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NOVUS ORDO MISSÆ Studio critico di Arnaldo Vidigal Xavier da Silveira
SOMMARIO PARTE PRIMA Capitolo Primo
Capitolo Secondo
Capitolo Terzo
Capitolo Quarto
Capitolo Quinto
CAPITOLO PRIMO "L’INSTITUTIO GENERALIS MISSALIS ROMANI" EDIZIONE DEL 1969 A) L’"Institutio" e il dogma della Transustanziazione
Nell’analizzare alcuni articoli dell’"Institutio generalis missalis
Romani", edizione del 1969 (1), non è nostra intenzione studiarla
in modo esaustivo. Faremo solo quelle osservazioni che sono necessarie
per aiutare il lettore a formarsi un giudizio su questo documento, alla
luce della dottrina cattolica tradizionale (2).
L’assenza del termine "transustanziazione" dal testo orginario dell’"Institutio"
è incomprensibile (13). Nel 1786 fu riunito a Pistoia un sinodo
giansenista che approvò diverse proposizioni relative all’Eucaristia.
In esso si parla comunque della "presenza reale" e si ammette anche la
cessazione completa delle sostanze del pane e del vino nelle specie consacrate,
ma il termine "transustanziazione" non viene impiegato. Questa omissione
fu condannata nel 1794 da Pio VI come "perniciosa, pregiudizievole all’esposizione
della verità cattolica sul dogma della transustanziazione, e favorevole
agli eretici" (14). Inoltre, Pio VI dichiarò che il termine "transustanziazione"
non può essere considerato come una semplice espressione tecnica
della Scolastica, ma esso deve essere assolutamente utilizzato nell’esposizione
del mistero della presenza reale (15).
(su)
B) Il numero 7 dell’"Institutio" In una definizione della messa, anche puramente descrittiva, non è possibile che manchi, da qualsivolgia contesto, il suo elemento principale: la nozione di sacrificio (18). Ebbene, nell’edizione del 1969, il capitolo dell’"Institutio" che tratta della "struttura generale della messa", inizia con una frase (n° 7) alla quale è difficile negare il carattere di definizione della messa, e tuttavia in essa non si parla del sacrificio: "La cena del Signore o messa è una sacra riunione, e cioè l’assemblea del popolo di Dio che si riunisce, sotto la presidenza del sacerdote, per celebrare il memoriale del Signore. È per questo che l’assemblea della Chiesa locale realizza in modo eminente la promessa di Cristo: "Lì dove due o tre sono riuniti in nome mio, là sono in mezzo a loro" (Mt XVIII, 20)". Lasceremo da parte questa nuova ambiguità, relativa alla nozione della "presenza" di Cristo secondo la quale la principale presenza di Nostro Signore nella messa sarebbe di ordine spirituale, piuttosto che la presenza sostanziale sotto le specie consacrate. Tralasceremo anche il continuo tentativo dell’"Institutio" di introdurre espressioni che indeboliscono l’opposizione al protestantesimo o il senso sacrificale della messa, quali "cena del Signore", "assemblea", "popolo di Dio", "memoriale del Signore". Ed infine non tratteremo, per il momento, dell’affermazione secondo cui il sacerdote "presiede" l’assemblea, nozione assai gradita ai protestanti, poiché insinua che il sacerdote è in primo luogo un delegato del popolo, o il primus inter pares, e non il ministro consacrato, eletto da Dio, che agisce al posto di Cristo (in persona Christi). Questa questione sarà analizzata più avanti (19). Per ora, considereremo solo il punto centrale della questione: il fatto che questo articolo sembra contenere la definizione della messa. In questa definizione mancherebbe ogni allusione al sacrificio, e mancherebbe soprattutto qualsiasi riferimento alla propiziazione, e cioè alla riparazione che Cristo offre nella messa per i peccati degli uomini. Di modo che, se l’articolo in questione pretende di presentare una definizione della messa, si tratterebbe di una definizione falsa, contraria al concilio di Trento. Tuttavia, gli autori dell’"Institutio" tentano di schivare queste accuse negando che questo articolo contenga una definizione propriamente detta. Ecco come l’allora segretario della Commissione per la riforma della Liturgia, Mons. Bugnini, riportò le conclusioni della XII sessione plenaria di questo organismo, in cui furono studiate le obiezioni fatte all’articolo 7 dell’"Institutio": "I Padri [cardinali e vescovi membri della Commissione] hanno considerato alcune difficoltà recentemente manifestatesi a proposito di alcuni punti dell’"Institutio generalis missalis Romani". Essi hanno ricordato che l’"Institutio generalis" non è un testo dogmatico, ma piuttosto una pura e semplice esposizione delle norme che regolano la celebrazione eucaristica (20); essa non cerca di dare una definizione della messa, ma vuole solo presentare una descrizione del rito (21). Che cos’è la messa, da un punto di vista teologico, lo si può arguire da alcuni paragrafi dell’"Institutio" (22), ed è anche risaputo da tutti i trattati di teologia e dai documenti pontifici a carattere dottrinale (23)". Ora, anche se si prende il n° 7 dell’"Institutio", nella sua edizione del 1969, come una definizione non essenziale (24), risulta impossibile accettarlo, poiché esso costituisce in ogni caso una clausola che, a proposito della messa, presenta ai fedeli un’asserzione perlomeno insidiosa; allo stesso tempo essa insinua che qualcosa è cambiato nella concezione tradizionale della messa come sacrificio. (su)
C) Un sacrificio propiziatorio A ciò che abbiamo appena detto circa l’assenza della nozione di sacrificio nella definizione apparente o reale della messa, contenuta in questo articolo 7, si potrebbe replicare che, anche in questa sua prima edizione, l’"Institutio" afferma a più riprese che la messa è un sacrificio; così ai nn. 2, 48, 54, 56h, 60, 62, 153, 259, 335 e 339. I difensori dell’"Institutio" hanno addotto che non è il caso di biasimare l’assenza della nozione di sacrificio nel n° 7, in quanto tale nozione appare spesso in altri punti dell’"Institutio" stessa. Vista la natura di tale asserzione, non insisteremo sul fatto che in questo articolo non dovrebbe mancare qualche riferimento al sacrificio; di questo aspetto ne abbiamo già parlato. Vedremo allora come le allusioni alla nozione di sacrificio fatte dall’"Institutio" siano tutte insufficienti per distinguere la concezione cattolica dalle nozioni protestanti della mensa del Signore. In effetti, come si sa, il sacrificio della messa ha una quadrupla finalità:
l’adorazione, l’azione di grazie, la propiziazione e l’impetrazione (25).
