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La bottiglia e il vino Ottava parte di Francesco Gisci Prima parte Seconda parte Terza parte Quarta parte Quinta parte Sesta parte Settima parte Ottava parte Ora possiamo distinguere gli universali (genere e differenza specifica) e le categorie e le loro rispettive
ricerche: se la ricerca dei primi è propriamente metafisica,
essendo sostanziale il riferimento ai generi
e specie dell’essere delle creature (1), la ricerca
delle seconde, secondo Porfirio, non è «né
metafisica, né grammaticale, né retorica. Non è
metafisica perché è incidentale il riferimento ai generi dell’essere (2), essendo
l’attenzione rivolta ai generi delle parole significative, in quanto
appunto significano questo o quello; non grammaticale, perché
nelle categorie non si
distinguono tra loro le varie parti del discorso, che è
distinzione tardiva rispetto a quella che distingue le voci secondo
ciò che significano, non secondo che siano proprie, metaforiche,
ecc. […].
[Quindi] la ricerca delle categorie è logica» (3). Sebbene è vero che «considerati formalmente come generi (cioè come concetti o attributi), i predicamenti (chiamati da questo punto di vista, predicamenti logici) appartengono alla logica, però, considerati come modi dell’ente reale, cioè in quanto significanti qualche natura reale (predicamenti metafisici), essi appartengono alla ontologia. Ma è importante notare che si tratta, in logica come in metafisica, delle stesse categorie, considerate qui come nature e lì come enti di ragione. Secondo l’aspetto sotto il quale le consideriamo, esse sono una classificazione dei concetti o una classificazione della realtà (cioè delle cose stesse che questi concetti significano)» (4). Come accaduto in precedenza, constatiamo esserci un duplice punto di vista non contraddittorio sulla realtà, quello gnoseologico e accidentale, post rem, e quello ontologico ed essenziale, ante rem. Entrambi fondano il metodo teoretico: «il metodo è una via che ha un punto di partenza e un punto di arrivo. […]. [Il primo punto di vista o di partenza] è quello di Aristotele che è un metodo dal basso, induttivo, [il secondo punto di vista o di partenza] è quello di Platone che è un metodo dall’alto, deduttivo» (5). L’unione dei due metodi (6) che risalgono al V-IV sec. a.C., conduce per via razionale a quella Verità, «il principio [che] non è generato» (7) e che «sussiste di per sé» (8), che era stata rivelata a Mosè (9) più di mezzo millennio prima (XIII-XII sec. a.C.): «Io sono Colui che sono. Così dirai ai figli di Israele, Colui che è mi ha mandato a voi» (10). La scienza teoretica si fonda sul principio peripatetico, nihil est in intellectu quod non sit prius in sensu (nulla è nell'intelletto che non si trovi prima nei sensi), «d’altronde, se si prescinde dall’esperienza non c’è conoscenza di alcunché. Infatti noi non possediamo idee innate conosciute a priori» (11). «Ogni scienza, essendo una spiegazione [rigorosa e dimostrabile], esige il ragionamento ed è dunque in qualche misura razionale. […]. [Diversamente dalla] scienza naturale che guarda all’esperienza per calcolarla, quantificarla e dominarla, [la scienza teoretica] guarda all’esperienza per contemplarla, comprenderla e spiegarla. […]. L’oggetto materiale della scienza teoretica, ovvero ciò che viene studiato, […] è tutto ciò che rientra, direttamente o indirettamente, nel mondo dell’esperienza; è l’intero dell’esperienza, l’universo. […]. L’oggetto formale della scienza, ovvero, l’aspetto, il punto di vista che viene preso in esame […] sono le cause ultime, i principi primi dell’esperienza. […]. La scienza teoretica è necessaria perché l’uomo può fare a meno di tante cose ma non di pensare e ragionare, […], essa è sapienza, ovvero, conoscenza