Mons. Guido Pozzo
Segretario della Commissione Ecclesia Dei
e la sua interpretazione del
Motu Proprio Summorum Pontificum
(i neretti sono nostri)
I
benedettini dell’Immacolata, fondati da Padre Jehan (OSB) in Italia, -
egli fu il primo discepolo di Dom Gérard Calvet, a
Bédouin -, hanno pubblicato sul loro sito, con
un certo ritardo, una
sintesi dell’incontro che hanno avuto, il
martedì 11 agosto 2009, con Mons. Pozzo, nuovo Segretario della
Commissione Ecclesia Dei. Essi hanno essenzialmente
affrontato due
problemi: il Motu
Proprio di Benedetto XVI Summorum
Pontificum e la sua
interpretazione circa l’uso delle «forma ordinaria e
straordinaria della Messa romana»; poi il Concilio Vaticano II e
la sua interpretazione.
Eravamo a qualche settimana dall’inizio delle
discussioni teologiche tra Roma e la Fraternità San Pio X.
Qui voglio commentare solo la prima parte del testo, quella relativa
all’interpretazione del Motu Proprio Summorum
Pontificum, lasciando la
seconda parte – il Concilio – per un’altra volta.
Questo commento di Mons. Pozzo
è importante
In effetti, Mons. Pozzo è il nuovo Segretario della Commissione
Ecclesia Dei. Questa Commissione è
incaricata dell’applicazione
del Motu Proprio di Benedetto XVI. È la missione di questa
Commissione. Cosa che è espressamente detta nell’ultimo
articolo, l’art. 12, del documento pontificio: «La stessa
Commissione, oltre alle facoltà di cui già gode,
eserciterà l’autorità della Santa Sede vigilando sulla
osservanza e l’applicazione di queste disposizioni [del Motu
Proprio]».
Essa deve dare la giusta interpretazione del
documento: rappresenta «l’autorità della Santa Sede».
Si sa che la legislazione liturgica prevista dal Motu Proprio,
pubblicato il 7 luglio 2007, è nuova. Infatti, Benedetto XVI, in
12 nuove norme, precisa il nuovo quadro giuridico dell’applicazione
della riforma liturgica uscita dal Concilio. Cosa che è
chiaramente detta nel testo di Benedetto XVI. Questa legislazione
annulla tutte le disposizioni anteriori dei suoi predecessori: «
Tutto ciò che da Noi è stato stabilito con questa Lettera
Apostolica data a modo di Motu
proprio, ordiniamo che
sia considerato
come “stabilito e decretato” e da osservare dal giorno 14 settembre di
quest’anno [2007], festa dell’Esaltazione della Santa Croce, nonostante
tutto ciò che possa esservi in contrario».
Per tutte queste ragioni, il testo di Padre Jehan che riassume il
pensiero di Mons. Pozzo sul Motu Proprio è capitale.
L’analisi del testo
Che ci dice?
« Mons. Pozzo ha voluto precisare che, secondo la lettera
di
accompagnamento al Motu Proprio Summorum
Pontificum, il rito
romano
esiste nelle due forme e che nessun sacerdote “può rifiutare per
principio di celebrare secondo l’una o l’altra forma”. Concretamente
ciò implica, per lui, che se un sacerdote, che normalmente
celebra secondo la forma straordinaria, si trovasse in una situazione
di necessità pastorale nella quale l’autorità competente
esigesse una celebrazione secondo la forma ordinaria, egli dovrebbe
accettare di farlo».
Si tratta di un chiaro riconoscimento del bi-ritualismo, della sua
necessità giuridica, della sua necessità pastorale.
Questo bi-ritualismo è chiaramente espresso non solo nella
lettera di accompagnamento del Motu Proprio ai Vescovi, come lascia
intendere Mons. Pozzo, ma nello stesso Motu Proprio. Nell’art. 1
è detto: « Il Messale Romano promulgato da Paolo VI
è l’espressione ordinaria della lex orandi della Chiesa
cattolica di rito latino. Tuttavia il Messale Romano promulgato da S.
