NOVUS ORDO MISSÆ

Studio critico

di 

Arnaldo Vidigal Xavier da Silveira



SOMMARIO

Introduzione

PARTE PRIMA

La nuova Messa

Capitolo Primo
"L’Institutio Generalis Missalis Romani", edizione del 1969

Capitolo Secondo
Un'obiezione: l'"Institutio" afferma anche la dottrina tradizionale

Capitolo Terzo
Il nuovo testo della Messa e le nuove rubriche dell'"Ordo" del 1969

Capitolo Quarto
Modifiche apportate all'"Ordo" del 1969

Capitolo Quinto
Il nuovo Ordinario della Messa




CAPITOLO QUARTO

MODIFICHE APPORTATE ALL’"ORDO" DEL 1969

1. I principali punti del prologo dell’"Institutio"
2. Il sacerdozio del popolo
3. Il ritorno alle norme dei papi
4. Forse che oggi questi errori non esistono più?
5. Adattamento alle condizioni attuali
6. "Il sacrificio eucaristico è soprattutto un’azione di Cristo"
7. Il linguaggio della teologia moderna
8. La revisione dell’"Institutio"
9. Il numero 7 dell’"Institutio"
10. Le altre numerose modifiche
11. Modifiche nelle parti fisse della messa
12. Conclusione
Note al Capitolo Quarto

Nel maggio del 1970, venne pubblicata l’edizione latina del nuovo messale romano. All’"Institutio" e all’"Ordo" del 1969 erano stati apportati numerosi cambiamenti, che analizzeremo nel presente capitolo. 
La riforma del messale romano promulgato nel 1969, secondo una dichiarazione di Paolo VI (1), non fu improvvisata , ma fu il risultato di lunghi ed approfonditi studi. Sulla base di questa dichiarazione, e considerata la stessa importanza del soggetto, si può essere sicuri che in essa non vi è alcuna proposizione che non sia stata accuratamente soppesata: non solo dal punto di vista teologico, ma, viste le preoccupazioni essenzialmente pastorali di questo pontificato,  anche dal punto di vista pastorale. 
È per questo che si rimane alquanto sorpresi nel vedere come, poco tempo dopo la loro promulgazione, tali documenti abbiano subito numerose modifiche che la Santa Sede ha dovuto stimare necessarie o quanto meno opportune, sia dal punto di vista teologico, sia dal punto di vista pastorale. 
Questi fatti impongono ad ogni persona attenta una circospezione particolare per analizzare gli emendamenti introdotti, obbligandola ad usare la più grande applicazione e perspicacia nell’esame di ciascuno di essi. È ciò che cercheremo di fare in questo capitolo, nei limiti delle nostre possibilità.

1. I punti principali del Proemio dell’"Institutio"
In un articolo pubblicato dalla rivista Notitiæ, organo della Sacra Congregazione per il Culto Divino, a riguardo della riforma dell’"Ordo" del 1969, il segretario di questa Congregazione, P. Annibale Bugnini, scriveva: 
"Il proemio è interamente nuovo e particolarmente lungo […]. Esso insiste su tre concetti:
a) la storia del messale romano; soprattutto da dopo il concilio di Trento fino al Concilio Vaticano II: al fine di giustificare le modifiche introdotte nel messale secondo le indicazioni dell’ultimo concilio ecumenico;
b) la fedeltà teologica e rituale dell’uno e dell’altro messale alla dottrina della Chiesa;
c) i criteri che hanno presieduto alla riforma" (2). 
Questo proemio manifesta senza alcun dubbio la preoccupazione di enunciare alcuni insegnamenti di dottrina cattolica che difettavano nell’"Institutio", o che non vi erano correttamente spiegati. Esso insiste sul principio del sacerdozio ministeriale del celebrante; fa allusione alla presenza reale di Nostro Signore nell’Eucaristia e alla transustanziazione; contiene numerose citazioni del concilio di Trento; afferma a più riprese che la messa è un sacrificio; dichiara che essa contiene il rinnovamento sacramentale del sacrificio della croce; in un articolo dice esplicitamente che la messa è un sacrificio propiziatorio;  dichiara a più riprese la sua intenzione di mantenersi fedele alla tradizione, ecc. 
Dopo una rapida lettura di questi passi del proemio, si potrebbe essere portati a credere che esso corregge tutte le imprecisioni, le insufficienze e le deviazioni dottrinali rilevate nella nuova messa. Tuttavia, un attento studio di questi stessi passi, come di altri articoli del proemio e dell’"Institutio" nella sua attuale edizione, sfortunatamente non giustifica questa favorevole impressione; le modifiche attualmente introdotte non apportano un cambiamento sostanziale alle osservazioni fatte in precedenza a proposito della nuova messa.

(su)

2. Il sacerdozio del popolo
A dire il vero, negli stessi passi di sapore tradizionale, dove il proemio afferma dei punti precedentemente passati sotto silenzio o espressi in modo dubbio, incontriamo delle formulazioni del tutto insufficienti, anch’esse soggette a importanti riserve. Vediamo qualche esempio. 
Nell’articolo 4, leggiamo: "Quanto alla natura del sacerdozio ministeriale, che è proprio del presbitero, in quanto egli offre il sacrificio nella persona di Cristo [in persona Christi] e presiede l’assemblea del popolo santo, essa è posta in luce, nell’espressione stessa del rito, dal posto eminente del sacerdote e dalla sua funzione. I compiti di questa funzione sono indicati e ribaditi con molta chiarezza nel Prefazio della Messa crismale del Giovedì Santo, giorno in cui si commemora l’istituzione del sacerdozio. Il testo sottolinea la potestà sacerdotale conferita per mezzo dell’imposizione delle mani, e descrive questa medesima potestà enumerandone tutti gli uffici: è la continuazione della potestà sacerdotale di Cristo, Pontefice sommo della Nuova Alleanza". 
Da un lato, è vero che in questo testo si afferma che il celebrante agisce al posto di Cristo (in persona Christi) e che il suo potere è una continuazione del potere sacerdotale di Nostro Signore (3). Dall’altro, tuttavia, il testo stabilisce un parallelo pericoloso tra l’"offerta del sacrificio" e la "presidenza dell’assemblea del popolo santo", poiché questa seconda funzione, pur essendo realmente sacerdotale, è tuttavia secondaria, accidentale e semplice conseguenza della prima. Anche in assenza dell’"assemblea del popolo santo", il celebrante esercita pienamente nella messa la sua funzione sacerdotale. 
L’importanza che in questo modo viene data al ruolo presidenziale del sacerdote nella messa, favorisce tra i fedeli l’impressione che il sacrificio sia celebrato sia da loro stessi sia dal sacerdote (4). 
Per di più, questo passo non esclude, per esempio, l’interpretazione eterodossa che i commentatori della B.A.C. (5) danno del principio secondo cui il sacerdozio del celebrante è "ministeriale". Secondo loro, il sacerdote è essenzialmente "ministro", e cioè rappresentante e servitore di Nostro Signore (verità questa che il documento afferma), nonché del popolo, il che gli conferisce una dignità che non è superiore a quella dei fedeli (6). 
Dunque, considerando il contesto dell’"Institutio", le critiche che sono state fatte a giusto titolo su questo punto e le interpretazioni erronee che sono apparse, sarebbe stata cosa buona - e anche indispensabile - se l’"Institutio", nella sua versione corretta, avesse eliminato una volta per tutte questo pericolosissimo errore che distrugge completamente la dottrina del sacerdozio cattolico. Sarebbe stato necessario affermare, non solo il carattere ministeriale del sacerdozio, ma anche la sua natura gerarchica, che lo pone essenzialmente al di sopra di qualsiasi rappresentanza di Cristo, sia che essa esista nel popolo o provenga da questo stesso popolo.
*