A questo proposito, ciò che è in questione nella vecchia
disputa fra cattolici e protestanti, non è, propriamente parlando,
il carattere sacrificale della messa, ma piuttosto il suo carattere propiziatorio.
In altri termini, cattolici e protestanti ammettono che la messa è
un sacrificio di lode e di rendimento di grazie, ma i protestanti negano
(ed è questa la loro eresia in materia) che la messa costituisca
un sacrificio propiziatorio (26).
Analizzando i diversi passi del testo dell’"Institutio" del 1969 che
parlano del sacrificio, constatiamo che il carattere propiziatorio della
messa non è affermato in nessuno di essi (29). Al contrario, essi
fanno continuamente riferimento alla messa come sacrificio di lode, d’azione
di grazie, di commemorazione del sacrificio della croce, tutti aspetti
reali, ma che il concilio di Trento ha dichiarato insufficienti per la
concezione cattolica della messa. Nei testi dell’"Institutio" che qui citeremo,
evidenzieremo in maiuscolo i passaggi concernenti gli aspetti non propiziatori
del sacrificio.
Del resto, l’"Institutio", nella sua prima edizione, usa a più riprese delle espressioni dal contenuto sacrificale, come "ostia", ma in nessun punto afferma il carattere propiziatorio del sacrificio della messa. Nell’"Institutio" si incontrano anche alcune espressioni che tendono
a lasciare in ombra il carattere sacrificale e propiziatorio della messa.
È il caso dell’insistenza esagerata sul principio (di per sé
incontestabile) che nella messa vi è un banchetto, poiché
Gesù Cristo ci dona il suo Corpo ed il suo Sangue come alimenti.
Questo aspetto della messa è indubbiamente vero, ma deve essere
subordinato all’aspetto sacrificale e propiziatorio, tanto più che
i protestanti tentano di ridurre il sacrificio eucaristico ad un banchetto,
come si può vedere dalla condanna emessa a Trento e che abbiamo
già citato (32):
Se passiamo dall’"Institutio" al commento della B.A.C. (34), notiamo
che in quest’ultima le omissioni e le ambiguità tendenti a celare
il carattere sacrificale e propiziatorio della messa sono ancora più
numerose.
(su)
D) Il "racconto dell’istituzione" Un altro passo dell’edizione dell’"Institutio" del 1969 dal carattere dottrinalmente riprovevole: è l’articolo "d" del già citato n° 55 (41), che tratta ex professo della Consacrazione. Esso inizia col titolo narratio institutionis, ovvero il "racconto dell’istituzione". Ora, secondo la dottrina cattolica, il sacerdote che consacra non "ripete" solamente ciò che il Signore ha fatto durante la Santa Cena, ma agisce in persona Christi, al posto di Cristo, prestandogli la sua bocca e la sua voce. Secondo i protestanti invece, nella Consacrazione, il ministro non fa che ridire le parole dei Vangeli, ripetere le parole di Cristo, ricordando così l’ultima cena. Siccome secondo loro non c’è alcuna transustanziazione, questo racconto può bastare, poiché non è né necessario, né possibile che le parole di Cristo siano pronunciate dal sacerdote in maniera affermativa e imperativa (42). Ricordiamoci allora della gravità di questo sottotitolo: narratio institutionis (43). Del resto, questo passo è ancora più sospetto se si pensa al già segnalato silenzio del documento, nella sua prima edizione, a proposito dei concetti di "presenza reale" e di "transustanziazione" (44). Ritroviamo la stessa ambiguità sulla natura della Consacrazione
nel commento della B.A.C. (45). Spiegando questa parte centrale della messa,
gli autori adottano una posizione che corrisponde pienamente ai principii
protestanti:
(su)
E) Il presidente dell’assemblea Secondo la definizione del concilio di Trento, il sacerdozio "è stato istituito dal Salvatore, che con esso ha dato ai suoi Apostoli e ai loro successori il potere di consacrare, di offrire e di amministrare il suo Corpo ed il suo Sangue, così come di perdonare e di ritenere i peccati" (49). È per questo che il potere di consacrare appartiene al sacerdote e non al popolo. Se le Scritture e la teologia cattolica parlano di "sacerdozio" dei fedeli, lo fanno in senso lato, per indicare semplicemente la consacrazione di tutti i battezzati all’opera divina, in unione con Nostro Signore, sommo ed eterno sacerdote (50). Confondere il sacerdozio del popolo con quello del prete, significa ancora una volta adottare un principio protestante; in effetti, secondo gli pseudo-riformatori del XVI secolo, il celebrante è sacerdote allo stesso titolo del popolo, egli si limita a presiedere l’assemblea eucaristica in quanto delegato da quelli che assistono. Anche su questo punto, l’"Institutio" conserva alcune espressioni della dottrina tradizionale, ma aggiungendovi delle nozioni e dei principii che insinuano o contengono le tesi protestanti. Così, al n° 10, si può leggere che