del vero [e dell’essenza] delle cose materiali e mutevoli di cui si occupa la scienza naturale» (12), distinzione, e non separazione, che risale già ai Presocratici (13). La scienza teoretica parte dalla realtà esterna, dalla res sussistente di fronte al pensiero, o ancora meglio, dall’ente. L’ente è il primo concetto semplice ed evidente dell’intelletto umano: «ogni oggetto conosciuto innanzi tutto è, e per questo la nostra intelligenza lo afferma in primo luogo come qualcosa che è, come ente. La nozione di ente viene inclusa in modo implicito in tutti gli altri concetti. Nulla può divenire oggetto dell’intelligenza se non si comprende prima che la tal cosa è. È questa la prima apprensione conoscitiva, ed è previa a qualunque altra: prima di conoscere una realtà nelle sue caratteristiche particolari, comprendiamo implicitamente (senza la mediazione di un ragionamento formale) che essa è. Dunque ente è ciò che è» (14). L’Aquinate affermava che «un piccolo errore all’inizio diventa grande alla fine, come dice il Filosofo nel I Libro su Il Cielo e il mondo; ora, l’ente e l’essenza sono i primi concetti dell’intelletto, come afferma Avicenna nel primo libro della sua Metafisica, perciò, affinché non ci capiti di errare a motivo della loro ignoranza, con il proposito di superare le difficoltà che comportano, dobbiamo dire quale sia il significato dei termini essenza ed ente, e in che modo lo scopriamo nelle cose diverse, e quale sia il loro rapporto con le intenzioni logiche, cioè il genere, la specie e la differenza. Ma dato che noi dobbiamo ricavare la conoscenza delle cose semplici da quelle che sono composte, e giungere alle cose che sono [ontologicamente] prime da quelle che vengono dopo, in modo che iniziando dalle cose più facili, l’apprendimento risulti più adeguato, per questo bisogna procedere dal significato dell’ente al significato dell’essenza» (15). «La nozione di ente non è semplice, è composta di un soggetto (= id quod) e di un atto (= est); il soggetto si conosce con il nome essenza, e l’atto di essere si conosce con il nome di esistenza [che viene all’essere dal nulla]» (16). La terza Tesi del Tomismo spiega che «quanto alla natura dell’essere, solo Dio sussiste unico e semplicissimo; tutti gli altri enti che partecipano (17) l’essere [che quindi sono creati] hanno un’essenza che riceve e limita l’essere, e sono composti di essere ed essenza come due principi realmente distinti tra loro» (18). Il termine «esistenza viene da ex-sistere, ovvero uscire fuori dal nulla e divenire realtà» (19), ovvero essere creato dal Creatore mediante la partecipazione all’Essere sussistente che è Dio: l’essenza di ogni creatura, o ente (participio presente del verbo essere), è esistente perché partecipa o riceve limitatamente l’essere. Dunque l’ente esiste nella realtà perché la sua essenza [creata in principio dal nulla e che si riproduce per via generativa] ha ricevuto l’essere. L’essere è la causa e l’esistenza è l’effetto. Ogni ente è realmente composto di essenza ed essere, e quest’ultimo non è l’esistenza. E, brevemente, cos’è l’essere? Mario Vittorino, (IV sec. d.C.) affermava: «questo stesso essere si deve prendere in due modi: l’uno in senso universale e originariamente originario, da cui proviene l’essere degli altri; e l’altro come l’essere degli altri, che vengono dopo: i generi, le specie, e tutte le realtà di questo tipo. […]. «In verità l’Essere primo è impartecipato, tanto che non lo si può denominare né uno né solo, ma per eminenza prima dell’uno e prima del solo, al di là della semplicità, preesistenza piuttosto che esistenza, universale di tutti gli universali, infinito, indeterminato, ma per tutti gli altri, non per sé, e quindi senza forma; […]. Questo è ciò che