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La bottiglia e il vino Settima parte di Francesco Gisci Prima parte Seconda parte Terza parte Quarta parte Quinta parte Sesta parte Settima parte Precedentemente abbiamo
considerato il non facile significato e valore delle dieci categorie, o predicamenti, e dei
cinque predicabili tra cui
rientrano il genere e la specie, cercando di capire cosa
sono e a che cosa servono.
Quindi ci domandiamo, donde derivano? Porfirio (233-inizio IV sec. d.C.) insegnava che «l’uomo giunto a indicare e significare le cose circostanti, pervenne a nominarle con la voce e a indicare con questo mezzo ciascuna di esse. […]. Stabilite dunque per le cose, come contrassegno, talune parole, l’uomo passando ad una seconda impresa e riflettendo sulle parole stabilite, quelle che si uniscono agli articoli chiamò nomi, e quelle come “io passeggio”, “tu passeggi”, chiamò verbi» (1). Prim’ancora, Aristotele (383-322 a.C.) insegnava che «il nome è un suono della voce che è significativo per convenzione» (2): è significativo perché «il suono della voce diventa simbolo» (3), diversamente dai suoni delle bestie, e «per differenziarlo dai suoni della voce non significativi, qualunque possano essere, che vengono pronunciati per nulla» (4), ed è convenzionale «in quanto nessun nome è tale per natura» (5), diversamente «dai suoni della voce che sono significativi per natura, come i latrati dei cani che significano ira perché così ha stabilito la natura, e non in base ad una convenzione umana» (6). Più precisamente, «i suoni della voce sono simboli delle affezioni che hanno luogo nell’anima, e le lettere scritte sono simboli dei suoni della voce. Allo stesso modo poiché le lettere non sono le medesime per tutti, così neppure i suoni sono i medesimi; tuttavia, suoni e lettere risultano segni, anzitutto, delle affezioni dell’anima, che sono le medesime per tutti e costituiscono le immagini di oggetti già identici per tutti» (7). Cosa si intende per affezioni dell’anima e immagini di oggetti che sono uguali per tutti? Brevemente, il modo di sentire e percepire le cose da parte dell’uomo, non produce solo effetti fisici. Infatti, se mettiamo un sasso su una superficie calda, il sasso si scalda, così come si scalderebbe la nostra mano. Ma non per questo il sasso sente il calore. L’uomo non si limita a percepire le cose fisicamente, ma le conosce soprattutto spiritualmente. Per prima cosa, i nostri cinque organi sensoriali si attivano quando si presentano a loro le qualità (colore, dimensione, peso, suono, ecc.) delle cose esterne a noi, di loro competenza. Se ci troviamo in una stanza buia, oltre all’oscurità, i nostri occhi non ricevono nessuna impressione e non hanno nessuna reazione. Quando la stanza si illumina, l’occhio reagisce immediatamente alla luce e a tutte le cose che gli si presentano davanti e ne recepisce passivamente le qualità esteriori: il colore, la dimensione, la profondità, ecc. Se ci troviamo in un luogo silenzioso, il nostro orecchio è a riposo. Non appena si avvicina verso di noi un aereo, il suono che esso produce modifica gli organi del nostro orecchio per effetto del suono. Gli organi sensoriali sono quindi strumenti conoscitivi passivi che si attivano a seguito del cambiamento della realtà esterna a noi. In una stanza buia abbiamo la stessa vista di quando abbiamo gli occhi chiusi. Anche se ci sforziamo attivamente di vedere meglio, non potremo vedere. Ciò che vediamo non dipende principalmente dalla nostra volontà, ma dalla realtà esterna che si rende percepibile. Secondariamente, il nostro cervello elabora tutte le percezioni e le informazioni che ha ricevuto dai sensi, ricostruendo le immagini che riproducono le apparenze delle cose conosciute e che per mezzo della memoria vengono conservate nel nostro cervello. Infatti, un’ora, un giorno, un mese, ecc., dopo che abbiamo visto o ascoltato qualcosa, attraverso i due sensi interni dell’immaginazione e della memoria, possiamo ancora vedere o sentire psicologicamente quelle cose. Questa capacità di acquisire psicologicamente