I novissimi:

l’anima umana e l’aldilà


parte ottava


L’inferno: pena del senso e del danno



di Don Curzio Nitoglia





Psiche: personificazione dell'anima


La pena del Danno

Il dogma dell’inferno mette in luce una verità che oggi è molto attuale e importante, perché è negata da tutta la filosofia moderna che parte da Kant e arriva ai giorni nostri (1).

Questa verità è l’assoluta e totale distinzione tra vero e falso, bene e male; di modo che mai il bene potrà diventare male e viceversa. Così, l’eternità delle pene dell’inferno è una conferma pratica che neppure tra un milione di anni il male diventerà bene, né il dannato diverrà un beato.

Per quanto riguarda la pena del danno (dal latino damnum, perdita, sofferenza di un’assenza), in teologia, essa significa la pena principale dovuta al peccato senza il pentimento perfetto, ossia l’amor di Dio. La pena del danno corrisponde alla colpa in quanto è allontanamento volontario da Dio; mentre la pena del senso corrisponde al peccato in quanto, è adesione disordinata alla creatura, facendo di essa il proprio fine ultimo (S. Th., I-II, q. 87, a. 4; Suppl., q. 97, a. 2; q. 98 per intero; q. 99, a. 1).

La pena del danno consiste nella privazione della visione beatifica e di tutti i beni che ne derivano: la gioia senza misura che deriva dal vedere Dio “faccia a faccia”.

Il magistero della chiesa lo insegna (Conc. di Firenze, DB, 693), fondandosi sulla S. Scrittura: “Allontanatevi da Me, maledetti andate nel fuoco eterno” (Mt., XXV, 41).

La ragione teologica, data qui brevemente e che vedremo in maniera estesa più oltre, è che l’uomo che muore nello stato di peccato mortale, non cancellato da un atto di dolore perfetto, si è definitivamente allontanato da Dio; ora, dopo la morte, l’anima separata dal corpo si è liberamente e definitivamente ostinata nel male, quindi, essa è separata per sempre da Dio.

Purtroppo, l’uomo su questa terra non riesce a capire appieno la gravità della pena del danno, mentre comprende molto meglio quella del senso. Infatti, l’anima umana unita al corpo non ha ancora preso coscienza piena che solo Dio può colmare la sua profondità (“anima est quodammodo omnia”, Aristotele). Inoltre, i beni sensibili e materiali possono irretirla e renderla schiava; infine, l’orgoglio cerca d’impedire che essa possa arrivare alla conoscenza non solo speculativa ma anche pratica che solo Dio è il suo fine; perciò, le cose sensibili ci spingono lontano da esso e fanno in modo che noi poniamo in esse il nostro fine ultimo.

Tuttavia, sùbito dopo la morte, quando l’anima è separata dal corpo, essa perde improvvisamente tutti i beni materiali che le impedivano di conoscere perfettamente la sua natura spirituale e il suo destino soprannaturale. In quel momento, essa conosce come l’angelo: puro spirito, incorruttibile, immortale, dotato di un’intelligenza ordinata alla verità e di una volontà diretta al bene e specialmente al vero sommo e al bene sovrano, ossia Dio; ma al tempo stesso capisce che ha perso Dio e che questo vuoto assoluto non sarà mai più riempito. Questa è la gravità della pena del danno.

Perciò, il dannato odia Dio, giusto giudice, ha per Lui un’avversione che deriva dal suo peccato mortale senza pentimento, che è diventato uno stato abituale. Ecco l’odio verso Dio che provano i dannati, che si trovano continuamente in atto di peccare.

Il dannato ha il rimorso ma non il pentimento, infatti, egli non è capace di cambiare il proprio rimorso in pentimento poiché detesta il suo peccato solo come causa delle sue sofferenze e s’incollerisce contro di esse lungi dall’accettarle in espiazione. Egli non vuol assolutamente vedere nella sua colpa l’offesa fatta a Dio. Di qui la tortura, ossia il tormento della coscienza. La loro intelligenza, finissima e non più intralciata dalle passioni corporali, capisce perfettamente il valore e la portata della sinderesi: “Il bene è il bene, il male è il male, il bene non è il male”. Sa per conoscenza naturale che Dio esiste, ma lo detesta in quanto giusto giudice. Ecco la contraddizione che lo porta alla disperazione e all’odio perpetuo (S. Th., I, q. 60, a. 5, ad 5um; II-II, q. 26, a. 3).

