Diritto “della” Messa Tridentina
Diritto “alla” Messa Tridentina

LO  “STATUS GIURIDICO”
DELLA LITURGIA CATTOLICA “CLASSICA”
E DEI FEDELI COSIDDETTI “TRADIZIONALISTI”

Tra (scarse) incertezze  normative 
ed  (evidente)  maladministration   canonica
 
 

UNA   RIFLESSIONE



Introduzione
La Costituzione Apostolica "Missale Romanum": alla radice di un dubium iuris
L’ “indulto” papale dell'ottobre '84 
Il “Responso” cardinalizio del dicembre '86
Il Motu Proprio “Ecclesia Dei”
Il “rescriptum ex audientia sanctissimi” del 18 ottobre 1988
Il profilo dell'“effettività” del Ius speciale relativo alla liturgia romana “classica”
La fase attuale: Esigenze di “certezza del diritto” e necessità immediata di ripristino della legalità canonica
Conclusioni: La crisi del Diritto Canonico nella crisi della Chiesa

INTRODUZIONE

Tra le molteplici sfaccettature della complessa questione dell’ultravigenza del Rito Romano cosiddetto “tradizionale” nella Chiesa Cattolica all’indomani delle promulgazioni della riforma  paolina, si pone quella relativa alla definizione dello “status” giuridico di cui deve considerarsi attualmente investito nell’ordinamento canonico il cosiddetto “Rito tridentino” della Santa Messa nonché, più in generale, il complesso della liturgia codificata nei libri sacramentari in uso nella Chiesa Latina sino alla fine degli anni ’60. 

Tale aspetto è probabilmente ritenuto dalla maggioranza dei commentatori di secondaria importanza pur rivestendo un rilievo non poco significativo ai fini di una ricostruzione il più possibile “completa” della “questione liturgica” delineatasi successivamente all’introduzione della riforma - risulta peraltro a tutt’oggi meno adeguatamente approfondito rispetto alle preponderanti considerazioni di natura teologica e comunque metagiuridica su cui si è peraltro giustamente soffermata la riflessione successivamente all’introduzione della nuova “lex orandi”. 

La tematica presenta tuttavia risvolti di notevole interesse, ricollegandosi tra l’altro al tema, che le è strettamente connesso, della qualificazione giuridica da attribuirsi alle posizioni soggettive di cui risultano titolari in seno all’ordinamento canonico quei fedeli (siano essi chierici ovvero semplici laici) in vario modo considerabili come “vincolati ad alcune delle precedenti forme liturgiche (…) della tradizione latina” (1) . 

Come oltre avremo modo di approfondire, deve in premessa riconoscersi che molti tra i dubbi di più grave momento che ancora tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 si addensavano nella materia soggetta - dubbi segnatamente relativi alla decisiva questione dell’ ultrattività dell’ordinamento liturgico preconciliare successivamente al varo del “Novus Ordo Missæ” - appaiano oggi per molti versi  definitivamente superati.

In particolare sembra ormai pienamente acquisita l’ esplicita “accettazione” da parte della Gerarchia del fondamentale presupposto ? la cui “pacificità” deve ritenersi assolutamente essenziale alla sopravvivenza della liturgia preconciliare - costituito dal riconoscimento de jure di una specifica “individualità” nel panorama dei riti riconosciuti ed ammessi nella Chiesa Cattolica della Messa Romana quale codificata nel Messale Piano-gregoriano (e pertanto della  conseguente  alterità - pur nell’ambito del medesimo contesto liturgico costituito dalla liturgia “romana” - di tale forma definibile come “romana classica”) rispetto a quella identificabile come “moderna” ovvero “rinnovata” introdotta dalla Costituzione Apostolica “Missale Romanum” (2)  di Paolo VI. 

Resta tuttavia  vero che ancora assai poca chiarezza deve registrarsi sul piano canonistico in ordine a una serie di questioni di non poco momento. Ci si riferisce particolarmente alla cosiddetta ”effettività” di quell’intrico di statuizioni attraverso cui - pur nella persistenza di talune incongruenze di fondo che permangono a caratterizzare il quadro normativo regolante la materia de qua - il legislatore ecclesiastico  ha inteso non solo affermare positivamente il “jus exixtendi” del Rito Romano “classico” nella cattolicità postconciliare, ma anche dettare una disciplina giuridica sufficientemente esaustiva delle situazioni soggettive astrattamente riconducibili alla operatività attuale di tale ordinamento liturgico nella vita della Chiesa.

Se infatti per un verso non vi sono dubbi sul fatto che l’erezione della Fraternità Sacerdotale San Pietro (3)  dapprima, ma soprattutto la successiva costituzione dell’Amministrazione Apostolica Personale San Giovanni Maria Vianney (4)  costituiscano - anche sul piano strettamente giuridico - eventi di rilievo tale da fugare ogni residua perplessità (peraltro difficilmente configurabile sin dai  tempi del cosiddetto “indulto” papale (5) , concesso nell’ormai lontano ottobre 1984) circa la conservazione in seno alla Chiesa Cattolica di un “diritto di cittadinanza” (6)  in senso pieno del Rito Romano “classico”, rimane nondimeno assai importante - ai fini della complessiva difesa delle istanze liturgico-ecclesiali di cui è portatore il mondo tradizionalista - affrontare in modo quanto più possibile adeguato la complessa tematica relativa alla puntuale determinazione di quale effettivamente debba oggi ritenersi sul piano sostanziale il “contenuto” di tale pur riconosciuto diritto.

Sul punto può affermarsi, senza tema di smentita, che ancora permangono molti nodi da sciogliere, non solo - secondo un profilo che potremmo definire di diritto oggettivo - con riferimento alla esatta “collocazione” del Rito tridentino entro l’orizzonte liturgico generale della Chiesa Cattolica (particolarmente attraverso la corretta enucleazione in termini giuridici del rapporto intercorrente tra il Rito tridentino e il Rito moderno); ma soprattutto in ordine al contenuto “concreto” da attribuirsi - sul piano della tutela delle posizioni soggettive riferibili ai singoli fedeli - alla “titolarità” delle situazioni di vantaggio astrattamente attribuite dall’ordinamento ai cattolici che si sentano “legati alle forme liturgiche previgenti” (7)  e alla connessa protezione giuridica loro accordata in ordine a quanto riconosciuto e garantito in linea astratta da specifiche disposizioni di legge (8).

In altre parole, se per un verso non può ritenersi in discussione che la “parola” di Roma, espressasi attraverso l’istituzione di organismi ecclesiali di diritto speciale sorti allo specifico fine di “custodire” la tradizione liturgica romana codificata nel Messale Piano, abbia definito in modo in certo senso incontrovertibile la questione del “subsistit” della liturgia latina “classica” nel Cattolicesimo attuale, è pur vero che ancora oggi non si rinviene una riflessione articolata sulla questione relativa alla definizione esatta della “posizione” giuridica nella quale attualmente si trovano nell’ordinamento ecclesiale rispetto alla liturgia tradizionale il chierico e il fedele laico di rito latino “interessati” alla fruizione di quel  particolare “bene giuridico” costituito dalla liturgia anteriore al Concilio Vaticano II: riflessione che appare tuttora indispensabile al fine di pervenire a soluzioni coerenti a fronte delle molteplici contraddizioni poste da una problematica che, in quanto afferente la sfera del culto, attiene in senso proprio alla Chiesa considerata nella sua “cattolicità” (nel senso che si tratta infatti di questione attinente un aspetto assolutamente essenziale della vita della Chiesa Universale).

Attenendoci alla traccia testé delineata, si cercherà nella presente analisi di ripercorre criticamente le diverse fasi della complessa evoluzione normativa in materia, ciò allo scopo di pervenire all’esito della stessa alla elaborazione di considerazioni di carattere operativo, orientate ad identificare l’esistenza (nonché la concreta accessibilità) di possibili strumenti “giuridici” in grado in qualche modo di “sbloccare” una situazione che, in ragione di una sua apparente “non ricostruibilità” in termini di coerenza sistematica,  si presenta ormai da troppo tempo “in stallo”.

A tal fine, prima di addentrarsi nell’analisi delle problema-tiche accennate alla luce della normativa sedimetatasi dal 1984, sarà opportuno prendere le mosse da un esame delle vicende connesse all’ “entrata in scena” della nuova liturgia: sono infatti proprio le molteplici contraddizioni legate a tale evento che si collocano in certo senso all’ “origine” della questione dell’ ultrattività dell’ordinamento liturgico preconciliare, contraddizioni affatto “irrisolte” dalla normazione successiva all’introduzione del Novus Ordo e tali da condizionare ancora oggi in modo decisivo l’intero svolgimento del dibattito relativo al rapporto tra quelle che ormai quasi del tutto unanimemente sono considerate “forme” sostanzialmente differenti della Liturgia Romana.
 

LA COSTITUZIONE APOSTOLICA  “MISSALE ROMANUM”: ALLA RADICE DI UN DUBIUM JURIS

Uno sguardo complessivo allo status quaestionis relativo all’ intricata vicenda dell’ultrattività della liturgia tradizionale non può  - come si è accennato - non partire da una ragionata analisi delle modalità “tecniche” che caratterizzarono l’entrata in vigore del nuovo rito, analisi finalizzata a valutarne il conseguente impatto sul rito anteriore: ciò impone di principiare la nostra indagine da un seppur sintetico esame dell’atto mediante cui si è dato avvio alla rivoluzione liturgica, ossia la Costituzione Apostolica “Missale Romanum” promulgata nella primavera del 1969 dal Sommo Pontefice Paolo VI, provvedimento che costituisce sul piano normativo il vero e proprio cardine su cui si imposta tutta la successiva legislazione intervenuta in materia.

A lungo si è discusso, non solo in dottrina, sulla controversa efficacia di tale costituzione, come pure sull’ eccentricità “stilistica” (manifestantesi essenzialmente nella non rinvenibilità al suo interno di clausole imperative di carattere generale) che caratterizza un documento il quale, seppur tipicamente legislativo sul piano strettamente formale, appare privo quanto a tenore letterale di quell’ intonazione “solenne” che dovrebbe normalmente qualificare un atto di tale momento per la vita della Chiesa. 

Tralasciando di soffermarsi eccessivamente sul punto, per un eventuale approfondimento del quale si rinvia agli specifici contributi sull’argomento (9) , da una lettura “a distanza” che tenga conto della peculiarità del frangente in cui il provvedimento intervenne, il documento in questione - privo com’è di ogni riferimento espressamente ovvero implicitamente abrogativo-obrogativo rispetto all’ordinamento liturgico vigente sino alla sua promulgazione - pare in effetti manifestare una sorta di “volontà interlocutoria” in ordine alla sopravvivenza del Rito antico all’interno del generale ambito del Rito romano: volontà mediante cui il Pontefice - operando una sorta di “accantonamento” del rito all’epoca in uso attraverso un enigmatico “silenzio” relativamente a quella che sarebbe stata la sua “sorte” all’indomani dell’entrata in vigore del “Novus Ordo” - si è di fatto collocato in una posizione ambigua definibile come “attendistica” nel senso che si andrà ad illustrare.

Se infatti per un verso è chiaro che su una simile scelta del Pontefice non può non aver influito la ben nota circostanza che il Rito Piano-gregoriano risultasse sorretto non solo e non tanto dall’ atto di diritto scritto mediante cui se ne dispose la promulgazione (ossia la Costituzione Piana Quo primum tempore(10)), quanto soprattutto da una consuetudo ab immemorabili (11)  che lo poneva di fatto al riparo da ogni possibile “minaccia” di abrogazione espressa attuata mediante l’emanazione di atto legislativo “scritto” (12) , parimenti non vi è dubbio che anche ragioni di natura “politica” potrebbero aver indotto la Suprema Autorità a muoversi nella direzione della surriferita soluzione dell’ “accantonamento”, con ogni probabilità ritenuta preferibile sul piano dell’opportunità in ragione dell’assoluta imprevedibilità delle reazioni che l’introduzione ex abrupto di una liturgia completamente “ristrutturata” e di fatto schiettamente moderna avrebbe potuto suscitare nell’orbe cattolico.