il sacerdote "presiede l’assemblea, rappresentando Cristo (personam Christi gerens)"; e al n° 60, che "il sacerdote […] presiede l’assemblea riunita, operando al posto di Cristo (in persona Christi praeest)" (51). Il n° 48 afferma che il sacerdote "rappresenta Cristo (Christum Dominum repraesentans)". Come si può notare, queste espressioni hanno ancora un’"impronta" del tutto tradizionale; esse sono i termini tecnici che designano il modo in cui il celebrante agisce al posto di Nostro Signore. Nondimeno, tali espressioni figurano qui in un contesto che provoca una certa perplessità. Da un lato, non si dice cosa significhi esattamente "prendere il posto di Cristo" o "rappresentarlo"; dall’altro, l’"Institutio" contiene numerosi passi che insinuano che il celebrante è un semplice presidente dell’assemblea, e che la sua principale funzione nel corso della messa consista nel rappresentare i fedeli ivi riuniti. Tutto ciò apre la strada ad una interpretazione in senso lato della "rappresentazione" di Cristo (per esempio che ogni cristiano sia un altro Cristo), e non in senso stretto e preciso di un sacerdozio gerarchico e visibile, in funzione del quale il sacerdote presta le sue labbra e la sua voce a Nostro Signore nel momento della consacrazione. È quello che vedremo nell’analisi seguente: 1° - Abbiamo già precisato che, al n° 7 della prima edizione dell’"Institutio", il sacerdote è semplicemente qualificato come presidente dell’"assemblea del popolo di Dio" (52). Ora, questo articolo è della massima importanza poiché, anche se non lo si considera come una definizione della messa, esso è destinato indubbiamente ad orientare i fedeli verso una migliore comprensione della messa (53). 2° - Nel n° 10, immediatamente dopo l’affermazione secondo cui il sacerdote presiede l’assemblea rappresentando Cristo, l’"Institutio" dichiara che la preghiera eucaristica costituisce una preghiera "presidenziale"; e lo stesso articolo definisce "preghiere presidenziali" quelle "che sono indirizzate a Dio A NOME DI TUTTO IL POPOLO SANTO E DI TUTTI COLORO CHE SONO PRESENTI" (54). Ogni lettore, in base a questo passo, sarà portato a pensare che nella consacrazione il sacerdote parli principalmente a nome del popolo. Non v’è dubbio che alcune parti della preghiera eucaristica sono indirizzate a Dio a nome del popolo, ma la parte principale, la consacrazione, è pronunciata dal sacerdote esclusivamente a nome di Nostro Signore. Per un cattolico è impossibile ammettere una qualche ambiguità su questo punto. Così che il n° 10 dell’"Institutio" è uno dei più inaccettabili di tutto il documento (55). 3° - Il principio che troviamo enunciato al n° 12 è particolarmente strano: "La NATURA delle parti "presidenziali" esige che esse siano pronunciate a voce alta e intelligibile, e ascoltate da tutti con attenzione. Per questo motivo, quando il sacerdote le pronuncia, è bene che non si dicano altre preghiere o inni, e che l’organo o ogni altro strumento musicale taccia" (56). Dunque, se le parole della consacrazione devono essere pronunciate anch’esse in queste condizioni, si insinua ancora una volta che in quel momento il sacerdote agisca specificamente in qualità di delegato del popolo. Inoltre, questo articolo dell’"Institutio" contiene in tutta evidenza un’importante contraddizione con la rubrica dell’"Ordo" tradizionale, secondo cui il canone non viene pronunciato "a voce alta e intelligibile". Questo fatto merita un’attenzione del tutto particolare, visto l’anàtema lanciato dal concilio di Trento: "Se qualcuno dice che il rito della Chiesa romana secondo cui una parte del canone e le parole della consacrazione sono pronunciate a bassa voce dev’essere condannato […], sia anàtema" (57). Dichiarando che è la natura delle parti "presidenziali" (dunque della preghiera eucaristica e delle parole della consacrazione) ad esigere che esse siano pronunciate a voce alta e intelligibile, l’"Institutio" pone un principio valido per tutti i tempi, e afferma quindi implicitamente che il concilio di Trento su questo punto si è sbagliato (58). 4° - Il n° 271 formula una nuova critica alla messa tradizionale, basata anch’essa sulla falsa nozione di funzione "presidenziale" del celebrante: "La sede del sacerdote celebrante deve mostrare la sua funzione di presidente dell’assemblea e di guida alla preghiera. Perciò la sua migliore posizione è di fronte al popolo, in mezzo e in fondo del presbiterio […]". Secondo l’"Ordo" romano, il sacerdote sta normalmente di fronte all’altare, poiché egli è soprattutto il sacrificatore che, al posto del Verbo Incarnato, si presenta davanti all’Eterno Padre (59). La modifica introdotta deriva dunque dalla nozione di "presidenza" dell’"assemblea", in opposizione alla dottrina tradizionale. Nel commento della B.A.C., incontriamo un’importante conferma del fatto
