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Dall’ “indulto” al ripristino della liturgia tradizionale LA CONVERSIONE LITURGICA
Quando, nel gennaio del 2001, scrivevamo che si stavano moltiplicando i segni che lasciavano intravedere una maggiore apertura della Gerarchia nei confronti della liturgia tradizionale, si poteva pensare che le nostre considerazioni peccassero di ottimismo: corrispondendo piú alle nostre speranze che alla situazione reale. Da allora si sono aggiunti altri elementi a conferma della nostra analisi, alcuni dei quali sono di un’importanza considerevole. Parleremo di questi elementi accompagnandoli con un rapido sguardo alle vicende che in questi trent’anni hanno riguardato la questione della liturgia cattolica romana. DAL 1970 AL 2000 La promulgazione del Novus Ordo Missae, nel 1970, determinò
una situazione anomala: da un lato ci furono dei chierici e dei
laici che accolsero la nuova liturgia con profondo disagio, ma che si sottomisero
al nuovo corso per ubbidienza, mentre altri si rifiutarono di accettare
la nuova situazione: i chierici subendo l’esclusione dall’apostolato, i
laici venendosi a trovare in una posizione di emarginazione ecclesiale.
Dall’altro si manifestò la entusiastica diffusione di una
pratica liturgica tutta intrisa di “creatività”: molti chierici
erano convinti che il nuovo corso avrebbe prodotto dei frutti insperati,
soprattutto in vista di una nuova e piú profonda consapevolezza
dei fedeli circa la dottrina e la pratica della fede.
Già nel 1984, a Roma, si dovette prendere atto del fatto
che la realtà dei fedeli legati alla dottrina e alla liturgia tradizionali
non poteva piú essere sottovalutata, e si arrivò al famoso
“indulto”. La Congregazione per il Culto Divino emanò la lettera
circolare Quattuor abhinc annos,
con la quale il Santo Padre concedeva ai Vescovi un indulto perché
potessero autorizzare la celebrazione della S. Messa secondo l’Ordo in
vigore nel 1962. Fu una lettera discussa e contrastata, dove peraltro si
esigeva che i richiedenti dovessero manifestare, “anche pubblicamente”,
la non condivisione delle “posizioni di coloro che mettono in dubbio
la legittimità e l’esattezza dottrinale del Messale Romano promulgato
dal Papa Paolo VI nel 1970”; e nei confronti della quale si sollevarono
non poche perplessità circa la stranezza di indulgere su una supposta
violazione di un inesistente vincolo canonico che avrebbe imposto l’abolizione
della liturgia di San Pio V.
Nel 1986, il Santo Padre volle capire quali frutti avesse dato
la concessione dell’“indulto” e dispose un’indagine sulla sua applicazione.
Ne risultò che la stragrande maggioranza dei Vescovi non aveva capito
il senso di quella disposizione e l’aveva semplicemente ignorata e apertamente
contrastata, confermando una sorta di manifesto ostracismo nei confronti
di una parte dei fedeli delle loro diocesi. I Cardinali consigliarono al
Papa di disporre una regolare celebrazione della S. Messa col rito tradizionale
nelle città piú importanti delle diocesi. Si trattava, in
pratica, di affermare chiaramente che il rito del 1962 non era stato mai
abolito e che poteva essere utilizzato liberamente da chi ne fecesse richiesta.
Fu questo convincimento che condusse, due anni dopo, nel 1988,
alla messa in atto di tutti gli ostacoli possibili per ritardare l’ordinazione
episcopale di nuovi Vescovi della Fraternità. Si arrivò fino
a definire un preciso accordo tra la Santa Sede e la Fraternità
San Pio X, postergando però ad un prossimo improbabile futuro l’assenso
del Papa a nuove ordinazioni episcopali. Mons. Lefebvre sapeva bene che
il vero scopo di Roma era quello di porre la Fraternità nella condizione
di non poter piú contare su una guida gerarchica e pastorale che
fosse coerente col suo apostolato, cosí da doversi sottomettere
alla giurisdizione dottrinale e liturgica di quegli stessi Vescovi che
combattevano in tutti i modi la Tradizione della S. Chiesa: denunciò
quindi l’accordo e procedette all’ordinazione di quattro nuovi Vescovi
tra i sacerdoti della stessa Fraternità.