Rebus sic stantibus tale soluzione veniva infatti a offrire a Roma nel caotico frangente dell’immediato postconcilio due “irrinunciabili” vantaggi: sul piano strettamente giuridico quello di lasciar intravedere, nell’ insperata eventualità di un accoglimento “indolore” della riforma, una qualche prospettiva di abrogazione per desuetudine del precedente ordinamento (peraltro l’unica possibile nel caso di specie a norma di diritto canonico); a livello più propriamente “politico” la garanzia di poter fruire di un ampio margine di libertà in ordine a possibili diverse risoluzioni che si fossero ritenute necessarie a seguito di un eventuale evolvere degli eventi in senso non favorevole all’orientamento innovativo in materia liturgica inaugurato dall’ introduzione del nuovo messale.

Al di là in ogni caso del dubbio relativo al  “significato” attribuibile al silenzio del legislatore su tale rilevantissima questione  (si tratta peraltro di fattispecie espressamente presa in considerazione da quanto previsto dal can. 23 dell’allora vigente Codice Piano-benedettino (13) ), all’epoca in cui gli eventi descritti ebbero luogo apparve soprattutto importante non solo per i tradizionalisti, ma anche per i commentatori in vario modo interessati alle vicende in esame, definire l’altra fondamentale questione posta dalla riforma (questione  implicitamente risolta, come oltre avremo modo di vedere, dalla legislazione intervenuta successivamente), cioè quella relativa alla “valutazione” della nuova lex orandi in termini di “novità” o meno rispetto a quella codificata nel Messale Piano-gregoriano ovvero, più generalmente, nell’ambito dei riti riconosciuti nella Chiesa Cattolica.

A seconda infatti che intenda privilegiarsi l’opzione secondo cui il nuovo rito si porrebbe come una naturale “evoluzione” dell’ordinamento liturgico precedente (nel senso di un adattamento meramente accidentale interessante aspetti per lo più marginali della sequenza rituale, tale da renderne solo più immediatamente attingibile l’essenza senza operare alcuno stravolgimento della stessa sul piano strutturale) ovvero, assai più verosimilmente, si propenda nel senso di ravvisare una vera e propria “soluzione di continuità” tra il Messale Piano e quello Paolino (discontinuità che dia luogo sul piano prettamente liturgico all’identificazione di due riti “formalmente” distinti),  dovrà rispettivamente parlarsi:

a) di obrogazione della Messa Tridentina operata mediante riordino complessivo della materia normata, ovvero
b) di “coesistenza” dei due ordinamenti liturgici per effetto di conciliazione tra la vecchia e la nuova legislazione, restando peraltro con riferimento a quest’ultima ipotesi ancora controverse le seguenti questioni:
b1) quale debba considerarsi il “titolo” della perdurante vigenza della liturgia antica (consuetudine ovvero legge scritta), non apparendo di immediata risoluzione il quesito relativo all’efficacia abrogativa della costituzione “Missale Romanum” sulla “Quo Primum” promulgata da San Pio V;
b2) come si determinino concretamente le modalità “tecniche” di coesistenza tra le due forme liturgiche de quibus, mancando del tutto una disciplina specifica sul punto (14).


Per la verità, con riferimento alla questione inerente la rilevata “discontinuità” tra i due Messali “Romani”, vi è da dire come sin dalla prima introduzione della riforma, da una parte l’“indulto” espressamente concesso nella stessa costituzione paolina ai sacerdoti anziani e ammalati e dall’altra ancor più quello accordato a viva voce da Paolo VI all’indomani dell’entrata in vigore del nuovo ordinamento a taluni preti anglicani passati al cattolicesimo (i quali sollevarono al Pontefice una “questione di coscienza” in ordine alla celebrazione del Santo Sacrificio della Messa secondo un rito che appariva praticamente identico a quello al quale essi avevano abiurato) debbano in realtà considerarsi circostanze tali da non lasciar spazio a soverchi dubbi quanto alla differenza non meramente “accidentale” tra quelli che con ogni evidenza si presentavano come due Riti “alternativi” - la cui alterità sostanziale con le citate risoluzioni neppure la Santa Sede mostrava di voler negare ? mediante i quali si celebrava un “Mistero” che, pur affermandosi identico nella diversità delle modalità “rappresentative”, si sentiva tuttavia il bisogno da parte della Gerarchia di ribadire con forza sul piano dogmatico, ciò all’evidente fine di fugare le molte perplessità da più parti formulate in ordine all’ortodossia dell’ impianto della liturgia riformata (15). 

In tale situazione, mentre si consumavano i prodromi di quella che nel decennio successivo si concretizzerà come una vera e propria “frattura” tra Roma ed Ecône sulla questione liturgica - evento questo destinato a produrre conseguenze assai gravi per la vita della Chiesa - la “nuova” messa - evidentemente caratterizzata, per quanto sin qui detto, da un’accentuata valenza sperimentale - affrontava il suo primo tribolato decennio di vita, senza che in alcun modo - per quanto ve ne fossero tutti i presupposti - intervenisse da parte della Gerarchia un qualche chiarimento sul nodo relativo al rapporto intrattenuto tra il rito di nuova introduzione e quello codificato nel messale previgente.
 
 

Il cardinale Stickler ha spiegato che Benelli non poteva dire 
«sì il Papa l’ha abolita. Poiché egli non può abolire una Messa che non solo è stata usata da secoli, ma che è stata la Messa di migliaia e migliaia di Santi e di fedeli.» 
«La difficoltà consisteva nel fatto che il Papa non poteva averla  abolita, ma al tempo stesso egli voleva che si dicesse la nuova messa …e che fosse accettata. Insomma, egli poteva dire solamente “voglio che venga detta la nuova messa”».
Card. Stickler, 20.5.1995

L’ “INDULTO” PAPALE DELL’ OTTOBRE ’84: 
ABSURDUM NORMATIVO O PRIMA TAPPA “CHIARIFICATRICE” NELLA DIREZIONE DEL RICONOSCIMENTO ESPRESSO DI UN “JUS EXIXTENDI” DELLA LITURGIA TRADIZIONALE NELLA CATTOLICITÀ POSTCONCILIARE ?

Lo stato di cose sin qui descritto si protraeva - com’è noto - sino all’autunno del 1984, frangente in cui la Santa Sede ritornava in via ufficiale sulla questione liturgica attraverso un provvedimento espresso attribuibile in via diretta alla volontà del Pontefice, esternata nel caso di specie nella forma di Lettera Circolare fatta pervenire dalla Congregazione per il Culto Divino ai Presidenti delle Conferenze Episcopali - la Quattuor abhinc annos(16)  - ed emanata dunque dal dicastero romano competente in materia liturgica sulla base di indicazioni puntuali formulate da Giovanni Paolo II.

Anche su tale provvedimento non sono mancate tra i commentatori valutazioni di segno fortemente difforme, tra le quali si annovera pure quella - del tutto legittimamente sostenibile da chi sposa incondizionatamente la tesi dell’ assoluta carenza di efficacia del “Missale Romanum” sullo “status” complessivo della liturgia tradizionale - che ha giudicato del tutto eccentrico un atto mediante cui di fatto si è “concesso” ciò che non si era mai davvero “ablato”, cioè da una parte il diritto di ogni prete di rito latino a celebrare il Sacrificio della Messa secondo il Messale Piano-gregoriano, dall’altra il legittimo interesse di ogni fedele cattolico a richiedere ai legittimi pastori l’esercizio del munus sanctificandi secondo i libri liturgici preconciliari (17).

Al di là di ogni valutazione di carattere extragiuridico che pur voglia darsi del provvedimento dell’‘84,  prima di abdicare a ogni tentativo di “leggere” una voluntas legis regolarmente formalizzatasi (decretandone così la “non razionabilità” alla luce dell’assetto normativo complessivo della materia), è da ritenersi che si imponga in ogni caso all’interprete la necessità di uno sforzo ermeneu-tico che consenta di attribuire un qualche significato a un atto di evidente natura normativa che - sia per l’autorevolezza della fonte da cui promana sia per l’importanza di alcune affermazioni in esso contenute - non può essere sbrigativamente bollato come “inutiliter datum” (18), senza che ciò comporti di addentrarsi in problematiche ancor più complesse e intricate di quelle che con simile giudizio tranciante (e forse eccessivamente sbrigativo) si ritiene semplicisticamente di aver risolto.

Per amore di verità, non può invero non sottolinearsi come il provvedimento de quo venga di fatto ad inserirsi in una situazione di tale incertezza normativa da non permettere all’interprete se non l’elaborazione di mere “ipotesi” interpretative - in nessun caso suffragabili con argomentazioni giuridiche di carattere “risolutivo” - rispetto a quello che all’evidenza appare un vero e proprio “ingorgo” normativo.  Sotto il profilo delle fonti infatti, nelle intricate vicende del rinnovamento liturgico, si registrano in sequenza disposizioni conciliari di tenore incontrovertibile - ma di assai dubbia efficacia precettiva “diretta” (19)  - immediatamente “ribaltate”  nel loro pur chiaro contenuto volitivo da successivi atti di produzione legislativa di rango “secondario” rientranti nella cosiddetta potestà legislativa “indiretta” (20)  (cioè promananti dai competenti dicasteri della Curia Romana e peraltro privi di confermazione apostolica “in forma specifica”), i quali ultimi all’evidenza appaiono, unitamente all’Institutio Generalis premessa al messale paolino, come quelli realmente “conformativi” rispetto ai caratteri di fondo in concreto poi assunti dalla riforma liturgica (21); il tutto impostato sulla mediazione di una costituzione papale, ossia di una legge pontificia cosiddetta “diretta” (22), la cui efficacia abrogativa si presenta per le ragioni sopra esposte fortemente controversa.

In realtà, da una lettura attenta del pur sintetico atto “concessorio” dell’84, è possibile mettere a fuoco alcuni interessanti elementi che, se adeguatamente valorizzati attraverso un’analisi che li legga nel particolare contesto in cui intervennero, non mancano di offrire ai fini ricostruttivi spunti di un certo rilievo quanto meno ai fini dell’affermazione normativa del “diritto di cittadinanza” della liturgia “classica”: spunti che peraltro - come più avanti avremo modo di constatare - risulteranno in seguito in certo senso confermati dagli interventi legislativi successivamente registratisi in materia (il principale dei quali è rappresentato dal celeberrimo motu proprio papale “Ecclesia Dei”), i quali perverranno progressivamente al consolidamento di un quadro normativo sufficientamente articolato - di cui la Lettera Circolare in esame deve in certo senso considerarsi il primo “tassello” - chiamato a disciplinare l’operatività nel “tempo della riforma” dell’ordinamento liturgico preconciliare.
Sotto un profilo strettamente formale, è bene subito precisare come la Lettera Circolare “Quattuor abhinc annos” seppur appunto ascrivibile sul piano della forma alla Congregazione Romana competente in materia, costituisca ad ogni altro effetto un atto “sostanzialmente” papale (il cui contenuto è cioè non solo formalmente “approvato” dal pontefice medesimo, ma direttamente espressivo della volontà dello stesso): circostanza questa che vale a qualificarlo, nella pur non precisamente definita gerarchia delle fonti di cognizione del diritto canonico, quale atto normativo di rango primario la cui efficacia è probabilmente da ritenersi gerarchicamente inferiore alla sola legge pontificia diretta (23).

Preliminarmente, prima di ogni considerazione nel merito, vi è da dire come il “tenore”  del documento in esame induca, almeno in via ipotetica, a porre quanto meno in dubbio la natura meramente “amministrativa” dello stesso - sostenuta con decisione da molte Diocesi al fine di sgombrare il campo da ogni possibile ipotesi tesa ad esaltarne i caratteri di generalità e astrattezza - al fine di privilegiare al contrario un’ opzione interpretativa che, ferma restando la connotazione negativa tipicamente costituita dal carattere di precarietà in qualche modo intrinseco a provvedimenti di questo genere, sostenga l’individuabilità nella disciplina in esso sinteticamente delineata quantomeno di un embrione di “lex specialis” regolativa, seppur ancora in senso fortemente restrittivo, della particolare  materia di intervento.

