a Mons. Re, contestando la sua espressione «ricchezze di significato» relativa alla nuova Messa. Oggi Benedetto XVI parla di «valore» e di «santità» (Lettera di accompagnamento al MP).
De Saventhem rispondeva: «Mi permetta, Eccellenza, di formulare un’ultima richiesta di chiarimento, relativa all’ultimo paragrafo della sua lettera. Cosa intende per le “ricchezze di significato” che, secondo lei, conterrebbe la liturgia in vigore? All’interno del nostro movimento, molti si sono dedicati alla ricerca di tali ricchezze, via via che si è svolta la promulgazione successiva dei libri liturgici riformati. Essi hanno dato conto dei risultati dei loro lavori in un numero impressionante di libri, monografie, studi e commenti, di cui nessuno può contestare la serietà. Se hanno avuto modo di trovare un aumento quantitativo – orazioni, letture, prefazi e perfino preghiere eucaristiche – dei testi messi a disposizione di coloro che organizzano la celebrazione, al tempo stesso hanno dovuto constatare un abbassamento generalizzato del loro contenuto teologico, che conduce alla «banalizzazione» delle nostre funzioni liturgiche, a scapito della loro sacralità e quindi della loro identità cattolica. Parallelamente, si è avuto un avvicinamento continuo ai servizi religiosi delle diverse comunità non cattoliche. In altre parole: la liturgia cattolica romana ha dovuto pagare lo scotto dell’«opzione ecumenica»! E invece di un arricchimento della tradizione liturgica della Chiesa cattolica, si è visto uno sperpero del suo patrimonio più prezioso. Il «primo dovere» di ogni fedele cattolico non è di operare per la salvaguardia di quest’unico tesoro, strumento principale dell’evangelizzazione, affidato alla Chiesa da Nostro Signore per la salvezza delle anime?».

È per compiere questo «primo dovere» essenziale che i nostri predecessori, prima, e noi stessi, oggi, vogliamo rimanere legati alla Messa di sempre invocando questo diritto esclusivo contenuto nelle nostre costituzioni, approvate e riconosciute da Roma.

Per me, tuttavia, questo è il più debole degli argomenti.
La forza della nostra posizione - il nostro non possumus storico - resta e resterà l’analisi intrinseca della nuova Messa di Paolo VI. Il nostro diritto non si fonda innanzi tutto sui testi giuridici, fossero pure le costituzioni approvate perfino da Roma. Il nostro diritto si fonda prima di tutto sulla fede, sul dogma. La giurisprudenza viene dopo. Esso è una conseguenza del bene, del vero sulla cui base legifera. Io personalmente ho orrore del «positivismo giuridico», in ogni dominio.
Non è perché l’aborto è vietato dalla legge che io sono contro l’aborto, ma sono contro l’aborto perché esso è, di per sé, un male, un crimine, che il diritto deve interdire.
Io mi oppongo alla nuova Messa perché la nuova Messa non è buona. Essa ha financo avuto degli effetti catastrofici per la Chiesa e i suoi fedeli. Essa ha contribuito alla diminuzione della pratica religiosa.


Di fronte a questa attitudine e alla sua giustificazione, come ha reagito Mons. Pozzo?

«Mons. Pozzo ha detto che conosceva Mons. Stankiewicz. Da parte sua, egli ha aggiunto che, anche se la lettera pontificia che accompagna il Summorum Pontificum precisa che i sacerdoti che celebrano l’antico rito non possono rifiutare per principio la celebrazione del nuovo, questo lascia tuttavia aperta la possibilità di un diritto proprio per certe società i cui membri celebrerebbero esclusivamente secondo l’antico rito».

Quest’ultima affermazione è nuova, terribilmente nuova.
Ce ne rallegriamo.
Ma è totalmente “credibile”? Che senso ha questo «diritto proprio»?

È una novità.

Ci si ricordi delle difficoltà incontrate dai sacerdoti della Fraternità San Pietro nel 1999 e nel 2000. Ci si ricordi la legislazione che è stata definita legislazione Medina. Essa è in totale contraddizione con quest’ultimo giudizio di Mons. Pozzo. Ci si ricordi dei tre quesiti posti alla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, presieduta all’epoca dal Card. Medina. Ci si ricordi delle risposte romane. Queste risposte costituivano la giurisprudenza romana. Giurisprudenza riconosciuta all’epoca da tutte le autorità romane.

In effetti, a Roma furono posti tre quesiti relativi alla celebrazione della nuova Messa da parte di sacerdoti appartenenti alle comunità sacerdotali o religiose dipendenti dalla Commissione Ecclesia Dei, che desideravano appunto conservare esclusivamente la messa detta di San Pio V.