La decisione di Mons. Lefebvre non conduceva necessariamente all’applicazione della scomunica latae sententiae. Se il Papa, ancora una volta spinto dalle forti pressioni dei Vescovi soprattutto francesi, non si fosse pronunciato in tal senso, nel suo Motu Proprio Ecclesia Dei adflicta (dello stesso 1988), si sarebbe potuto giungere alla ricomposizione di questa triste vicenda; ma la decisione di Mons. Lefebvre venne considerata come un elemento decisivo per operare quella rottura drastica che tanti Vescovi avevano auspicato per anni e che il Papa non era stato in grado di impedire. Fu quella l’occasione per condurre un certo numero di sacerdoti e religiosi della Fraternità, o ad essa in qualche modo legati, a dissociarsi da Mons. Lefebvre. Nacquero la Fraternità San Pietro e si resero definitivamente indipendenti i monasteri benedettini di Francia che officiavano con la liturgia tradizionale. Il fatto che un certo numero di chierici e di laici rimasti fedeli alla Tradizione fossero regolarmente organizzati e gerarchicamente sottomessi alla giurisdizione dei Vescovi diocesani fece sperare ai piú fiduciosi che si sarebbe aperto un nuovo corso. Per dieci anni, dal 1988 al 1998, le speranze vennero disattese e nulla accadde che fosse in grado di sancire una volta per tutte che la liturgia tradizionale della S. Chiesa potesse essere liberamente praticata da tutti i chierici e i laici che si sentivano ad essa legati. La costituzione della Pontificia Commissione Ecclesia Dei, che aveva il compito di favorire il pieno inserimento nell’àmbito ecclesiale dei sacerdoti e dei fedeli legati alla liturgia tradizionale , fallí nel suo compito. Essa si limitò ad seguire l’andamento delle realtà tradizionali esistenti, senza riuscire a sostenere il potenziale ampliamento di queste realtà e la nascita di nuove. Anzi, anno dopo anno, costretta a cedere alle pressioni dei Vescovi diocesani (nei confronti dei quali, peraltro, non aveva alcun potere, neanche di semplice “pressione”), finí col concorrere a snaturare lo scopo stesso di quelle comunità tradizionali affidate alla sua cura. Non furono poche le occasioni nelle quali autorevoli membri della Pontificia Commissione si preoccuparono di precisare che in fondo il “fenomeno tradizionalista” era da considerarsi eccezionale e transitorio. I preconcetti super ottimistici dei Vescovi modernisti mantenevano il convincimento che pian piano la Fraternità San Pio X, ormai segnata dal marchio della “scomunica”, si sarebbe svuotata, che i sacerdoti e i fedeli si sarebbero aggregati agli organismi ecclesiali esistenti, e, soprattutto, che in definitiva tutto l’àmbito tradizionalista avrebbe finito con l’ammorbidire le sue posizioni, accettando in toto il nuovo corso, pur mantenendo una sorta di rapporto “affettivo” nei confronti delle “forme” liturgiche preconciliari. Nei fatti, lo svolgimento degli eventi ha rivelato l’esistenza di una situazione che i piú attenti avevano facilmente intravista: la Fraternità San Pio X si ingrandiva sempre piú, il numero dei fedeli che all’interno delle diocesi si volgevano alla liturgia tradizionale si arricchiva di nuove e numerose adesioni, dettate soprattutto dall’esigenza di ancoraggio alla dottrina e alla pastorale tradizionali della Chiesa, il numero dei sacerdoti diocesani sempre piú scontenti del nuovo corso aumentava silenziosamente eppure notevolmente, soprattutto tra i giovani ordinati. Tra le iniziative piú clamorose, in quel decennio, ricordiamo la raccolta di centinaia di migliaia di firme in tutto il mondo cattolico a sostegno di una supplica al Santo Padre per l’uso diffuso di tutti i libri liturgici in vigore nel 1962. Fu una iniziativa condotta discretamente dalle comunità tradizionali, che permise all’Abate benedettino di Saint-Madaleine, di Le Barroux, l’Ecc.mo Dom Gerard Calvet, di presentare personalmente la supplica al Papa. Ma non accadde niente. Il Papa ha sempre aspettato tempi migliori, sperando inspiegabilmente in una sorta di conversione dei Vescovi che non poggia su alcun dato reale. Nel 1998, quando la Fraternità San Pietro organizzò
un pellegrinaggio internazionale a Roma per ricordare
i dieci anni della promulgazione del Motu Proprio Ecclesia Dei adflicta,
si vide chiaramente che la realtà tradizionale della S. Chiesa annoverava
nel suo seno un gran numero di fedeli che per la loro giovane età
non avevano neanche conosciuta la liturgia del 1962: i fedeli legati alla
Tradizione non erano dei “nostalgici” e il loro numero, in dieci anni,
si era ampliato di molto. Una realtà che continuava a crescere nonostante
l’opposizione dichiarata dei Vescovi diocesani.