L’articolo 5 del proemio è di una gravità ancora maggiore, soprattutto a causa del fatto che vi trovano conferma le apprensioni provocate dall’articolo precedente. Ma ecco come esso si esprime: 
"Questa natura del sacerdozio ministeriale mette a sua volta nella giusta luce un’altra realtà di grande importanza: il sacerdozio regale dei fedeli, il cui sacrificio raggiunge la sua perfezione attraverso il ministero dei presbiteri, in unione con il sacrificio di Cristo, unico Mediatore. LA CELEBRAZIONE DELL’EUCARISTIA È INFATTI AZIONE DI TUTTA LA CHIESA (7); in essa ciascuno compie soltanto, ma integralmente, quello che gli compete, tenuto conto del posto che egli occupa nel popolo di Dio (8). È il motivo per cui si presta ora una maggiore attenzione a certi aspetti della celebrazione che, nel corso dei secoli, erano stati talvolta alquanto trascurati. Questo popolo è il popolo di Dio, acquistato dal Sangue di Cristo, riunito dal Signore, nutrito con la sua Parola; POPOLO LA CUI VOCAZIONE È DI FAR SALIRE VERSO DIO LE PREGHIERE DI TUTTA LA FAMIGLIA UMANA; popolo che, in Cristo, rende grazie per il mistero della salvezza, OFFRENDO IL SUO SACRIFICIO; popolo infine che per mezzo della comunione al Corpo e al Sangue di Cristo, rafforza la sua unità. Questo popolo è già santo per la sua origine; ma in forza della sua partecipazione consapevole, attiva e fruttuosa al mistero eucaristico, progredisce continuamente in santità" (9). 
Se consideriamo attentamente i termini di questo articolo 5, vediamo che essi affermano nuovamente, e in maniera chiara, la concezione del sacerdozio del popolo, che abbiamo precedentemente segnalata come inaccettabile (10). 
In effetti, quali sono questi "aspetti della celebrazione che, nel corso dei secoli, erano stati talvolta alquanto trascurati"? Uno di essi è costituito dal fatto che il popolo santo è chiamato a "far salire verso Dio le preghiere di tutta la famiglia umana". Un altro, è costituito dal fatto che questo popolo "rende grazie per il mistero della salvezza, offrendo il suo sacrificio". 
Come si può vedere, ritorniamo alle stesse imprecisioni ed ambiguità che già esistevano nel precedente testo dell’"Institutio" e nei commenti rispettivi della B.A.C. In effetti, benché si possa dire, in senso lato e per analogia, che i semplici fedeli "fanno salire verso Dio le preghiere" degli altri, e che "offrono il sacrificio di Cristo", queste stesse espressioni, in senso stretto, indicano solo la missione specificamente sacerdotale del celebrante, sulla quale il proemio sembra voler insistere (11). 
Per altro, questo passo stabilisce una strana distinzione tra il "popolo di Dio" e la "famiglia umana", poiché in esso si dice che il primo, attraverso l’azione sacerdotale che esercita nella messa, fa salire verso Dio le preghiere "di tutta la famiglia umana". Presa nel suo senso naturale, questa espressione indica che il "popolo di Dio" esercita una funzione di mediazione propriamente sacerdotale fra tutta l’umanità (compresi i non-cattolici, i non-cristiani, gli atei, ecc…) e Dio. 
Di più: giacché l’espressione che segue immediatamente attribuisce allo stesso "popolo di Dio" la facoltà di "offrire il sacrificio di Cristo", sembra proprio che, attraverso la messa, siano presentate e rese gradite a Dio le preghiere di tutti gli uomini senza alcuna discriminazione, e cioè inclusi i non-cattolici, i non-cristiani, i politeisti, gli atei, ecc. Una tale concezione della messa è tanto più strana per quanto si accorda con un certo ecumenismo eterodosso che si sta diffondendo in importanti strati del pubblico cattolico. 
Date tutte queste pericolose ambiguità contenute nell’articolo 5 del proemio, i timori che abbiamo espressi prima a proposito dell’articolo 4, risultano aggravati. Infatti, in questo articolo, non solo il silenzio sul carattere gerarchico del sacerdozio ministeriale, ma anche l’assenza di una più chiara concezione della rappresentanza di Cristo nel sacerdote, favoriscono e preparano una nozione erronea del sacerdozio dei fedeli.

(su)

3. Il ritorno alle norme dei Santi Padri
Gli articoli dal 6 al 9 del proemio cercano di dimostrare che il nuovo "Ordo missæ", non si oppone ai principi cattolici tradizionali, e in particolare a quelli enunciati a Trento, ma piuttosto li conferma. 
Per difendere questa tesi, il documento adduce che il Concilio Vaticano II ha ordinato che i riti  vengano "riportati alla antica tradizione dei santi Padri" (12), espressione questa che, ipsis litteris, si trova nella Costituzione apostolica Quo primum, con la quale san Pio V promulgò il messale tridentino. 
Agli autori del proemio, questo punto di esteriore somiglianza è parso sufficiente per dimostrare che il nuovo messale segue la stessa tradizione di quello di san Pio V; e questo convincimento sembra talmente radicato che, nelle righe successive, non ci si occupa a dimostrare che la nuova messa è in accordo con gli insegnamenti tridentini, ma ci si accontenta di dichiarare che l’"Ordo" di Paolo VI è riuscito a "ristabilire l’antica tradizione dei santi Padri" in modo più perfetto dell’"Ordo" di san Pio V. Detto questo, le affermazioni precedenti del proemio a riguardo della transustanziazione, del carattere sacrificatorio e propiziatorio della messa, ecc., restano per così dire a mezz’aria, senza alcuno sforzo per dimostrare che questi principi non sono contraddetti dai passi della nuova messa segnalati come contrari alle dottrine di Trento (13). Insomma, si insiste su un elemento estrinseco: l’intenzione di ristabilire i riti secondo le norme dei santi Padri. 
In quali termini il proemio cerca di dimostrare che la messa di Paolo VI ha obbedito a questa intenzione, come quella di san Pio V? 
Le differenze tra le due messe sono così evidentemente grandi che, per gli autori del proemio, la difficoltà principale è consistita nello spiegare come sia stato possibile che la stessa regola abbia portato a dei risultati così diversi. In altre parole: com’è stato possibile che la medesima intenzione di ristabilire i riti secondo le norme dei Padri della Chiesa, abbia condotto a due modi così differenti di dire la messa? 
Dando una prima risposta a questa questione, gli autori del proemio scrivono: 
"In tempi davvero difficili, nei quali la fede cattolica era stata messa in pericolo circa la natura sacrificale della Messa, il sacerdozio ministeriale, la presenza reale e permanente di Cristo sotto le specie eucaristiche, a san Pio V premeva anzitutto salvaguardare una tradizione relativamente recente ingiustamente attaccata, introducendo il meno possibile di cambiamenti nel sacro rito" (14). 
Negli articoli successivi, il proemio afferma che essendo le antiche liturgie molto meglio conosciute ai nostri giorni che nel XVI secolo, è stato possibile riformare la messa in maniera molto più profonda (15). Da qui la conclusione che l’"Ordo" di San Pio V è stato "perfezionato"  da quello di Paolo VI così da completare "egregiamente il primo" (16).
(su)