Pio V e nuovamente edito dal Beato Giovanni XXIII deve venir
considerato come espressione straordinaria della stessa lex orandi e
deve essere tenuto nel debito onore per il suo uso venerabile e antico.
Queste due espressioni della lex orandi della Chiesa non porteranno in
alcun modo a una divisione nella lex credendi della Chiesa; sono
infatti due usi dell’unico rito romano».
È anche vero che la lettera di accompagnamento che Benedetto XVI
ha indirizzato ai Vescovi giustifica dottrinalmente, giuridicamente e
pastoralmente questo bi-ritualismo post-conciliare. La ragione
principale – com’è affermato chiaramente – è che il rito
«antico», quello di San Pio V, non è stato mai
abolito: «…questo Messale non fu mai giuridicamente abrogato e,
di conseguenza, in linea di principio, restò sempre
permesso». Vista la sua antichità, bisogna salvaguardarlo:
«Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per
noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del
tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso. Fa bene a tutti
conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera
della Chiesa, e di dar loro il giusto posto».
Tuttavia, prosegue il Papa: « Ovviamente per vivere la piena
comunione anche i sacerdoti delle Comunità aderenti all’uso
antico non possono, in linea di principio, escludere la celebrazione
secondo i libri nuovi. Non sarebbe infatti coerente con il
riconoscimento del valore e della santità del nuovo rito
l’esclusione totale dello stesso».
Mons. Pozzo, riconoscendo la necessità attuale del
bi-ritualismo, il suo diritto, la sua ragione dottrinale e pastorale,
si trova in linea col Motu Proprio.
Egli interpreta bene il testo e il
pensiero del legislatore Benedetto XVI. Chi potrebbe dire il contrario?
Si può dunque legittimamente concludere: «Un sacerdote che
celebra abitualmente la Messa secondo la forma “straordinaria” non
potrebbe rifiutasi, se le circostanze pastorali lo esigono e le
legittime autorità lo chiedono, di celebrare la Messa nella
forma “ordinaria”» - o più semplicemente «la Messa
di Paolo VI».
Alcune osservazioni
Tutto questo ci suggerisce alcune riflessioni:
Riconosciamo, innanzi tutto, che questo indirizzo che richiama
formalmente il diritto della Messa antica è nuovo nella Chiesa.
Non è il pensiero e la legislazione espresse, per esempio, nella
lettera di Giovanni Paolo II Quattuor
abhinc annos del 1984, né
nel Motu Proprio Ecclesia Dei dello stesso Papa.
Certo, la lettera del
1984 prevedeva sì il ritorno, - un certo ritorno -, della Messa
«tridentina» nella Chiesa, cosa affermata più
chiaramente anche in Ecclesia
Dei adflicta, ma esse non facevano che
«concedere» tale rito antico ai sacerdoti e ai fedeli che
lo richiedessero. Il Papa Giovanni
Paolo II si limitava a conferire ai
Vescovi l’autorizzazione – un indulto – a «concedere»
questa Messa di San Pio V, a condizione che «questi sacerdoti ed
i rispettivi fedeli in nessun modo condividano le posizioni di coloro
che mettono in dubbio la legittimità e l'esattezza dottrinale
del Messale Romano promulgato dal Papa Paolo VI nel 1970».
Il «diritto» alla Messa «antica» non era dunque
riconosciuto. Si parlava solo di «concessione», di
«indulto». Il legislatore lo voleva solo come
«temporaneo», per ottenere «una certa pace
ecclesiale».
Questo è quello che diceva chiaramente Mons.