Le reazioni dei Vescovi, di fronte al pellegrinaggio nel decennale
dell’Ecclesia Dei, non si fecero attendere. La
Fraternità San Pietro andava ridimensionata. Soprattutto
in Francia, si convinsero alcuni sacerdoti della stessa Fraternità
a fare da testa d’ariete: con una lettera indirizzata
alla Commissione Ecclesia Dei, nel giugno del 1999, si giudicava la
conduzione della Fraternità San Pietro troppo sbilanciata sulle
posizioni della Fraternità San Pio X, si chiedeva la libertà
di officiare col Novus Ordo e si chiedeva la sostituzione del Superiore
Generale, il Rev. Padre Josef Bisig.
I PRIMI SEGNI RIPARATORI Ma in piena controtendenza, proprio in quegli anni, la Gerarchia si decideva a proporre dei documenti con i quali si mettevano dei punti fermi contro il già affermato mal costume liturgico, anche se ormai questo aveva prodotto dei gravi danni di ordine anche dottrinale (per tutti valga il richiamo della Dominus Iesus, in cui si lamenta pesantemente la perdita della vera dottrina cattolica). Ed è addirittura dello stesso giugno 1999 la lettera della Congregazione per il Culto Divino a Mons. Bonicelli, Arcivescovo di Siena, con la quale si sancisce il definitivo superamento dello stesso Motu Proprio Ecclesia Dei. La lettera Quattuor abhinc annos, del 1984, dava
la possibilità che si potesse concedere la celebrazione della S.
Messa col rito del 1962, il Motu Proprio Ecclesia Dei, del
1988, aveva ribadito questa possibilità, ma il Papa aveva voluto
sottolineare che la questione non si esauriva nella semplice richiesta
della S. Messa tradizionale e, impegnando la sua Autorità Apostolica,
aveva stabilito che “dovrà essere ovunque rispettato l’animo
di tutti coloro che si sentono legati alla tradizione liturgica latina”.
Undici anni dopo, nel 1999, la Congregazione per il Culto Divino affermava
che, non solo è possibile concedere la S. Messa tradizionale, ma
è possibile riconoscere ai gruppi di fedeli “che si sentono legati
alla tradizione liturgica latina” lo status di comunità parrocchiale,
costituendo a loro beneficio una “parrocchia personale”. Non piú
quindi solo la celebrazione della S. Messa, ma l’amministrazione di tutti
i Sacramenti.
Nel contempo, nel 2000 (prot. 2036),
la Congregazione per il Culto Divino ricordava che la celebrazione versus
absidem (cioè con il sacerdote rivolto verso il Signore
e con le spalle al popolo) non è mai stata abolita, anzi essa era
e rimane la posizione liturgica tradizionale, cosí che se la celebrazione
versus populum è la piú “conveniente nella misura in cui…”,
essa non esclude la celebrazione “rivolti al Signore”. Incredibile, ma
vero, la Congregazione ribadiva che la celebrazione “con le spalle al popolo”,
non solo non è stata mai abolita, ma che lo stesso Concilio non
ha mai stabilito la celebrazione “in faccia al popolo”: con il celebrante
che volge le spalle al Signore.
Sempre nel 2000 (prot. 2372), la stessa Congregazione per il Culto Divino, afferma che non è mai stato abolito l’inginocchiarsi dei fedeli al momento della ricezione del SS. Sacramento; confermando anche qui che l’esclusivo uso della ricezione in piedi del SS. Sacramento, adottato in questi trent’anni in maniera obbligatoria, si configura come un vero e proprio abuso. Lo stesso Sommo Pontefice, il 21/9/2001, nella lettera
di saluto indirizzata alla Plenaria della Congregazione per il
Culto Divino, ha finito col ricordare, tra altre cose, che “Il Popolo
di Dio ha bisogno di vedere nei sacerdoti e nei diaconi un comportamento
pieno di riverenza e di dignità, capace di aiutarlo a penetrare
le cose invisibili, anche senza tante parole e spiegazioni. Nel Messale
Romano, detto di San Pio V, come in diverse Liturgie orientali, vi sono
bellissime preghiere con le quali il sacerdote esprime il più profondo
senso di umiltà e di riverenza di fronte ai santi misteri: esse
rivelano la sostanza stessa di qualsiasi Liturgia.” Confermando
che è cosa ben auspicabile che i sacerdoti ritornino a recitare
le preghiere del Messale che si era dato per abolito, sia per l’edificazione
dei fedeli, sia per la loro stessa edificazione.