che l’"Ordo" del 1969 ha introdotto una nuova nozione, che non può
che richiamare l’idea protestante di "presidenza" dell’"assemblea" esercitata
dal celebrante (60):
Come si è visto, l’"Institutio" insinua questa errata nozione sul sacerdozio dei fedeli, e la prestigiosa collezione della B.A.C. pubblica un commento dell’"Institutio" nel quale questa nozione viene espressamente affermata come la nozione dello stesso documento. L’impunità con cui circola quest’opera, porta il fedele a credere che essa interpreti e sviluppi correttamente il testo dell’"Institutio". L’ampia diffusione di questo commento - che attualmente è alla sua ottava edizione - mostra come tale erronea concezione del sacerdozio si radichi nel popolo. (su)
F) Gesù Cristo, il principale sacerdote ("sacerdos") Secondo la definizione del concilio di Trento, nella Santa Messa Gesù Cristo "s’immola egli stesso per la Chiesa mediante le mani del sacerdote" (65). Per tale motivo, si dice che Nostro Signore è il principale sacerdos di tutte le messe, mentre il prete è un sacerdos secondario, ministeriale o strumentale. D’altra parte, il sacerdozio del celebrante è - come abbiamo già osservato (66) - essenzialmente diverso da quello del popolo, così che il popolo non partecipa alla messa alla stessa maniera del sacerdote. Negare anche una di queste verità, significa cadere nell’errore protestante. In questa materia, l’"Institutio" non è esplicita, poiché se da un lato essa contiene alcune espressioni che si possono prendere come affermazioni della dottrina tradizionale (67), dall’altro occorre notare che, nel suo insieme, essa lascia il campo libero a certe interpretazioni che sono semplicemente sbagliate. In effetti, non una volta il documento afferma che Nostro Signore è il principale "sacerdos" e che il celebrante esercita un sacerdozio secondario e ministeriale, essenzialmente differente da quello del popolo (68). Commentando i già citati nn. 1 e 4, gli autori della B.A.C. approfittano
ancora una volta delle imprecisioni e dei silenzi dell’"Institutio" per
esporre una teoria del sacerdozio (di Cristo, del prete e del popolo) che
si allontana fondamentalmente dalla dottrina della Chiesa. A proposito
del principio secondo cui l’Eucaristia è un’"azione di Cristo",
nel commento della B.A.C. si legge:
(su)
G) La tendenza a rendere equivalenti la "Liturgia della parola" e la "Liturgia eucaristica" Le eresie tendono sempre a sopravvalutare l’importanza della Scrittura, a detrimento delle formule liturgiche d’origine ecclesiastica e della celebrazione eucaristica propriamente detta. In questo modo, esse tentano di ridurre al silenzio la tradizione e di diffondere i loro falsi dogmi dicendo che questi poggiano sulla rivelazione (74). L’"Institutio", indubbiamente, contiene dei passi che sembrano affermare il primato della "liturgia eucaristica" sulle letture bibliche. È il caso del n° 54, che colloca "l’apice ed il centro di tutta la celebrazione" nella preghiera eucaristica. Tuttavia, altri passi dell’"Institutio", che non sono stati del tutto modificati nella nuova edizione, sembrano sopravvalutare l’importanza delle Scritture, al punto da provocare in alcuni momenti, nel lettore, l’impressione che esse abbiano la stessa importanza del culto di Nostro Signore. Nel n° 8, per esempio, leggiamo: "La messa è in qualche modo costituita da due parti: la liturgia della parola e la liturgia eucaristica, così intimamente unite da costituire un solo atto di adorazione. In effetti, nella messa, la tavola della parola di Dio esattamente come quella del Corpo di Cristo, per istruire e nutrire i fedeli. Ci sono inoltre alcuni riti che iniziano e altri che concludono la celebrazione". Secondo il n° 9, quando in chiesa si legge la sacra Scrittura, "Cristo, presente nella sua Parola, annuncia il Vangelo"; e le letture bibliche "apportano alla liturgia un elemento della più grande importanza" (maximi momenti). Certamente, l’espressione "maximi momenti" può essere assunta come un superlativo relativo e non assoluto, vale a dire che essa non indica necessariamente che le letture bibliche costituiscano l’elemento più importante della messa. Tuttavia, tale interpretazione non è esclusa, fornendo così un’occasione per cadere nell’errore protestante: sopravvalutazione del valore delle Scritture in rapporto alla presenza reale nell’Eucaristia. Aggiungiamo che più di una volta l’"Institutio" dichiara che "tramite la sua parola Cristo stesso diventa presente in mezzo ai fedeli" (75). Considerate nel loro insieme, le disposizioni dell’"Institutio" danno
àdito ad un pericoloso equivoco circa la vera importanza delle letture
bibliche della messa.