abbiamo chiamato vivere, quell’infinito, quel vivere al di sopra di tutti gli universali, lo stesso essere (ipsum esse), lo stesso vivere, non l’essere di qualcosa o il vivere di qualcosa. Quindi non è un ente [o esistente]» (20). Per Aristotele l’essere presuppone l’essere della sostanza: «benché il termine essere venga usato in diverse accezioni, è evidente che, tra tutte queste, l’accezione fondamentale è quella di essenza di un oggetto, ovvero ciò che sta ad indicare una sostanza» (21): «l’essere non esiste per sé, né può essere separato dalla sostanza» (22). E che cosa è la sostanza? S. Tommaso diceva: «gli antichi filosofi si inoltrarono nella conoscenza della verità un po’ per volta, e quasi passo per passo. Da principio, infatti, essendo per così dire piuttosto grossolani, credevano che non esistessero se non i corpi sensibili. […]. Procedendo però oltre, i filosofi distinsero razionalmente la forma sostanziale dalla materia, che ritenevano increata» (23). Il Filosofo spiegava che la sostanza può «essere identificata in primo luogo con la materia, in secondo luogo con la forma, e in terzo luogo col composto di entrambe (intendo indicare, ad esempio, come materia il bronzo, come forma la figura rappresentata, come composto di entrambe la statua [cioè il sinolo])» (24). Per Aristotele, che credeva nell’eternità del mondo, l’essere è la sostanza la cui causa è la forma, vale a dire che la causa della sostanza si trova nel suo stesso composto. L’essere di S. Tommaso, invece, alla luce della Rivelazione, è [in primis] l’Essere Primo (Es 3, 14) preesistente alla creazione quale produzione ex nihilo che riceve o partecipa limitatamente l’essere di Dio: le creature viventi sono composizioni reali di essere ricevuto o partecipato del Creatore ed essenza creata. Nell’uomo l’essenza è la sua sostanza che è composizione di materia e forma, e quest’ultima riceve l’essere. «Ma la forma non è il suo essere, lo dà alla materia, ma a sua volta lo riceve in maniera finita e partecipata dall’Essere stesso sussistente [Dio]» (25): questa è la sostanziale differenza tra Aristotele e Tommaso d’Aquino il quale supera ontologicamente, grazie alla Rivelazione, il filosofo greco. Quando si parla di realtà ontologica, vuol dire che si sta considerando una res, o meglio, un ente, dal punto di vista dell’essere che, come si è detto, precede la realtà stessa, poiché la fonda. L’essere e la realtà ontologica di ogni ente non sono percettibili, ovvero, non sono conoscibili attraverso l’esperienza sensibile, in quanto sono, invece, intellegibili, ovvero conoscibili solo attraverso l’intelletto e la nostra attività spirituale e razionale. Un esempio analogico del rapporto che esiste tra l’essere che trascende e fonda tutto ciò che esiste, possiamo farlo con il rapporto che esiste, ad esempio, tra l’uomo e un sofisticato e mostruoso robot umanoide frutto delle più distopiche ricerche. Quest’ultimo è un prodotto della creatività dell’ingegnere: tra il robot e l’uomo c’è una differenza qualitativamente incommensurabile, il robot non può farsi da sé, a meno che non sia l’ingegnere a dargli le istruzioni per autoriprodursi. Rispetto all’esistenza del robot, l’uomo e la sua creatività (razionale e spirituale), che trascendono (26) e causano la macchina, sono ontologicamente (27) fondanti, cioè producono e creano l’esistenza della macchina. Analogicamente e a maggior ragione, l’uomo, che è dotato di una perfezione incommensurabilmente superiore a qualsiasi macchina o robot, avendo un co-principio spirituale, ovvero l’anima, che è vita spirituale e razionale, e un co-principio materiale di una complessità neanche interamente conoscibile (28), è necessariamente preceduto e causato da un’intelligenza creatrice trascendente (è necessario