4. Forse che oggi questi errori non esistono più?
Solo l’insinuare che oggi non è necessario conservare il rito tradizionale in quanto, ormai, i dogmi relativi al carattere sacrificale della messa, al sacerdozio ministeriale e alla presenza reale, non sono più in pericolo come ai tempidi San Pio V, basta a rendere perplessi (17). 
Non riusciamo proprio a comprendere come si possa negare il fatto pubblico e notorio che alcuni importanti ed influenti settori dell’opinione cattolica dei più diversi paesi accettino e propaghino gli errori più gravi sui punti principali della dottrina eucaristica, e in particolare, a riguardo di quei punti che il proemio afferma ai nostri giorni non essere più contestati da nessuno. 
Senza bisogno di ricorrere ai documenti di Pio XII (18) (che condannano numerose pratiche che oggi sono state adottate dal nuovo "Ordo"), segnaleremo solo alcuni dei fatti più recenti. 
Nell’enciclica Mysterium fidei, del 3 settembre 1965, Paolo VI dichiara che gli errori che circolano sulle messe private, sulla transustanziazione, sul simbolo eucaristico, ecc., sono per lui "cause di serie sollecitudine e inquietudine pastorali" (19). Lo stesso documento insiste sulla "distinzione non solo di grado ma di essenza" tra il sacerdozio gerarchico e quello dei fedeli (20). Forse che, in questa enciclica, Paolo VI abbia attaccato delle eresie che nessuno professa più? 
Il catechismo olandese e quelli che gli assomigliano, di altri paesi, cadono proprio in questi stessi errori (21). 
Come si potrebbe negare, per esempio, che Padre Schillebeeckx, tenuto in così alta considerazione, proponga le nozioni di "transfinalizzazione" e di "transfigurazione" in termini che sono inconciliabili con la dottrina della Chiesa (22) e che sono già stati condannati da Paolo VI (23)? 
Come si potrebbe negare che nel Consilium ad Exsequandam Constitutionem de Sacra Liturgia (24), ora sostituito dalla Sacra Congregazione per il Culto Divino, erano presenti delle persone che adottavano i suddetti errori? In effetti, secondo quanto abbiamo già ampiamente dimostrato, documenti alla mano, l’opera Nuevas normas de la misa, il cui principale autore era nel Consilium in qualità d’esperto, professa ora chiaramente, ora in maniera velata, le stesse deviazioni dottrinali (25). 
Abbiamo già esternato la nostra sorpresa nel constatare che, nei documenti che presentano la nuova messa, vengano unicamente segnalati gli aspetti favorevoli del movimento liturgico dell’epoca di Pio XII, mentre si passano totalmente sotto silenzio i gravissimi errori che contaminarono importanti settori di questo movimento (26), errori che indussero il papa a scrivere l’enciclica Mediator Dei. Oggi, gli autori del proemio dell’"Institutio" affermano che tali errori non esistono. Un’analisi scientifica ed obiettiva di queste dichiarazioni ci obbliga ad avanzare l’ipotesi che gli autori del proemio si siano lasciati trascinare in un processo dialettico noto e pericoloso: essi ammettono in teoria che certe dottrine siano eretiche, ma in concreto negano che ci sia qualcuno che le professi; da quel momento, essi perseguono un’azione che, sia nell’ordine della propaganda ideologica che nella vita pratica, contribuisce a favorire o anche a sviluppare l’errore (27). 
A questo si aggiunga che, una volta proclamata nel proemio la non-esistenza di tali deviazioni dottrinali (28), ci si può permettere d’introdurre nella messa tutte quelle innovazioni che San Pio V aveva rigettato, e a giusto titolo, perché allora esse avrebbero apportato grave nocumento alla fede. Ammettendo dunque che errori simili esistano ai nostri giorni - e su questo non vi è alcun dubbio - gli argomenti addotti dagli autori del proemio si ritorcono contro loro stessi.
(su)

5. Adattamento alle condizioni attuali
Come abbiamo già osservato(29), il proemio insiste sul fatto che il nuovo "Ordo" segue il Concilio di Trento, poiché, come quest’ultimo, esso cerca di ristabilire i riti secondo le antiche norme dei Santi Padri. 
L’argomento è insufficiente. Il ritorno alle norme stabilite dai Padri della Chiesa è un semplice criterio materiale; esso viene formalmente precisato: dall’orientamento secondo cui sono interpretati i testi dei Padri della Chiesa, secondo cui sono scelti i passi da introdurre nella liturgia, ecc.
È in questo modo che Pio XII condanna gli sforzi di coloro che, "per adottare nuovamente alcuni antichi riti e cerimonie" (30), finiscono col "far rinascere gli eccessivi ed insensati arcaismi creati dall’illegittimo concilio di Pistoia e […] col rinnovare i molteplici errori che prepararono e che seguirono questo concilio" (31). 
Sulla stessa linea, dom Guéranger denuncia le rivendicazioni dei "diritti dell’antichità" come una delle tattiche impiegate da "tutti i settari" per distruggere le vere tradizioni liturgiche ed introdurre così le loro nuove forme di culto, le quali, in realtà, non corrispondono per nulla alle antiche tradizioni (32). 
D’altra parte è risaputo che un’espressione legittimamente impiegata da un Padre della Chiesa possa servire, più tardi e in seguito a particolari circostanze, a favorire l’eresia. È ciò che accade, ad esempio, per l’espressione di Sant’Agostino, "la fede salva", di cui i protestanti hanno abusato, interpretandola in modo incompatibile con la sana dottrina (33). 
Ora, come abbiamo già fatto notare, la riforma del 1969 stabilisce un culto che tende a desacralizzare, a confondere il sacerdozio gerarchico con quello del popolo, a mettere su un piano di uguaglianza la "liturgia della parola" e la "liturgia eucaristica", a rompere, in ultima analisi, con costumi e riti tradizionali tra i più venerabili.
Cosa c’è in comune tra questa riforma e quella di san Pio V? Sfortunatamente, abbiamo solo questo elemento materiale ed esteriore che consiste nel manifestare, tanto da parte di san Pio V che di Paolo VI, l’intenzione di restaurare alcuni riti secondo le norme dei Padri… 
Sentendo la necessità di spiegare ancor meglio il motivo per cui questa restaurazione si presenta oggi in maniera così diversa (34), gli autori del proemio hanno dedicato a tale questione gli ultimi sei articoli (35). 
"Quando i Padri del Concilio Vaticano II - leggiamo all’articolo 10 - ripresero le formulazioni dogmatiche del Concilio di Trento, le loro parole risuonarono in un’epoca ben diversa nella vita del mondo; è per questo che nel campo pastorale essi hanno potuto dare dei suggerimenti e dei consigli che SAREBBERO STATI IMPENSABILI QUATTRO SECOLI PRIMA" (36). 
Come si vede, l’espressione utilizzata è così forte da mostrare come gli autori del proemio abbiano una nozione molto netta della distanza che separa i documenti di Trento da quelli che hanno determinato le recenti riforme liturgiche. Negli articoli che seguono, essi provano a spiegare come, attualmente, essendo scomparsi gli errori del XVI secolo relativi al culto eucaristico, sia possibile introdurre la lingua volgare (articoli 11 e 12), la comunione sotto le due specie per i semplici fedeli (articolo 14), dei nuovi testi di preghiere nella messa (articolo 15), delle formulazioni adattate al linguaggio teologico moderno (articolo 15), ecc.
Dato che non è nostro scopo fare qui un’analisi completa del proemio, nei confronti di questi ultimi articoli ci accontenteremo di fare alcune osservazioni per mostrare chiaramente fino a che punto sono ripetute le gravi deviazioni già presenti nell’"Institutio".
(su)

