Dall’ “indulto” al ripristino della liturgia tradizionale 

LA  CONVERSIONE  LITURGICA  
DEL  VATICANO





Quando, nel gennaio del 2001, scrivevamo che si stavano moltiplicando i segni che lasciavano intravedere una maggiore apertura della Gerarchia nei confronti della liturgia tradizionale, si poteva pensare che le nostre considerazioni peccassero di ottimismo: corrispondendo piú alle nostre speranze che alla situazione reale. Da allora si sono aggiunti altri elementi a conferma della nostra analisi, alcuni dei quali sono di un’importanza considerevole. Parleremo di questi elementi accompagnandoli con un rapido sguardo alle vicende che in questi trent’anni hanno riguardato la questione della liturgia cattolica romana.

DAL 1970 AL 2000

La promulgazione del Novus Ordo Missae, nel 1970, determinò una situazione anomala: da un lato ci furono dei chierici e dei laici che accolsero la nuova liturgia con profondo disagio, ma che si sottomisero al nuovo corso per ubbidienza, mentre altri si rifiutarono di accettare la nuova situazione: i chierici subendo l’esclusione dall’apostolato, i laici venendosi a trovare in una posizione di emarginazione ecclesiale. Dall’altro si manifestò la entusiastica diffusione di una pratica liturgica tutta intrisa di “creatività”: molti chierici erano convinti che il nuovo corso avrebbe prodotto dei frutti insperati, soprattutto in vista di una nuova e piú profonda consapevolezza dei fedeli circa la dottrina e la pratica della fede. 
In realtà i frutti di questa grande e ingiustificata giravolta liturgica furono e sono solo frutti amari: il numero dei fedeli è notevolmente diminuito, si sono ridotte drasticamente le vocazioni, si sono moltiplicate le eresie, la dottrina e la morale cattoliche hanno incontrato e incontrano sempre piú ampii rifiuti tra i laici e sempre piú vaste resistenze tra i credenti. 
In un simile contesto era inevitabile che i fedeli rimasti ancorati alla dottrina e alla liturgia tradizionali della Chiesa, non solo non scomparissero, come illusoriamente si credeva, ma aumentassero, rafforzando sempre piú le loro posizioni.

Già nel 1984, a Roma, si dovette prendere atto del fatto che la realtà dei fedeli legati alla dottrina e alla liturgia tradizionali non poteva piú essere sottovalutata, e si arrivò al famoso “indulto”. La Congregazione per il Culto Divino emanò la lettera circolare Quattuor  abhinc annos, con la quale il Santo Padre concedeva ai Vescovi un indulto perché potessero autorizzare la celebrazione della S. Messa secondo l’Ordo in vigore nel 1962. Fu una lettera discussa e contrastata, dove peraltro si esigeva che i richiedenti dovessero manifestare, “anche pubblicamente”, la non condivisione delle “posizioni di coloro che mettono in dubbio la legittimità e l’esattezza dottrinale del Messale Romano promulgato dal Papa Paolo VI nel 1970”; e nei confronti della quale si sollevarono non poche perplessità circa la stranezza di indulgere su una supposta violazione di un inesistente vincolo canonico che avrebbe imposto l’abolizione della liturgia di San Pio V.
In realtà, oltre al constatato perdurare della vasta consistenza dei fedeli legati alla dottrina e alla liturgia tradizionali, vi era un altro importante motivo che spinse il Papa Giovanni Paolo II a prendere quella decisione: la sempre maggiore diffusione dei luoghi di culto retti dai sacerdoti della Fraternità San Pio X. I Cardinali che consigliarono il Papa temevano che tutti i fedeli legati alla Tradizione potessero confluire nella Fraternità (allora non si parlava neanche di ”scomunica”), rafforzando una realtà che tanti ancora credevano avesse i suoi limiti nella figura di Mons. Lefebvre.

Nel 1986, il Santo Padre volle capire quali frutti avesse dato la concessione dell’“indulto” e dispose un’indagine sulla sua applicazione. Ne risultò che la stragrande maggioranza dei Vescovi non aveva capito il senso di quella disposizione e l’aveva semplicemente ignorata e apertamente contrastata, confermando una sorta di manifesto ostracismo nei confronti di una parte dei fedeli delle loro diocesi. I Cardinali consigliarono al Papa di disporre una regolare celebrazione della S. Messa col rito tradizionale nelle città piú importanti delle diocesi. Si trattava, in pratica, di affermare chiaramente che il rito del 1962 non era stato mai abolito e che poteva essere utilizzato liberamente da chi ne fecesse richiesta. 
Il Papa avrebbe potuto stabilire delle nuove norme in materia, ma preferí prendere atto della diffusa insensibilità dei Vescovi e, soprattutto, della opposizione di molti di loro: il Novus Ordo era intoccabile e, contro ogni uso millenario della Chiesa, l’Ordo precedente era morto e sepolto.
Era evidente che il nuovo corso instauratosi a partire dal Concilio Vaticano II veniva considerato come irreversibile anche di fronte alle diffuse storture da esso prodotte, non solo in campo liturgico (le cui evidenze erano sotto gli occhi di tutti), ma nello stesso campo dottrinale, dove i guasti apparivano meno avvertiti eppure tanto piú profondi.
Peraltro, il riferimento tradizionale costituito dalla Fraternità San Pio X veniva ancora visto come un fenomeno facilmente arginabile: molti erano convinti che la scomparsa di Mons. Lefebvre, presto o tardi, avrebbe condotto allo sgretolamento della Fraternità.