che così come la macchina venga da ciò che è ad essa superiore, ovvero l’uomo, così, l’uomo non venga da ciò che è inferiore, ovvero il caso o una “necessità” immanenti e impersonali, ovvero privi di ragione e volontà, ma da ciò che è eminentemente Personale) che, per essere tale, è necessariamente priva di materia e potenzialità, puro spirito privo di ogni limitatezza, ovvero, Dio trascendente e personale. Questo ragionamento induttivo che parte dall’esperienza empirica e dalla quale l’uomo astrae le realtà intellegibili, è una capacità umana che l’uomo non si dà da sé, ma è creata dal suo Creatore, analogicamente alle facoltà della “IA” prodotte dall’uomo. Ma se l’uomo produce macchine sofisticate a proprio vantaggio (sebbene prevalentemente per il vantaggio distopico di pochi individui), Dio ha creato l’uomo (e l’universo) senza alcun bisogno (29), e lo ha reso spirituale e intelligente per amore verso la Sua stessa creatura, perché essa possa «conoscerLo, amarLo, servirlo in questa vita e per goderLo poi nell’altra, in Paradiso» (30). E così come accade all’umanità sempre più ottenebrata, analogicamente, se la “IA” potesse “veramente” avere una coscienza, che è libertà dalla materia, atto di riflessione sul proprio agire e conseguente libera azione ed espressione, e, purtroppo, anche abuso e degenerazione di esse, alla domanda: l’uomo esiste? Contro ogni evidenza la “IA” potrebbe rispondere: no. NOTE 1 - «Porfirio considera generi, specie e differenze, cose, non voci [come fanno i nominalisti], e in generale ritiene che le distinzioni logiche trovino la loro ragione d’essere in altrettante distinzioni metafisiche di cui si fanno espressione. Per Porfirio, dunque, generi e specie riguardano l’essere, e se egli prelude alla logica aristotelica trattando di essi, in fondo egli ridà alla logica il fondamento della dialettica platonica, tutta diretta a distinguere generi e specie, tanto oggettivamente, come metafisica, quanto soggettivamente, come logica», in A. Guzzo, L’Isagoge di Porfirio e i Commenti di Boezio, Edizione L’Erma, Torino, 1934, p. 10. 2 - «Diverso è l’essere e ciò che è, analogamente alla differenza di significato fra il dire correre e ciò che corre. Correre ed essere, infatti, hanno un significato in astratto [vedi nota 2 de La bottiglia e il vino, parte sesta], come pure bianchezza, mentre ciò che è, ovvero l’ente e ciò che corre, significano in concreto [di cui si ha esperienza sensibile], così pure ciò che è bianco. […]. Ciò che è [non potendo essere causa di se stesso], ricevuta la forma dell’essere, ovvero, ricevendo (o, con lo stesso significato, partecipando) in sé lo stesso atto dell’essere, è e consiste, ovvero, sussiste in se medesimo. Ente in fatti non si predica in senso proprio e per sé se non al riguardo della sostanza, cui spetta il sussistere (gli accidenti, in realtà, non sono detti enti nel senso che essi stessi siano, ma in quanto per essi la sostanza è una certa cosa)», in T. d’Aquino, L’essere e la partecipazione, Commento al libro di Boezio De Ebdomadibus, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 1995, pp. 99-101. 3 - Ibidem, L’Isagoge di Porfirio e i Commenti di Boezio, p. 8. A causa della emancipazione della “logica” dallo studio teoretico, la maggior parte dei “filosofi” moderni dice essa essere una ricerca di filosofia del linguaggio, nel senso di teorica, idealistica… 4 - B. Mondin, Logica, semantica, gnoseologia, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 2008, p. 62. 5 - Ibidem, Logica, semantica, gnoseologia, p.29. 6 - «La filosofia [o scienza teoretica] parte dall’esperienza che le fornisce fatti concreti, i fenomeni. 2. Da lì passa alla concettualizzazione del dato: mediante l’astrazione il dato viene universalizzato e tradotti in concetti. 