6. "Il sacrificio eucaristico è anzittutto azione di Cristo"
Dal momento che il pericolo di confusione tra il sacerdozio gerarchico e quello dei fedeli non esiste più, la nota dominante di questi ultimi paragrafi è la preoccupazione di dimostrare che diventa possibile permettere una maggiore partecipazione del popolo alle cerimonie liturgiche. 
Per giustificare questa maniera di procedere, il proemio afferma che il Concilio di Trento, 
"considerate le circostanze di allora, riteneva suo dovere riaffermare la dottrina tradizionale della Chiesa, secondo la quale il sacrificio eucaristico è anzitutto azione di Cristo stesso: per conseguenza, la sua efficacia non dipende affatto dal modo di partecipazione dei fedeli" (37). 
Ora, una tale formulazione delle relazioni tra il sacerdozio di Nostro Signore e quello dei fedeli, è incompleta e pericolosa. In questo delicato problema, la questione non consiste solo - né soprattutto - nel sapere se il sacrificio è in qualche modo intaccato dalla partecipazione dei fedeli, ma consiste soprattutto nel sapere se, quando essi partecipano, concelebrano la messa col sacerdote. Vale a dire, se anch’essi, come il sacerdote, sono dei rappresentanti ufficiali di Nostro Signore per l’esecuzione delle funzioni liturgiche. 
È in questa prospettiva che le modifiche introdotte nel 1970 nell’"Institutio" falliscono di nuovo miseramente.
Nel contesto del paragrafo che abbiamo appena visto, la parola imprimis (soprattutto, principalmente, in primo luogo) sta a significare che, nel suo elemento essenziale, il sacrificio è l’azione di Cristo, ma essa non esclude esplicitamente che sia anche l’azione dei fedeli. Nella prospettiva dell’insieme proemio, tale azione dei fedeli non è esclusa, anzi è considerata come un elemento importante per la celebrazione della messa (38). Ora, l’immolazione sacrificale in senso stretto è esclusivamente un’azione di Nostro Signore, rappresentato dal celebrante che partecipa come strumento, e non è, in alcun caso, un’azione dei fedeli. Questi ultimi, possono e devono unirvisi in spirito, offrendo la vittima e offrendo loro stessi in unione con essa, ma non realizzano in alcun modo l’azione sacrificale propriamente detta (39). 
Inoltre, il testo in esame, non essendo chiaro a riguardo, ancora una volta apre la porta ad una concezione erronea del sacerdozio dei fedeli. Di conseguenza, le ragioni addotte súbito dopo per giustificare nel nuovo "Ordo", contrariamente a quello di san Pio V, l’introduzione della lingua volgare, della comunione sotto le due specie per i fedeli, ecc., perdono il loro valore; in effetti, queste misure di ordine pratico nel contesto della nuova messa, favoriscono una nozione erronea e modernista del sacerdozio dei fedeli.
(su)

7. Il linguaggio della teologia moderna
All’articolo 15, il proemio presenta il seguente paragrafo: 
"Così pure, in vista di una presa di coscienza della situazione nuova del mondo contemporaneo (40), è sembrato che non si recasse offesa alcuna al venerabile tesoro della Tradizione modificando alcune espressioni dei testi antichi, allo scopo di meglio armonizzare la lingua con quella della teologia attuale e perché esprimessero in verità la presente situazione della disciplina della Chiesa.
"Per questo motivo sono stati cambiati alcuni modi di esprimersi, che risentivano di una certa mentalità sull’apprezzamento e sull’uso dei beni terrestri, ed altri ancora che mettevano in rilievo una forma di penitenza esteriore propria della Chiesa di altri tempi". 
Questo passo è sintomatico. Il linguaggio della teologia moderna non è più quello della teologia dei Padri della Chiesa, né quello della teologia scolastica e nemmeno quello di Trento… Occorrerà, quindi, che l’"apprezzamento" o l’"uso" dei "beni terrestri" siano espresse in un’altra maniera: per delle ragioni semantiche o grammaticali, o perché le nuove preghiere indichino un’"apertura" verso la desacralizzazione della vita cattolica? Abolendo "una forma di penitenza esteriore propria della Chiesa di altri tempi", non si prepara forse la via ad una religione antropocentrica, senza Croce e di sapore protestante? 
Per di più, queste norme di natura linguistica adottate nel proemio dell’"Institutio" cercano di spiegare e di giustificare l’orientamento profondamente desacralizzante che, in generale, presiede alle traduzioni del nuovo "Ordo" nelle lingue viventi dell’Occidente (41).
(su)