Posto infatti che in concreto appare assai dubbia la possibilità di identificare nominativamente ex post i destinatari degli effetti di un eventuale provvedimento vescovile di concessione (24)  (ciò almeno per quanto riguarda i fedeli laici potenzialmente fruitori del “bene” graziosamente accordato dal provvedimento in questione - la Messa Tridentina - una volta che esso sia stato concesso), a suffragio dell’ipotesi sopra accennata merita evidenziarsi come l’effetto concreto prodotto dalla Circolare in considerazione, a dispetto del riferimento espresso in essa contenuto all’espressione “indulto” (25)  (con cui la canonistica suole tipicamente designare un provvedimento a contenuto concreto, i cui effetti derogatori rispetto al diritto comune sono appunto destinati a prodursi nei confronti di singoli soggetti specificamente individuati), è in realtà quello di introdurre nell’ordinamento una vera e propria “regula juris” astratta di carattere tendenzialmente generale, mediante cui viene definito un peculiare regime giuridico “di diritto speciale” avente ad oggetto lo  “status” giuridico della liturgia tradizionale: ciò in particolare attraverso la previsione di una disciplina intesa a definire condizioni, termini e modalità di sussistenza di una forma liturgica, che per la prima volta dall’introduzione della riforma, viene entro un atto di diretta derivazione pontificia individuata nella sua “distinzione” rispetto alla forma rinnovata e pertanto qualificata come avente una propria specifica individualità nel panorama liturgico cattolico. 
Alla luce di quanto argomentato, sembra dunque di poter affermare come il provvedimento in esame - senza in alcun modo interloquire in modo espresso sulle spinose e sempre “aperte” questioni relative all’ ultrattività dell’ordinamento liturgico Piano successivamente all’entrata in vigore della riforma (26) - paia in certo senso voler imbrigliare un senz’altro ultravigente “diritto” alla Messa Tridentina entro un meccanismo di tipo permissivo (rectius, autorizzatorio (27)), posto evidentemente dal Legislatore a salvaguardia di un prioritario interesse all’uniformità liturgica nella Chiesa di Rito Latino valutato come prevalente in sede di “riconoscimento” del Rito Tridentino e di elaborazione della disciplina di “operatività” del medesimo: meccanismo la cui attivazione viene peraltro in concreto demandata in via amministrativa alla prudente valutazione - fortemente discrezionale in quanto assai poco circoscritta nel suo esercizio da precise indicazioni legislative - che il legislatore in via generale ritiene di affidare caso per caso al singolo ordinario diocesano. 

Seppure la ricostruzione “estensiva” qui effettuata potrà a taluno forse risultare eccessivamente “benevola” con riguardo agli effetti di un provvedimento il cui respiro, in ragione della nota di precarietà che lo caratterizza e alla quale si è sopra fatto riferimento, si rivela sicuramente ancora “corto” ai fini di un riconoscimento “in senso pieno” in seno all’ordinamento canonico dei “diritti” della Messa Tridentina, rimane in ogni caso il fatto indubitabile dell’enorme valore giuridico di un atto che dissipa ogni possibile dubbio in ordine alla “specifica” individualità (oltre che alla evidentemente presupposta perdurante vigenza) nella Chiesa del postconcilio dell’ordinamento liturgico preconciliare (28): ordinamento la cui “autonoma” sussistenza nella Chiesa Universale viene  sancita con giuridica certezza da una volontà pontificia che, seppur ancora condizionata da una pregiudiziale fortemente “restrittiva” in ordine all’uso dei libri liturgici del ’62, inaugura un meccanismo tendenzialmente “stabile” che, con le varianti modificative “in melius” apportate a seguito dell’emanazione del motu proprio “Ecclesia Dei”, rimane a tutt’oggi in auge e probabilmente perdurerà sino a quando non si riterrà da parte della legittima autorità di addivenire a una completa “liberalizzazione” del rito preconciliare. 
 
 

In una lettera del 18 marzo 1984, il cardinale Casaroli, Segretario di Stato, chiedeva al cardinale Casoria, Prefetto della Congregazione per il Culto Divino, di preparare il testo della Lettera che, il 3 ottobre 1984, sarà firmato dal cardinale Mayer, suo successore (Quattuor abhinc annos). 
Si intendevano ampliare le possibilità d’uso del Messale tridentino, possibilità che Paolo VI aveva già delegate alla discrezione del cardinale Heenan. In questa lettera inedita, mai pubblicata, il Segretario di Stato ricorda: 
“Un’assoluta interdizione dell’uso del Messale menzionato non può essere giustificata né da un punto di vista teologico, né da un punto di vista giuridico”.
Pubblicato sulla rivista La Nef, n° 159, aprile 2005, p. 21

 

IL “RESPONSO” CARDINALIZIO DEL DICEMBRE ’86: 
UNA ATIPICA FORMA DI “INTERPRETAZIONE AUTENTICA” DELL’ ASSETTO NORMATIVO VIGENTE PRODROMICA A SUOI POSSIBILI INTERVENTI MODIFICATIVI ?
 
 

Della Commissione Cardinalizia furono chiamati a far parte i cardinali: 
Joseph Ratzinger, Augustin Mayer, Silvio Oddi, Alfons Stickler, Agostino Casaroli, Bernardin Gantin, Antonio Innocenti, Pietro Palazzini, Jozef Tomko.

La “questione liturgica” compare nuovamente sull’agenda del Pontefice nell’estate 1986, durante la quale Giovanni Paolo II istituisce una “Commissio Cardinalitia ad hoc ipsum instituta” - cioè un organo straordinario creato per il conseguimento di una particolare finalità - la quale viene investita dell’incarico specifico di provvedere a una valutazione complessiva del “funzionamento” del meccanismo “indultorio” introdotto due anni prima, ciò allo scopo di approntare all’esito della stessa eventuali proposte operative, destinate ad essere utilizzate nell’intenzione del “committente” probabilmente ai fini di un possibile riassetto normativo da imprimere alla materia in questione. 

Sebbene non possa sottovalutarsi l’autorevolezza di tale assai particolare “gruppo di lavoro”, espressamente voluto dal pontefice, deve sottolinearsi come i risultati a cui esso è pervenuto non sono mai assurti a vera e propria giuridica rilevanza in quanto non formalizzati in un documento ufficiale (29).  Tali risultati, infatti, sono circolati solo in via ufficiosa presso gli ambienti a vario titolo interessati alla questione, senza peraltro essere in alcun modo smentiti dalle Autorità Vaticane (30). Essi in ogni caso rivestono ? proprio in ragione dell’autorevolezza cui sopra si è fatto cenno - un valore notevole ai fini ricostruttivi, ciò essenzialmente in quanto essi vengono a operare di fatto una completa “ricognizione” critica della situazione normativa esistente, ricomponendola sotto il profilo ermeneutico in un quadro di “ragionevolezza” e pertanto effettuando una sorta di “interpretazione autentica” in cui - oltre a entrare nel “merito” della delicatissima questione del “rapporto” intercorrente tra le due cosiddette “forme” del Rito Romano - non è difficile ravvisare un sostanziale approfondimento nella considerazione dello “status quaestionis” che lascia pensare - con riferimento alla complessiva analisi effettuata - a qualcosa di assimilabile alla relazione preparatoria di una commissione legislativa in sede referente rispetto a un (peraltro mai intervenuto) provvedimento “di riordino” di imminente emanazione.
 
 

«Papa Giovanni Paolo II pose alla Commissione dei nove cardinali, nel 1986, due questioni:  Prima: “Il papa Paolo VI o un’altra competente autorità poteva proibire oggi legalmente l’universale celebrazione della Messa tridentina?”  Io posso rispondere perché ero uno dei cardinali. La risposta data dai nove cardinali nel 1986 fu “No la Messa di San Pio V non è stata mai soppressa”»

In risposta alla seconda questione “Può un vescovo proibire ad un prete di celebrare la Messa tridentina?”  Il cardinale Stickler ha affermato che «i nove cardinali hanno convenuto unanimemente che nessun vescovo può proibire ad un prete cattolico di dire la Messa tridentina».

Card. Stickler, 20.5.1995

Le “raccomandazioni” formulate nel dicembre successivo ribadiscono con forza la netta distinzione e la reciproca autonomia (anche a livello calendariale) tra i due riti in questione, pur ritenendoli riconducibili a un medesimo contesto liturgico, ed invitano gli Ordinari a riservare in ogni Diocesi un adeguato “spazio” alla Messa “in latino”.  Così facendo esse di fatto confermano, ove lette in sistematica connessione con il complesso normativo all’epoca vigente, l’ipotesi ricostruttiva avanzata in questa sede, cioè quella della sussistenza di un vero e proprio biritua-lismo nell’ambito della Chiesa Latina, il quale in modo assai interessante pare atteggiarsi come assolutamente “perfetto” se riferito al chierico in quanto tale - rispetto al quale la Commissione Cardinalizia afferma a chiare lettere la libertà assoluta di scelta tra (id est, il “diritto” di celebrare secondo) il Messale Piano ovvero quello Paolino laddove questi offra il Sacrificio in una “messa privata” (cosiddetta missa sine populo), ossia celebrata senza la presenza di fedeli.

Quanto poi alla Messa “cum populo”, nel richiamare implicitamente la  normativa “speciale” posta a presidio della materia (costituita all’epoca dalla sola circolare Quattuor abhinc annos), la Commissione Cardinalizia riafferma, con riferimento all’ ipotesi di Messa “indultata” a beneficio di fedeli che ne abbiano fatto richiesta, la già menzionata piena libertà di scelta del celebrante tra i due Messali (evidentemente, dunque, entrambi vigenti), rispetto all’apparato rubricale di ciascuno dei quali viene nuovamente formulato con decisione il divieto assoluto di ogni forma di “mescolanza” (31).

Stante quanto sin qui detto, può affermarsi che i risultati, invero assai interessanti, cui perviene la “Commissione ad hoc” possono sintetizzarsi nelle seguenti proposizioni:

a) i Messali Piano e Paolino devono considerarsi entrambi vigenti;
b) ogni sacerdote di rito latino è titolare di un vero e proprio “diritto perfetto” a celebrare secondo il Messale Piano laddove non vengano in questione problemi di unità liturgica (ad esempio nella Missa sine populo);
c) l’esercizio di tale diritto, pur rientrando nel “corredo” giuridico di ogni prete  appartenente alla Chiesa di Rito Latino, nell’eventualità di celebrazione “pubblica” è subordinato, a tutela di un ritenuto preponderante interesse “pubblicistico” all’unità liturgica nella medesima Chiesa di Rito Latino, ad un provvedimento di carattere autorizzatorio rilasciato dall’Ordinario Diocesano, il quale - sulla base di considerazioni di carattere eminentemente pastorale - ne valuterà l’opportunità dell’emanazione attraverso un bilanciato contemperamento tra il rilevato interesse all’unità liturgica e quello manifestato dall’esigenza dei richiedenti attraverso una specifica istanza, la quale dev’essere  prodotta allo stesso da fedeli diocesani eventualmente interessati a regolari officiature liturgiche secondo il Messale preconciliare. Non sfugge che con la possibilità di produrre istanza si riconosce evidentemente ai richiedenti  un “legittimo interesse” a che il munus sanctificandi sia esercitato nei loro confronti nelle forme liturgiche antecedenti.


È in questa situazione normativa - divenuta maggiormente “leggibile” a seguito delle conclusioni “istruttorie” raggiunte dalla Commissione Cardinalizia “ad hoc ipsum insitituta” (32)  - che finalmente, seppur  per altro verso in una assai dolorosa circostanza, si perviene alla promulgazione del primo vero e proprio provvedimento legislativo di diretta derivazione pontifica sulla complessa questione in esame.
 
 

«… nel Decreto, da me firmato, con la promulgazione della III edizione tipica del Messale Romano, non c’è alcuna clausola di abrogazione della forma antica del Rito romano. … l’assenza di qualsiasi clausola di abrogazione non è casuale, né frutto di dimenticanza, ma voluta.»
Card. Medina, 21.5.2004
Lettera a Una Voce Firenze
pubblicata sul bollettino omonimo di luglio/dicembre 2004

IL MOTU PROPRIO “ECCLESIA DEI”: 
UN “PRIVILEGIUM GENERALE” CHE DEFINISCE GIURIDICAMENTE I TERMINI DELLA “QUESTIONE TRADIZIONALE” CON L’ INTRODUZIONE DI UNA REGOLAMENTAZIONE UNIVERSALE  “DI DIRITTO SPECIALE” VALIDA PER L’ INTERA CHIESA DI RITO LATINO

Tra la fine del giugno e l’inizio del luglio ’88 si consumano una serie di eventi che segnano in modo determinante i successivi sviluppi delle vicende in questione: si tratta, come tutti sanno, del tristissimo frangente in cui il fallimento della trattativa tra il compianto Mons. Lefébvre e la Santa Sede conduce alla definitiva “rottura” tra Ecône e Roma, culminata con l’ordinazione senza mandato pontificio da parte del presule francese di quattro vescovi avvenuta il 29 giugno 1988, cui fa immediato seguito da parte vaticana la “notifica” della scomunica “latæ sententiæ” inflitta a tutti i soggetti coinvolti in quello che i documenti ufficiali romani definiscono invero non senza ambiguità come “atto scismatico” (33).