Fu questo convincimento che condusse, due anni dopo, nel 1988, alla messa in atto di tutti gli ostacoli possibili per ritardare l’ordinazione episcopale di nuovi Vescovi della Fraternità. Si arrivò fino a definire un preciso accordo tra la Santa Sede e la Fraternità San Pio X, postergando però ad un prossimo improbabile futuro l’assenso del Papa a nuove ordinazioni episcopali. Mons. Lefebvre sapeva bene che il vero scopo di Roma era quello di porre la Fraternità nella condizione di non poter piú contare su una guida gerarchica e pastorale che fosse coerente col suo apostolato, cosí da doversi sottomettere alla giurisdizione dottrinale e liturgica di quegli stessi Vescovi che combattevano in tutti i modi la Tradizione della S. Chiesa: denunciò quindi l’accordo e procedette all’ordinazione di quattro nuovi Vescovi tra i sacerdoti della stessa Fraternità.
Fu una decisione molto sofferta, ma resasi necessaria per le continue manovre equivoche e dilatorie di Roma. Tre anni dopo Mons. Lefebvre venne chiamato in cielo: lasciava la Fraternità San Pio X in una situazione di piena legittimità dottrinale e liturgica: i nuovi Vescovi avrebbero continuato l’opera di mantenimento della Tradizione della S. Chiesa; quella stessa opera da lui iniziata subito dopo il Concilio Vaticano II con la piena approvazione della Santa Sede. 

La decisione di Mons. Lefebvre non conduceva necessariamente all’applicazione della scomunica latae sententiae. Se il Papa, ancora una volta spinto dalle forti pressioni dei Vescovi soprattutto francesi, non si fosse pronunciato in tal senso, nel suo Motu Proprio Ecclesia Dei adflicta (dello stesso 1988), si sarebbe potuto giungere alla ricomposizione di questa triste vicenda; ma la decisione di Mons. Lefebvre venne considerata come un elemento decisivo per operare quella rottura drastica che tanti Vescovi avevano auspicato per anni e che il Papa non era stato in grado di impedire.

Fu quella l’occasione per condurre un certo numero di sacerdoti e religiosi della Fraternità, o ad essa in qualche modo legati, a dissociarsi da Mons. Lefebvre. Nacquero la Fraternità San Pietro e si resero definitivamente indipendenti i monasteri benedettini di Francia che officiavano con la liturgia tradizionale. Il fatto che un certo numero di chierici e di laici rimasti fedeli alla Tradizione fossero regolarmente organizzati e gerarchicamente sottomessi alla giurisdizione dei Vescovi diocesani fece sperare ai piú fiduciosi che si sarebbe aperto un nuovo corso.

Per dieci anni, dal 1988 al 1998, le speranze vennero disattese e nulla accadde che fosse in grado di sancire una volta per tutte che la liturgia tradizionale della S. Chiesa potesse essere liberamente praticata da tutti i chierici e i laici che si sentivano ad essa legati. La costituzione della Pontificia Commissione Ecclesia Dei, che aveva il compito di favorire il pieno inserimento nell’àmbito ecclesiale dei sacerdoti e dei fedeli legati alla liturgia tradizionale , fallí nel suo compito. Essa si limitò ad seguire l’andamento delle realtà tradizionali esistenti, senza riuscire a sostenere il potenziale ampliamento di queste realtà e la nascita di nuove. Anzi, anno dopo anno, costretta a cedere alle pressioni dei Vescovi diocesani (nei confronti dei quali, peraltro, non aveva alcun potere, neanche di semplice “pressione”), finí col concorrere a snaturare lo scopo stesso di quelle comunità tradizionali affidate alla sua cura. Non furono poche le occasioni nelle quali autorevoli membri della Pontificia Commissione si preoccuparono di precisare che in fondo il “fenomeno tradizionalista” era da considerarsi eccezionale e transitorio.

I preconcetti super ottimistici dei Vescovi modernisti mantenevano il convincimento che pian piano la Fraternità San Pio X, ormai segnata dal marchio della “scomunica”, si sarebbe svuotata, che i sacerdoti e i fedeli si sarebbero aggregati agli organismi ecclesiali esistenti, e, soprattutto, che in definitiva tutto l’àmbito tradizionalista avrebbe finito con l’ammorbidire le sue posizioni, accettando in toto il nuovo corso, pur mantenendo una sorta di rapporto “affettivo” nei confronti delle “forme” liturgiche preconciliari.

Nei fatti, lo svolgimento degli eventi ha rivelato l’esistenza di una situazione che i piú attenti avevano facilmente intravista: la Fraternità San Pio X si ingrandiva sempre piú, il numero dei fedeli che all’interno delle diocesi si volgevano alla liturgia tradizionale si arricchiva di nuove e numerose adesioni, dettate soprattutto dall’esigenza di ancoraggio alla dottrina e alla pastorale tradizionali della Chiesa, il numero dei sacerdoti diocesani sempre piú scontenti del nuovo corso aumentava silenziosamente eppure notevolmente, soprattutto tra i giovani ordinati. 

Tra le iniziative piú clamorose, in quel decennio, ricordiamo la raccolta di centinaia di migliaia di firme in tutto il mondo cattolico a sostegno di una supplica al Santo Padre per l’uso diffuso di tutti i libri liturgici in vigore nel 1962. Fu una iniziativa condotta discretamente dalle comunità tradizionali, che permise all’Abate benedettino di Saint-Madaleine, di Le Barroux, l’Ecc.mo Dom Gerard Calvet, di presentare personalmente la supplica al Papa. Ma non accadde niente. Il Papa ha sempre aspettato tempi migliori, sperando inspiegabilmente in una sorta di conversione dei Vescovi che non poggia su alcun dato reale.