Re, all’epoca Sostituto per gli Affari Generali alla Segreteria di
Stato, in una lettera a De Saventhem, Presidente onorario di Una Voce
Internazionale: «Le diverse disposizioni prese dopo il 1984
avevano lo scopo di facilitare la vita ecclesiale di un certo numero di
fedeli, senza tuttavia perpetuare le forme liturgiche anteriori. La
legge generale rimane l’uso del rito rinnovato dopo il Concilio, mentre
l’uso del rito anteriore attualmente deriva da privilegi che devono
mantenere il carattere di eccezioni… Il primo dovere di tutti i fedeli
è di accogliere e di approfondire le ricchezze di significato
contenute nella liturgia in vigore in spirito di fede e di obbedienza
al Magistero, evitando ogni tensione che danneggi la Comunione
ecclesiale».
È evidente: la
legislazione della Chiesa, dal Concilio fino
all’elezione di Benedetto XVI, non accordava alcun diritto alla Messa
antica. Il Messale di San Pio V era soppresso. Non si osava dire
«abrogato».
Eravamo nel 1994, il 17 gennaio del 1994.
Tuttavia, in questa materia liturgica qualcosa si muoveva,
poiché nel 1998, il 24 ottobre del 1998, il Card. Ratzinger,
futuro Benedetto XVI, si opponeva e riconosceva, appoggiandosi
all’autorità del Card. Newman, che «la Chiesa nella sua
storia non aveva mai abolito o vietato delle forme liturgiche
ortodosse, perché sarebbe stato del tutto estraneo allo spirito
della Chiesa».
L’affermazione era nuova e del tutto opposta a
quella di Mons. Re.
Comunque sia, nel 1994, la legge generale della Chiesa per la liturgia
rimaneva l’uso del rito rinnovato a partire dal Concilio. Era quanto
affermava Mons. Re.
Conosciamo la meravigliosa risposta di De Saventhem: che insite
sull’affermazione: « senza tuttavia perpetuare le forme
liturgiche anteriori».
«Anche ecclesiologicamente,
questa clausola sembra indifendibile.
La “liturgia classica” del rito romano della Messa era già
dotata di perennità intrinseca in quanto monumento incomparabile
della fede. Il suo uso universale e plurisecolare, risalente a ben
prima della Costituzione Apostolica “Quo Primum”, le conferiva inoltre
la perennità canonica della “consuetudo immemorabilis”. Di
conseguenza, la “perpetuazione” della liturgia classica di cui parla la
sua lettera oggi non è né da concedere, né da
vietare, è semplicemente da riconoscere e da far rispettare
nelle disposizioni che regolano il suo uso a fianco dei riti
riformati».
Ben detto!
È quello che molto felicemente ha fatto il Card. Ratzinger una
volta eletto Papa. Il Motu Proprio di Benedetto XVI, del 2007, è
chiaro: «Perciò è lecito celebrare il Sacrificio
della Messa secondo l’edizione tipica del Messale Romano promulgato dal
Beato Giovanni XXIII nel 1962 e mai abrogato, come forma straordinaria
della Liturgia della Chiesa» (Art. 1, § 2).
Tuttavia, pur riconoscendo il diritto della Messa antica, della
«liturgia classica» del rito romano, e pur dichiarando
questo diritto, il Papa Benedetto XVI chiede chiaramente il rispetto e
il riconoscimento di ciò che chiama «la forma ordinaria
(Messale di Paolo VI) del rito romano». La Messa detta di San Pio
V e la Messa di Paolo VI, per lui sono due espressioni del solo e
medesimo rito romano, «due usi dell’unico rito romano».
Eccoci con un bi-ritualismo dichiarato di diritto.
È l’oggetto dell’art. 1 che abbiamo citato prima.
Nella sua lettera ai Vescovi, egli afferma «Non c’è
nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del Missale
Romanum». Vi è solo «crescita e progresso, ma
nessuna rottura». Ed è per questo che dice che «i
sacerdoti delle Comunità aderenti all’uso antico non possono, in
linea di principio, escludere la celebrazione secondo i libri
nuovi».
Il bi-ritualismo è di diritto.
Non è che il
bi-ritualismo nella Chiesa latina crei qualche
problema. La Chiesa latina ha sempre avuto molti riti diversi: il rito
domenicano, il rito lionese… Ma è la coesistenza
«pacifica» di queste due «espressioni»,
«ordinaria» e «straordinaria», del Messale
romano che crea dei problemi.