8. La revisione dell’"Institutio"
Presentando i cambiamenti introdotti nell’"Institutio" nel 1970, la rivista Notitiæ (42) scrive: 
"Da quando l’"Institutio generalis missalis Romani" fu pubblicata […] è stata oggetto di diverse critiche, sia rubricali che dottrinali. Alcune di esse non sono state presentate in maniera del tutto chiara, soprattutto a causa della difficoltà di avere una visione d’insieme dei punti trattati in diverse parti. Tuttavia, alcune censure sono state espresse sulla base di un’opinione preconcetta che si oppone ad ogni genere di novità; per tale motivo, non è sembrato necessario esaminarle, in quanto privi di alcun fondamento. In effetti, l’"Institutio" era stata sottoposta all’esame dei Padri del Consilium e degli esperti, prima e dopo della sua pubblicazione. Non si trovò alcuna ragione per modificare la disposizione degli articoli, e non vi si scoprì nessun errore dottrinale. Si tratta di un documento pastorale e rubricale che regola la celebrazione della messa secondo la dottrina del concilio Vaticano II, dell’enciclica Mysterium fidei di Paolo VI […] e dell’istruzione Eucharisticum mysterium […].
"Tuttavia, al fine di evitare difficoltà di ogni tipo, e per rendere più chiare certe espressioni, fu deciso che, in occasione della pubblicazione dell’edizione tipica del nuovo messale romano, il testo dell’"Institutio" sarebbe stato qui e là completato o riscritto (vedasi la dichiarazione della Sacra Congregazione per il Culto Divino del 18 novembre 1969, in Notitiæ, n. 5, 1969, pagg. 417-418). Questo non ha comportato alcunché di interamente nuovo: cosicché lo schema della prima edizione è stato mantenuto. Gli emendamenti sono veramente pochi, talvolta minimi o concernenti unicamente lo stile" (43). 
Se volessimo esaminare completamente queste parole, avremmo numerose ed importanti osservazioni da fare. 
Potremmo dimostrare quanto sia infondata l’argomentazione secondo cui importanti critiche all’"Institutio" trarrebbero la loro origine dalla semplice "difficoltà di avere una visione d’insieme dei punti trattati", e potremmo provare che la cosiddetta "opinione preconcetta che si oppone ad ogni genere di novità" non sia nient’altro che l’amore per la dottrina cattolica. Inoltre, potremmo osservare che se i Padri del Consilium e gli esperti non hanno trovato errori dottrinali nel documento, ciò testimonia fortemente contro di loro, e potremmo far notare come sia inconcepibile che si insista ancora sul carattere "pastorale e rubricale" dell’"Institutio", quando è evidente che essa contiene anche numerosi passi di natura incontestabilmente dottrinale (44). 
Potremmo avanzare un bel po’ di critiche al testo! 
Ma siccome il nostro obiettivo è solamente quello di dimostrare che l’"Institutio", malgrado gli emendamenti "talvolta minimi" che ha subito, continua a non essere in accordo con la dottrina cattolica su dei punti importanti, prenderemo in considerazione solo un aspetto dell’articolo citato: la preoccupazione dei suoi autori di sostenere che gli emendamenti non erano destinati a correggere gli errori o a compensare le deficienze di natura dottrinale, ma solo a rendere più chiaro ciò che era già contenuto nel documento. 
Stando così le cose si può temere, ancor prima di procedere all’analisi dei detti emendamenti, che qualche volta essi siano stati incompleti o contraddittori e quindi nell’insieme incapaci di liberare l’"Institutio" dai sospetti che gravavano su di essa. Si può temere che la revisione del documento non abbia rappresentato che una semplice ritirata strategica, il che, mentre crea concretamente alcune difficoltà a coloro che rilevano gli errori dell’"Institutio", in realtà consolida questi stessi errori e conferma alcuni di essi, ora chiaramente ora con un linguaggio sottile e mascherato. 
Passiamo adesso all’esame degli emendamenti introdotti nell’"Institutio generalis missalis Romani" del 1970.
(su)

9. Il numero 7 dell’"Institutio"
Il tanto discusso n° 7 dell’"Institutio" è adesso così redatto (45): 
"Nella Messa o Cena del Signore, il popolo di Dio è chiamato a riunirsi insieme sotto la presidenza del sacerdote, che agisce nella persona di Cristo [personam Christi gerente] per celebrare il memoriale del Signore, cioè il sacrificio eucaristico. 
"Per questa riunone locale della santa Chiesa vale perciò in modo eminente la promessa di Cristo: "Là dove sono due o tre radunati nel mio nome, io sono in mezzo a loro" (Mt. XVIII, 20). 
Infatti nella celebrazione della Messa, nella quale si perpetua il sacrificio della Croce, Cristo è realmente presente nell’assemblea dei fedeli riunita in suo nome, nella persona del ministro, nella sua parola e in modo sostanziale e permanente sotto le specie eucaristiche" (46). 
In questo nuovo testo, il n° 7, come in precedenza, può essere ancora sottoposto a pesanti correzioni. 
In verità, anche se è stata abolita una certa definizione della messa, anche se si dice che il sacerdote agisce al posto di Cristo e si è inserito un richiamo al sacrificio (eucaristico, senza dire propiziatorio), anche se si dichiara che Nostro Signore è sostanzialmente e permanentemente presente sotto le specie eucaristiche, sussistono sempre delle ambiguità e delle deviazioni per nulla trascurabili. 
Il fatto più grave consiste nell’affermare che è il popolo che celebra il memoriale del Signore o sacrificio eucaristico (47). Occorre notare che il termine celebrandum ha come agente populus Dei. Dopo tutto quello che abbiamo già detto sulla gravità di questo concetto (48), riteniamo superfluo ritornare su tale questione. Ci accontentiamo di sottolineare che nel nuovo testo dell’"Institutio" questa nozione si incontra in più riprese (49), il che basta ampiamente a dimostrare come il documento si allontani dagli insegnamenti della Chiesa (50). 
Anche nel nuovo testo del n° 7, permangono strane imprecisioni sui diversi tipi di "presenza" di Nostro Signore nella messa. Vero è che si dice che la presenza sotto le specie eucaristiche è "sostanziale e permanente", e l’espressione è assolutamente esatta, ma la parola enim (poiché) stabilisce un rapporto che non è affatto chiaro e che è molto pericoloso se posto tra questa presenza sostanziale ed il principio precedentemente enunciato: "Là dove sono due o tre radunati nel mio nome, io sono in mezzo a loro". Che relazione ci sarebbe tra queste due presenze? Il carattere comunitario dell’assemblea riunita nel nome di Cristo contribuiràebbe a che Egli divenga presente sotto le specie eucaristiche? Oppure questa seconda presenza saràebbe realizzata più pienamente? O forse che il "popolo di Dio" riunito eserciti una funzione attiva per rendere effettiva la presenza sostanziale di Nostro Signore nell’Eucarestia? Il testo permette che si stabiliscano delle pericolose ambiguità su tale questione, tanto più che prima è stato affermato che il "popolo di Dio" celebra il sacrificio. 
Non si fissano più le distinzioni necessarie tra i diversi tipi di presenza non sostanziale di Cristo: e cioè la presenza nell’assemblea riunita, nella persona del ministro e nelle parole della Scrittura. Il fatto che l’assemblea sia menzionata prima del ministro è rivelatore: potrebbe infatti indicare che, nella celebrazione eucaristica, la presenza di Nostro Signore nel popolo è, se non superiore, quanto meno più importante della sua presenza nella persona del ministro. Inoltre, come abbiamo già precedentemente osservato (51), nel contesto dell’"Institutio", il semplice impiego dell’espressione personam Christi gerens non è sufficiente per eliminare le ambiguità che il documento crea su questo argomento. 
È così strano il profumo che si sprigiona da questo n° 7, anche nella sua nuova formulazione, che occorrerebbe fare ancora molte altre correzioni: nella messa, Nostro Signore diviene presente sotto le specie eucaristiche, ma non si può dire, puramente e semplicemente, che Egli è sostanzialmente ed in modo permanente presente sotto le specie eucaristiche. L’espressione sacerdote præside personamque Christi gerente sembra subordinare la funzione del sacerdote come rappresentante di Cristo alla funzione di presidente dell’assemblea, quando in realtà è vero il contrario. Nel contesto, il fatto che l’espressione "presenza reale" non sia riservato alla presenza che deriva dalla transustanziazione, tende ad indebolire la fede nella "presenza reale" per antonomasia e ad introdurre tra i cattolici una terminologia gradita a certi protestanti. Non si dice più come il sacrificio della Croce sia perpetuato nella messa, poiché il termine classico "è rinnovato" non vi figura più, ecc. 
Il commento della rivista Notitiæ a proposito della nuova redazione del n° 7, contribuisce solo ad aggravare le ambiguità del testo. Eccone un esempio: 
"La struttura della celebrazione eucaristica è tratta dalla messa comunitaria, o messa col popolo, nella quale l’"AZIONE DI CRISTO E DELLA CHIESA" avviene PIENAMENTE, vale a dire l’azione del popolo di Dio gerarchicamente organizzato […], benché si DOVREBBE RICONOSCERE LA TOTALE EFFICACIA E DIGNITÀ della messa "privata" o messa senza il popolo […]" (52). 
Non è facile comprendere perché "si dovrebbe riconoscere la totale efficacia e dignità" della messa privata, quando l’"azione di Cristo e della Chiesa" non vi avviene "pienamente". O questa frase non ha alcun senso o essa insinua che nella messa "comunitaria" i fedeli presenti concelebrano veramente con il sacerdote: il solo caso in cui l’"azione di Cristo e della Chiesa" raggiunge così la sua "pienezza".
(su)