Tralasciando in questa sede di entrare nel merito della dolorosa vicenda della “presunta” scomunica comminata ai protagonisti della menzionata vicenda, con riferimento al tema trattato in questa riflessione deve sottolinearsi come uno degli esiti determinatisi in seguito ai fatti sopra richiamati è costituito da un nuovo pronunciamento legislativo pontificio sulla questione liturgica - il motu proprio “Ecclesia Dei” -  mediante cui - fermo restando il meccanismo di tipo “autorizzatorio” inaugurato nell’ ottobre ’84, che acquisisce a questo punto senza alcun dubbio valore di “stabile” disciplina generale di carattere “speciale” valida per l’intera Chiesa di rito latino con riferimento alla materia in questione e rispetto ai cui effetti si manifesta peraltro una necessità di più “ampia e generosa” incidenza concreta - il Supremo Legislatore - esprimendo inequivocamente la propria volontà entro un atto dotato sia sotto il profilo formale che sostanziale del massimo possibile di efficacia nell’ambito della gerarchia delle fonti canoniche - interviene in senso fortemente estensivo in ordine al “riconoscimento” giuridico nella Chiesa Universale delle legittime esigenze (nel linguaggio normativo laico l’espressione equivalente, come sopra si accenna, potrebbe forse essere “legittimi interessi” (34)) manifestate dai fedeli cattolici che “si sentono vincolati alla precedenti forme liturgiche e disciplinari”, alle cui richieste il Santo Padre manifesta paternamente il proprio desiderio di dare la più ampia e completa soddisfazione.

Prima di addentrarsi nell’analisi del contenuto normativo del provvedimento pontificio - in particolare quanto all’effetto concreto da esso prodotto nell’ordinamento canonico - mette conto preliminarmente evidenziarsi, soprattutto al fine di sgombrare ogni possibile equivoco in ordine alla “forza cogente” delle disposizioni che ci si appresta ad esaminare, come nel caso di specie ci si trovi di fronte a un “tipico” atto legislativo pontificio, circostanza questa che chiaramente si evince non solo dai caratteristici “indici” formali e sostanziali dell’atto (littera apostolica in forma di motu proprio) (35) , ma anche dal tipico stile impiegato (si pensi, in particolare, alle clausole “desidero manifestare la mia volontà” ovvero alla ancor più pregnante “in virtù della mia Autorità Apostolica, dispongo quanto segue”), evidentemente espressivo della natura precettiva del contenuto volitivo di carattere generale e astratto formalizzato nel documento in questione, mediante cui in modo inequivoco viene dettata una regolamentazione di carattere speciale destinata ad avere efficacia in tutta la Chiesa di Rito Latino. 

Ciò premesso, venendo all’esame del merito delle disposizioni adottate, può affermarsi come anche da una sommaria lettura del testo del provvedimento emerga con tutta evidenza l’intenzione del Pontefice - al fine precipuo di “pacificare” la Chiesa dopo il doloroso esito dell’ “affaire Econe” -  di concedere ai fedeli a vario titolo coinvolti nella vicende sopra menzionate - a mezzo di un atto normativo di rango primario che viene pertanto a collocarsi in una posizione di vertice nella gerarchia delle fonti - quello che tecnicamente in diritto canonico si definisce come un “privilegio generale” (36), cioè una “lex specialis” valida per tutta la Chiesa Latina mediante cui, al fine di venire incontro alle necessità spirituali di una particolare categoria di fedeli, si definisce a vantaggio degli stessi una disciplina di carattere “speciale” al fine di esonerali da un’applicazione indiscriminata del diritto “comune” la quale potrebbe risultare per gli stessi penalizzante in ordine al conseguimento del fine generale dell’ordinamento canonico, costituito dalla “salus animæ” di ogni singola persona affidata alla cura della Chiesa. 

Tecnicamente il documento, la cui “clausola generale” sul piano precettivo deve considerarsi la nota espressione “dovrà essere ovunque rispettato l’animo di tutti coloro che si sentono legati alla tradizione liturgica latina”, persegue tale obiettivo attraverso un fortissimo ridimensionamento della sfera discrezionale che dovrà caratterizzare l’esercizio della “potestà” da parte dell’autorità esecutiva (la cui identità peraltro non è specificata nell’atto legislativo in esame) cui è demandata la concreta concessione dell’atto autorizzatorio.  Vero è che il documento traspone a livello normativo il meccanismo “autorizzatorio” vigente mediante un rinvio espresso ai contenuti “tecnici” della Circolare “Quattuor abhinc annos”, ma è altresì vero che alcuni degli elementi “restrittivi” contenuti in quest’ultima circolare vengono del tutto messi “fuori gioco” da un nuovo linguaggio legislativo la cui “cifra estensiva” rispetto ai precedenti documenti inerenti la materia esclude ogni possibilità di interpretazione “restrittiva” della volontà papale (37).

Sul piano pratico, è evidente come ci si trovi al cospetto di un implicito superamento della disciplina contenuta nella “Quattuor abhinc annos”, il che è quanto dire della fitta “griglia” di condizioni restrittive in tale provvedimento: tale circostanza comporta evidentemente una “compressione” dell’ambito valutativo discrezionale affidato all’autorità amministrativa, la quale viene di fatto a impedire alla stessa autorità un “sindacato” di carattere penetrante con riferimento al merito della formulata richiesta di concessione, obbligandola ad effettuare un mero riscontro di “regolarità” dell’istanza.  In tal senso l’effetto specifico del menzionato superamento consiste nel modificare il “rapporto” intercorrente tra atto normativo a monte e provvedimento attuativo a valle sì da pervenire, pur senza fare del provvedimento concessorio un “atto dovuto” in senso tecnico, a una ridefinizione in senso fortemente limitativo del “contenuto” effettivo della “potestas executiva” concessa dal Legislatore all’autorità amministrativa, tecnicamente ottenuta attraverso una sensibile contrazione della sua latitudine discrezionale. 
In altre parole il Pontefice, nell’adottare “le misure necessarie per garantire il rispetto” di quelle che Egli stesso definisce le “giuste aspirazioni” dei fedeli tradizionalisti, interviene innovativamente sulla materia normata, producendo mediante le nuove disposizioni un effetto amplificativo in ordine alla “forza” della posizione giuridica soggettiva di cui è titolare il “singolo” fedele interessato al conseguimento del particolare “bene giuridico” costituito dalla celebrazione della Messa secondo il rito codificato nel Messale Piano.  Tale effetto, da un punto di vista squisitamente tecnico e in virtù dell’ampia “apertura” papale alle istanze espresse dai fedeli legati alla liturgia “classica”, è ottenuto circoscrivendo di fatto le pur sempre possibili ipotesi di diniego dei provvedimenti autorizzativi ai soli casi in cui la soddisfazione dell’ interesse manifestato nell’ istanza petitoria risulti materialmente impossibile per particolarissime ragioni di carattere contingente (peraltro neanche accennate nel documento), senza che in capo all’Autorità esecutiva “materialmente” concedente residui uno specifico potere di interloquire in alcun modo sulle “motivazioni” che hanno mosso il singolo ovvero il gruppo a inoltrare l’istanza autorizzatoria. 
Vi è peraltro ancora da sottolineare che la nuova disciplina della materia, nel ridefinire formalmente il “contenuto” di quel potere degli organi esecutivi di cui costituisce la “fonte” attraverso l’enucleazione dettagliata di presupposti, condizioni e modalità di esercizio dello stesso, viene in realtà non solo a imprimere “nuova forma” alla regolamen-tazione speciale dell’ 84, ma ? come si vedrà ? si spinge ben oltre tale pur rilevantissimo esito, estendendo la sua portata innovativa anche a un altro fondamentale profilo, cioè quello dell’ individuazione della competenza esecutiva rispetto a quanto disposto in via generale:  problematica questa che sarà oggetto di uno specifico provvedimento accessorio di carattere integrativo-esecutivo successivo all’atto legislativo su cui ci siamo appena soffermati e che ci accingiamo ora a commentare.
 

IL “RESCRIPTUM EX AUDIENTIA SANCTISSIMI” DEL 18 OTTOBRE 1988

A proposito di tale importante provvedimento accessorio (38), pare preliminarmente necessario precisare come dal punto di vista tecnico esso sia costituito da un “rescriptum ex audientia Sanctissimi”, cioè un oraculum vivae vocis del Pontefice regnante avente, secondo la più accreditata dottrina canonistica, a tutti gli effetti valore di fonte del diritto (39).  Tale atto pontificio risulta essere stato prodotto appena qualche mese dopo la promulgazione del motu proprio Ecclesia Dei, venendo così sul piano normativo le sue previsioni di fatto a “fare corpo” con le disposizioni rese dal provvedimento principale da cui interamente dipende. Mediante tale atto Giovanni Paolo II, dopo aver precisato ulteriormente quanto in precedenza disposto, opera in subjecta materia una drastica modifica con riferimento all’ordine delle competenze relative al rilascio del provvedimento autorizzatorio, avocando in toto “a Roma” il governo della “questione tradizionalista”, che viene in tal modo sottratta  alla competenza dei Vescovi Diocesani e “concentrata” nell’ apposito organismo della Curia Romana - la Commissione “Ecclesia Dei” - costituito ad hoc dal Pontefice al fine di assicurare una gestione “centralizzata” - ossia esercitata a livello di organi centrali della Chiesa - di una problematica  evidentemente ritenuta dal Supremo Legislatore come attinente la Chiesa nella sua “cattolicità” e pertanto non amministrabile in modo differenziato da diocesi a diocesi.

Data l’importanza delle disposizioni recate dall’atto in commento, pare opportuno citare testualmente la disposizione in cui, premessa l’attribuzione di poteri speciali in via esclusiva alla Pontificia Commissione “Ecclesia Dei” per quanto attiene la produzione degli effetti amministrativi previsti in via generale e astratta dall’ omonimo motu proprio, il legislatore espressamente dispone ciò che rientra specificamente nella competenza del Presidente di tale organo, precisando a tal proposito che vi rientra il:

1. Concedere a chiunque ne faccia domanda l’uso del Messale Romano secondo l’edizione tipica in vigore nel 1962, e ciò secondo le norme già proposte dalla commissione cardinalizia “istituita a tale scopo” nel dicembre del 1986, dopo aver informato il vescovo diocesano (…) (40) (si veda http://www.unavox.it/Documenti/doc0114.htm).


In senso confermativo rispetto all’ ipotesi ricostruttiva qui avanzata, il Papa dunque viene a disporre, in ragione della specialità dell’incarico affidato alla Commissione Pontificia di recente istituzione, l’attribuzione di “speciali facoltà” al Cardinale Presidente del dicastero straordinario, il quale ? tra l’altro ? viene investito della specifica potestà “di concedere a chiunque ne faccia domanda l’uso del Messale Romano secondo l’edizione tipica in vigore nel 1962”, non mancando altresì di specificare come tale “concessione” debba avvenire previa informativa ai vescovi diocesani e nel rispetto dei criteri enucleati nel dicembre del 1986 dalle già citate “norme già proposte dalla Commissione Cardinalizia ad hoc ipsum instituta”. 

Stante quanto sin qui detto, pare potersi conclusivamente affermare in via generale come  -  attraverso il descritto “supera-mento” della regolamen-tazione dell’ 84, di cui peraltro si fa salvo il “meccanismo tecnico” rappresentato dalla mediazione di un provvedimento autorizzatorio di carattere autoritativo rispetto al soddisfacimento di un interesse identificato e tutelato dall’ordinamento - il pronunciamento legislativo del 1988, pur non mettendo in discussione con riferimento alla celebrazione pubblica del culto nella Chiesa di Rito Latino l’ acquisita “centralità” del Messale Paolino rispetto a quello preconciliare per le già citate ragioni di unità liturgica, non ritiene in alcun modo che la delineata circostanza possa nella medesima Chiesa considerarsi ostativa rispetto all’esistenza di un vero e proprio “diritto” - di cui sono ritenuti titolari quei cattolici che manifestino un “attaccamento” alla liturgia previgente - ad ottenere i mezzi salvifici (cioè la celebrazione del Santo Sacrificio della Messa nonché, più in generale, l’amministrazione dei Sacramenti) secondo i libri liturgici del ’62: diritto che, in virtù dell’Autorità Apostolica di propria esclusiva spettanza il Supremo Legislatore riconosce in modo espresso mediante atto normativo di rango primario, determinandone vieppiù le modalità di esercizio attraverso la previsione di un’apposita disciplina di “diritto speciale” - id est derogatoria rispetto all’ordinamento liturgico generalmente applicato - valida per la Chiesa di Rito Latino nella sua globalità. 