Nel 1998, quando la Fraternità San Pietro organizzò un pellegrinaggio internazionale a Roma per ricordare i dieci anni della promulgazione del Motu Proprio Ecclesia Dei adflicta, si vide chiaramente che la realtà tradizionale della S. Chiesa annoverava nel suo seno un gran numero di fedeli che per la loro giovane età non avevano neanche conosciuta la liturgia del 1962: i fedeli legati alla Tradizione non erano dei “nostalgici” e il loro numero, in dieci anni, si era ampliato di molto. Una realtà che continuava a crescere nonostante l’opposizione dichiarata dei Vescovi diocesani.
In quella occasione il Santo Padre sollecitò ulteriormente i Vescovi ad essere generosi nei confronti delle richieste di questi fedeli e di certo fidò molto nel fatto che le migliaia di essi accorsi a Roma da ogni parte del mondo non potevano piú passare inosservati e non potevano piú essere sottovalutati.
Ancora una volta il Papa non si rese conto che la volontà dei Vescovi non si basava sull’ignoranza del fenomeno, ma sul convicimento che la Tradizione della Chiesa rappresenterebbe comunque un danno per la nuova pastorale. Una sorta di feticistica adorazione del nuovo a tutti i costi, basata sulla eretica concezione che debba essere il mondo a modellare la Chiesa e non la Chiesa a indirizzare il mondo.

Le reazioni dei Vescovi, di fronte al pellegrinaggio nel decennale dell’Ecclesia Dei, non si fecero attendere. La Fraternità San Pietro andava ridimensionata. Soprattutto in Francia, si convinsero alcuni sacerdoti della stessa Fraternità a fare da testa d’ariete: con una lettera indirizzata alla Commissione Ecclesia Dei, nel giugno del 1999, si giudicava la conduzione della Fraternità San Pietro troppo sbilanciata sulle posizioni della Fraternità San Pio X, si chiedeva la libertà di officiare col Novus Ordo e si chiedeva la sostituzione del Superiore Generale, il Rev. Padre Josef Bisig.
La cosa curiosa è che la vicenda acquistò subito una dimensione planetaria, producendo lo sconcerto e l’indignazione dei fedeli legati alla Fraternità San Pietro insieme alla pesante reazione di tutti i fedeli legati alla Tradizione. Centinaia di proteste giunsero a Roma, ma da Roma la risposta piú significativa fu il rigetto di tali proteste, con la scusa che non si trattava di una questione riguardante i laici. Quasi che la Fraternità San Pietro fosse un ordine di clausura relegato in cima al Monte Bianco.
In definitiva, il Superiore venne sostituito d’autorità e la Fraternità San Pietro fu costretta a seguire un nuovo corso: totale sottomissione alle vedute dei Vescovi diocesani, accettazione del Novus Ordo, disconosci-mento di quella stessa sensibilità dei fedeli al cui rispetto si era appellato lo stesso Santo Padre. Fu in quella occasione che si fece sentire con forza l’influenza del Card. Castrillon Hoyos, nominato proprio in quei giorni nuovo Presidente della Commissione Ecclesia Dei.
 

I PRIMI SEGNI RIPARATORI

Ma in piena controtendenza, proprio in quegli anni, la Gerarchia si decideva a proporre dei documenti con i quali si mettevano dei punti fermi contro il già affermato mal costume liturgico, anche se ormai questo aveva prodotto dei gravi danni di ordine anche dottrinale (per tutti valga il richiamo della Dominus Iesus, in cui si lamenta pesantemente la perdita della vera dottrina cattolica). Ed è addirittura dello stesso giugno 1999 la lettera della Congregazione per il Culto Divino a Mons. Bonicelli, Arcivescovo di Siena, con la quale si sancisce il definitivo superamento dello stesso Motu Proprio Ecclesia Dei. 

La lettera Quattuor abhinc  annos, del 1984, dava la possibilità che si potesse concedere la celebrazione della S. Messa col rito del 1962, il Motu Proprio Ecclesia Dei, del 1988, aveva ribadito questa possibilità, ma il Papa aveva voluto sottolineare che la questione non si esauriva nella semplice richiesta della S. Messa tradizionale e, impegnando la sua Autorità Apostolica, aveva stabilito chedovrà essere ovunque rispettato l’animo di tutti coloro che si sentono legati alla tradizione liturgica latina”. Undici anni dopo, nel 1999, la Congregazione per il Culto Divino affermava che, non solo è possibile concedere la S. Messa tradizionale, ma è possibile riconoscere ai gruppi di fedeli “che si sentono legati alla tradizione liturgica latina” lo status di comunità parrocchiale, costituendo a loro beneficio una “parrocchia personale”. Non piú quindi solo la celebrazione della S. Messa, ma l’amministrazione di tutti i Sacramenti.
Si trattò di una decisione che avrebbe dovuto determinare una svolta nella vita delle comunità di fedeli legati alla Tradizione, e da un pusto di vista formale non v’è alcun dubbio che le cose stessero cosí, ma la svolta venne avvertita quasi solo dai fedeli, poiché i Vescovi continuarono a far finta di niente, anzi, salvo lodevoli eccezioni, giunsero alla conclusione che documenti come quelli non avevano alcun valore vincolante per la loro autorità diocesana.
Una sorta di tiro alla fune tra il gigante e il bambino, dove la parte del gigante cattivo veniva assunta deliberatamente da tanti Vescovi.