l’immagine di una cosa materiale, dimostra «già una certa minima immaterialità che, tuttavia, è sempre legata alla sensibilità (che non è pura materialità come quella del minerale o del vegetale). […]. Ѐ per queto che le piante, le quali hanno soltanto tre funzioni vitali (mangiare, crescere e riprodursi) non possono conoscere neppure sensibilmente. Esse non possono acquisire una cosa psicologicamente, ma solo fisicamente mangiandola, distruggendola e trasformandola in se stesse. Invece l’animale, che, oltre le tre funzioni vitali delle piante, ha anche la sensibilità, presenta un primo debole grado di conoscenza sensibile che è dipendente dagli organi materiali. Solo l’uomo ha un secondo grado di conoscenza, la razionalità che è immateriale e spirituale» (8), che deriva dalla sua anima, e che è capace, tra le altre cose, di elaborare il linguaggio simbolico. È pacifico, infatti, che «ogni linguaggio è un insieme di segni. Si parla così di linguaggio mimetico (che si esprime in segni che sono gesti), di linguaggio musicale (i cui segni sono suoni), di linguaggio figurativo (i cui segni sono immagini visive), ecc. e di linguaggio articolato (i cui segni sono parole). Ognuno di questi linguaggi può diventare oggetto di studio […]. Il linguaggio che noi studiamo è il linguaggio oggetto, o semplicemente linguaggio senza ulteriori specificazioni: il linguaggio con cui noi studiamo il linguaggio oggetto prende il nome di metalinguaggio. Il metalinguaggio è sempre un linguaggio articolato sia che abbia come oggetto il linguaggio mimetico o musicale o figurativo o articolato. Noi usiamo i gesti usando le parole, i suoni usando le parole, le immagini visive usando le parole, e le parole… usando le parole. […]. Si pensi ad una grammatica italiana scritta in lingua italiana: l’italiano non è solo il linguaggio oggetto, ossia l’insieme di parole che noi studiamo, ma è anche il metalinguaggio perché è l’insieme delle parole che noi usiamo per studiare l’insieme stesso. Quindi l’unico linguaggio che può essere ad un tempo linguaggio oggetto e metalinguaggio è il linguaggio articolato» (9). Questa capacità simbolica e astrattiva, e dunque spirituale, non può derivare dalla materia e dalla sensibilità: dal meno non viene il più e nessuno si dà ciò che non ha. Ecco perché l’uomo non “deriva” dalle scimmie o similari, tanto meno le scimmie meritano di essere considerate antenate di uomini ottusi che lo credono. Tornando all’origine delle categorie, Aristotele, in modo più precipuo dei suoi predecessori, e meno equivoco dei suoi successori che hanno avuto la protervia e la spocchia di ritenerlo superato o rapsodico, «costretto talvolta a coniare parole nuove, tal altra a dare un significato nuovo a parole consuete, adoperò la parola categoria per indicare le espressioni enunciative delle cose. Sicché [formalmente] ogni semplice espressione enunciativa, quando sia pronunciata e detta della cosa enunciata, si dice categoria. Per esempio: se la cosa che viene mostrata è questa pietra che tocchiamo e che vediamo, quando di essa diciamo: questa è pietra, l’espressione pietra è il categorema, giacché indica la cosa e vien detta di essa» (10). Quindi, sebbene i nomi siano al contempo categorie, queste ultime più propriamente non indicano le cose distinguendole individualmente, come nel caso dei nomi potenzialmente infiniti, come potenzialmente infinite sono le cose, «ma distinguendole secondo il genere [da non confondere col genere predicabile] cui appartengono: l’infinità degli enti e delle parole che li significano si lasciano ridurre a dieci generi» (11). O anche, le categorie sono parole significative che classificano in modo più generale possibile le cose o enti di cui abbiamo esperienza, dalle quali si ricava una tavola delle categorie dei sensibili dedotta dall’esperienza. Questa classificazione analitica è stata spesso criticata sia da coloro che, da una prospettiva materialistica, vedono in essa una primitiva forma tassonomica empirica, sia da coloro che, da una prospettiva idealista, ne hanno ravvisato una presunta carenza ontologica