A suggello delle considerazioni qui formulate in merito alle disposizioni del motu proprio nonché della sua appendice integrativo-esecutiva, appare in ogni caso importante sottolineare come una eventuale interpretazione di segno “restrittivo” del complesso della disciplina commentata - la quale fosse orientata in qualche modo ad “affievolirne” la portata “innovativa” rispetto all’ indulto dell’84 - non potrebbe che condurre a ritenere lo stesso motu proprio papale (unita-mente alle successive norme accessorie) del tutto “inutiliter datum”. Degradando infatti quest’ultimo ad atto meramente confermativo di atto precedente di minore efficacia  (la citata circolare Quattuor abhinc annos), una simile opzione interpretativa - in chiaro contrasto rispetto a una volontà legislativa incontrovertibilmente formulata - conseguirebbe inevitabilmente l’effetto di privare il provvedimento in commento di qualsivoglia incidenza pratica a livello ordinamentale: il che evidentemente appare del tutto inaccettabile a lume di buon senso prima ancora che di logica giuridica.
 

IL PROFILO DELL’ “EFFETTIVITÀ” DEL IUS SPECIALE RELATIVO ALLA LITURGIA ROMANA “CLASSICA”: IL MANCATO FUNZIONAMENTO DEL “SISTEMA” RISULTANTE DAL MOTU PROPRIO “ECCLESIA DEI” E  PROVVEDIMENTI COLLEGATI 

Consolidatosi indiscutibilmente un vero e proprio “jus speciale” relativo alla cosiddetta “Messa Triden-tina”,  si  assiste - proprio nel momento in cui ci si attendeva di poter cogliere i concreti “vantaggi” che sarebbero dovuti scaturire dall’ entrata “a regime” dell’ assetto giuridico sopra sommariamente tratteggiato - a un imprevisto e imprevedibile sviluppo involutivo della vicenda in questione, il quale prende materialmente forma in una sorta di inspiegabile “inceppamento” del descritto meccanismo normativo, la cui effettività viene per intero frustrata da quello che potremmo definire un macroscopico caso di “desistenza” nell’ esercizio degli specifici poteri conferiti da parte dell’ organo “amministrativo” individuato ex lege come competente all’ applicazione di quanto imperativamente disposto.
Con la lettera prot. 500/90 (41) , indirizzata ai vescovi americani riuniti in sessione plenaria, il Presidente della Commissione “Ecclesia Dei” - attraverso la formalizzazione di un assai singolare “orientamento” in ordine a quelle che lo stesso ritiene debbano essere le “modalità tecniche” di esercizio delle “speciali facoltà” ad esso commesse - cancella infatti in un sol colpo la complessa evoluzione normativa registratasi tra il 1986 e il 1988, affermando a chiare lettere - come mette conto riportare testualmente - che 

“ 4. Nonostante il Santo Padre abbia conferito a questa Pontificia Commissione la facoltà di concedere l’uso del Messale Romano nella edizione tipica del 1962 a tutti coloro che ne fanno richiesta, dopo avere informato l’Ordinario competente, noi preferiremmo meglio che tale facoltà venisse esercitata dallo stesso Ordinario, così da rafforzare la comunione ecclesiale tra i preti e i fedeli interessati e i loro Pastori.”


Vale davvero la pena spendere qualche parola a commento di queste parole mediante cui, con un’ambiguità che ha invero dell’inquietante, si perviene in via di fatto - e per giunta proprio da parte dell’organo cui è dalla legge affidato il compito di garantire l’effettività della disciplina speciale sopra esaminata - non solo e non tanto all’ “azzeramento” di una specifica previsione legislativa (quella relativa alla competenza amministrativa in subjecta materia), quanto soprattutto al completo sovvertimento dell’intero “sistema” di diritto speciale faticosamente acquisito e consolidatosi ultimativamente con il motu proprio “Ecclesia Dei” istitutivo della Commissione medesima nonché con i provvedimenti a tale atto collegati.

È importante innanzitutto rimarcare - al fine di comprendere l’entità dell’ impatto di un’espressione apparentemente innocua e che per di più appare formulata “tra le righe” e quasi in sordina - come la ragione principale (in gergo giuridico, si direbbe la ratio) per cui si era inteso da parte della Santa Sede introdurre nell’ordinamento della Chiesa Universale il complesso normativo sopra commentato risiedeva essenzialmente nella rilevata e ormai condivisa necessità di porre una disciplina sufficientemente “certa” sia in ordine all’operatività attuale dell’ordinamento liturgico Piano nella presente fase della vita ecclesiale, sia in riferimento ai “diritti” dei soggetti a tale operatività a vario titolo “interessati”: ciò essenzialmente al fine di superare le fortissime resistenze manifestate proprio da parte della maggioranza degli ordinari diocesani, i quali - in ragione della tanto pregiudiziale quanto veemente avversione nei confronti delle istanze promananti dal mondo “tradizionalista” ? dovevano in realtà considerarsi i veri responsabili del fallimento pressoché totale del cosiddetto “indulto” del’‘84, interpretando restrittivamente i  termini della cui normativa si era praticamente pervenuti alla negazione di ogni e qualsivoglia riconoscimento alle pur “legittime” aspirazioni espresse dai fedeli legati alla liturgia preconciliare.

Tanto premesso, va notato come il Cardinale Presidente autore della missiva in commento, facendo esplicito riferimento alle condizioni “eccessivamente restrittive” - rectius, troppo restrittivamente interpretate - poste dalla “Quattuor abhinc annos”, fosse perfin troppo edotto di quale fosse lo stato reale della situazione, né poteva sfuggirgli che il profilo della competenza quale ex novo configurato dalle norme di più recente introduzione rappresentasse un “tassello” fondamentale nella logica complessiva della nuova disciplina: la quale - in una ben nota situazione di quasi completa “autoreferenzialità” delle Diocesi e di insofferenza delle stesse alle direttive romane quale attualmente si registra nella Chiesa postconciliare -  poteva invero avere delle concrete chances di effettività solo nel quadro di una gestione “centralizzata” degli effetti “amministrativi” della medesima, gestione nel cui ambito i fedeli tradizionalisti apparissero rispetto ai vescovi diocesani in qualche modo posti “sotto tutela” diretta da parte del Pontefice. 

In altre parole, senza tema di equivoco deve affermarsi che lo “stralcio” della questione tradizio-nalista rispetto agli affari ordinariamente commessi alla giurisdizione vescovile e la contestuale avocazione della trattazione degli stessi alla competenza di uno specifico dicastero “romano” posto sotto il diretto controllo del Pontefice, costituisse - unitamente alla palesemente manifestata volontà “estensiva” rispetto all’accoglimento delle istanze emergenti dal mondo tradizionalista - la vera e propria colonna portante di una disciplina legislativa il cui “funzionamento” era evidentemente subordinato appunto all’eliminazione di quei vistosi margini di “incertezza” che apparivano direttamente ricollegabili al “decentramento” amministrativo a livello diocesano della fase applicativa della normativa di riferimento. 

In tale contesto, va da sé come la “preferenza” manifestata dal Presidente a che, in caso di richiesta in tal senso,  i  permessi  vengano concessi dai singoli ordinari diocesani - mediante quella che potrebbe definirsi una sorta di “autodegradazione” della Commissione competente da organo di amministrazione attiva a mera istanza consultiva a disposizione dei vescovi diocesani - non solo “ridimensiona” appunto a livello diocesano  (in assoluto contrasto con la volontà del legislatore) una problematica individuata espressamente dallo stesso come afferente la Chiesa Universale, ma soprattutto riporta indietro di sei anni le lancette dell’orologio, riattribuendo ai vescovi  praticamente in via esclusiva quella potestà esecutiva (rispetto a quanto previsto con legge in via generale ed astratta) che il Pontefice espressamente aveva commesso alla competenza “specialistica” dell’organismo curiale de quo. 

Si noti inoltre, a scanso di equivoci, come il descritto “azzeramento” della complessa evoluzione normativa registratasi in materia - ottenuto obliterando una volontà legislativa chiaramente manifestata mediante la disapplicazione di una norma positiva alla cui efficacia viene sciente-mente messa la “sordina” in via di prassi - risulti effettuato non già in modo “espresso” (non sussistendo nella specie margini interpretativi praeter legem a fronte della chiarezza del disposto legislativo contenuto nel rescritto sopra citato), bensì attraverso l’esternazione da parte della Pontificia Commissione - peraltro avvenuta in un atto del tutto privo di effetti in quanto inconfigurabile quale fonte di diritto -  di una volontà “programmatica” in cui, senza che esplicitamente ci si spogli (magari con delega espressa) (42)  dei poteri di propria spettanza, si manifesta in modo indefinito una generica intenzione (peraltro non priva di una sfumatura di “eventualità”, manifestata dall’enigmatico uso del modo condizionale) di “cogestire” la questione relativa all’uso dei libri liturgici del ‘62 unitamente ai singoli vescovi delle diocesi dove eventualmente ne fosse emersa l’esigenza di celebrazioni secondo il Messale preconciliare: il tutto al dichiarato fine di rinsaldare un mai discusso legame “comunio-nale” (evidentemente implicito nella stessa presentazione della domanda alla legittima autorità nonché in totale ossequio a quanto previsto dalla legge canonica) tra i soggetti richiedenti e i rispettivi legittimi pastori.

Ora, se per un verso non v’è dubbio sul fatto che la Pontificia Commissione Ecclesia Dei disponga senz’altro di un (peraltro mai esercitato) potere di tipo regolamentare in ordine alla determinazione delle modalità concrete dell’esercizio delle proprie “speciali” facoltà, resta in ogni caso che la stessa è tenuta ad attivarlo attraverso la formalizzazione di “regole” precise e comunque in modo tale da non frustrare una volontà legislativa chiarissimamente espressa in una fonte di rango sovraordinato, di talché non si comprende quale senso debba attribuirsi dell’operazione (giuridicamente di assai dubbia qualificabilità) condotta dal Presidente del consesso. 

La realtà di fatto comunque prodotta da tale orientamento, non risultando dalla Commissione Pontificia in alcun modo delineate fattispecie specifiche che tipizzino le ipotesi di “giustificato motivo” di diniego del placet vescovile, è tuttavia chiarissima: l’effetto pratico ottenuto dalla determinazione in questione, da principio adottata nei fatti e solo in seguito formalizzata nella lettera in commento, consiste né più né meno che nell’attribuzione a ogni vescovo diocesano - attraverso l’adozione di una  prassi interpretativa contra legem da parte dell’organismo specificamente competente - di un vero e proprio “diritto di veto” del tutto incondizionato rispetto a ogni eventuale richiesta di utilizzo dei libri liturgici preconciliari.

In conclusione, se non vi è dubbio alcuno circa il fatto che dietro tale singolare “posizione” della Commissione relativamente all’esercizio concreto dei propri poteri vi sia in realtà una soggiacenza pressoché totale alle pressioni di un episcopato progressista ormai insofferente a qualsivoglia forma di esercizio dell’autorità (e tanto più quella che si manifesta attraverso la posizione di norme di carattere giuridico), è altrettanto vero come nella Chiesa postconciliare, la cui crisi complessiva non può evidentemente non atteggiarsi anche come crisi del “suo” diritto, sia ormai anche possibile assistere a un triste spettacolo di “sconfitta” della legalità quale quello descritto, in cui una incontrovertibile volontà legislativa viene di fatto svuotata di ogni incidenza effettiva e dunque in definitiva in toto “annichilita”, senza scandalo e nella più completa acquiescenza degli organi istituzionalmente preposti in via amministrativa alla sua salvaguardia. 
 

LA FASE ATTUALE: ESIGENZE DI “CERTEZZA DEL DIRITTO” E NECESSITÀ IMMEDIATA DI RIPRISTINO DELLA LEGALITÀ CANONICA

A fronte di una situazione che potrebbe definirsi  di macroscopica “disapplicazione” di una legge canonica che permane tuttavia vigente - disapplicazione che risulta per di più perpetrata dagli organi legittimamente investiti della potestà esecutiva rispetto a quanto da essa previsto - è legittimo a questo punto chiedersi di quali strumenti di tutela disponga il cattolico cosiddetto tradizionalista al fine di salvaguardare, ad ogni possibile livello, l’integrità delle situazioni di vantaggio che il legislatore canonico in astratto ha inteso attribuirgli e delle quali egli a tutti gli effetti rimane titolare, almeno sino a che non intervengano in merito puntuali modificazioni legislative. 