Nel contempo, nel 2000 (prot. 2036), la Congregazione per il Culto Divino ricordava che la celebrazione versus absidem (cioè con il sacerdote rivolto verso il Signore e con le spalle al popolo) non è mai stata abolita, anzi essa era e rimane la posizione liturgica tradizionale, cosí che se la celebrazione versus populum è la piú “conveniente nella misura in cui…”, essa non esclude la celebrazione “rivolti al Signore”. Incredibile, ma vero, la Congregazione ribadiva che la celebrazione “con le spalle al popolo”, non solo non è stata mai abolita, ma che lo stesso Concilio non ha mai stabilito la celebrazione “in faccia al popolo”: con il celebrante che volge le spalle al Signore. 
Siamo nel 2000, per trent’anni tutti ci avevano raccontato che la posizione del celebrante era stata invertita per volontà del Concilio e che la posizione tradizionale era stata abolita. Ed ecco che la Congregazione per il Culto Divino ci fa sapere, in tutta semplicità, che per trent’anni ci hanno mentito.

Sempre nel 2000 (prot. 2372), la stessa Congregazione per il Culto Divino, afferma che non è mai stato abolito l’inginocchiarsi dei fedeli al momento della ricezione del SS. Sacramento; confermando anche qui che l’esclusivo uso della ricezione in piedi del SS. Sacramento, adottato in questi trent’anni in maniera obbligatoria, si configura come un vero e proprio abuso. 

Lo stesso Sommo Pontefice, il 21/9/2001, nella lettera di saluto indirizzata alla Plenaria della Congregazione per il Culto Divino, ha finito col ricordare, tra altre cose, che “Il Popolo di Dio ha bisogno di vedere nei sacerdoti e nei diaconi un comportamento pieno di riverenza e di dignità, capace di aiutarlo a penetrare le cose invisibili, anche senza tante parole e spiegazioni. Nel Messale Romano, detto di San Pio V, come in diverse Liturgie orientali, vi sono bellissime preghiere con le quali il sacerdote esprime il più profondo senso di umiltà e di riverenza di fronte ai santi misteri: esse rivelano la sostanza stessa di qualsiasi Liturgia.” Confermando che è cosa ben auspicabile che i sacerdoti ritornino a recitare le preghiere del Messale che si era dato per abolito, sia per l’edificazione dei fedeli, sia per la loro stessa edificazione.
 

LA SVOLTA DEL 2000

Il 2000 è stato l’anno del Giubileo ed è accaduto un fatto importantissimo per la vita della Chiesa. La Fraternità San Pio X si reca in pellegrinaggio a Roma per lucrare le indulgenze previste e, a tal fine, stabilisce degli accordi di ordine organizzativo con la Curia romana per l’accesso alle basiliche. Piú di 5000 fedeli provenienti da ogni parte del mondo si ritrovano a Roma e, accompagnati da piú di 500 tra sacerdoti e religiosi, con in testa i quattro Vescovi della Fraternità, per tre giorni visitano tutte le basiliche romane. Quando si presentano, composti, ordinati e oranti, su via della Riconciliazione e si dirigono verso la balisica di San Pietro, tra lo stupore di tanti abitanti la Città del Vaticano, qualcuno pensa che si tratti di un atto di forza contro il Vaticano. Incredibilmente, per certuni, i cosiddetti “scomunicati” si recano in San Pietro, col pieno consenso delle Autorità romane, e pregano per il Santo Padre (come peraltro è norma all’interno della Fraternità fin dalla sua costituzione).
Quasi contemporaneamente allo svolgersi del pellegrinaggio a Roma, i Vescovi della Fraternità San Pio X vengono invitati dal Card. Castrillon Hoyos (lo stesso che aveva avallato il forzato cambiamento nella Fraternità San Pietro) a serrati contatti per giungere rapidamente ad un accordo con la Santa Sede. Pare che il Papa senta il bisogno di bruciare i tempi e sia disposto ad acconsentire ad ogni richiesta proveniente dalla Fraternità. Si parla perfino della Pasqua del 2001 come data definitiva per l’accordo. (si  veda la documentazione sui colloquii tra la Santa Sede e la Fraternità).

La volontà del Papa è chiara, l’entusiasmo del Card. Castrillon è indubitabile, ma la reale situazione dell’àmbito tradizionale cattolico in rapporto ai Vescovi diocesani è tale (come si è visto negli anni precedenti e come ha sottolineato la vicenda della Fraternità San Pietro) che la Fraternità San Pio X pone la pregiudiziale della liberalizzazione della S. Messa tradizionale. In un primo tempo Roma sembra disposta a giungere finalmente a questa decisione, rimandata da anni, ma, ancora una volta, prevale la dura opposizione dei Vescovi diocesani.
Qualcuno ritiene che la posizione della Fraternità sia troppo rigorosa, e lo stesso Card. Ratzinger parla di irrigidimento della Fraternità. Molti ritengono che la richiesta della Fraternità sia una forzatura, e lo stesso Card. Castrillon si convince che sono le resistenze interne alla Fraternità che inducono Mons. Fellay a interrompere ogni trattativa se prima non venga accolta la richiesta della liberaliz-zazione. Ma le cose sono un po’ piú complesse di come appaiono.

Il tempo dà ragione alla Fraternità. 
Citiamo solo due esempii recenti che fanno capire come le posizioni della Fraternità siano le piú coerenti con la realtà in cui vive la Chiesa oggi.

Dopo la dichiarazione della Congregazione per il Culto Divino (del 2000) circa l’inginocchiamento dei fedeli al momento della ricezione del SS. Sacramento, da considerarsi come prassi tradizionale della Chiesa ancora oggi raccomandabile, ecco che la Conferenza Episcopale statunitense, nel luglio del 2002, sancisce che, per quanto riguarda gli Stati Uniti, ricevere la Comunione in ginocchio è un fatto illecito e, come tale, proibito nelle diocesi americane. Roma, il Papa e la Tradizione non contano un bel niente.