e logica. Inutile soffermarsi su queste critiche che sono misurate già dai loro presupposti. A partire dalla nozione fondamentale e fondante di sostanza scoperta dallo Stagirita, la cui filosofia è per questo chiamata usiologia, ovvero scienza della sostanza, avversa ad ogni agente del caos, possiamo comprendere il reale valore e rapporto che intercorrono tra le categorie (o predicamenti) e i predicabili. La sostanza si suddivide in sostanza prima, che è prima tra le dieci categorie, sia ontologicamente che logicamente, essendo condizione sia dell’esistenza che dell’intelligibilità delle altre nove categorie, e sostanza seconda (12), ovvero i tre predicabili (genere, specie e differenza). Questa suddivisione e numerazione può essere intesa in due modi: secondo una interpretazione forzata della logica e usiologia aristoteliche, che sono state fatte proprie in modo grossolano dai nominalisti duri e puri, ma anche dai concettualisti, che a partire da Abelardo, hanno mascherato il nominalismo con un realismo contraffatto, o secondo una spiegazione sinceramente realista. Nel primo caso si dirà che «la sostanza prima, così chiamata perché è condizione dell’esistenza delle sostanze seconde, è sempre un soggetto individuale, il quale per Aristotele è la prima tra tutte le realtà, cioè la condizione dell’esistenza di tutte le altre; invece le sostanze seconde sono i predicati universali, ma delle sostanze prime, perciò hanno diritto anch’esse al titolo di sostanze, anche se la loro esistenza dipende da quella delle sostanze prime. Se non ci fossero uomini individuali, non ci sarebbe la specie uomo e, se non ci fossero animali individuali, non ci sarebbe il genere animale» (13). Nel secondo caso si terrà conto che «il vocabolario tecnico-filosofico distingue chiaramente tra quello che è anteriore e posteriore nell’ordine ontologico [essenziale] e nell’ordine della conoscenza [accidentale]» (14), dove ovviamente il primato spetta al primo. Quindi, le sostanze individuali sono prime rispetto ai predicabili secondo l’ordine gnoseologico, ma secondo l’ordine ontologico è vero il contrario. Perché l’effetto è prodotto dalla causa, ma conosciamo la causa a partire dall’effetto. Giacché, come vedremo prossimamente (15), è il valore il criterio ontologico della valutazione, e non, utilitaristicamente, il contrario. Continua
NOTE 1 - A. Guzzo, L’Isagoge di Porfirio e i Commenti di Boezio, Edizione L’Erma, Torino, 1934, p. 7. 2 - T. d’Aquino, Rudimenti di Logica (Somma di tutta la logica di Aristotele), Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 2024, p. 245. 3 - Aristotele, in Dell’espressione, Organon, 16 a 3-7, Edizioni Adeplhi, Milano 2003, p. 58. 4 - Ibidem, Rudimenti di Logica (Somma di tutta la logica di Aristotele), p. 247. 5 - Ibidem, Dell’espressione, p.58 6 - Ibidem, Rudimenti di Logica (Somma di tutta la logica di Aristotele), p. 247. 7 - Ibidem, Dell’espressione, p. 57. «Verbo, d’altra parte, è il nome che esprime inoltre una determinazione temporale […] ed esso risulta sempre espressione caratteristica di ciò che si dice di qualcos’altro», ibidem, p. 59. 8 - C. Nitoglia, Commento alle XXIV Tesi del Tomismo, Edizioni Effedieffe, Viterbo, 2015, pp. 115-116. 9 - M. Malatesta, Logistica, vol. I, Edizione della Libreria l’Ateneo, Napoli, 1976, pp. 13-14. 10 - Ibidem, L’Isagoge di Porfirio e i Commenti di Boezio, p. 5. 11 - Ibidem, L’Isagoge di Porfirio e i Commenti di Boezio, e: «dieci sono i generi delle parole in quanto significative di cose: perché significano o l’essere (la sostanza), o la quantità, la qualità, la relazione… (i nove accidenti della sostanza)», p. 7. 12 - Aristotele, Categorie in Organon, 2 a – 3 b, Edizioni Adeplhi, Milano 2003, pp. 8-12. 13 - E. Berti, Sono ancora utili oggi le categorie di Aristotele?, in Rivista di estetica, Editore Rosenberg & Sellier, Torino, 2008, pp. 57-72. 14 - D. Lorenz, I fondamenti dell’ontologia Tomista, Edizioni Studio Domenicani, Bologna, 1992, p. 98. 15 - G. Turco, Valori e deontologia: l’assiologia di Nicola Petruzzellis, Edizioni Studium, Roma, 2015. |