Sempre a proposito delle letture della Bibbia durante la messa, l’"Institutio",
in questo stesso n° 9, dichiara:
(su)
H) Il memoriale della Resurrezione e dell’Ascensione Uno dei mezzi impiegati dagli eretici dei nostri tempi per dissimulare il carattere sacrificale e propiziatorio della messa, consiste nell’accentuare eccessivamente il fatto (reale, ma subordinato) che la messa rievoca non solo la morte di Nostro Signore, ma anche la Resurrezione e l’Ascensione. Noi diciamo che la messa ricorda la Resurrezione e l’Ascensione solo in maniera subordinata, poiché nella sua realtà sacrificale e propiziatoria e nei suoi elementi simbolici essenziali, la messa è innanzitutto e direttamente il rinnovamento del sacrificio della croce. È per questo che essa richiama alla mente soprattutto la morte di Nostro Signore. Tuttavia, come nel mistero del Calvario, che ha propriamente realizzata la nostra Redenzione, erano implicati anche tutti gli altri misteri e tutti gli altri avvenimenti della vita di Cristo, si può e si deve ritenere che la messa richiama anche, ma in maniera subordinata, la Resurrezione (80), l’Ascensione, il fatto che Nostro Signore si è assiso alla destra dell’eterno Padre, ecc. L’"Institutio", nell’edizione del 1969, sembra ignorare questa distinzione, provocando in tal modo una confusione dei concetti. Così la messa, nel n° 2, è chiamata il "memoriale della Passione e Resurrezione" di Cristo; nel n° 48 si legge che nel corso dell’ultima cena "Cristo istituì il memoriale della sua morte e della sua resurrezione" (81); nel n° 55 si dice che immediatamente dopo la Consacrazione, "la Chiesa celebra il memoriale di Cristo, ricordando principalmente la sua santa Passione, la sua gloriosa Resurrezione e la sua ascensione al cielo"; nel n° 55d, si afferma che nell’ultima cena, Nostro Signore "istituì il sacramento della Passione e della Resurrezione" (82); il n° 335 definisce la messa "il sacrificio eucaristico della Pasqua di Cristo", e i nn. 7 e 268 dichiarano che nella messa celebriamo il "memoriale del Signore". I commentatori della B.A.C. confermano i timori che abbiamo espressi prima. Essi manifestano un’avversione particolare per l’accento di santa e sacrificale tristezza che caratterizza la messa tradizionale, anche nei giorni di festa. Questa tendenza a ridurre l’Eucaristia ad una celebrazione gioiosa che esprimerebbe solo allegrezza, diventa evidente nel seguente paragrafo: "Incoraggiare perché si dia al canto una grande importanza è più che opportuno (n° 19 dell’"Institutio"). Questo perché l’Eucaristia è il sacramento della Pasqua del Signore, l’attesa del suo glorioso ritorno e insieme una gioiosa celebrazione del trionfo di Cristo che è già stato realizzato e che tutta la Chiesa attende. Il canto è l’espressione naturale di questa gioia" (83). (su)
NOTE al Capitolo Primo (1) Nel primo capitolo, studieremo alcuni aspetti, soprattutto dogmatici, di questo documento, riservandoci di analizzare nel terzo capitolo (pp. 60 e ss.), sia l’"Ordo" del 1969 sia alcune disposizioni pratiche dell’"Institutio" che costituiscono delle vere e proprie rubriche. (2) Teniamo a precisare che la promulgazione della nuova messa non impegna l’infallibilità della Chiesa. Dal momento che questo problema comporta degli elementi complessi e delicati, tratteremo ex professo la questione dell’infallibilità della Chiesa nelle sue leggi liturgiche in un appendice (pp. 161 e ss.) (3) Di J.-M. Martin Patino, A. Pardo, A. Iniesta e P. Farnes, Biblioteca de Autores Cristianos (B.A.C.), Madrid, 1969, pp. 304. L’opera, la cui prima edizione è del giugno 1969, a novembre 1969 era già alla sua ottava edizione. Il P. Josè Maria Martin Patino, S.J., che è al primo posto nella lista degli autori, è stato consultore del "Consilium ad Exsequandam Constitutionem de sacra Liturgia", e contemporaneamente segretario della Commissione liturgica spagnola e della Commissione episcopale mista CELAM-Spagna (C.E.M.), incaricato di preparare le traduzioni spagnole dei testi liturgici (Notitiæ, 1966, p. 200; 1967, p. 26). Per ciò che riguarda gli altri tre autori delle Nuevas normas de la misa, non abbiamo potuto sapere se a quel tempo erano consultori del "Consilium", poiché è difficile ottenere una lista completa dei suoi consultori, il cui numero nel 1966 era di duecento (vedi Notitiæ, 1966, pag. 345). Per maggior comodità, indicheremo questo libro come il "commento della B.A.C." sull’"Institutio", ed i suoi autori come i "commentatori della B.A.C.". (N.d.E.) Il P. Martin Patino è stato in seguito nominato consultore della Sacra Congregazione per il Culto divino, e poi vescovo. (4) Sul modo in cui le parole "transustanziazione" e "presenza reale" appaiono nel nuovo testo dell’"Institutio", promulgato nel 1970, vedi le pp. 99-101, 107-109, 115-119 e 335-337. (5) Nelle citazioni che seguono, le