Nel marzo del 2002, duecentocinquanta sacerdoti diocesani di Francia, con l’accordo di altri centocinquanta loro confratelli, sottoscrivono una supplica al Papa per la liberalizzazione della S. Messa di San Pio V.

Questi due esempii bastino a far capire come il giudizio della Fraternità sullo stato della Chiesa corrisponda perfettamente alla realtà: la buona volontà del Papa e l’entusiasmo della Curia romana non sono mai stati sufficienti a determinare un minimo raddrizzamento, occorrono dei segnali ben evidenti per avviare quella “riforma della riforma” piú volte auspicata dal Card. Ratzinger.
 

LA NUOVA REALTÀ LITURGICA DELLA CHIESA CATTOLICA APOSTOLICA ROMANA 
DI RITO ROMANO

In questo contesto si colloca l’ultima importante decisione assunta dal Santo Padre per tentare di porre un punto fermo circa il ritorno della liturgia tradizionale nel seno della Chiesa.

Insieme ai sacerdoti della Fraternità San Pio X, nel 2001, partecipò ai colloqui col Card. Castrillon anche il Rev. Padre Fernando Rifan, in rappresentanza dei sacerdoti di Campos, Brasile, rimasti autonomamente legati alla liturgia tradizionale in quanto figli spirituali di S. Ecc. Mons. De Castro Mayer. Quest’ultimo, Vescovo diocesano di Campos, nel 1988 aveva collaborato all’ordinazione episcopale dei quattro Vescovi della Fraternità San Pio X e da allora aveva promosso la costituzione della Unione Sacerdotale San Giovanni Maria Vianney in quella che fino a quel momento era stata la sua diocesi. 
Anche nel caso di Campos si imponeva la necessità che i sacerdoti rimasti fedeli alla Tradizione mantenessero un regime gerarchico legittimo e, nel 1991, dopo la morte di Mons. De Castro Mayer, poterono beneficiare di un nuovo Vescovo ordinato dai Vescovi della Fraternità San Pio X: Mons. Licinio Rangel.

Quando la Fraternità interruppe i colloquii con la Santa Sede, nel 2001, in seguito al rifiuto di Roma di liberalizzare la S. Messa di San Pio V, il Card. Castrillon Hoyos invitò i sacerdoti di Campos a proseguire autonomamente la trattativa per giungere alla ricomposizione della loro specifica situazione. La Santa Sede aveva offerto alla Fraternità San Pio X la possibilità di reintegro formale nel corpo ecclesiale attraverso la costituzione di una Amministrazione Apostolica Personale direttamente dipendente dal Santo Padre e svincolata dalla giurisdizione dei Vescovi diocesani. Una posizione invero molto vantaggiosa per l’autonomia della Fraternità, che le avrebbe permesso di godere di una giurisdizione mondiale autonoma col mantenimento della liturgia e della disciplina liturgica preconciliari. 
La stessa soluzione venne proposta alla Unione Sacerdotale San Giovanni Maria Vianney, che, nel gennaio del 2002 è divenuta l’Amministrazione Apostolica San Giovanni Maria Vianney, con giurisdizione personale limitata alla diocesi di Campos e col diritto di usare in esclusiva la liturgia e la disciplina liturgica di San Pio V. Il Vescovo Mons. Rangel è divenuto l’Amministratore Apostolico, coadiuvato da S. Ecc. Mons. Fernando Rifan, ordinato Vescovo coadiutore con diritto alla successione di Mons. Rangel. (si veda la documentazione sullo svolgimento della vicenda)

L’epilogo di questa vicenda presenta degli elementi di notevole interesse, che vale la pena sottolineare. 

Innanzi tutto la nomina di Mons. Rangel come Amministratore Apostolico non ha comportato alcuna espressa remissione della scomunica latae sententiae in cui egli era incorso al momento della sua ordinazione episcopale ad opera dei Vescovi “scomunicati” della Fraternità San Pio X. La lettera del Papa e il decreto di nomina sfiorano appena la questione, dando per scontato che Mons. Rangel fosse a tutti gli effetti un Vescovo di Santa Romana Chiesa, sullo stesso piano di parità giuridica e sostanziale degli altri Vescovi diocesani. È chiaro che non si è trattato di una svista, ma della palese volontà del Papa di considerare la stessa scomunica latae sententiae come inesistente (cosa che la dice lunga sul vero significato della “scomunica” che nel 1988 ha colpito Mons. Lefebvre e i quattro nuovi Vescovi della Fraternità San Pio X).

Per di piú, di fronte alle perplessità circa il futuro successore dell’Amministratore Apostolico, che avrebbe dovuto necessariamente possedere quegli elementi di garanzia per il mantenimento del regime tradizionale dell’Amministrazione Apostolica, il Santo Padre ha disposto per l’immediata ordinazione episcopale di un sacerdote della stessa Amministrazione Apostolica: il Rev. Padre Fernando Rifan (cosa che non si volle concedere nell’1988 a Mons. Lefebvre). 
Questo nuovo Vescovo dell’Amministrazione Apostolica è stato ordinato secondo il Rito di San Pio V, dal Card. Castrillon Hoyos, da Mons. Rangel e da Mons. Alano Pena, Vescovo diocesano di Nova Friburgo, ed ha assunto subito la funzione di Coadiutore dell’Amministratore Apostolico con diritto alla successione.
È la prima volta, dal 1970, che un Vescovo di Santa Romana Chiesa viene ordinato col rito preconciliare da altri Vescovi romani. Fino ad allora, questi ultimi si erano limitati, quasi in sordina, in luoghi appartati, alle ordinazioni sacerdotali: questa ordinazione vescovile, svoltasi pubblicamente in una chiesa cattedrale, segna una svolta clamorosa che sta a significare chiaramente come la liturgia di San Pio V abbia ripreso pieno vigore in seno alla Chiesa cattolica romana.