Per certuni e per me, non
può trattarsi dello stesso e unico
Messale romano. Mons. Gamber, questo grande liturgista, è
tassativo.
Ecco sollevato un altro problema!
Problema che Padre Jehan ha dovuto presentare a Mons. Pozzo,
lasciandogli intendere le difficoltà che certuni hanno provato e
provano ancora nel celebrare la «nuova Messa» non ancora
«riformata», come auspicato chiaramente da Benedetto XVI
nella lettera di accompagnamento, ove parla di una più grande
«sacralità» della celebrazione della Messa di Paolo
VI.
Il Padre Jehan ha dovuto avanzare a Mons. Pozzo l’argomento del
diritto proprio ed esclusivo alla Messa tridentina reclamato da certe
nuove comunità di diritto pontificio. Queste affermano che le
loro costituzioni, i loro statuti canonici, riconosciuti da Roma,
accordano loro questo diritto.
Questo era l’argomento avanzato già nel 1999 dal Padre de
Blignière, Superiore dei padri di Chemére, nel n° 68
della sua rivista Sedes Sapientiae.
Ed è anche ciò che
pensa il Padre Jehan a riguardo delle costituzioni del monastero di Le
Barroux. Lo stesso che chiede e pensa l’abbé Philippe
Laguérie per conto dell’IBP.
Il Padre Jehan si basa
sull’autorità di Mons. Stankiewicz, decano del Tribunale della
Rota. Mons. Pozzo ascolta e si interessa alla sua argomentazione:
« Mons. Pozzo ha tuttavia ascoltato l’opinione che Mons.
Stankiewicz, decano del tribunale della Sacra Rota, aveva espresso a P.
Jehan dopo avere attentamente letto le costituzioni di Le Barroux, e
secondo la quale un monaco prete di Le Barroux non ha diritto di
celebrare secondo il Novus Ordo Missae, sia all’esterno che all’interno
del monastero. In questo modo l’obbligo di celebrare secondo l’antico
rito sarebbe un diritto-dovere particolare che si applica ai monaci di
Le Barroux e questo è vero in qualsiasi posto si trovino».
Io voglio credere che questa è l’interpretazione che dà
Mons. Stankiewicz delle costituzioni del monastero di Le Barroux, ma
Dom Gérard non sembrava così categorico in questa
questione… Eppure era lui il vero legislatore di Le Barroux, lui che
poteva dare la giusta interpretazione, visto che era stato lui a
scriverle.
Le giuste critiche alla Messa di
Paolo VI
Per comprendere questa istanza, questa richiesta di esclusività
del rito di San Pio V, bisogna conoscere la pertinace resistenza che
è stata condotta per quasi 40 anni da persone eminenti della
Chiesa, che hanno rifiutato la nuova Messa in ragione del suo carattere
equivoco.
Mons. Lefebvre parlava di «Messa bastarda».
Bisogna ricordarsi del Card. Ottaviani e del Card. Bacci che
presentarono al Sommo Pontefice Paolo VI una lettera di supplica che
chiedeva l’“abrogazione” della nuova Messa o quanto meno che non fosse
tolta ai fedeli «la possibilità di continuare a ricorrere
alla integrità feconda di quel Missale Romanum di San Pio V…
dall’intero mondo cattolico così profondamente venerato ed
amato».
Essi ne precisavano il motivo. « il
Novus Ordo
Missæ, … rappresenta, sia nel suo insieme come nei particolari,
un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa
Messa, quale fu formulata nella Sessione XXII del Concilio Tridentino,
il quale, fissando definitivamente i «canoni» del rito,
eresse una barriera invalicabile contro qualunque eresia che intaccasse
l’integrità del Mistero».