In quel momento i dannati capiscono che hanno perso tutto, per sempre e per loro colpa. Hanno, tuttavia, una sete naturale insopprimibile della felicità che, però, non potranno mai avere e vorrebbero cadere nel nulla per non soffrire più ma questa fine del loro dolore non verrà mai. È in questo senso che Gesù ha detto di Giuda: “Meglio era per lui che non fosse mai nato” (Mt., XXVI, 24). Questo è il perpetuo rimorso che non cessa di perseguitarli.

Questo rimorso è la conferma pratica che l’intelletto, persino nel dannato - diversamente da Hegel - non può cancellare in sé i primi princìpi dell’ordine speculativo (identità e non contraddizione) e pratico (sinderesi), insomma la distinzione tra il sì e il no, tra il bene e il male (S. Th., I-II, q. 85, a. 2, ad 3; S. contra Gentes, lib. IV, cap. 89).

L’Aquinate spiega che il dannato non può e non vuole cambiare il suo rimorso in pentimento. Infatti, egli deplora il suo peccato non come offesa di Dio, ma solo come causa delle sue sofferenze. Questa è la differenza, infinitamente distante, tra il rimorso e il pentimento: il rimorso tortura e dà l’angoscia, il pentimento libera e dà la pace. 

Nell’inferno non esiste l’amore. Santa Teresa d’Avila chiamava il demonio: “Colui, che non ama”. I diavoli e i dannati si odiano vicendevolmente e ognuno di essi, per invidia e gelosia, vorrebbe che tutti gli uomini fossero dannati come lui.


La pena del senso

La pena del senso è affermata esplicitamente nella S. Scrittura. “Temete Colui, che può perdere anima e corpo nella geenna” (Mt., X, 28).

San Tommaso d’Aquino spiega che essa punisce il peccato in quanto conversio ad creaturam, mentre la pena del danno lo punisce come aversio a Deo (S. Th., II-II, q. 87, a. 4). Ora, il corpo, che ha concorso - come strumento dell’anima - a commettere il peccato, deve partecipare alla pena di cui l’anima è afflitta, dopo la risurrezione finale. La pena del senso punisce particolarmente il corpo.

La Rivelazione ci dice che due sono le caratteristiche principali della pena del senso: una prigione eterna e un fuoco inestinguibile (Mt., XX, 13; V, 22).


Fuoco reale e non metaforico

La dottrina dei Padri e degli Scolastici (2) è che il fuoco dell’inferno è reale. Infatti, si ricorre al senso figurativo solo quando il contesto o altri passaggi analoghi e più espliciti escludono il significato reale e letterale.

Ora, il significato letterale appare inequivocabilmente chiaro in Matteo: “Andate lontano da Me nel fuoco eterno” (XXV, 41). Tutto il contesto domanda un’interpretazione realista, commenta padre Garrigou-Lagrange (L’altra vita e la profondità dell’anima, cit., p. 98), su cui mi baso sostanzialmente per la stesura di questi articoli, «Andate al fuoco reale, come i buoni andranno alla vita eterna; al fuoco preparato per Satana».

In molti altri passaggi della Scrittura si parla di fuoco in maniera chiaramente letterale. Per esempio, in Matteo (X, 28) si parla di supplizio non solo delle anime ma anche dei corpi nel fuoco. Addirittura San Pietro (II Epistola, II, 6) prevede come tipo dei castighi futuri il fuoco del cielo piombato su Sodoma e Gomorra. Perciò, l’interpretazione metaforica del fuoco dell’inferno, equiparato a un certo rimorso, va contro il senso ovvio dei passaggi scritturali.

I Padri ecclesiastici (S. Basilio, Crisostomo, Agostino, Gregorio Magno), contrariamente a Origene, parlano, quasi sempre, di fuoco reale, che paragonano al fuoco terrestre, anzi certe volte parlano chiaramente di fuoco corporale (cfr. ROUET DE JOURNEL, Enchiridion Patristicum, indice teologico, n. 592 ss.).

Il Dottore Angelico (Suppl., q. 97, a. 5-6) spiega che esso è un fuoco corporeo della stessa natura del fuoco terrestre, ma non ha bisogno di essere alimentato, è oscuro, senza fiamma, inoltre è eterno e brucia i corpi senza consumarli e distruggerli.  


Come agisce il fuoco dell’inferno?

Come il fuoco materiale può agire sopra un’anima separata dal corpo? La teologia risponde che il fuoco può far ciò come strumento della giustizia divina. Per fare un esempio, l’acqua del battesimo agisce sull’anima e produce un effetto spirituale: la grazia santificante.

Il fuoco infernale è allora lo strumento della giustizia divina e la materia dei sacramenti quello della misericordia. Insomma, il fuoco dell’inferno esercita una sorta di causalità strumentale fisica sull’anima dei dannati. Tuttavia, è molto difficile spiegare ulteriormente il suo modo d’agire.