maiuscole sono nostre. (6) Come faremo vedere più avanti, l’affermazione secondo cui "le offerte diventano il Corpo ed il Sangue di Cristo", è ammessa anche dai protestanti, in quanto essa non implica necessariamente la tesi cattolica della transustanziazione (vedi pp. 19, 126-127 e 158-159). Espressioni simili appaiono a più riprese nell’"Institutio" (vedi per esempio i nn. 49, 55 e 56). (7) Questo articolo dell’"Institutio" è stato modificato nel 1970. A p. 120 studiamo e commentiamo il nuovo testo. (8) Benché il n° 60 dell’"Institutio" sia stato modificato nel nuovo testo del 1970 (vedi pp. 121-122), l’articolo qui citato non è stato rimaneggiato. (9) Questo articolo dell’"Institutio" è stato modificato nel 1970. Alle pp. 120-121 commentiamo il nuovo testo. (10) O novo Ordo Missæ, Vosez, Petropolis, 4ª ediz., 1969, pp. 64. (N. d. E. - La casa editrice Vosez, a cui si riferisce l’Autore, è una delle principali case editrici del Brasile. L’opuscolo qui citato, O novo Ordo Missæ, è stata la prima e la più importante edizione brasiliana dell’"Institutio", ed è stata ristampata almeno tre volte nel 1969.) (11) Non si può negare che anche il concilio di Trento (Denz.-Sch. 1740) abbai insegnato che Nostro Signore ha istituito un sacrificio col quale sarebbe rappresentato (repræsentaretur) il sacrificio della Croce. Solo che, nel contesto della definizione tridentina, al contrario dell’"Institutio", è chiaro che non si tratta di una rappresentazione puramente simbolica. Basta considerare, per esempio, il primo canone sulla messa: "Se qualcuno dice che nella messa non è offerto a Dio un sacrificio vero e giusto, o che Cristo che offre se stesso non si dona a noi come alimento, sia anàtema" (Denz.-Sch. 1751). (12) Sulla posizione dei protestanti a questo riguardo, vedi pp. 127 e 158-159. (13) Per difendere l’"Institutio", non si può addurre che neppure i documenti di introduzione al messale tradizionale non impiegano la parola "transustanziazione", poiché questi documenti sono solo delle semplici esposizioni delle rubriche senza qualsivoglia carattere dottrinale, mentre l’"Institutio" è senza dubbio un documento dottrinale, malgrado le dichiarazioni contrarie rilasciate da Mons. Bugnini, segretario della Congregazione incaricata dell’Applicazione della Costituzione sulla Liturgia del Concilio Vaticano II (citiamo e commentiamo questa dichiarazione alle pp. 22-23). In realtà, un confronto sommario tra i documenti d’introduzione al messale tradizionale e l’"Institutio", basta a verificare il carattere dottrinale di quest’ultima ed il carattere puramente normativo dei primi. A questo riguardo, si vedano anche le dichiarazioni fatte dalla rivista della Commissione liturgica Notitiæ (1968, pag. 181), che noi citiamo nella successiva nota n. 20. (14) Denz.-Sch., 2629, Denz.-Umb, 1529. (15) Denz.-Sch., 2629, Denz.-Umb, 1529. (16) Vedi, per esempio, Schillebeeckx, Transubstanciação…, pp. 286 e ss., confutato da Clark, Adiumenta… (17) Denz.-Sch. 1642, 1652. (18) Vedi Concilio di Trento, Denz.-Sch. 1751 (citiamo questo canone alla nota 11). In connessione col testo modificato dell’"Institutio" che fa riferimento alla nozione di sacrificio, vedi le pp. 117-121. (19) Vedi pp. 30 e ss. (20) Questa affermazione è falsa. L’"Institutio" è pieno di proposizioni dottrinali. Nessuno oserebbe pretendere, per esempio, che l’asserzione seguente del n. 1 non abbia carattere dottrinale: "Nella Messa, infatti, si ha il culmine sia dell’azione con cui Dio santifica il mondo in Cristo, sia del culto che gli uomini rendono al Padre, adorandolo per mezzo di Cristo Figlio di Dio". Forse che questa è "una pura e semplice esposizione d’una regola che predispone la celebrazione eucaristica"? Di tali concetti dottrinali se ne trovano in ogni pagina del documento. Lo stesso vale per il n. 7 in questione. Come si può negare che questo testo contenga un’affermazione di ordine dogmatico? Come si può sostenere che esso contenga una semplice "esposizione delle regole che predispongono la celebrazione eucaristica?". Quali sono le "regole" contenute in questo articolo? Se vogliamo evitare i sofismi, dobbiamo assolutamente riconoscere che il n° 7 dell’"Institutio" contiene un’asserzione dottrinale che fornisce le basi delle "regole che predispongono la celebrazine eucaristica", le quali appaiono nel seguito del documento. Il messale romano tradizionale contiene diversi documenti d’introduzione che non sono dei "testi dogmatici", ma delle "pure e semplici esposizioni di regole che predispongono la celebrazione eucaristica". Come abbiamo già osservato (vedi nota 13), un confronto anche sommario tra i documenti in questione e la recente "Institutio", rivela senza equivoco il carattere dottrinale di quest’ultima ed il carattere puramente pragmatico dei primi. Inoltre, allorché l’"Institutio" era in cantiere, la