Essi presentarono al Sommo
Pontefice numerose critiche – il Breve esame critico – che si
può riassumere nella scandalosa definizione della Messa data
dall’art. 7, talmente lontana dalla dottrina cattolica. Essa dovette
essere modificata prima della pubblicazione definitiva della
Costituzione Missale Romanum e della nuova Messa – senza la minima
variazione al rito stesso…
Per di più, l’espressione narratio
institutionis che si trova nell’Istitutio
generalis per esprimere
l’azione sacerdotale compiuta col Canone romano non è meno
sconcertante.
La Messa non è affatto
una narrazione, né
una semplice commemorazione del Sacrificio della Croce, ma è
esattamente il Sacrificio della Croce perpetuato sotto forma
sacramentale, incruenta. Le
formule della Consacrazione sono dette dal
sacerdote in maniera «intimativa» e non
«recitativa».
Erano queste le ragioni, tra molte altre, del
padre Calmel, dell’abbé Dulac, di Mons. Lefebvre, di Mons. De
Castro Mayer, di Jean Maridan, di Luce Quenette. Erano le ragioni
dei loro « non possumus»,
per principio, non volendo
minimamente, né gli uni né gli altri, mettere le mani
nell’ingranaggio di questa riforma liturgica «equivoca».
È quello che esprimeva meravigliosamente De Saventhem sempre
nella sua risposta a Mons. Re, contestando la sua espressione
«ricchezze di significato» relativa alla nuova Messa. Oggi
Benedetto XVI parla di «valore» e di
«santità» (Lettera di accompagnamento al MP).
De
Saventhem rispondeva: «Mi
permetta, Eccellenza, di formulare
un’ultima richiesta di chiarimento, relativa all’ultimo paragrafo della
sua lettera. Cosa intende per le “ricchezze di significato” che,
secondo lei, conterrebbe la liturgia in vigore? All’interno del nostro
movimento, molti si sono dedicati alla ricerca di tali ricchezze, via
via che si è svolta la promulgazione successiva dei libri
liturgici riformati. Essi hanno dato conto dei risultati dei loro
lavori in un numero impressionante di libri, monografie, studi e
commenti, di cui nessuno può contestare la serietà. Se
hanno avuto modo di trovare un aumento quantitativo – orazioni,
letture, prefazi e perfino preghiere eucaristiche – dei testi messi a
disposizione di coloro che organizzano la celebrazione, al tempo stesso
hanno dovuto constatare un abbassamento generalizzato del loro
contenuto teologico, che conduce alla «banalizzazione»
delle nostre funzioni liturgiche, a scapito della loro sacralità
e quindi della loro identità cattolica. Parallelamente, si
è avuto un avvicinamento continuo ai servizi religiosi delle
diverse comunità non cattoliche. In altre parole: la liturgia
cattolica romana ha dovuto pagare lo scotto dell’«opzione
ecumenica»! E invece di un arricchimento della tradizione
liturgica della Chiesa cattolica, si è visto uno sperpero del
suo patrimonio più prezioso. Il «primo dovere» di
ogni fedele cattolico non è di operare per la salvaguardia di
quest’unico tesoro, strumento principale dell’evangelizzazione,
affidato alla Chiesa da Nostro Signore per la salvezza delle
anime?».
È per compiere questo «primo dovere» essenziale che
i nostri predecessori, prima, e noi stessi, oggi, vogliamo rimanere
legati alla Messa di sempre invocando questo diritto esclusivo
contenuto nelle nostre costituzioni, approvate e riconosciute da Roma.
Per me, tuttavia, questo è il più debole degli argomenti.
La forza della nostra posizione - il nostro non possumus storico -
resta e resterà l’analisi intrinseca della nuova Messa di Paolo
VI. Il nostro diritto non si fonda
innanzi tutto sui testi giuridici,
fossero pure le costituzioni approvate perfino da Roma. Il nostro
diritto si fonda prima di tutto sulla fede, sul dogma. La
giurisprudenza viene dopo. Esso è una conseguenza del bene, del
vero sulla cui base legifera. Io personalmente ho orrore del
«positivismo giuridico», in ogni dominio.