In via generale, vi è da sottolineare come, permanendo uno stato di notevole incertezza tanto sul piano interpretativo che applicativo in ordine all’efficacia della complessa produzione normativa stratificatasi in subjecta materia, non possa non ritenersi concretamente ipotizzabile nella presente circostanza la sollecitazione di un intervento da parte dell’ organismo della Curia Romana specificamente deputato allo svolgimento dell’attività interpretativa “in forma autentica” con riferimento a quei testi legislativi sul cui tenore si sia in qualsiasi modo venuta a creare una “consolidata” situazione di dubbio. 

In tal senso, appare dunque in primo luogo senz’altro prospettabile la proposizione di un dubium  al Pontificio Consiglio per l’ Interpretazione dei Testi Legislativi, nella speranza che da tale organismo possa provenire un pronunciamento - autorevole e chiarificatore - sui principali temi sollevati nell’ ambito della presente analisi, primo fra i quali in ordine di importanza si pone quello relativo alla esatta determinazione del contenuto precettivo delle disposizioni normative contenute nel motu proprio “Ecclesia Dei” e nei provvedimenti ad esso collegati. 

Alla necessità in certo senso preliminare ? in quanto attinente il profilo della cosiddetta “certezza del diritto” - di ottenere una risposta ai troppi dubbi tuttora esistenti relativamente a quale debba ritenersi l’ “effettiva” disciplina vigente nella materia in esame, si aggiunge poi un’esigenza altrettanto primaria che potremmo definire di “ripristino immediato” della legalità canonica violata: la quale impone altresì alle parti interessate di esplorare - in caso di immotivato diniego ovvero di “silenzio amministrativo” registratosi da parte dell’autorità vescovile su specifica domanda tesa ad ottenere celebrazioni regolari della Santa Messa secondo il Rito “tridentino” (ovvero più generalmente l’amministrazione dei Sacramenti secondo i libri del ’62 mediante la costituzione di apposita parrocchia “personale”) - se sussistano concrete possibilità di attivazione dei meccanismi di tutela che l’ordinamento predispone a vantaggio dei chrisitifideles laddove siano ravvisabili violazioni di legge perpetrate dall’autorità canonica  nell’esercizio della funzione amministrativa. 

A tale proposito, è opportuno richiamare quanto sopra accennato con riferimento alla eccentrica “posizione” assunta dalla Commissione Pontificia in merito alle modalità di esercizio delle proprie speciali facoltà, sottolineando in particolare come, non riscontrandosi nella specie da parte del menzionato organismo curiale alcuna “delega” in senso formale dei poteri di propria spettanza ai singoli ordinari diocesani, la Commissione medesima - pronunciatasi espressamente nel senso di una mera “preferenza” all’attivazione degli stessi “in accordo” coi vescovi -  rimanga in materia non solo l’autorità amministrativa sovraor-dinata (il che avverrebbe anche nel caso di delega stricto sensu), ma nella specie ancora titolare in senso pieno della speciale potestà conferitale con legge direttamente dal Pontefice. 

In tal senso, una prima forma di “reazione” esperibile in caso di diniego espresso dell’Ordinario Diocesano ovvero di “silenzio” da parte del medesimo sull’istanza presentata da uno o più fedeli e rivolta ad ottenere quanto a questi ultimi dalla legge “concesso” in via generale ? naturalmente  sul presupposto che l’istanza  sia stata indirizzata anche alla Commissione Pontificia ? è quella che potremmo definire “interna” ovvero “amministrativa” (43): ciò in quanto la “non consumazione” del potere sull’istanza medesima da parte della Commissione - ravvisabile nell’ ipotesi in cui la risposta negativa risulti formalizzata dal solo Ordinario Diocesano - porrebbe il richiedente in condizione successivamente all’atto di diniego di provocare un ulteriore coinvolgimento dell’organismo curiale romano sulla medesima questione, nello specifico ottenibile mediante la presentazione di una sorta di “ricorso amministrativo” in via gerarchica, in cui si sottoponga all’attenzione dello stesso un’eventuale violazione di legge operata dal vescovo denegante - violazione che potrebbe ravvisarsi tanto nell’ipotesi in cui l’istanza sia stata del tutto “ignorata” (“silenzio-rigetto”) quanto nell’eventualità in cui si riscontri una carenza ovvero un’incongruenza grave sul piano motivazionale dell’eventuale provvedimento negativo (secondo un profilo di cosiddetto “eccesso di potere”, come usualmente suole definirsi tale fattispecie astratta dalla giuspubblicistica laica). 

Ove tale “rimedio” non sortisse effetto alcuno, residuerebbe ultima-tivamente la possibilità di eccitare sull’eventuale provvedimento di diniego divenuto ormai “definitivo” (in quanto suggellato da un sempre possibile ulteriore atto negativo da parte della Pontificia Commissione) il controllo giurisdizionale “esterno” (44), ottenibile attraverso la sottoposi-zione dell’atto negativo allo scrutinio della “Sectio Altera” del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica (45),  la quale costituisce l’unica istanza giurisdizionale  amministrativa presente nell’ordinamento canonico.
 

CONCLUSIONI: LA CRISI DEL DIRITTO CANONICO NELLA CRISI DELLA CHIESA
All’esito dell’analisi che ci si è sforzati sin qui di condurre, appare in qualche modo doveroso formulare alcune considerazioni che, travalicando lo specifico ambito giuridico-normativo che ha costituito l’oggetto centrale di questa riflessione, ci consentano di azzardare una “lettura” degli stessi nel contesto complessivo della situazione attuale della Chiesa, ciò al fine di pervenire a una qualche comprensione del  “significato” più generale che si cela dietro quella che all’apparenza potrebbe presentarsi come un’intricata (e forse anche descrittivamente arida) vicenda di carattere legislativo-amministrativo.

Si tratta cioè di capire in che modo - in quella che un tempo non senza una punta d’astio i “nemici” del Papato definivano come “la Chiesa dell’ Autorità” - si sia potuti pervenire non tanto e non solo a quella che evidentemente si prospetta come una vera e propria “rottura” della legalità canonica, ma addirittura a una  “cristallizazione” di tale rottura, mercé l’affermazione di una “prassi” contra legem tollerata ad ogni livello, rispetto alla quale l’ordinamento (rectius, l’ Autorità) non ha mostrato alcuna concreta capacità “reattiva”, in particolare quanto all’ attivazione di quei meccanismi “ordinamentali” di tipo sanzionatorio che pure in astratto sarebbero in grado di ripristinare (o quanto meno di fare chiarezza su) quella che manifestamente si percepisce come una grave violazione dell’ordine giuridico positivo relativamente a una questione - il culto divino e le “forme” legittime del suo esercizio nella Chiesa di rito latino - di non secondaria importanza per i suoi riflessi sulla vita dell’istituzione ecclesiastica complessivamente considerata (sul punto, si pensi solo al fondamentale rapporto che la dottrina cattolica stabilisce tra forma della preghiera e norma della fede). 

A ben vedere la particolare situazione qui rappresentata descrive esemplificativamente un fenomeno patologico di carattere generale assai ricorrente nel concreto svolgersi delle vicende della Chiesa attuale, nella quale sovente si assiste ? non solo in ambito liturgico, ma con riferimento al complesso delle funzioni di governo e magisteriali entro cui si articola la pienezza del munus pastorale ? all’ obliterazione in via di fatto di regole che pure “sussistono” sul piano ordinamentale, obliterazione cui si perviene attraverso una violazione di carattere sistematico tollerata ad oltranza da parte della legittima autorità: le norme, in altre parole, esistono, ma non sono rispettate dai loro diretti destinatari né tantomeno vengono fatte rispettare dagli organi istituzionalmente preposti a vigilare sulla loro applicazione.

Come ciò possa verificarsi è questione troppo lunga e complessa da affrontare in questa sede: tutto quello che qui può dirsi è che attualmente è presente in ambienti ecclesiali non qualitativamente né quanti-tativamente marginali una forte tendenza antigiuridica che, smessa la virulenza polemica che ebbe a caratterizzare la stagione dell’immediato postcon-cilio, tende oggi a manifestarsi in modo più subdolo e insidioso come “indifferenza” nei confronti del diritto della Chiesa, le cui disposizioni non vengono più da molti percepite - talora per disprezzo, più spesso per crassa ignoranza - nella loro autentica natura di “norme giuridiche”, cioè di regole disciplinanti in forma cogente situazioni e rapporti in vista del raggiungimento del fine supremo (la salus animarum) cui l’ordinamento tende.

La crisi giuridica della Chiesa postconciliare, alla radice della quale vi è probabilmente l’affermarsi sempre più diffuso di concezioni ecclesiologiche non ortodosse quando non apertamente etero-dosse, sta dunque in questa sorta di generalizzato stato di “anomia” e si presenta oggi eminentemente come crisi della precettività nei rapporti intraecclesiali della norma canonica, la cui obbligatorietà talvolta anche da parte di sacri ministri non è più “compresa” né appare più “comprensibile”, minata com’è dall’indi-scriminata affermazione quale supremo principio regolatore della vita ecclesiale di un malinteso e indefinito “spirito pastorale”, il cui senso ? nella pratica assenza di un’autentica “funzione direttiva” che ne definisca in modo puntuale ambito e contenuti - ciascuno pretende intendere a proprio uso e consumo, così sortendo l’effetto di attenuare o addirittura ignorare il contenuto di ogni specifica previsione normativa e al contempo di paralizzare l’azione della Legittima Autorità la quale, perché possa considerarsi conforme a tale presunto “spirito”, si sente quasi “obbligata” a smettere ogni forma di esercizio delle prerogative che le spettano per legge (46). 

Il risultato ultimo è lo stato generale di marasma che tutti conosciamo e in cui da ormai troppo tempo versa la Chiesa Cattolica, aggredita al suo interno da un male oscuro che la consuma in modo lento e inesorabile e che pare trovarla nel presente frangente completamente indifesa, apparendo essa quasi del tutto priva di quei necessari “anticorpi” - il Diritto e l’ Autorità - attraverso cui storicamente si è sempre organizzata la “reazione” agli attacchi più gravi ? molti dei quali sono spesso stati mossi dall’ “interno” della compagine ecclesiale ? con cui più e più volte si è messo apertamente in discussione il diritto della Chiesa a sussistere, vuoi in quanto tale vuoi nella forma in concreto storicamente da essa assunta per effetto della normatività del principio di tradizione. 

In altri contributi in precedenza comparsi su queste pagine si è fatto riferimento a uno stato di “paneresia latente”, da taluni autorevoli teologi cattolici denominata “semimodernismo” ovvero “neomodernismo” (47), la cui devastante diffusione, partita all’indomani della conclusione del Concilio Vaticano II, appare ormai di tale capillare diffusione da far temere per la sussistenza stessa dell’organismo ecclesiale, l’integrità complessiva del quale è messa a repentaglio da un attacco “interno” tanto subdolo quanto violento e pervicace all’“identità profonda” della Chiesa.

Tale situazione appare, tra l’altro, come l’effetto di un’incapacità di fondo presente in molti settori della compagine ecclesiale di comprendere la natura affatto peculiare di questo particolarissimo “gruppo umano organizzato” affacciatosi duemila anni or sono nella storia umana: ciò che a molti oggi pare difficile comprendere è infatti l’essenza stessa della Chiesa come istituzione divinoumana sacramentalmente “partecipe” alla Persona di Cristo Capo di cui prolunga nella storia la missione salvifica: caratteristica questa che vale per un verso a profondamente radicarla nelle vicende umane (e pertanto a costituirla come societas hominum bisognosa di regole che ne disciplinino la vita sociale) e nel contempo a proiettarla teleologicamente “al di là” delle vicende umane in quanto portatrice di una finalità metastorica (48).  È probabilmente per questo che, sotto un profilo fenomenologico, lo stato di crisi attualmente in atto tende ad assumere il carattere di un “dissolvimento” progressivo della Chiesa quale abbiamo imparato a conoscerla attraverso la sua storia bimillenaria.