LA SVOLTA DEL 2000 Il 2000 è stato l’anno del Giubileo ed è accaduto un fatto
importantissimo per la vita della Chiesa. La
Fraternità San Pio X si reca in pellegrinaggio a Roma per
lucrare le indulgenze previste e, a tal fine, stabilisce degli accordi
di ordine organizzativo con la Curia romana per l’accesso alle basiliche.
Piú di 5000 fedeli provenienti da ogni parte del mondo si ritrovano
a Roma e, accompagnati da piú di 500 tra sacerdoti e religiosi,
con in testa i quattro Vescovi della Fraternità, per tre giorni
visitano tutte le basiliche romane. Quando si presentano, composti, ordinati
e oranti, su via della Riconciliazione e si dirigono verso la balisica
di San Pietro, tra lo stupore di tanti abitanti la Città del Vaticano,
qualcuno pensa che si tratti di un atto di forza contro il Vaticano. Incredibilmente,
per certuni, i cosiddetti “scomunicati” si recano in San Pietro, col pieno
consenso delle Autorità romane, e pregano per il Santo Padre (come
peraltro è norma all’interno della Fraternità fin dalla sua
costituzione).
La volontà del Papa è chiara, l’entusiasmo del Card. Castrillon
è indubitabile, ma la reale situazione dell’àmbito tradizionale
cattolico in rapporto ai Vescovi diocesani è tale (come si è
visto negli anni precedenti e come ha sottolineato la vicenda della Fraternità
San Pietro) che la Fraternità San Pio X pone la pregiudiziale della
liberalizzazione della S. Messa tradizionale. In un primo tempo Roma sembra
disposta a giungere finalmente a questa decisione, rimandata da anni, ma,
ancora una volta, prevale la dura opposizione dei Vescovi diocesani.
Il tempo dà ragione alla Fraternità.
Dopo la dichiarazione della Congregazione per il Culto Divino (del 2000) circa l’inginocchiamento dei fedeli al momento della ricezione del SS. Sacramento, da considerarsi come prassi tradizionale della Chiesa ancora oggi raccomandabile, ecco che la Conferenza Episcopale statunitense, nel luglio del 2002, sancisce che, per quanto riguarda gli Stati Uniti, ricevere la Comunione in ginocchio è un fatto illecito e, come tale, proibito nelle diocesi americane. Roma, il Papa e la Tradizione non contano un bel niente. Nel marzo del 2002, duecentocinquanta sacerdoti diocesani di Francia, con l’accordo di altri centocinquanta loro confratelli, sottoscrivono una supplica al Papa per la liberalizzazione della S. Messa di San Pio V. Questi due esempii bastino a far capire come il giudizio della Fraternità
sullo stato della Chiesa corrisponda perfettamente alla realtà:
la buona volontà del Papa e l’entusiasmo della Curia romana non
sono mai stati sufficienti a determinare un minimo raddrizzamento, occorrono
dei segnali ben evidenti per avviare quella “riforma della riforma”
piú volte auspicata dal Card. Ratzinger.
LA NUOVA REALTÀ LITURGICA DELLA CHIESA CATTOLICA APOSTOLICA
ROMANA
In questo contesto si colloca l’ultima importante decisione assunta dal Santo Padre per tentare di porre un punto fermo circa il ritorno della liturgia tradizionale nel seno della Chiesa. Insieme ai sacerdoti della Fraternità San Pio X, nel 2001, partecipò
ai colloqui col Card. Castrillon anche il Rev. Padre Fernando Rifan, in
rappresentanza dei sacerdoti di Campos, Brasile, rimasti autonomamente
legati alla liturgia tradizionale in quanto figli spirituali di S. Ecc.
Mons. De Castro Mayer. Quest’ultimo, Vescovo diocesano di Campos, nel 1988
aveva collaborato all’ordinazione episcopale dei quattro Vescovi della
Fraternità San Pio X e da allora aveva promosso la costituzione
della Unione Sacerdotale San Giovanni Maria Vianney in quella
che fino a quel momento era stata la sua diocesi.
Quando la Fraternità interruppe i colloquii con la Santa Sede,
nel 2001, in seguito al rifiuto di Roma di liberalizzare la S. Messa di
San Pio V, il Card. Castrillon Hoyos invitò i sacerdoti di Campos
a proseguire autonomamente la trattativa per giungere alla ricomposizione
della loro specifica situazione. La Santa Sede aveva offerto alla Fraternità
San Pio X la possibilità di reintegro formale nel corpo ecclesiale
attraverso la costituzione di una Amministrazione Apostolica Personale
direttamente dipendente dal Santo Padre e svincolata dalla giurisdizione
dei Vescovi diocesani. Una posizione invero molto vantaggiosa per l’autonomia
della Fraternità, che le avrebbe permesso di godere di una giurisdizione
mondiale autonoma col mantenimento della liturgia e della disciplina liturgica
preconciliari.