Non è
perché l’aborto è vietato dalla legge che io sono contro
l’aborto, ma sono contro l’aborto perché esso è, di per
sé, un male, un crimine, che il diritto deve interdire.
Io mi
oppongo alla nuova Messa perché la nuova Messa non è
buona. Essa ha financo avuto degli effetti catastrofici per la
Chiesa e
i suoi fedeli. Essa ha contribuito alla diminuzione della pratica
religiosa.
Di fronte a questa attitudine e
alla sua giustificazione, come ha
reagito Mons. Pozzo?
«Mons. Pozzo ha detto che conosceva Mons. Stankiewicz. Da parte
sua, egli ha aggiunto che, anche se la lettera pontificia che
accompagna il Summorum Pontificum precisa che i sacerdoti
che celebrano
l’antico rito non possono rifiutare per principio la celebrazione del
nuovo, questo lascia tuttavia aperta la possibilità di un
diritto proprio per certe società i cui membri celebrerebbero
esclusivamente secondo l’antico rito».
Quest’ultima affermazione è nuova, terribilmente nuova.
Ce ne
rallegriamo.
Ma è totalmente
“credibile”? Che senso ha questo
«diritto proprio»?
È una novità.
Ci si ricordi delle difficoltà incontrate dai sacerdoti della
Fraternità
San Pietro nel 1999 e nel 2000. Ci si ricordi la
legislazione che è stata definita legislazione Medina. Essa
è in totale contraddizione con quest’ultimo giudizio di Mons.
Pozzo. Ci si ricordi dei tre quesiti posti alla Congregazione per il
Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, presieduta all’epoca dal
Card. Medina. Ci si ricordi
delle risposte romane. Queste risposte
costituivano la giurisprudenza romana. Giurisprudenza riconosciuta
all’epoca da tutte le autorità romane.
In effetti, a Roma furono posti tre quesiti relativi alla celebrazione
della nuova Messa da parte di sacerdoti appartenenti alle
comunità sacerdotali o religiose dipendenti dalla Commissione
Ecclesia Dei, che desideravano appunto conservare esclusivamente la
messa detta di San Pio V.
1. Questi sacerdoti, possono celebrare la nuova Messa?
2. Le autorità di queste comunità,
qualunque dignità abbiano, possono proibire ai loro sacerdoti di
celebrare la nuova Messa?
3. Possono anche concelebrare nel nuovo rito?
Il 3 luglio del 1999, Roma dava le risposte con un testo della
Congregazione per il Culto Divino che ha per titolo «Risposte
ufficiali»:
«In seguito agli interrogativi prospettati a questo Dicastero,
circa la possibilità e gli impedimenti connessi all’indulto
concesso dalla legittima autorità, di utilizzare il Messale
edito nel 1962, dopo aver consultato e ricevuto l’approvazione del
Pontificio Consiglio per l’interpretazione dei Testi Legislativi e
della Pontificia Commissione Ecclesia Dei, comunichiamo quanto segue,
sotto forma di risposte alle domande poste.
1. Un prete membro di un Istituto
che gode della facoltà di
celebrare secondo il rito in vigore prima del rinnovamento liturgico
del Vaticano II, può
utilizzare liberamente il Messale Romano
promulgato dal Sommo Pontefice Paolo VI, quando celebra la Santa
Eucarestia per il bene di una comunità nella quale la Messa
è celebrata secondo quest’ultimo Messale, e questo anche se
occasionalmente?
Risposta: Affermativo e “ad mentem”.