10. Le altre numerose modifiche
L’inizio del n° 48 presenta adesso il seguente testo: 
"Nell’ultima Cena, Cristo istituì il sacrificio e convito pasquale, per mezzo del quale è reso di continuo presente nella Chiesa il sacrificio della Croce, allorché […]" (53). 
Come si vede, l’espressione "commemorazione della sua morte e della sua resurrezione" è stata sostituita dall’espressione "sacrificio e convito pasquale", facendo anche riferimento al sacrificio della Croce. Tuttavia, la già segnalata ambiguità annessa al termine "presenza", rimane (54). D’altra parte, sfortunatamente, non si dice che il sacrificio è propiziatorio: questa precisazione appare solo nel n° 2 del proemio. Stando così le cose, la modifica introdotta al n° 48 non è tale da permettere che si possa cambiare sostanzialmente l’apprezzamento  sul valore dell’"Institutio".
*

Il n° 55d si spinge fino alla seguente formulazione (55): 
"Racconto dell’istituzione E CONSACRAZIONE: mediante le parole e i gesti di Cristo, SI COMPIE IL SACRIFICIO CHE CRISTO STESSO ISTITUÌ NELL’ULTIMA CENA, quando OFFRÌ il suo Corpo ed il suo Sangue sotto le specie del pane e del vino, lo diede a mangiare e a bere AGLI APOSTOLI e lasciò loro il mandato di perpetuare questo mistero". 
Gli emendamenti introdotti in questo paragrafo costituiscono senza dubbio un’importante correzione dell’"Institutio". Era inammissibile che, nel punto centrale di questo documento, il titolo utilizzasse solo le parole "racconto dell’istituzione", e non parlasse neanche di sacrificio. Era auspicabile che fosse eliminata l’insinuazione secondo cui, nella Cena, Cristo donò il suo Corpo ed il suo Sangue solo agli Apostoli, senza offrirli per tutti gli uomini. L’ambiguità sulla nozione di "presenza" è scomparsa.
È scomparsa anche l’insistenza sul fatto che la messa commemora la morte e la resurrezione di Nostro Signore. Come abbiamo già fatto notare (56), questa insistenza rivestiva una forma tale da favorire una concezione erronea della santa Eucaristia. Indubbiamente, la resurrezione ha un particolare rapporto con la messa, poiché è considerata dai teologi come una manifestazione dell’accettazione del sacrificio del Calvario da parte di Dio Padre. Ma l’eccessiva insistenza sul fatto che l’Eucaristia commemori anche la resurrezione contribuiva a dissimulare il carattere sacrificale e propiziatorio della messa. 
Nonostante queste modifiche, il testo del n° 55d dovrebbe essere più completo. Vista l’importanza di questo paragrafo, esso dovrebbe contenere un richiamo al sacrificio della croce, al carattere propiziatorio della messa, ecc.
Comunque sia, anche qui gli emendamenti apportati sono assolutamente insufficienti per rendere l’"Institutio" accettabile nel suo insieme; tanto più che, come diremo più avanti (57), non sono stati per nulla corretti numerosi passi in cui il documento insinua gli stessi errori a cui ora sembrerebbe voler rimediare questo n° 55d.

*

Nel n° 60, là ove si leggeva: "Il sacerdote celebrante presiede anche l’assemblea, agendo al posto di Cristo […]", ora si legge: "Anche il sacerdote, CHE NELLA COMUNITÀ DEI FEDELI È INSIGNITO DEL POTERE DERIVATOGLI DALL’ORDINE SACRO DI OFFRIRE IL SACRIFICIO NELLA PERSONA DI CRISTO, presiede l’assemblea […]" (58). 
Questa correzione introduce indubbiamente la nozione del sacerdozio strumentale del prete, ma il suo effetto benefico non arriva fino a distruggere ciò che è criticabile nei diversi passi in cui, come abbiamo già mostrato, l’"Institutio" afferma esplicitamente che anche il popolo celebra. 
In questo stesso n° 60, è stato apportato anche questo emendamento: dove si diceva che il sacerdote "partecipa con i suoi fratelli al pane della vita eterna" ora si dice: " DISTRIBUSCE ai fratelli il pane della vita eterna e PARTECIPA CON ESSI AL BANCHETTO" (59). 
Come si può notare, il nuovo testo fa allusione alla funzione sacerdotale del prete, ma non distrugge in alcun modo le ambiguità precedentemente segnalate (60).

*

Modifiche di minore importanza, che non richiedono commento, sono state apportate in diversi altri punti. 
Nel paragrafo finale del n° 59, dove si leggeva: "Se tuttavia il vescovo non celebra l’Eucarestia, ma delega qualcun altro per farlo […]", ora si legge: "Se il vescovo non celebra l’Eucaristia, ma NE AFFIDA il compito ad un presbitero […]" (61). 
Nel n° 56, ora si dice che solo i "fedeli ben disposti" possono comunicarsi; in effetti, la formulazione precedente lasciava la porta aperta ad una interpretazione di natura protestante, secondo cui tutti i fedeli dovevano sempre comunicarsi. 
Nel n° 56a, è stata introdotta una modifica, probabilmente per eliminare la pericolosa ambiguità del testo originale, secondo cui il Corpo di Cristo sembrava essere del tutto identificato al "pane quotidiano" che domandiamo nel Pater. 
Nei nn. 80c e 117, è stato reintrodotto l’utilizzo della patena per la comunione dei fedeli.
Il n° 109 è stato modificato per permettere l’uso facoltativo delle campane alla consacrazione. 
Il n° 125, nel suo nuovo testo, rende facoltativo in alcune circostanze il bacio dell’altare al termine della messa: ancora una misura desacralizzante.  Allo stesso modo sono cambiati i nn. 141, 152 e 208.
Il n° 276 fa sapere che, al di fuori della messa, i fedeli dovranno, non solo pregare davanti al SS.mo Sacramento, ma anche adorarlo. 
Il n° 283 porta ora una nuova disposizione, secondo cui il "pane eucaristico" di grandi dimensioni, che può essere spezzato in bocconi, debba comunque "essere fatto secondo la forma tradizionale" dell’ostia. Non si capisce molto bene il significato di questa modifica, tanto più che il commento di Notitiæ ammette l’uso di ostie diverse dall’ostia tradizionale, per la loro "dimensione, spessore e colore" (62). Ad ogni modo, l’introduzione di questa nuova disposizione dimostra come gli autori della nuova messa si siano resi conto fino a che punto si siano allontanati dall’"Ordo" tradizionale.