stessa Commissione liturgica disse che il documento doveva contenere "DEI PRINCIPI TEOLOGICI, delle norme pastorali e delle rubriche per la celebrazione della messa" (vedi Notitiæ, 1968, p. 181; le maiuscole sono nostre). In un rapporto presentato alla seconda Conferenza generale dell’Episcopato latino-americano, a Medellin il 30 agosto 1968, Mons. Bugnini ha dichiarato che l’"Institutio" è "un ampia esposizione TEOLOGICA, pastorale, CATECHETICA e rubricale, e che essa è un’introduzione alla COMPRENSIONE ed alla celebrazione della messa" (in Revista Eclesiàstica Brasileira, vol. 28, 1968, p. 628; le maiuscole sono nostre). (21) Come si vede, lo stesso Mons. Bugnini riconosceva che se il n° 7 della prima edizione dell’"Institutio" contenesse una definizione della messa, meriterebbe le critiche che gli sono state mosse. (22) È vero che il testo del n° 7 dell’"Institutio" sarebbe uno di questi paragrafi da cui si arguisce cosa sia la messa? Se è così ricadiamo di nuovo in un concetto eterodosso della messa. In caso contrario, qual’è lo scopo di questo paragrafo dell’"Institutio", che non può che imbrogliare i fedeli, conducendoli a farsi un’idea errata della celebrazione eucaristica? L’osservazione di Mons. Bugnini sarebbe valida per i documenti d’introduzione al messale romano tradizionale. Infatti, tutti i suoi articoli aiutano i fedeli a comprendere "cosa sia la messa da un punto di vista teologico". Le numerose genuflessioni indicano la piccolezza degli uomini e la grandezza del sacrificio che viene realizzato; l’uso della lingua latina esprime il mistero insondabile che viene celebrato; il sacerdote rivolto all’altare manifesta che egli agisce come ministro di Dio e non come delegato del popolo; e la gran cura con cui sono trattate le sacre specie rivela la nostra fede nella presenza reale; ecc. (23) L’Osservatore Romano, edizione settimanale in lingua francese, 28 novembre 1969, p. 12. Dire che il concetto della messa è già conosciuto dai trattati e dai documenti pontifici è un modo per eludere la questione. Si tratta di sapere se il nuovo "Ordo" è realmente in accordo con la teologia tridentina e tradizionale. (24) È così che lo presenta uno degli esperti della Commissione liturgica, il P. Vagaggini, O.S.B. Vedi O novo Ordo missæ e a ortodoxia in Revista Eclesiàstica Brasileira, vol. 30, 1970, pp. 93-101. (25) L’adorazione è l’onore reso a Dio in ragione della sua perfezione infinita ed assoluta. L’azione di grazie è la manifestazione della nostra gratitudine verso Dio per i benefici da Lui ricevuti. "Il sacrificio è detto propiziatorio, spiega il P. Aldama (De Sanct. Euch., p. 338), in quanto esso è un atto gradito da Dio, che giustamente si sente offeso dal peccatore. Questo atto è compiuto tramite il riscatto, il quale è una riparazione secondo una uguaglianza proporzionale all’offesa commessa; esso appartiene alla virtù della giustizia.". Con l’impetrazione, noi chiediamo a Dio nuovi benefici. (26) Vedi le pp. 141-142 e 151. Alle pp. 70 e ss. dimostriamo come i protestanti siano logici con i loro errori quando rifiutano che la messa abbia il carattere di un sacrificio propiziatorio. (27) Denz.-Sch., 1743. (28) Denz.-Sch., 1753. (29) Sulla maniera in cui la nozione di propiziazione figura nel testo del 1970 dell’"Institutio", vedi le pp. 100, 120-121 e 335-336. (30) "Eucaristia" significa etimologicamente e in senso tecnico, "azione di grazie". (31) Vedi il testo del 1970 di questo paragrafo dell’"Institutio", a p. 120. (32) Nel testo che segue, le maiuscole sono nostre. (33) Denz.-Sch., 1751. (34) Ci riferiamo al libro Nuevas normas de la misa, citato alle pp. 15-16, dove spieghiamo la ragione per cui commentiamo in modo particolare questo libro. (35) Nuevas normas…, p. 61. (36) Nuevas normas…, p. 61. (37) Questo perché le chiese non devono avere per principale fonte d’ispirazione le nozioni di croce, di sofferenza, di sacrificio, di propiziazione e di pentimento per i nostri peccati. La misura di tutto è "la parola di Dio", l’azione di grazie, l’amore vicendevole, la gioia, ecc. (38) Nuevas normas…, p. 61. (39) Notare l’insinuazione secondo cui Nostro Signore non ha istituito la messa come un sacrificio. (40) Nuevas normas…, p. 246. (41) Vedi p. 18. Alle pp. 120-121 indichiamo le modifiche che questo articolo ha subito nel 1970. (42) Secondo alcuni protestanti, le parole di Cristo non sono pronunciate solamente in modo narrativo. Tuttavia, i sostenitori di questa asserzione non ammettono in alcun modo che il celebrante le pronunci in maniera assoluta e imperativa in nome dello stesso Nostro Signore; ma sostengono che, oltre al racconto verbale, ci sia una rappresentazione teatrale essenziale nella cerimonia. Come si vede, questo particolare (che tratteremo ex professo a pag. 157) non ha niente a che vedere con la questione che ci riguarda. (43) È