1.    Questi sacerdoti, possono celebrare la nuova Messa?
2.    Le autorità di queste comunità, qualunque dignità abbiano, possono proibire ai loro sacerdoti di celebrare la nuova Messa?
3.    Possono anche concelebrare nel nuovo rito?

Il 3 luglio del 1999, Roma dava le risposte con un testo della Congregazione per il Culto Divino che ha per titolo «Risposte ufficiali»:
«In seguito agli interrogativi prospettati a questo Dicastero, circa la possibilità e gli impedimenti connessi all’indulto concesso dalla legittima autorità, di utilizzare il Messale edito nel 1962, dopo aver consultato e ricevuto l’approvazione del Pontificio Consiglio per l’interpretazione dei Testi Legislativi e della Pontificia Commissione Ecclesia Dei, comunichiamo quanto segue, sotto forma di risposte alle domande poste.

1. Un prete membro di un Istituto che gode della facoltà di celebrare secondo il rito in vigore prima del rinnovamento liturgico del Vaticano II, può utilizzare liberamente il Messale Romano promulgato dal Sommo Pontefice Paolo VI, quando celebra la Santa Eucarestia per il bene di una comunità nella quale la Messa è celebrata secondo quest’ultimo Messale, e questo anche se occasionalmente?

Risposta: Affermativo e “ad mentem”. 
Lo spirito delle norme giuridiche comporta che l’uso del Messale pre-conciliare fosse una concessione accordata ex indulto, esso non annulla il diritto liturgico comune per il Rito romano, secondo il quale il Messale in vigore è quello che è stato promulgato per ordine del Concilio Vaticano II. A maggior ragione, il prete di cui si tratta deve celebrare con il Messale post-conciliare nella eventualità che la celebrazione abbia luogo in seno ad una comunità che segue il Rito Romano attuale, per evitare lo stupore e il disagio dei fedeli, e per essere un aiuto efficace per i confratelli preti che gli hanno richiesto tale servizio di carità pastorale. Per le comunità abituate al Messale attuale, l’utilizzazione dell’antico Messale comporta molte difficoltà, per esempio: le differenze del Calendario liturgico, la diversità dei testi biblici per la liturgia della Parola, le variazioni dei gesti liturgici, del modo di ricevere la Santa Comunione, del ruolo dei ministri, etc.


2. I Superiori, di qualunque dignità siano, degli Istituti che godono dell’indulto che permette l’uso del Messale Romano edito nel 1962 per la celebrazione del Sacrificio Eucaristico, possono proibire ai preti appartenenti a questi Istituti l’uso del Messale Romano post-conciliare, quando questi preti celebrano, anche occasionalmente, per il bene di una comunità nella quale viene usato il Messale Romano attuale?

Risposta: Negativo, perché l’uso del Messale Romano del 1962 è un indulto concesso per l’utilità dei fedeli che sono particolarmente legati al rito romano pre-conciliare, e la sua utilizzazione non può essere imposta a delle comunità che celebrano la Santa Eucarestia secondo il Messale rinnovato per ordine del Concilio Vaticano II, comunità su cui i Superiori di tali Istituti non hanno peraltro alcuna autorità.


3. Un prete membro di un Istituto che gode dell’indulto suddetto può senza alcun impedimento concelebrare la Santa Messa secondo il Novus Ordo del Rito Romano?

Risposta: Affermativo, poiché l’indulto non toglie ai preti il diritto comune del rito romano di celebrare secondo il Messale Romano attualmente in vigore, per questo motivo né il suo Superiore né l’Ordinario locale possono proibirgli la concelebrazione, né devono farlo. In effetti è lodevole che i preti in questione celebrino liberamente, specialmente la Messa del Giovedí Santo presieduta dal Vescovo diocesano. Benché resti ad «ogni sacerdote la facoltà di celebrare la Messa individualmente, non però nel medesimo tempo e nella medesima chiesa, e neppure il Giovedì Santo» (cfr. Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, 57, § 2, 2). Il segno di comunione inerente alla concelebrazione è così importante che esso non dev’essere omesso nella Messa crismale, salvo per gravi motivi (Sacrosanctum Concilium, 57, § 1, Ia).


Dalla sede della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, 3 luglio 1999.
Cardinale Jorge Medina Estevez, Prefetto.
Arcivescovo Francesco Pio Tamburrino, Segretario.

Ecco le risposte romane a questi tre quesiti particolarmente «spinosi» e sempre d’attualità. Queste risposte sono basate sull’affermazione che la nuova Messa costituisce «il diritto comune in materia liturgica» e che il diritto particolare non può prevalere né opporvisi. In più, la Messa antica è solo una concessione, un’«indulto» concesso a queste comunità Ecclesia Dei.