*

In diversi numeri sono state introdotte delle modifiche di ordine puramente disciplinare, rubricale, di stile o tipografico: 30, 32, 76, 95, 99, 120, 121, 143, 153/1, 157, 158, 158a, 158c, 158d, 234a, 235, 242/4, 242/7, 242/8b, 242/14, 290, 298, 299, 300, 308a, 308b, 315, 316, 319, 322e, 329a, 330, 332, 333, 334, 336 e 337. 
Queste modifiche hanno nessuna o poca importanza dottrinale. 
Ci limiteremo a segnalare solo un certo aumento dei casi che permettono la comunione dei fedeli sotto le due specie e la concelebrazione.

(su)

11. Modifiche nelle parti fisse della messa
Diversi cambiamenti sono stati apportati anche nell’"Ordo" propriamente detto, e cioè nelle parti fisse della messa.
Sono stati aggiunti molti nuovi prefazi, con un conseguente aumento considerevole del volume, che ha richiesto una modifica di rilievo nella numerazione dei paragrafi. 
È stato anche deciso che, purificando i vasi sacri, il celebrante debba dire a bassa voce la preghiera Quod ore sumpsimus, precedentemente soppressa (63). 
Non commenteremo le altre modifiche introdotte nell’"Ordo", poiché esse non intaccano le critiche fatte in precedenza al testo del 1969. Ecco alcuni esempi di questi cambiamenti: prima del Vangelo si dicono le parole: "Dal Vangelo secondo …"; è permesso, in tutte le messe, di cantare le parti della preghiera eucaristica che si possono cantare nelle messe concelebrate; il Communicantes e l’ Hanc igitur di Pasqua devono essere detti fino alla seconda domenica dopo Pasqua e non fino al giovedì in albis; è prescritto che il sacerdote deve pronunciare il Pax Domini sempre di fronte al popolo.
(su)

12. Conclusione
In conclusione, come quelli del 1969, i testi del 1970 della nuova messa non possono essere, in coscienza, accettati. 
Come abbiamo già detto (64), alla fine di questo studio (65) presenteremo una critica o un apprezzamento più particolareggiati sulle conclusioni che si possono trarre dalle considerazioni esposte.
(su)