Da notare che l’Amministrazione Apostolica San Giovanni Maria Vianney è, a norma di Diritto Canonico, una Chiesa particolare come una qualsiasi diocesi (Cfr. CIC, Cann. 368, 371 § 2, 372 § 1 e 2, 373, 374 § 1, 381 § 2): essa è quindi una porzione dell’intero corpo ecclesiale che si regge con le stesse leggi di tutta la Chiesa. 
Le forme giuridiche, le discipline liturgiche e gli insegnamenti dottrinali dell’Amministrazione Apostolica San Giovanni Maria Vianney sono quelle di tutta la Chiesa di rito romano, ancorché applicate solo in un àmbito particolare come quello della giurisdizione “personale” di questa stessa Amministrazione Apostolica.
Non è di poco conto precisare che: 
- l’Amministrazione Apostolica può contare sull’intero patrimonio già acquisito dall’Unione Sacerdotale nel corso degli anni: 
        19 chiese principali, 137 cappelle, 1 seminario, 26 sacerdoti, 12 seminaristi e 27730 fedeli; 
- a norma del decreto di erezione, segue la liturgia e la disciplina liturgica di San Pio V : il che significa che usa in esclusiva i 
        libri liturgici in vigore nel 1962: dal calendario liturgico al pontificale;
- possiede un suo proprio seminario e un suo tribunale ecclesiastico.

Con questa decisione, interamente compatibile col Codice di Diritto Canonico in vigore (e logicamente con tutto il Concilio Vaticano II), il Santo Padre ha superato d’un sol colpo le remore che avevano frenato ogni decisione simile nel passato
Si potrebbe perfino affermare che una tale decisione sia stata presa, per un verso in accordo con la Conferenza Episcopale Brasiliana, e per l’altro nonostante i Vescovi, poiché essa realizza di fatto una situazione fino ad oggi impensabile: in una stessa diocesi della Chiesa universale sono presenti due realtà ecclesiali differenti: una che fa capo al Vescovo diocesano e segue la liturgia e la pastorale moderna, un’altra che fa capo all’Amministratore Apostolico, direttamente dipendente dal Papa, e segue la liturgia e la pastorale tradizionali. Queste due realtà sono chiamate a collaborare per il bene della Chiesa e per l’edificazione dei fedeli, entrambe in unione col Soglio di Pietro, senza che l’una abbia la possibilità di interferire nei confronti dell’altra. Per di piú, qualunque fedele della diocesi di Campos che si senta di condividere i principi e gli scopi dell’Amministrazione Apostolica ha la possibilità di fare esclusivo riferimento ad essa, alla sola condizione di iscriversi in un apposito registro tenuto dall’Amministratore Apostolico.
 

LA CONVERSIONE LITURGICA E LE SUE CONSEGUENZE

Da tutto questo deriva una situazione che possiamo considerare come una vera e propria inversione di marcia della Gerarchia rispetto all’andamento assunto dal nuovo corso instauratosi col dopo Concilio e rispetto alle sue preoccupanti conseguenze.

Innanzi tutto è stata tolta al Vescovo diocesano la giurisdizione sui fedeli, chierici e laici, legati alla Tradizione. Essi godono da adesso di una propria autonoma giurisdizione, della cui conduzione rispondono solo al Sommo Pontefice. 
È stato sancito chiaramente che qualsiasi fedele può rivolgersi alla liturgia tradizionale senza incappare nei veti del proprio Ordinario: se per la sua sensibilità si sente chiamato a seguire la liturgia e le norme liturgiche preconciliari ha la possibilità di affidarsi alla cura pastorale dell’Amministratore Apostolico. 
L’uso della liturgia e della disciplina liturgica tradizionali non dipende piú dalle “concessioni”, dai “permessi” temporanei, dagli “indulti”: esso è sancito come uso legittimo e permanente. Tale uso non dipende piú dalla “discrezione”, dalla “prudenza” e comunque dal “giudizio” del Vescovo diocesano: esso è un uso proprio della Chiesa Cattolica di Rito Romano, disposto per espressa volontà del Santo Padre e per disposizione della Curia Romana senza limiti, senza vincoli e senza pregiudiziali.

Il decreto di erezione dell’Amministrazione Apostolica porta la data del 18 gennaio 2002: da questa data il Santo Padre ha ufficialmente riconosciuto che nella Chiesa Cattolica di Rito Romano sono in vigore due liturgie e due discipline liturgiche: la liturgia e la disciplina liturgica post-conciliare e la liturgia e la disciplina liturgica di San Pio V (con gli adattamenti disposti dai suoi successori fino al 1962).

Questa nuova situazione, che a giusta ragione si può definire come una conversione liturgica, è passata sotto silenzio. 
Tolti coloro che se ne sono interessati, il resto dei fedeli cattolici romani è all’oscuro di questa svolta.

Si dice che essa riguardi esclusivamente il caso particolare di Campos, che ha una sua peculiarità fondata su una situazione eccezionale e su una collocazione territoriale molto ristretta. Come dire che trattandosi di una città del Brasile, la cosa in fondo non interessa piú di tanto e, in ogni caso, non potrebbe fare testo per il resto della Chiesa. 