La posizione di Mons. Pozzo è dunque alquanto nuova.

In effetti, bisogna riconoscere che in questo dominio le cose sono cambiate grazie al Motu Proprio di Benedetto XVI. Egli riconosce il diritto all’uguaglianza tra «la forma straordinaria e la forma ordinaria del Messale romano». Oggi non si potrebbe più affermare che il «diritto comune liturgico» è la nuova Messa.


La posizione di Mons. Pozzo è nuova. Ma è credibile?

Tuttavia, la lettera di accompagnamento del Motu Proprio di Benedetto XVI ricorda che « Ovviamente per vivere la piena comunione anche i sacerdoti delle Comunità aderenti all’uso antico non possono, in linea di principio, escludere la celebrazione secondo i libri nuovi. Non sarebbe infatti coerente con il riconoscimento del valore e della santità del nuovo rito l’esclusione totale dello stesso».

Così, questa esclusività del rito liturgico di San Pio V, fondata sulle costituzioni delle comunità Ecclesia Dei, è pacificamente possibile? Le parole del Papa sembrano dire il contrario.

Questa esclusività mi sembra che rimanga sempre un «diritto particolare», a fronte di un diritto comune in materia liturgica che include, di diritto, certo la forma straordinaria – e questo è nuovo – ma anche la forma ordinaria del rito romano. Quindi, di per sé non lo si potrebbe escludere.

Ecco perché rimarrei prudente. L’opinione di Mons. Pozzo, che il Padre Jehan ben riassume, può fare, da sola, giurisprudenza?

Vi è anche di più: non v’è una certa contraddizione in questa opinione di Mons. Pozzo? «Anche se la lettera pontificia che accompagna il Summorum Pontificum precisa che i sacerdoti che celebrano l’antico rito non possono rifiutare per principio la celebrazione del nuovo, questo lascia tuttavia aperta la possibilità di un diritto proprio per certe società i cui membri celebrerebbero esclusivamente secondo l’antico rito».

I nostri amici delle comunità Ecclesia Dei lo hanno creduto nel 1999.
Si sono sbagliati.
Roma ha giudicato diversamente. Nel 1999, Roma diceva che nessun sacerdote “può rifiutarsi per principio di celebrare secondo l’una o l’altra forma”. Concretamente, questo implica, per Roma, che se un sacerdote che celebra normalmente secondo la forma straordinaria si trovasse in una situazione di necessità pastorale per la quale l’autorità competente esigesse una celebrazione secondo la forma ordinaria, egli dovrebbe accettare di farlo.
L’abbiamo visto prima.
La posizione del Vaticano è stata sempre questa.
Era questa quando la Messa antica era considerata come un semplice indulto, relativo a certe comunità, è ancora ribadita ora che la Messa antica è considerata non più come un indulto, ma come un diritto.

Per questo io aspetterei gli avvenimenti e il regolamento dei «conflitti» in materia, per valutare e per concludere con Mons. Pozzo che: « Anche se la lettera pontificia che accompagna il Summorum Pontificum precisa che i sacerdoti che celebrano l’antico rito non possono rifiutare per principio la celebrazione del nuovo, questo lascia tuttavia aperta la possibilità di un diritto proprio per certe società i cui membri celebrerebbero esclusivamente secondo l’antico rito».

Io non sono così sicuro.
Del resto, che significa questa espressione: «questo lascia tuttavia aperta la possibilità di un diritto proprio». Questa espressione «questo lascia tuttavia aperta la possibilità…» mi sembra un’affermazione alquanto debole, alquanto incerta, per non dire equivoca. Se è semplicemente «possibile» non è assolutamente «certo». Ciò che è possibile non è sempre certo. Se la cosa fosse stata così chiara e così sicura, l’espressione avrebbe dovuto essere differente.

Come si dice: «aspettiamo e vediamo».

In tutti i modi, non dimentichiamo che il diritto è fondato sulla fede, e non viceversa.
Consideriamo questa virile certezza di cui parlava Dom Guéranger ai suoi monaci: «Nel tesoro della Rivelazione vi sono dei punti essenziali, di cui ogni cristiano, per il fatto stesso di chiamarsi cristiano, ha la conoscenza necessaria e l’obbligo della difesa… I veri fedeli sono gli uomini che attingono dal loro battesimo (in tempi d’eresia) l’ispirazione per una linea di condotta; non i pusillanimi che, col pretesto specioso della sottomissione ai poteri stabiliti, per correre incontro al nemico o opporsi alle sue imprese, aspettano un programma che non è necessario e che non si deve loro dare».






marzo 2010

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