Ciò che allora sta di fatto avvenendo,  nell’inerzia “pratica” dei vertici istituzionali che paiono allo stato in grado solo di “porre” norme e prescrizioni che poi non riescono a far rispettare, è una sorta di progressiva “mutazione genetica” dell’istituzione stessa condotta all’insegna di un malinteso e proteiforme “spirito conciliare”, del quale il sopra menzionato “spirito pastorale” - così spesso brandito come arma per annichilire il diritto della Chiesa - non è che uno dei tanti volti: una mutazione che, nel porsi come preludio alla estinzione della Chiesa stessa come soggetto storico, opera nel mantenimento “esteriore” delle forme “tradizionali” un completo stravolgimento del modus essendi (e quindi operandi) dell’istituzione ecclesiale, ottenuto in particolare attraverso una ridefinizione in senso “ereticale” del contenuto di quel triplice munus - docendi, regendi, sanctificandi ? in cui per divino mandato si sostanzia l’azione della Chiesa nell’orizzonte storico. 

In quella che oggi a tutti gli effetti pare dunque sempre più profilarsi come una “nuova” chiesa - nulla avente a che fare con la Chiesa di Cristo, che pure permane “intatta” in taluni “spezzoni” della Chiesa postconciliare - tutto dunque “si tiene”, ma in un senso che deve di necessità intendersi come “nuovo”: permane la liturgia, la cui natura “cultica” viene offuscata mediante un accorto rimodellamento delle forme che la dimensioni in senso antropocentrico, “rovesciandone” l’orientamento; permane la catechesi, in cui il balbettìo verboso e prolisso di espressioni confuse e stentate (nelle quali spesso è persino difficile cogliere in che cosa consista la “specificità” della welthanschaung cristiana) ha sostituito il nitore e la compattezza delle formule attraverso cui per secoli si è “distillato” il contenuto della Santa Fede Cattolica; permane da ultimo il diritto, sempre più “ignorato” e vissuto per lo più come inutile impaccio e complicazione, quando non come mero retaggio di concezioni ecclesiologiche ritenute da tanti presunti teologi “a la page” ormai definitivamente superate, frutto di elaborazioni concettuali di una Chiesa ormai “passata”, corrotta e compromessa col potere mondano, fastidiosa “pietra d’inciampo” per un ecumenismo facilone disposto a qualsiasi compromesso. 

Lo stato di diffusa patologia testé descritto, che per quanto detto si sostanzia in una massiccia diffusione di idee eterodosse in materia dogmatica, morale, liturgica e disciplinare ormai purtroppo riscontrabile anche ai livelli più alti della Gerarchia e che non può non ritenersi essere stata propiziata da una errata (ma mai davvero osteggiata) interpretazione delle disposizioni del XXI Concilio - a partire dal quale sono state “liberate” tutte quelle “tossine” che fino alla celebrazione dell’assise conciliare erano state “tenute a bada” dalla lucida riflessione del magistero pontificio ordinario ? tale stato patologico, dicevamo, è peraltro ai nostri giorni reso di eccezionale gravità per effetto di un fenomeno patologico di altrettanta gravità, che si potrebbe forse definire come di “smarrimento della funzione direttiva” da parte degli organi preposti al governo della Chiesa Universale: i quali, messa oramai in soffitta l’insuperata concezione della societas iuridice perfecta elaborata dalla canonistica classica, appaiono sempre più disposti ? in una Ecclesia che si vuole dai più senza autorità e senza diritto - a considerare l’organismo ecclesiale come una sorta di “mixtum compositum” in cui tutto allegramente convive e il cui unico governo concepibile è quello “desistente” della tolleranza e della mediazione ad oltranza.

Se ciò è vero, non può affatto stupire che nella Chiesa del laissez faire l’atteggiamento maggiormente invalso fra molti presuli nei confronti del Diritto Canonico sia quello della disaffezione e dell’indifferenza, la quale anche nelle vicende in questa sede esaminate si manifesta sia tout court come ignoranza della legge ecclesiastica, sia più sottilmente proprio come attenuazione del senso di precettività della norma giuridica canonica, del suo carattere di obbligatorietà, della sua funzione di “strumento” volto ad assicurare la “tenuta” della compagine ecclesiale attraverso il faticoso perseguimento di un ordine di giustizia nella carità (49): strumento assolutamente necessario (50)  affinché la Chiesa possa storicamente continuare a sussistere quale “corpo sociale” e dunque a svolgere il compito - dare gloria a Dio e condurre le anime alla salvezza eterna - che il suo Divino Fondatore le ha affidato “finché Egli venga”.

Sul piano giuridico oggi si assiste paradossalmente nell’ordinamento ecclesiale alla positivizzazione (e alla conseguente protezione) di una serie di diritti personali ? il caso dei tradizionalisti appare in proposito davvero emblematico - cioè di situazioni soggettive che in effetti non fanno altro che “formalizzare” il fondamentale diritto di ogni fedele a ricevere abbondantemente dai sacri Pastori i beni spirituali della Chiesa: positivizzazione mediante cui programmaticamente si intenderebbe oggi perseguire una modificazione nel “funzionamento” delle strutture ecclesiali che consenta in concreto a ciascun fedele di rispondere alla propria vocazione soprannaturale e di partecipare pienamente alla missione della Chiesa.

Nessuno può mettere in dubbio che si tratti di belle e lodevoli intenzioni, delle quali è giusto e doveroso essere grati al legislatore, al quale negli ultimi tempi va riconosciuta una certa “volontà correttiva” rispetto alle vistose disfunzioni che da ormai troppo tempo si registrano praticamente in ogni campo della vita ecclesiale: resta tuttavia vero che ogni sforzo in tal senso è destinato a rimanere vano fino a quando, nell’ ignavia colpevole dell’ Autorità Legittima, la norma canonica continuerà ad essere percepita ? per di più proprio da coloro che sono chiamati a darle concretezza ed effettività - come mero “flatus vocis” rispetto al quale non si avverte né alcuna concreta forma di astrizione nell’esercizio della propria potestà né tanto meno alcun “obbligo” di carattere sanzionatorio rispetto a comportamenti che si palesano come evidentemente antigiuridici.

Soprattutto nulla potrà mutare nell’attuale stato di generale marasma in cui oggi versa il Cattolicesimo finché, a fronte di troppi fatti che appaiono come veri e propri abusi (di potere e non), sarà dato riscontrare, proprio da parte di chi nella conduzione degli affari della Chiesa è preposto a vigilare sull’applicazione del principio di legalità (il quale, assicurando un “ordine di giustizia”, è anche garanzia di autentico ristabilimento della comunione ecclesiale), non già atti concreti finalizzati appunto a reistaurare un “giusto ordine” nei comportamenti e nei rapporti, quanto piuttosto atteggiamenti di tipo rinunciatario quando non addirittura di vera e propria indolenza nell’esercizio di quell’autorità che Dio ha conferito ai Ministri della Sua Chiesa per edificare, non già per distruggere o lasciare irresponsabilmente che altri distruggano (51). 