È quindi opportuno ribadire che l’Amministrazione Apostolica San Giovanni Maria Vianney non è una Società di Vita Apostolica o un Istituto di Vita Consacrata, ma, a norma di Diritto Canonico, è una Chiesa particolare al pari di una qualsiasi diocesi. 
L’Amministratore Apostolico, che per diritto dev’essere un Vescovo, gode delle stesse prerogative di un Vescovo diocesano. 
- I bambini e i ragazzi cattolici i cui genitori decidono di volgersi alla millenaria liturgia della Chiesa, vengono catechizzati, 
    battezzati e cresimati secondo il rito tradizionale, 
- i giovani cattolici si sposano col rito tradizionale, 
- i fedeli si confessano e ricevono l’estrema unzione col rito tradizionale, 
- i seminaristi ricevono gli Ordini minori, il Diaconato e il Sacerdozio col rito tradizionale, 
- i chierici vengono consacrati Vescovi col rito tradizionale. 

Non si tratta di piccole cose, di condizioni particolari e quasi irripetibili: è un intera Chiesa particolare che vive regolarmente e compiutamente secondo norme rituali che si credevano estinte. 
È una intera Chiesa particolare che pratica la fede e prega come si praticava la fede e si pregava prima del Concilio.
Non è un’altra Chiesa: è la stessa e identica Chiesa Cattolica Apostolica Romana di Torino o di Milano, di Parigi o di New York. 
Non è un Vescovo senza giurisdizione, ma è un Vescovo con tanto di sede episcopale e di giurisdizione pastorale che applica legittimamente nella sua Chiesa particolare riti e norme che si credevano non fossero piú in vigore nella Chiesa.

A chi solleva l’obiezione che si tratti pur sempre di una particolare situazione “locale”, ricordiamo che è stata la Fraternità San Pio X a non voler accettare subito l’Amministrazione Apostolica Personale con giurisdizione mondiale: la stessa Fraternità  ha ritenuta idonea questa soluzione, ne ha solo postergata l’accettazione in attesa che Roma si decida a liberalizzare la S. Messa tradizionale. 
Questo significa che, per quanto riguarda il Papa e la Gerarchia, la situazione di Campos è da intendersi come esemplare in attesa che l’intera Chiesa universale giunga alla medesima sistemazione.

Se la Fraternità San Pio X avesse concluso l’accordo con la Santa Sede, oggi tutta la Chiesa, in gran parte delle sue diocesi, vivrebbe l’esperienza della Tradizione; e i fedeli cattolici ad essa legati si troverebbero a poter scegliere liberamente il loro Pastore tra un Vescovo diocesano di spirito moderno e un Amministratore Apostolico di spirito tradizionale.
Affermare che il caso di Campos è un caso a sé stante è come dire che la diocesi di Napoli è un caso a sé stante: nei fatti siamo di fronte ad una sola ed unica Chiesa di rito romano che utilizza sia il Novus Ordo sia l’Ordo fissato da San Pio V.

Qualcuno ha paragonato la situazione di Campos a quella in cui si trovano altre Chiese particolari di rito bizantino. Sostenendo che in fondo si tratta di una prassi normale che non cambia nulla dello stato attuale della Chiesa.
Per qualche aspetto la similitudine sembrerebbe sostenibile, ma in pratica (e anche dal punto di vista canonico) le cose stanno diversamente. 
Non si tratta di una Chiesa particolare di rito diverso dal rito romano, bensí di una Chiesa particolare sempre di rito romano, il che presenta aspetti del tutto nuovi e tali da cambiare lo stato attuale della Chiesa. 
Sancito definitivamente il doppio rito romano in vigore nella Chiesa, il Papa potrebbe officiare con l’uno o l’altro rito senza nulla ledere della legge ordinaria della Chiesa. D’altronde, già oggi tanti Vescovi e Cardinali officiano anche col rito di San Pio V, effettuando anche le ordinazioni sacerdotali, ma mentre prima si trattava di un fatto eccezionale, da adesso deve parlarsi di un fatto che appartiene alla conduzione ordinaria della vita liturgica della Chiesa. 

Né, tampoco, la situazione di Campos può essere paragonata a quella della diocesi di Milano, per esempio, in cui si officia col rito ambrosiano. Anche in questo caso si tratta sempre di un rito diverso da quello romano. 
E se si volesse guardare alla similitudine della giurisdizione circoscritta ad un dato luogo, si dovrebbe tenere presente che tale situazione limitativa di Campos ha solo un carattere temporaneo, che verrà meno in occasione della normalizzazione della posizione della Fraternità San Pio X. 
Peraltro, lo ricordiamo, una delle peculiarità dell’Amministrazione Apostolica di Campos è che i fedeli possono scegliere liberamente di appartenervi, pur rimanendo nel territorio che cade sotto la giurisdizione del Vescovo diocesano di Campos; cosa questa che non permette piú alcun paragone possibile con qualsiasi altra realtà esistente fino ad ora nella Chiesa.

Si potrebbe ancora obiettare che, in ogni caso, resta l’aspetto canonico da tenere presente: infatti l’Amministrazione Apostolica San Giovanni Maria Vianney di Campos, e domani l’Amministrazione Apostolica Personale e mondiale San Pio X, sono erette con uno specifico decreto che, per ciò stesso, ne fa dei casi particolari non estensibili a piacimento di questo o di quel gruppo di fedeli. 

Questo è vero. 

Nulla infatti è cambiato, purtroppo, del potere giurisdizionale dei Vescovi diocesani. 
Se, per esempio, una volta eretta l’Amministrazione  Apostolica San Pio X, essa non fosse presente col suo apostolato a Cuneo, i fedeli di quella diocesi non potrebbero decidere liberamente di volgersi all’uso della liturgia di San Pio V. Di fatto si troverebbero nella stessa situazione in cui si trovano adesso: potrebbero chiedere al proprio Vescovo l’autorizzazione perché si celebri, col rito tradizionale, una S. Messa in base all’“indulto” o si amministrino i Sacramenti in base alle disposizioni della Congregazione per il Culto Divino. 
L’avvenuta erezione dell’Amministrazione  Apostolica San Pio X non darebbe loro alcun nuovo diritto.