3. Procede quindi a un’analisi razionale che la conduce a cause e princìpi che non sono oggetto d’esperienza [sensibile]: è il momento della risoluzione degli effetti nelle cause, degli enti nell’essere. È la fase ascendente (specificatamente aristotelica). 4. Infine, procede mediante la sintesi dai princìpi alle conseguenze: è il momento della composizione, che si propone di “comporre” in un unico sistema tutto il campo dell’esperienza e il mondo dei fenomeni [che trovano fondamento nell’essere]. È la fase discendente (specificamente platonica)», in ibidem, Logica, semantica, gnoseologia, p. 31. 7 - «Infatti è necessario che tutto ciò che è generato si generi da un principio; invece il principio è necessario che non sia generato da nulla, perché se il principio si generasse da qualcosa, non sarebbe più un principio», in Fedro, in Platone, Editore Bompiani, 2001, p. 554. 8 - «È questo, dunque, il principio da cui dipendono il cielo e la natura. […]. L’intelletto pensa se stesso per partecipazione dell’intellegibile, giacché esso stesso diventa intellegibile venendo a contatto col suo oggetto e pensandolo, di modo che intelletto e intellegibile vengono ad identificarsi. […]. Ed è sua proprietà la vita, perché l’atto dell’intelletto è vita, ed egli è appunto quest’atto, e l’atto divino, nella sua essenza, è vita ottima ed eterna. Noi affermiamo, allora, che Dio è un essere vivente, sicché a Dio appartengono vita e durata continua ed eterna: tutto questo è Dio», in Aristotele, Metafisica, in Aristotele, vol. 1, XII, 7, 1072 b, Editore Mondadori, Milano, 2008, pp. 1013-1014. 9 - Il Pentateuco, in La Sacra Bibbia, tradotta e commentata da A. Martini, M. Sales e G. Girotti, Edizioni Effedieffe, Proceno, 2014-2021, pp. 56-82. 10 - Esodo, in La Sacra Bibbia, tradotta e commentata da A. Martini, M. Sales e G. Girotti, Edizioni Effedieffe, Proceno, 2014-2021, p. 303. Cfr: «Colui che è per Sé stesso, e in Sé possiede tutta la perfezione dell’essere, e perciò è infinito, immutabile, eterno, assoluto, indipendente, e governa e dispone tutte le cose, niuna delle quali può esistere senza di Lui, essendo Egli il principio di tutti gli esseri», nota 13-14. 11 - Ibidem, Logica, semantica, gnoseologia, p. 14. 12 - Ibidem, Logica, semantica, gnoseologia, p. 15-16 e 24. 13 - Parmenide (VI-V sec. a.C.), nel proemio allegorico di Sulla natura, per bocca della dea Giustizia, affermava: «Bisogna che tu impari a conoscere ogni cosa, sia l’animo inconcusso della ben rotonda Verità, sia le opinioni dei mortali, nelle quali non risiede legittima credibilità. Ma tuttavia anche questo apprenderai, come le apparenze bisognava giudicasse che fossero chi in tutti i sensi tutto indaghi», in H. Diels e W. Kranz, I Presocratici. Testimonianze e frammenti, Editori Laterza, Roma-Bari, 1983, p. 270. 14 - D. Lorenz, I fondamenti dell’ontologia Tomista, Edizioni Studio Domenicani, Bologna, 1992, p. 93. «Il concetto di ente non è un genere, perché non gli si può aggiungere nessuna differenza che non si trova già contenuta in esso. […]. Il concetto di ente esprime non soltanto il comune, bensì anche le differenze, perché queste hanno anche la ragione di essere», ibidem, p. 117. 15 - T. d’Aquino, De ente et essentia, in D. Lorenz, I fondamenti dell’ontologia Tomista, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 1992, p. 81. 16 - Ibidem, I fondamenti dell’ontologia Tomista, p. 94. 