chiaro che non abbiamo nulla contro l’uso dell’espressione narratio institutionis, che del resto è classica nella teologia cattolica (vedi, per esempio, Lercher, Inst. Theol. Dogm., vol. IV-2-1, p. 330, nota 303). Ciò che si deve biasimare, è il fatto che le stesse parole della consacrazione, che devono essere dette in maniera imperativa e non narrativa, sono presentate con il sottotitolo "racconto dell’istituzione" senza altre indicazioni. (44) Vedi pp. 16 e ss. L’"Institutio" impiega qua e là espressioni come in persona Christi, ma lo fa in un contesto dove queste espressioni perdono il senso preciso che a loro attribuivano gli scolastici. È ciò che dimostriamo alle pp. 31 e ss. (45) Ci riferiamo all’opera della B.A.C. indicata alle pp. 15-16. (46) Nuevas normas…, p. 128. Sul carattere protestante di questa affermazione vedi pp. 153 e ss. (47) Nuevas normas…, pp. 31 e 85: passi da noi commentati alle pp. 39-40. I luterani ammettono l’espressione "presenza rale", come segnaliamo alle pp. 153-154. (48) Nuevas normas…, pp. 123-124, testo che noi commentiamo a p. 155. (49) Denz.-Sch. 1764. (50) Su questo punto si consulti: Solà, De sacramentis…, pp. 587-588; così come i documenti del concilio di Trento, del catechismo romano, di Pio XII e di S. Agostino, citati da Solà. (51) Per quanto riguarda la nuova versione di quest’articolo nell’"Institutio" del 1970, vedi pp. 121-122. (52) Vedi pp. 20 e ss. (53) Vedi le dichiarazioni di Mons. Bugnini a Medellin, citate alla nota 20. (54) Le maiuscole sono nostre. (55) Malgrado le gravi censure che merita, questo articolo 10 non è stato modificato nel testo del 1970 dell’"Institutio". (56) Le maiuscole sono nostre. (57) Denz.-Sch. 1759. (58) Neanche il n° 12 dell’"Institutio" è stato modificato nel 1970. (59) Facciamo notare che, secondo la pratica tradizionale della Chiesa, non c’è esclusivismo in questa materia. In numerosi riti, per esempio, la messa è celebrata versus populum. Ciò che rende perplessi, è il fatto che il nuovo "Ordo" vieta la messa che non è celebrata versus populum, come un mezzo meno proprio, che non esprime in modo appropriato la funzione "presidenziale" del sacerdote. (60) Ci riferiamo all’opera citata, pp. 15-16. (61) Nuevas normas…, p. 77. (62) Nuevas normas…, p. 91. (63) Nuevas normas…, p. 54. (64) Nuevas normas…, pp. 142-143. (65) Denz.- Sch. 1741. (66) Vedi pp. 30 e ss. (67) Oltre ai nn. 10, 48 e 60 dell’"Institutio" già citati a p. 31, vedi: il n. 1, secondo il quale la celebrazione della messa è un’"azione di Cristo e del popolo di Dio gerarchicamente organizzato"; e il n° 4, dove si legge che la celebrazione eucaristica è "un atto di Cristo e della Chiesa". (68) Sulle modifiche che sono state apportate a questo riguardo nell’"Institutio" del 1970, vedi le pp. 101 e ss. (69) In questo passo, i commentatori della B.A.C. trascurano una delle condanne di Trento: "Se qualcuno dice che nel Nuovo Testamento non vi è sacerdozio visibile ed esteriore […], ma un semplice ministero della predicazione del Vangelo […], sia anàtema" (Denz.-Sch. 1771). (70) Nuevas normas… pp. 68-70. (71) I commentatori della B.A.C. si sbagliano se pensano che questa concezione sia semplicemente un’opinione della "teologia classica degli ultimi secoli". In realtà, si tratta di un dogma della Santa Chiesa (vedi a questo riguardo: Concilio di Trento, Denz.-Sch. 1767, 1768, 1777, Denz.-Umb. 960, 967; Hervè, Man. Theol. Dogm., vol. I, pp. 290, 303, 307 e 321; Tanquerey, Syn. Theol. Dogm. tomo I, pp. 434 e 454; Salaverri, De Eccl. Christi, pp. 548 e 604; Iragui-Abàrzuza, Man. Theol. Dogm., vol. I, p. 278). (72) La concezione della messa presentata qui dai commentatori della B.A.C. è assolutamente falsa. Il celebrante, prima di essere rappresentante e ministro del popolo, è rappresentante e ministro di Cristo. Per questo motivo egli è autenticamente sacerdos. Dire che la partecipazione dei fedeli alla messa non è inferiore a quella del ministro, significa negare il dogma del sacerdozio gerarchico e visibile istituito da Nostro Signore nella Chiesa (vedi Concilio di Trento, Denz.-Sch. 1764, 1767, 1771, 1777, Denz.-Umb. 957, 960,961,967). (73) Nuevas normas…, pp. 70-71. (74) Vedi dom Guéranger, Institut. Liturg., tomo I, pp. 415 e 416. (75) Art. 33. Espressioni analoghe si trovano negli articoli 9 e 35. (76) Nuevas normas…, p. 85. (77) Nuevas normas…, pp. 31; le maiuscole sono nostre. (78) Le maiuscole sono nostre. (79) Nuevas normas…, pp.84-85; le maiuscole sono nostre. (80) A questo proposito, vedi anche p. 121. (81) Nell’edizione del 1970, il riferimento esplicito alla Resurrezione è stato soppresso: vedi p. 120. (82) Anche questo paragrafo è stato modificato nel 1970, con la soppressione del riferimento alla Resurrezione: vedi pp. 120-121. (83) Nuevas normas…, p. 95. (su)
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