Tuttavia, se questo è vero dal punto di vista formale, poiché i fedeli non potrebbero avvalersi di una precisa disposizione della Chiesa, non è piú vero dal punto di vista sostanziale.

A partire dal 1984 l’applicazione dell’“indulto” è stata ignorata dalla maggior parte dei Vescovi sia perché dipendeva dalla loro “discrezionalità”, sia perché lasciava ai Vescovi la possibilità di giudicare la richiesta della S. Messa tradizionale come una esigenza fondata su una liturgia che il Papa aveva abolita: una sorta di richiesta ingiustificata e quasi “provocatoria”.

Quando nel 1988 il Santo Padre stabilí che i Vescovi dovessero rispettare la sensibilità dei fedeli legati alla liturgia tradizionale, ritenendo superato il problema della supposta abolizione di questa liturgia,  i Vescovi continuarono a ignorare la disposizione del Papa e a maltrattare la sensibilità dei fedeli, trincerandosi dietro la necessità pastorale: non era opportuno che in seno alla propria diocesi si costituisse un gruppo apertamente e pubblicamente legato alla liturgia tradizionale, la cosa poteva arrecare nocumento alla tranquilla vita della diocesi.

Quando nel 1999 la Congregazione per il Culto Divino precisò che, di fatto, la liturgia tradizionale non era stata mai abolita e che anzi lo stesso “indulto” era stato superato perché nelle diocesi della Chiesa si potevano amministrare tutti i Sacramenti col rito di San Pio V, a norma dello stesso Diritto Canonico: i Vescovi finirono col trincerarsi dietro il loro potere giurisdi-zionale esclusivo in campo liturgico, sostenendo che, nonostante il disposto della Congregazione per il Culto Divino, i soli a poter legiferare nella propria diocesi in questo campo erano loro, pertanto non avrebbero permesso che si restaurasse una liturgia che la Chiesa aveva già abbandonato definitivamente da trent’anni.

Con l’erezione della Amministrazione Apostolica di Campos, tutte queste scusanti pretestuose e infondate, non possono piú sussistere, poiché la Chiesa Cattolica di rito romano ha ripristinato a tutti gli effetti la liturgia preconciliare, e se formalmente questo è avvenuto in un caso particolare, moralmente e dal punto di vista della pratica della fede il fatto nuovo non riguarda solo certi fedeli brasiliani, ma tutta la Chiesa: dal Papa che ha voluto la restaurazione ai Cardinali che hanno pubblicamente ordinato un Vescovo col rito di San Pio V; dai Vescovi brasiliani ai Vescovi di tutto il mondo che dovranno ospitare i sacerdoti e i Vescovi della nuova Amministrazione Apostolica lasciando che officino esclusivamente col rito tradizionale; dai seminaristi che possono scegliere di frequentare il seminario dell’Amministrazione Apostolica ricevendo una istruzione dottrinale e liturgica preconciliare ai semplici fedeli di tutto il mondo cattolico che potranno chiedersi legittimamente perché il ripristino della liturgia tradizionale nella Chiesa debba essere ignorato dai proprii Pastori.
In questo caso i Vescovi non possono limitare a trincerarsi dietro la loro autonomia giurisdizionale, debbono spiegare ai fedeli legati alla Tradizione perché una cosa lecita, legittima e in uso nella Chiesa Cattolica Romana non debba valere anche per loro che sono i fedeli di questa stessa Chiesa e, soprattutto, non debba valere anche per loro stessi, i Vescovi, che di questa Chiesa sono i legittimi rappresentanti.

Dopo l’erezione dell’Amministrazione Apostolica di Campos, un Vescovo che si ponesse in contraddizione con questa decisione della Chiesa, che considerasse ancora abolita la liturgia tradizionale, che allontanasse le richieste dei fedeli legati alla Tradizione come inopportune e dannose per la Chiesa: dimostrerebbe non piú insensibilità nei confronti dei fedeli, ma opposizione nei confronti di Roma; e, dal punto di vista religioso e morale, si comporterebbe come uno scismatico, considerandosi capo di una chiesa diversa dalla Chiesa Cattolica Apostolica Romana.
 

In che modo i fedeli affidati alla sua cura pastorale avrebbero il diritto di reagire?
Che tipo di decisione potrebbero assumere i chierici sottoposti alla sua autorità?
Quale sarebbe il dovere delle Autorità romane nei confronti di questo Vescovo?
 
Solo la liberalizzazione della S. Messa di San Pio V sarebbe in grado di rispondere adeguatamente a questi interrogativi.

Nell’attesa, i fedeli legati alla Tradizione hanno il dovere di usare al meglio questa nuova possibilità voluta espressamente dal Santo Padre, ricordando che la Chiesa è governata certo col Codice di Diritto Canonico, ma è retta essenzialmente dalla Fede, dalla dottrina e dalla morale, le quali non sono i frutti, ma il fondamento stesso del diritto; non esse dipendono dal diritto, ma è il diritto che scaturisce da esse. 
La dottrina e la morale hanno, per loro natura, la prevalenza su ogni disposizione canonica, e sono la legge in presenza del vuoto o dell’equivoco legislativo.

Preghiamo la santa Vergine perché ci assista tutti, dal Santo Padre all’ultimo fedele, in quest’opera di recupero del preziosissimo e insostituibile tesoro liturgico e dottrinale della  Sposa immacolata di Cristo.

CC


(marzo 2003)


ALLA PRIMA PAGINA (Home)
AL SOMMARIO GENERALE
AL SOMMARIO PER ARGOMENTI
AL SOMMARIO ARTICOLI TRATTI DA ALTRE FONTI