NOTE al Capitolo Quarto
(1) Costituzione apostolica Missale Romanum, edizione tipica, pp. 8-9.
(2) P. Bugnini, De editione missalis Romani instaurati, in Notitiae, n° 54, p. 161.
(3) Alle pp. 30 e ss., abbiamo già detto che, nel contesto dell’"Institutio", espressioni come quelle di in persona Christi, non sono sufficienti per indicare in qual modo il sacerdote rappresenta Nostro Signore nella messa.
(4) A questo proposito, vedi quanto abbiamo detto alle pp. 30 e ss., ed anche quanto esponiamo dopo a proposito di questo articolo 5 del proemio.
(5) Ci riferiamo agli autori delle Nuevas normas de la misa, che abbiamo già segnalato alle pp. 15-16
(6) Vedi pp. 35 e ss.
(7) La "celebrazione dell’eucaristia", nel suo significato proprio, è esclusivamente un’azione di Cristo e del sacerdote, il quale, nella messa, Lo rappresenta. Nell’enciclica Mediator Dei, Pio XII condanna la dichiarazione secondo la quale "il sacrificio eucaristico è un’autentica concelebrazione" del sacerdote e del popolo presente (AAS, 1947, p. 553).
I fedeli possono e devono unirsi al celebrante nell’offrire la vittima che è immolata, e in questo senso la messa è realmente una azione dell’intera Chiesa, ma l’offerta fatta dai fedeli è essenzialmente distinta da quella di Nostro Signore. Non si può dire, in alcun caso, che a causa di questa offerta i semplici fedeli diventano degli autentici "celebranti" della messa.
Non v’è dubbio che, in un senso analogo, il termine "celebrazione" possa avere dei siginifcati più ampii, ma non è legittimo equivocare su questi significati, in maniera tale da insinuare che una funzione di "celebrazione" propriamente detta appartenga ai fedeli.
Per questi motivi, l’espressione "la celebrazione dell’eucaristia è un’azione di tutta la Chiesa" si rivela essere ambigua nel contesto di quest’articolo 5 del proemio.
(8) Come si vede, si tratta della stessa identica concezione espressa dai commentatori della B.A.C., che abbiamo citato alle pp. 36-37.
(9) Le maiuscole sono nostre.
(10) Vedi la precedente nota 7, e anche le pp. 30-37.
(11) Il proemio insiste su questo punto all’art. 4, che noi esamineremo alle pp. 101 e ss.
(12) Articolo 6 del proemio.
(13) Come abbiamo detto alle pp. 43-59, al fine di preservare un testo dall’accusa di eterodossia, non basta provare che esso contenga delle verità, ma è soprattutto necessario dimostrare che esso non contenga gli errori di cui è accusato, poiché le deviazioni dottrinali sono frequentemente presentate in giustapposizione, e talvolta sono anche frammiste a delle verità loro contrarie.
È evidente che il proemio non poteva essere redatto in termini polemici, ma è anche chiaro che, pur in uno stile non polemico, è possibile refutare le obiezioni sollevate contro un documento.
(14) Articolo  7 del proemio.
(15) Articoli 7 e 9 del proemio.
(16) Articolo  6 del proemio.
(17) Più avanti, il proemio sostiene che adesso si può celebrare in volgare "fermo restando che nessun cattolico può negare che il rito sacro celebrato in latino sia legittimo ed efficace" (art. 12). Si dice anche che "i principi dottrinali sul pieno valore della comunione ricevuta solo sotto la specie del pane, oggi non sono assolutamente contestati" (art. 14).
I redattori del proemio sembra che non prendano in considerazione, in alcun modo, le influenze nocive che il nuovo "Ordo" può avere sui non cattolici; è incontestabile infatti che tra loro esistono gli errori segnalati. In quest’epoca di ecumenismo in cui viviamo, è indispensabile presentare la dottrina della Chiesa in maniera chiara, sia nei confronti dei figli della Chiesa, sia nei confronti di coloro che non lo sono. Solo così si potranno evitare degli errori pericolosi che, nella pratica, conducono senza dubbio alla deformazione dei principi della fede.
(18) Enciclica Mediator Dei, 20 novembre 1947 (AAS, 1947, pp. 548-580); Instruction du Saint-Office sur l’art sacré, 30 luglio 1952 (AAS, 1952, pp. 542-546); Allocuzione del 2 novembre 1954, in occasione della proclamazione della festa della Regalità della Vergine (AAS, 1954, pp. 666-677); Allocuzione del 22 settembre 1956, ai partecipanti al Congresso internazionale di liturgia pastorale, tenuto ad Assisi (AAS, 1956, pp. 711-725).
(19) AAS, 1965, p. 755
(20) AAS, 1965, p. 761.
(21) Si vedano, per esempio,  nell’edizione brasiliana del Catechismo olandese (O novo catecismo, Herder, São Paulo, 1969) i passi sulla presenza reale (pp. 397-399) e sul sacerdozio dei fedeli (pp. 403-404). Vedi anche i commenti del P. Candido Pozo, SJ, in El Credo del pueblo de Dios (B.A.C., Madrid, 1968, pp. 177 e ss.) e quelli di Cunha Alvarenga, Pedras e serpentes para as almas que pedem pão, in Catolicismo, n° 231, marzo 1970.
(22) Scillebeeckx, Transubstanciação, transfinalização e transignificação, in Revista eclesiástica brasileira, vol. 26, 1966, pp. 286 e ss.
(23) Enciclica Mysterium Fidei, AAS, 1965, p. 755.
(24) A proposito di quest’organo della Santa Sede, consultare la breve spiegazione data da noi alla nota 4 di p. 12.
(25) Sull’importanza e l’influenza del libro Nuevas normas de la misa, vedi quanto abbiamo detto alle pp. 15-16.
(26) Vedi alle pp. 11-13 il commento sulla Costituzione apostolica Missale Romanum.
(27) Sul modo in cui è stato concepito questo processo dialettico all’epoca del giansenismo, vedi alle pp. 51-52. Vedi anche: Mons. Antonio De Castro Mayer, Carta pastoral sobre problemas do apostolado moderno, p. 7; e J. Carreyre, art. Giansenismo, in Dictionnaire de théologie catholique, coll. 488-489.
(28) Art. 7. Vedi il nostro commento sulla questione alle pp. 105-106 e 110-111.
(29) Pagina 105.
(30) Enciclica Mediator Dei, AAS, 1947, p. 545.
(31) Enciclica Mediator Dei, AAS, 1947, p. 546.
(32) Dom Guéranger, Inst. Liturg., tomo I, pp. 417-418. Abbiamo citato questo testo alle pp. 53-54.
(33) Vedi il nostro articolo Não só a heresia pode ser condenada pela autoridade eclesiástica, in Catolicismo, n° 203, novembre 1967.
(34) Abbiamo già suggerito una prima spiegazione di questa idea che il proemio cerca di sostenere, nelle pp. 105-106.
(35) Articoli 10-15.
(36) Le maiuscole sono nostre.
(37) Articolo 11 del proemio: "Ad talem quidem postulationem, Concilium, rationem ducens adiunctorum illa aetate obtinentium, sui officii esse arbitrabatur doctrinam Ecclesiae tralaticiam denuo inculcare, secundum quam Sacrificium eucharisticum imprimis Christi ipsius est actio, cuius proinde efficacitas propria eo modo non afficitur, quo fideles eiusdem fiunt participes".
(38) Articoli 4 e 5 del proemio, che abbiamo esaminato alle pp. 101-105.
(39) Vedi Mons. Antonio De Castro Mayer, Carta pastoral sobre o santo sacrificio da missa, in Catolicismo, n° 227, novembre 1969.
(40) "Ob eandem porro aestimationem novi status mundi, qui nunc est…". Il Centro Nazionale di Pastorale Liturgica (francese) dà di questa frase la seguente traduzione, concepita nello stile dei cosiddetti "gruppi profetici": "Del pari, perché si prenda coscienza della nuova situazione del mondo contemporaneo…", in La Documentation Catholique, 21 giugno 1970, p. 568.
(41) Ci riferiamo alle traduzioni che sono state approvate dalla Sacra Congregazione per il Culto Divino.
Il n° 54, maggio 1970, della rivista Notitiae, che fornisce le informazioni sulle variazioni allora introdotte nella nuova messa, contiene un lungo studio sulle traduzioni del messale romano (pp. 194-213). L’articolo è stato scritto da dom Antoine Dumas, OSB, membro della Commissione incaricata di rivedere il testo latino del nuovo messale romano e anche membro della Commissione che prepara le traduzioni in francese (Notitiae, p. 197). Dopo aver detto che coloro che rivedevano l’originale latino ricercavano un "adattamento fondamentale dei testi alla mentalità contemporanea" (p. 196), e dopo aver fatto l’elogio del linguaggio liturgico dei protestanti (p. 197), dom Antoine presenta dei principi e degli esempi che dimostrano molto chiaramente l’orientamento desacralizzante adottato dalle rispettive Commissioni della Sacra Congregazione per il Culto Divino. Ecco qualche caso caratteristico: ostia non ha mai il significato di "vittima", (p. 198); forma e substantia non devono mai essere tradotti in modo da "appesantire la preghiera di un tecnicismo filosofico fuori luogo" (p. 206); quaesumus non deve mai essere interpretato nel senso di supplica (p. 209); continentia, moderatio, temperari, castigatio, ieiunium "devono essere resi con delle espressioni molto generali, adatte alla mentalità contemporanea" (pp. 208-209).
Sarebbe molto difficile concepire un modo migliore per realizzare l’ideale modernista di adattare la Chiesa alla mentalità del mondo. I fedeli avevano questa stessa tentazione già ai tempi di san Paolo: "Non conformatevi alla mentalità di questo secolo", (Rom. XII, 2); "Custodisci il deposito, evita le chiacchere profane", (I Tim. VI, 20); "Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole" (II Tim. IV, 3-4).
(42) L’articolo intitolato Variationes in Institutionem generalem missalis Romani inductae (in Notitiae
(43) Notitiae, n° 54, p. 177.
(47) Vedi ciò che abbiamo detto alla nota 7 di p. 103.
(48) Vedi pp. 30-37.
(49) La stessa deviazione infatti è stata da noi segnalata prima, pp. 101-105, 108-109 e 111-113, e ad essa ci riferiremo ancora, vedi pp. 336-337.
(50) Per buona memoria, ricordiamo che queste nostre osservazioni non sono fatte con spirito di contestazione o di rivolta contro i poteri e l’autorità che la gerarchia detiene secondo le leggi e la dottrina della Chiesa, piuttosto, desideriamo solo verificare in che misura queste leggi e questa dottrina, nella loro espressione più pura e più autentica, ci obbligano ad accettare o a rigettare la nuova messa.
(51) Vedi pp. 31 e ss.
(52) Notitiae, n° 54, p. 178. Le maiuscole sono nostre.
(53) Il testo di questo numero dell’"Institutio" del 1969, si trova a p. 17.
(54) Vedi pp. 16 e ss.
(55) Le maiuscole indicano ciò che è stato modificato o aggiunto. Il testo precedente è citato a p. 18.
(56) Vedi pp. 41-42.
(57) Vedi pp. 335-337.
(58) Le maiuscole sono nostre.
(59) Le maiuscole sono nostre.
(60) Vedi in particolare le pp. 101 e ss. e 117 e ss. L’abitudine, sempre più generalizzata, per cui dei laici, e anche delle donne ? talvolta nel corso della stessa celebrazione della messa ? distribuiscono la santa comunione, dimostra molto bene fino a che punto questi semplici emendamenti del n. 60 siano insufficienti per correggere tutta la struttura del nuovo "Ordo", opposto in numerosi punti alla tradizione della Chiesa.
(61) Le maiuscole sono nostre.
(62) Notitiae, n° 54, pp. 185-186.
(63) Sull’argomento vedi le pp. 62-63 e 90.
(64) Vedi p. 98.
(65) Vedi pp. 335 e ss.
(su)



Ritorna a Documenti