Lo spirito delle norme
giuridiche comporta che l’uso del Messale
pre-conciliare fosse una concessione accordata ex indulto, esso non
annulla il diritto liturgico comune per il Rito romano, secondo il
quale il Messale in vigore è quello che è stato
promulgato per ordine del Concilio Vaticano II. A maggior ragione, il
prete di cui si tratta deve celebrare con il Messale post-conciliare
nella eventualità che la celebrazione abbia luogo in seno ad una
comunità che segue il Rito Romano attuale, per evitare lo
stupore e il disagio dei fedeli, e per essere un aiuto efficace per i
confratelli preti che gli hanno richiesto tale servizio di
carità pastorale. Per le comunità abituate al Messale
attuale, l’utilizzazione dell’antico Messale comporta molte
difficoltà, per esempio: le differenze del Calendario liturgico,
la diversità dei testi biblici per la liturgia della Parola, le
variazioni dei gesti liturgici, del modo di ricevere la Santa
Comunione, del ruolo dei ministri, etc.
2. I Superiori, di
qualunque dignità siano, degli Istituti che
godono dell’indulto che permette l’uso del Messale Romano edito nel
1962 per la celebrazione del Sacrificio Eucaristico, possono proibire
ai preti appartenenti a questi Istituti l’uso del Messale Romano
post-conciliare, quando questi preti celebrano, anche
occasionalmente,
per il bene di una comunità nella quale viene usato il Messale
Romano attuale?
Risposta: Negativo, perché l’uso del Messale
Romano del 1962
è un indulto concesso per l’utilità dei fedeli che sono
particolarmente legati al rito romano pre-conciliare, e la sua
utilizzazione non può essere imposta a delle comunità che
celebrano la Santa Eucarestia secondo il Messale rinnovato per ordine
del Concilio Vaticano II, comunità su cui i Superiori di tali
Istituti non hanno peraltro alcuna autorità.
3. Un prete membro di un Istituto che
gode dell’indulto suddetto
può senza alcun
impedimento concelebrare la
Santa Messa secondo
il Novus Ordo del Rito Romano?
Risposta: Affermativo, poiché l’indulto non
toglie ai preti il
diritto comune del rito romano di celebrare secondo il Messale Romano
attualmente in vigore, per questo motivo né il suo Superiore
né l’Ordinario locale possono proibirgli la concelebrazione,
né devono farlo. In effetti è lodevole che i preti in
questione celebrino liberamente, specialmente la Messa del
Giovedí Santo presieduta dal Vescovo diocesano. Benché
resti ad «ogni sacerdote la facoltà di celebrare la Messa
individualmente, non però nel medesimo tempo e nella medesima
chiesa, e neppure il Giovedì Santo» (cfr. Vaticano II,
Sacrosanctum Concilium, 57, § 2, 2). Il segno di comunione
inerente alla concelebrazione è così importante che esso
non dev’essere omesso nella Messa crismale, salvo per gravi motivi
(Sacrosanctum Concilium, 57, § 1, Ia).
Dalla sede della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei
Sacramenti, 3 luglio 1999.
Cardinale Jorge Medina Estevez, Prefetto.
Arcivescovo Francesco Pio Tamburrino, Segretario.
Ecco le risposte romane a questi tre quesiti particolarmente
«spinosi» e sempre d’attualità. Queste risposte sono
basate sull’affermazione che la nuova Messa costituisce «il
diritto comune in materia liturgica» e che il diritto particolare
non può prevalere né opporvisi. In più, la
Messa
antica è solo una concessione, un’«indulto» concesso
a queste comunità Ecclesia
Dei.
La posizione di Mons. Pozzo è dunque alquanto nuova.
In effetti, bisogna riconoscere che in questo dominio le cose sono
cambiate grazie al Motu Proprio di Benedetto XVI. Egli riconosce il
diritto all’uguaglianza tra «la forma straordinaria e la forma
ordinaria del Messale romano». Oggi non si potrebbe più
affermare che il «diritto comune liturgico» è la
nuova Messa.
La posizione di Mons. Pozzo
è nuova. Ma è credibile?
Tuttavia, la lettera di accompagnamento del Motu Proprio di Benedetto
XVI ricorda che « Ovviamente per vivere la piena comunione anche
i sacerdoti delle Comunità aderenti all’uso antico non possono,
in linea di principio, escludere la celebrazione secondo i libri nuovi.