17 - «Partecipare è come un prender parte: quando qualcosa riceve in modo particolare ciò che ad altro appartiene universalmente [analogicamente, la “IA” non è ovviamente intelligente, ma partecipa della capacità di calcolo probabilistico che riceve dall’ingegnere] si dice appunto che partecipa a quello (come si afferma che l’uomo partecipa all’animale, in quanto non possiede la nozione di animale secondo tutta intera la sua estensione; per la medesima ragione, Socrate partecipa all’uomo). […]. Ciò che è, ovvero l’ente, può partecipare a qualcosa, invece l’essere in se stesso in nessun modo può partecipare a qualcosa», in ibidem, L’essere e la partecipazione, Commento al libro di Boezio De Ebdomadibus, pp. 101-103. 18 - G. Matiussi, Le XXIV Tesi della filosofia di S. Tommaso d’Aquino approvate dalla S. Congregazione degli Studi, Edizioni Pontificia Università Gregoriana, Roma, 1947, p. 32. 19 - C. Nitoglia, Commento alle XXIV Tesi del Tomismo, Edizioni Effedieffe, Proceno, 2015, p. 30. 20 - M. Vittorino, Contro Ario, IV, 19, 4, in Opere teologiche, Edizioni UTET, Milano, p. 495. Cfr: «L’Aquinate distingue tra essere comune o universale (indeterminato), partecipato-creaturale, che è il concetto più astratto di tutti, aperto a tutte le specificazioni; ed Essere assoluto o divino (determinato e determinante), l’intensità massima di realtà, che racchiude ogni perfezione; l’essere specialissimo e determinatissimo, che esclude ogni aggiunta (fuori di esso vi è solo il “nulla”) e determinazione (determinante e non determinabile né determinato ab alio) e questi è Dio, che è l’Essere per essenza», in C. Nitoglia, Piccolo dizionario Tomista, Edizioni Effedieffe, Proceno, 2018, pp. 60-61. 21 - Aristotele, Metafisica, in Aristotele, vol. 1, VII, 1, 1028 a, Editore Mondadori, Milano, 2008, p. 838. 22 - Ibidem, I fondamenti dell’ontologia Tomista, p. 118. 23 - T. d’Aquino, Somma Teologica, I, Q. 44, a. 2 risp., Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 2014, p. 518. 24 - Ibidem, Metafisica, vol. 1, VII, 3, 1029 a, pp. 842-843. 25 - Ibidem, Commento alle XXIV Tesi del Tomismo, p. 63. Cfr.: mentre l’essere per essenza è assolutamente semplice, ovvero, non composto di parti alcune, e «la cui essenza è lo stesso suo essere» (ibidem, De ente et essentia, p. 221), «ciò che è può avere qualcosa altro a ciò che è esso stesso [ovvero oltre la propria sostanza]. […]. Segue necessariamente che in ciò che è debba distinguersi un duplice modo di essere […]: quel che ha l’essere, ovvero la sostanza [uomo, in riferimento al fatto che è spirituale e razionale], laddove la forma che costituisce quest’essere coincide con l’essenza stessa della cosa, […] e quel che ha l’essere qualcosa [bianco, in riferimento alla bianchezza], […], laddove la forma che costituisce tale tipo di essere è al di fuori dell’essenza della cosa […]: occorre prima si comprenda che qualcosa è semplicemente, e quindi che esso sia qualcosa. Infatti: qualcosa è semplicemente per il fatto che partecipa allo Stesso Essere; però, allorché già è [uomo], evidentemente per partecipazione allo Stesso Essere, rimane che partecipi a qualcos’altro, affinché, è chiaro, risulti qualcosa [quell’uomo bianco, nero, giallo…]», in ibidem, L’essere e la partecipazione, Commento al libro di Boezio De Ebdomadibus, pp. 105-107. 26 - Vedi nota 23 de La bottiglia e il vino, quinta parte. 27 - In questo caso sarebbe più opportuno dire entitativamente, trattandosi di due realtà corporee, ma, come abbiamo premesso, si tratta di una analogia. 28 - Basti pensare alla perfezione ed estrema complessità irriducibile e irriproducibile dei suoi apparati e sistemi scheletrico, articolare, muscolare, digestivo, riproduttivo, linfatico, vascolare e nervoso. 29 - «Infatti l’essere non è il non-essere, quindi non ha in sé il “non essere”, ergo, non ha il non-essere, ovvero non ha il “nulla”. Perciò “nulla” gli manca», in ibidem, L’essere e la partecipazione, Commento al libro di Boezio De Ebdomadibus, p. 47. 30 - F. Salvestrini, I. Muraro, Luce Divina. Vol. 2, La Legge, Edizioni Effedieffe, Proceno, 2021, p. 11. |