Niketas
NOTE
1 -  S. S. Giovanni Paolo  II,   Motu   Proprio  “Ecclesia  Dei”,  2  luglio  1988,  n.  3,  lett   c),  2 - S . S.  Paolo  VI,  Costituzione  Apostolica  “Missale  Romanum”,  3  aprile  1969,  in  http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/apost_constitutions/documents/hf_p-vi_apc_19690403_missale-romanum_it.html 3 - Pontificia Commissione Ecclesia Dei,  Decreto di erezione della Fraternità Sacerdotale San Pietro,  18 ottobre 1988,  in  4 - Congregazione per i Vescovi, Decreto di Erezione dell’Amministrazione Apostolica Personale “San Giovanni Maria Vianney”, 18 gennaio 2002, in http://www.unavox.it/CamposDocumenti2.htm#Decreto di erezione 5 - Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, Lettera Circolare “Quattuor abhinc annos”, 3 ottobre 1984, in http://www.unavox.it/doc03.htm           (torna al testo)
6 - Card. Dario Castrillon Hoyos, Prefetto della Congregazione del Clero e Presidente della Pontificia Commissione “Ecclesia Dei”, omelia pronunciata in occasione della Santa Messa celebrata secondo il Rito Romano Tradizionale in S. Maria Maggiore il 24 maggio 2003. Il testo è visionabile per intero in  http://www.unavox.it/Roma24-5/Omelia.htm        (torna al testo)
7 - S.S. Giovanni Paolo II, Motu Proprio “Ecclesia Dei”, 2 luglio 1988, cit.     (torna al testo)
8 - Il problema,  in effetti, non è se non quello relativo alla possibile individuazione di strumenti a tutela della integrità delle posizioni giuridiche - in via amministrativa ovvero propriamente giudiziale ? ascrivibili in capo a quei soggetti dell’ordinamento individuabili come a vario titolo interessati alla fruizione del particolare  “bene giuridico”  rappresentato dal Santo Sacrificio della Messa celebrato secondo il Rito “tridentino” ovvero, più in generale, dai Sacramenti amministrati secondo le formula codificate nei libri liturgici preconciliari.      (torna al testo)
9 - Per tutti, v. NERI CAPPONI, Alcune considerazioni giuridiche in materia di riforma liturgica, in “Archivio Giuridico”, Modena, 1976         (torna al testo)
10 - S. Pio V, Costituzione Apostolica “Quo Primum Tempore”, 19 luglio 1570, in http://www.unavox.it/doc15.htm. 11 - Per un approfondimento in materia di fonti del diritto canonico, v. BERLINGÒ S., “Diritto Canonico (fonti)”, in Digesto delle Discipline Privatistiche (voce), Torino, 1990, pp. 110 ss.  Per un approccio manualistico all’argomento, v. BOLOGNINI F., “Elementi di Diritto Canonico”, Torino, 1993. pp. 105 ss.      (torna al testo)
12 - Can. 28 c.j.c. vigente.       (torna al testo)
13 - Cfr. cann. 20-21 c.j.c. vigente.       (torna al testo)
14 - Sul punto, cfr. NERI CAPPONI, Alcune considerazioni giuridiche in materia di riforma liturgica, cit.   (torna al testo)
15 - Ci si riferisce specificamente alle “puntualizzazioni” introdotte in sede modificativa nell’“Institutio Generalis” premessa al Messale Paolino, resesi necessarie successivamente alla pubblicazione del “Breve esame critico al Novus Ordo Missae” presentato a Paolo VI dagli Em.mi Card.li Bacci e Ottaviani (http://www.unavox.it/doc14.htm), documento in cui si muovevano articolati rilievi di natura dottrinale con riferimento all’impianto del nuovo rito della Messa.     (torna al testo)
16 - Doc. cit.,     (torna al testo)
17 - Legittimo interesse il cui soddisfacimento risultava peraltro de facto fortemente frustrato dalla situazione contingente creatasi a seguito dell’entrata in vigore “a regime” della riforma liturgica paolina.      (torna al testo)
18 - È infatti evidente come una tale conclusione determini ipso facto l’incorrere in una serie di problemi di gravissimo momento, primo tra tutti quello della messa in discussione dell’intero corpus normativo relativo alla riforma liturgica, il che poi non potrebbe non condurre la riflessione - che a questo punto si porrebbe su un piano prettamente teologico e comunque metagiuridico - sul delicato tema della legittimazione dell’Autorità con riferimento all’efficacia cogente delle norme di diritto divino, in particolare quanto ai riflessi di queste ultime sull’effettiva latitudine della plenitudo potestatis del Pontefice Romano.  19 - Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione Conciliare “Sacrosanctum Concilium”,     http://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_const_19631204_sacrosanctum-concilium_it.html 20 - Sacra Congregazione dei Riti, Istruzione “Constituzione Apostolica”, 20 ottobre 1969, in A.A.S., 1969, 749 ss.  21 - Per un’approfondita disamina sul punto, v. NERI CAPPONI, op. cit.      (torna al testo)
22 - S. S. Paolo VI, Costituzione Apostolica “Missale Romanum”, cit.      (torna al testo)
23 - Per un approfondimento in materia di legislazione pontificia, v. D’ AVACK P.A., “Atti legislativi pontifici”, in Enc. del Dir. (voce), Giuffrè, 1958, pp. 37 ss.      (torna al testo)
24 - Sul punto potrebbe non ritenersi casuale la circostanza che i provvedimenti concessori rivestano sempre la forma del decreto, forma ”di confine” tra il provvedimento a contenuto normativo e l’atto a contenuto individuale e concreto, e non già del rescritto, atto tipicamente impiegato per l’adozione di provvedimenti “stricto sensu” amministrativi.  Il criterio di discrimine cui si fa qui riferimento è quello tipicamente utilizzato dalla giuspubblicistica laica per distinguere gli atti di natura normativa da quelli a contenuto individuale e concreto. Sul punto, v. R. GALLI, Corso di Diritto Amministrativo, Padova, 1996, pag. 27. In diritto canonico, v. quanto argomentato da BERLINGÒ S., “Diritto Canonico (fonti)”, op. cit., pag 113.  Sul decreto, v. MAZZACANE E., “Decreto (Dir. Can).”, in Enc. del Dir., Giuffrè, (voce), 1962, pagg. 829-830.  Più in generale, cfr. BOLOGNINI F. “Elementi di Diritto Canonico”, Torino, 1993, pp. 112-116.       (torna al testo)
25 - Sull’indifferenza del nomen juris ai fini della qualificazione della effettiva natura di un atto v., per tutti, SANDULLI A.M., Manuale di Diritto Amministrativo, Napoli, 1982, pp. 536 ss.; in diritto canonico ha affrontato la questione ZUROWSKI, “Gli atti amministrativi nel diritto della Chiesa”, in “La norma en el derecho canonico”, I, Pamplona, 1979, p. 901.  26 - Si rifletta tuttavia sulla circostanza dell’espresso riferimento, contenuto  nel pream-bolo dell’ atto in esame, al “problema” costituito da quei “sacerdoti e fedeli rimasti  legati al rito tridentino”: pare invero difficile, senza che si incorra in una contraddizione insanabile, formulare un’ affermazione di tale tenore e, nel contempo, asserire che dalla Missale Romanum sarebbe stata operata una obrogazione “completa” dell’ordinamento liturgico Piano.     (torna al testo)
27 - Si intende qui il termine “autorizzazione” - nel senso correntemente impiegato dalla giuspubblicistica laica - quale atto della Pubblica Autorità inteso a rimuovere in una fattispecie concreta una limitazione, imposta legislativamente a tutela di un interesse di natura pubblica, all’esercizio di una situazione giuridica soggettiva di vantaggio appartenente a un soggetto e tesa al conseguimento a vantaggio di quest’ultimo di un bene della vita.         (torna al testo)
28 - Non può infatti in nessun modo sottovalutarsi l’indubbia valenza “certificativa” insita nell’ impiego nel testo dell’espressione “rito tridentino”, peraltro suggellata più oltre dal perentorio invito ad evitare ogni “mescolanza” tra le forme codificate nel Messale Piano e quelle coniate dal Messale Paolino.       (torna al testo)
29 - Sono molti tuttavia i documenti “ufficiali” che vi fanno riferimento espresso, tra cui la nota Lettera prot. 500/90 della Pontificia Commissione “Ecclesia Dei”, che ne fa espressa menzione in sede di ricostruzione delle vicende giuridiche relative alla cosiddetta “questione liturgica”. Il testo della lettera è riportato in http://www.unavox.it/Documenti/doc0122.htm 30 - Le conclusioni sono state sinteticamente diffuse in una nota circolata in via ufficiosa, il cui contenuto essenziale è riassunto in http://www.unavox.it/doc08.htm           (torna al testo)
31 - Si consente peraltro per il caso di celebrazione “pubblica” secondo il Messale Piano - ma, si noti, sempre a livello di mera “facoltà” e giammai di “obbligo” - il possibile impiego della lingua volgare per le letture, l’utilizzabilità dei prefazi e delle preghiere del “proprio” secondo il Messale Paolino nonché, da ultimo, la possibilità di introduzione della cosiddetta “Preghiera Universale” da premettersi all’Offertorio.      (torna al testo)
32 - Sulle conclusioni cui ebbe modo di pervenire la Commissione Cardina-lizia “ad hoc ipsum instituta”, v. quanto precisato dal Card. A. M. STICKLER  in occasione di una conferenza (“L’attrattiva teologica della Messa Tridentina”) tenuta dall’eminente canonista negli USA il 20 maggio 1995. Nel corso del dibattito che seguì alla conferenza il Card. Stickler ebbe modo di fare delle precisazioni che furono raccolte su nastro e diffuse a cura della Oltyn Library Services, 2316 Delaware Ave, PMB 325, Buffalo, NY 14216. Nel febbraio del 1998 tali precisazioni furono sintetizzate da John Vennari in un articolo comparso sul Catholic Family News (Il testo di questo articolo è reperibile in http://www.unavox.it/Documenti/doc0115.htm). 33  -S. S. Giovanni Paolo II, Motu Proprio “Ecclesia Dei”, cit.; Congregazione per i Vescovi, Decreto “Dominus Marcellus Lefebvre”, 1° luglio 1988.      (torna al testo)
34 - Per un approfondimento relativamente al peculiare modo in cui deve assumersi in ambito canonistico il concetto tipico della giuspubblicistica laica di “situazione di vantaggio giuridicamente protetta”, cfr. le sempre luminose considerazioni di FEDELE P., “Diritto Canonico”, in Enc. del Dir. (voce), Giuffrè,  1964, pp. 871 ss. Per una più ampia disamina del pensiero dell’insuperato maestro della scuola “laica” italiana sul punto, v. “Lo spirito del diritto canonico”, Padova, 1962, cap. V-IX. Per un approccio più sintetico alla complessa problematica qui accennata v. BOLOGNINI  F., “Elementi di Diritto Canonico”, Torino, 1993, pag. 331-332.      (torna al testo)
35 - Sul punto cfr. D’AVACK  P.A., “Atti legislativi pontifici”, cit., pp. 38-40.       (torna al testo)
36 - Cfr. can. 76 c.j.c.  Per una esatta “nozione” di privilegio alla luce della più puntuale definizione di tale istituto formulata nel  nuovo codice di diritto canonico oltre che sul carattere “normativo” dei cosiddetti  privilegia generalia, v. PUNZI NICOLÒ, Privilegio, in “Enc.del Dir.” (voce), Giuffrè, pp. 775-776.  Sul punto v. anche GRAZIANI E., Legge (diritto canonico), in “Enc.del Dir.” (voce), Giuffrè, pag. 1104.      (torna al testo)
37 - Sul punto, cfr. quanto chiaramente affermato dal Card. Mayer, in qualità di Presidente della Pontificia Commissione “Ecclesia Dei”, nella lettera inviata a Mr. Glenn Tattersal, Presidente della “Ecclesia Dei Society” Australia. Il testo della missiva  richiamata è visionabile in  http://www.unavox.it/Documenti/doc0116.htm.             (torna al testo)
38 - Sul punto v. can 132 c.j.c.  Il testo del provvedimento in commento, rubricato “Attribuzione di facoltà e competenze alla Commissione ‘Ecclesia Dei’” e pubblicato in AAS, 82 (1990), pp. 533-534, è visionabile sia nella versione originale latina che nella traduzione italiana in http://www.unavox.it/Documenti/doc0114.htm. Per un primo commento in dottrina v. J. MINAMBRES, Attribuzione di facoltà e competenze alla Commissione “Ecclesia Dei”, in “Jus Ecclesiae” 3, 1991, pp. 431 ss.       (torna al testo)
39 - Cfr. D’AVACK P.A., “Atti legislativi pontifici”, cit., pp. 39-40      (torna al testo)
40 - L’originale latino testualmente recita: “Quia peculiare munus Pontificiae Commissionis “Ecclesia Dei” commissum quosdam exigit actus, qui consuetum ordinem iuris transcendunt, eiusdem Pontificiae Commissionis Praeses humiliter a Summo Pontifice quasdam  petiit  facultates  exercendas,  auditis,  si  casus ferat,  Dicasteriorum Moderatoribus, quorum interest. Eae sunt: 1.Concedendi omnibus id petentibus usum Missalis Romani secundum editionem typicam vim habentem anno 1962, et quidem iuxta normas iam a commissione Cardinalitia “ad hoc iipsum instituta” mense Decembri anno 1986 propositas, praemonito Episcopo dioecesano” (…) Summus Pontifex, in audientia infrascripto Cardinali Pontificiae Commissionis “Ecclesia Dei” Praesidi, die 18 mensis Octobris 1988 concessa, facultates supra memoratas benigne cencedere dignatus est et mandavit ut cum iis quorum interest communicaretur.       (torna al testo)
41 - Il testo della missiva citata è visionabile interamente su http://www.unavox.it/Documenti/doc0122.htm     (torna al testo)
42 - Deve peraltro rilevarsi che, se la delega di poteri da parte delle Congregazioni Romane è in linea di principio sempre possibile, deve considerarsi fortemente dubbio che lo sia nel caso di specie, in cui essa parrebbe di fatto porsi in “contravvenzione” rispetto a una volontà del Supremo Legislatore espressamente orientata a garantire una “gestione” a livello centralizzato delle problematiche connesse alla perdurante vigenza della liturgia tradizionale. Circa i poteri degli organismi della Curia Romana, v. FEDELE P., “Congregazioni Romane”, in  Enc. del Dir. (voce), Giuffrè, 1962, pag. 1083 ss.    (torna al testo)
43 - Cann.1732-1739 c.j.c.  Sui ricorsi amministrativi, v. MONETA P., “Ricorsi amministrativi canonici” in Enc. del Dir. (voce) Giuffrè,  1989, pp. 704-705      (torna al testo)
44 - Can. 1445, § 2 c.j.c. Sul punto v. BOLOGNINI F., op. cit., pag. 331, nota (7)      (torna al testo)
45 - S. S. Paolo VI, Costituzione Apostolica “Regimini Ecclesiae Universae”, 15 agosto 1967, in AAS, 59 (1967) 885-928, relativo alla riorganizzazione della Curia Romana. Con tale provvedimento il Sovrano Pontefice istituì la Sectio Altera del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, specificamente competente per la trattazione in unica istanza del contenzioso amministrativo. Un nuovo definitivo assetto della Curia Romana, non modificativo con riferimento alle competenze del Supremo Tribunale, è stato successivamente definito dalla Cost. Ap. “Pastor Bonus” di S. S. Giovanni Paolo II del 28 giugno 1988, vigente dal 1° marzo 1989.      (torna al testo)
46 - Per un sintetico approfondimento dei concetti qui esposti,  si rinvia all’esposizione concisa e tuttavia assai esauriente con cui il Presidente del Pontificio Consiglio per l’Interpretazione dei Testi Legislativi Card. Julian Herranz, in una lectio magistralis tenutasi il 29 aprile 2002 in Milano presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’ Università Cattolica del Sacro Cuore, ha avuto modo di soffermarsi su quelle che egli ritiene le  principali ragioni della crisi del diritto canonico nell’ attuale fase della vita della Chiesa. Il testo della citata lectio magistralis è visionabile per intero in http://www2.unicatt.it/unicattolica/cattnews/allegati/herranz.pdf  47 - In tal senso, P. ROBERTO COGGI O.P., Corso per catechisti (dai microfoni di Radio Maria), vol. I, Il Mistero di Dio Uno e Trino, ESD, Bologna, pp.160-161.      (torna al testo)
48 - Sotto il profilo canonistico resta insuperato il contributo offerto sull’argomento dal D’AVACK, mirabilmente sintetizzato in “Chiesa Cattolica (Diritto Canonico)”, in  Enc. del Dir. (voce),  Giuffrè, 1960, pp. 926 ss.       (torna al testo)
49 - Il Dottore Angelico, con la consueta icasticità, insegna che “Finis juris canonici tendit in quietem Ecclesiae et salutem animarum” (S. Th., I°, IIae, q. 98, a.1).       (torna al testo)
50 - Merita in proposito riportarsi qui la lapidaria espressione di S. S. Paolo VI il quale, al culmine dell’esplosione all’interno della Chiesa delle più violente e radicali tendenze antigiuridiche, ebbe autorevolmente a sentenziare: “Vita Ecclesialis sine ordinatione juridica nequit exsistere”. Il testo completo dell’allocuzione contenente l’espressione testé citata, pronunciata il 27 maggio 1977 ai membri della Pontificia Commissione per la revisione del codice di Dititto Canonico, è visionabile in http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/speeches/1977/may/documents/hf_p-vi_spe_19770527_cod-diritto-canonico_lt.html 51 - Cfr. HERRANZ  J., “Autorità, libertà e legge nella Comunità Ecclesiale”, in “La Collegialità episcopale per il futuro della Chiesa”, Firenze, 1969, pp. 97-110.  Di estremo interesse  anche quanto affermato sul punto da LABANDEIRA E., “Tratado de Derecho Administrativo canònico”, Pamplona, 1988, pp. 263 ss.      (torna al testo)
 


(giugno 2005)


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