Non sarebbe infatti coerente con il riconoscimento del valore e della
santità del nuovo rito l’esclusione totale dello stesso».
Così, questa
esclusività del rito liturgico di San Pio V,
fondata sulle costituzioni delle comunità Ecclesia Dei, è
pacificamente possibile? Le parole del Papa sembrano dire il contrario.
Questa esclusività mi sembra che rimanga sempre un
«diritto particolare», a fronte di un diritto comune in
materia liturgica che include, di diritto, certo la forma straordinaria
– e questo è nuovo – ma anche la forma ordinaria del rito
romano. Quindi, di per sé non lo si potrebbe escludere.
Ecco perché rimarrei prudente. L’opinione di Mons. Pozzo, che il
Padre Jehan ben riassume, può fare, da sola, giurisprudenza?
Vi è anche di più: non
v’è una certa
contraddizione in questa opinione di Mons. Pozzo? «Anche
se la
lettera pontificia che accompagna il Summorum Pontificum precisa che i
sacerdoti che celebrano l’antico rito non possono rifiutare per
principio la celebrazione del nuovo, questo lascia tuttavia aperta la
possibilità di un diritto proprio per certe società i cui
membri celebrerebbero esclusivamente secondo l’antico rito».
I nostri amici delle comunità Ecclesia
Dei lo hanno creduto nel
1999.
Si sono sbagliati.
Roma ha giudicato diversamente. Nel 1999, Roma
diceva che nessun sacerdote “può rifiutarsi per principio di
celebrare secondo l’una o l’altra forma”. Concretamente, questo
implica, per Roma, che se un sacerdote che celebra normalmente secondo
la forma straordinaria si trovasse in una situazione di
necessità pastorale per la quale l’autorità competente
esigesse una celebrazione secondo la forma ordinaria, egli dovrebbe
accettare di farlo.
L’abbiamo visto prima.
La posizione del Vaticano
è stata sempre questa.
Era questa quando la Messa
antica era
considerata come un semplice indulto, relativo a certe comunità,
è ancora ribadita ora che la Messa antica è considerata
non più come un indulto, ma come un diritto.
Per questo io aspetterei gli avvenimenti e il regolamento dei
«conflitti» in materia, per valutare e per concludere con
Mons. Pozzo che: « Anche se la lettera pontificia che accompagna
il Summorum Pontificum precisa che i sacerdoti che celebrano l’antico
rito non possono rifiutare per principio la celebrazione del nuovo,
questo lascia tuttavia aperta la possibilità di un diritto
proprio per certe società i cui membri celebrerebbero
esclusivamente secondo l’antico rito».
Io non sono così sicuro.
Del resto, che significa questa
espressione: «questo lascia tuttavia aperta la possibilità
di un diritto proprio». Questa
espressione «questo lascia
tuttavia aperta la possibilità…» mi sembra un’affermazione
alquanto debole, alquanto incerta, per non dire equivoca. Se è
semplicemente «possibile» non è assolutamente
«certo». Ciò che è possibile non è
sempre certo. Se la cosa fosse stata così chiara e così
sicura, l’espressione avrebbe dovuto essere differente.
Come si dice: «aspettiamo e vediamo».
In tutti i modi, non dimentichiamo che il diritto è fondato
sulla fede, e non viceversa.
Consideriamo questa virile certezza di cui parlava Dom Guéranger
ai suoi monaci: «Nel tesoro della
Rivelazione vi sono dei punti
essenziali, di cui ogni cristiano, per il fatto stesso di chiamarsi
cristiano, ha la conoscenza necessaria e l’obbligo della difesa… I veri
fedeli sono gli uomini che attingono dal loro battesimo (in tempi
d’eresia) l’ispirazione per una linea di condotta; non i pusillanimi
che, col pretesto specioso della sottomissione ai poteri stabiliti, per
correre incontro al nemico o opporsi alle sue imprese, aspettano un
programma che non è necessario e che non si deve loro
dare».