San Tommaso d’Aquino (S. contra Gent., lib. IV, cap. 90; S. Th., Suppl. q. 70 a. 3) spiega che il fuoco riceve da Dio la capacità di tormentare gli spiriti dannati, impedendo loro di agire come e dove vogliono. Insomma, il fuoco sarebbe come una “legatura / alligatio” che impedisce loro di agire; come avviene a una persona paralizzata che, inoltre, è umiliata dalla soggezione all’incapacità di agire liberamente. 

La spiegazione tomistica è in perfetta armonia con i testi scritturali, che descrivono l’inferno come una prigione in cui i dannati sono trattenuti loro malgrado (Giuda, VI; II Petri, II, 4; Apoc., XX, 2). Infatti, secondo l’Angelico, il fuoco non agisce sullo spirito per alterarlo o bruciarlo ma, per impedirgli di agire come vorrebbe, a mo’ di una specie di “camicia di forza” spirituale. Tuttavia, come riconosce padre Reginaldo Garrigou-Lagrange (L’altra vita e la profondità dell’anima, cit., p. 99) «è ben difficile procedere più addentro nella spiegazione di questo misterioso modo d’agire».

Infine, questo fuoco brucia anche i corpi, dopo la risurrezione universale, ma non li consuma. Ora, com’è possibile ciò?  Secondo san Tommaso, il corpo dei dannati è incorruttibile, perché deve durare per sempre e, quindi, soffre in maniera speciale senza essere consumato. Per esempio, l’udito sente grida acutissime ininterrottamente, e così ognuno dei cinque sensi.


L’ineguaglianza delle pene infernali

La Santa Scrittura rivela questa diversità nella pena dell’inferno, a seconda, della gravità delle colpe. Nel Vangelo di san Matteo (XVI, 15) è rivelato che “vi sarà meno rigore nel giorno del giudizio per Sodoma e Gomorra che per questa città”. Inoltre, in san Luca (XII, 47) si legge che il cattivo servitore, che non ha lavorato pur avendo conosciuto la volontà del padrone, “riceverà un numero grande di colpi”, mentre il servo che non la conosceva, pur avendo mal servito “riceverà pochi colpi”.

Infatti, secondo giustizia, la pena deve essere proporzionata alla colpa. Ora, le colpe sono ineguali nella gravità e nel numero; quindi, le pene dell’inferno dovranno essere ineguali nel rigore (S. Th., Suppl., q. 69, a. 5).

Inoltre, «è necessario notare che è assai probabile che Dio non precipiti nell’inferno il peccatore per un solo peccato mortale isolato, soprattutto per un peccato di debolezza; ma che non vi condanni che i peccatori inveterati. Così Egli dona a tutti i soccorsi che li inclinano a convertirsi; perciò, l’inferno è il castigo del volere malvagio di chi si ostina nel peccato” (R. GARRIGOU-LAGRANGE, cit., p. 102).



NOTE

1 - «L’età moderna, iniziatasi con l’umanesimo, è una marcia verso la conquista dell’io, che il Medio Evo aveva mortificato in omaggio a Dio.
Per riconquistare quest’io, mortificato da Dio, l’uomo si mise a percorrere freneticamente le vie dell’emancipazione. Venne Lutero col Protestantesimo, e si ebbe l’emancipazione dell’io dall’autorità religiosa. Venne Cartesio e col suo famoso metodo filosofico segnò l’emancipazione dell’io dalla filosofia tradizionale, ossia dalla filosofia perenne che è l’unica vera; emancipazione filosofica poi agli ultimi termini da Kant, da Hegel, ecc… Venne Rousseau e con i suoi principi sociali rivoluzionari segnò l’emancipazione dell’io dall’autorità civile. Questa continua, progressiva emancipazione dell’io ha poi culminato nella divinizzazione dell'io medesimo e nella conseguente umanizzazione, o meglio, distruzione di Dio. Si è avuta così l’uccisione nicciana di Dio in omaggio all’io» (GABRIELE ROSCHINI, La Santa Messa. Breve esposizione dogmatica, II ed., Frigento, Casa Mariana Editrice, 2010, p. 11-13).
2 - SAN TOMMASO D’AQUINO, IV Sent., d. 44, q. 3, a. 3; S. contra Gentes, lib. IV, cap. 90; De anima, q. 2, a. 21; De veritate, q. 25, a. 1; S. Th., Suppl., q. 70, a. 3; q. 97, a. 5. 






 
settembre 2023
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