L’epilogo di questa vicenda presenta degli elementi di notevole interesse, che vale la pena sottolineare. Innanzi tutto la nomina di Mons. Rangel come Amministratore Apostolico non ha comportato alcuna espressa remissione della scomunica latae sententiae in cui egli era incorso al momento della sua ordinazione episcopale ad opera dei Vescovi “scomunicati” della Fraternità San Pio X. La lettera del Papa e il decreto di nomina sfiorano appena la questione, dando per scontato che Mons. Rangel fosse a tutti gli effetti un Vescovo di Santa Romana Chiesa, sullo stesso piano di parità giuridica e sostanziale degli altri Vescovi diocesani. È chiaro che non si è trattato di una svista, ma della palese volontà del Papa di considerare la stessa scomunica latae sententiae come inesistente (cosa che la dice lunga sul vero significato della “scomunica” che nel 1988 ha colpito Mons. Lefebvre e i quattro nuovi Vescovi della Fraternità San Pio X). Per di piú, di fronte alle perplessità circa il
futuro successore dell’Amministratore Apostolico, che avrebbe dovuto necessariamente
possedere quegli elementi di garanzia per il mantenimento del regime tradizionale
dell’Amministrazione Apostolica, il Santo Padre ha disposto per l’immediata
ordinazione episcopale di un sacerdote della stessa Amministrazione Apostolica:
il Rev. Padre Fernando Rifan (cosa che non si volle concedere nell’1988
a Mons. Lefebvre).
Da notare che l’Amministrazione Apostolica San Giovanni Maria Vianney
è, a norma di Diritto Canonico, una Chiesa particolare come una
qualsiasi diocesi (Cfr. CIC, Cann. 368, 371 § 2, 372 § 1
e 2, 373, 374 § 1, 381 § 2): essa è quindi una porzione
dell’intero corpo ecclesiale che si regge con le stesse leggi di tutta
la Chiesa.
Con questa decisione, interamente compatibile col Codice di Diritto
Canonico in vigore (e logicamente con tutto il Concilio Vaticano II), il
Santo Padre ha superato d’un sol colpo le remore che avevano frenato ogni
decisione simile nel passato.
LA CONVERSIONE LITURGICA E LE SUE CONSEGUENZE Da tutto questo deriva una situazione che possiamo considerare come una vera e propria inversione di marcia della Gerarchia rispetto all’andamento assunto dal nuovo corso instauratosi col dopo Concilio e rispetto alle sue preoccupanti conseguenze. Innanzi tutto è stata tolta al Vescovo diocesano la giurisdizione
sui fedeli, chierici e laici, legati alla Tradizione. Essi godono da
adesso di una propria autonoma giurisdizione, della cui conduzione rispondono
solo al Sommo Pontefice.
Il decreto di erezione dell’Amministrazione Apostolica porta la data del 18 gennaio 2002: da questa data il Santo Padre ha ufficialmente riconosciuto che nella Chiesa Cattolica di Rito Romano sono in vigore due liturgie e due discipline liturgiche: la liturgia e la disciplina liturgica post-conciliare e la liturgia e la disciplina liturgica di San Pio V (con gli adattamenti disposti dai suoi successori fino al 1962). Questa nuova situazione, che a giusta ragione si può definire
come una conversione liturgica, è passata sotto silenzio.
Si dice che essa riguardi esclusivamente il caso particolare di Campos, che ha una sua peculiarità fondata su una situazione eccezionale e su una collocazione territoriale molto ristretta. Come dire che trattandosi di una città del Brasile, la cosa in fondo non interessa piú di tanto e, in ogni caso, non potrebbe fare testo per il resto della Chiesa. È quindi opportuno ribadire che l’Amministrazione Apostolica
San Giovanni Maria Vianney non è una Società di Vita Apostolica
o un Istituto di Vita Consacrata, ma, a norma di Diritto Canonico, è
una Chiesa particolare al pari di una qualsiasi diocesi.
Non si tratta di piccole cose, di condizioni particolari e quasi irripetibili:
è un intera Chiesa particolare che vive regolarmente e compiutamente
secondo norme rituali che si credevano estinte.
A chi solleva l’obiezione che si tratti pur sempre di una particolare
situazione “locale”, ricordiamo che è stata la Fraternità
San Pio X a non voler accettare subito l’Amministrazione Apostolica Personale
con giurisdizione mondiale: la stessa Fraternità ha ritenuta
idonea questa soluzione, ne ha solo postergata l’accettazione in attesa
che Roma si decida a liberalizzare la S. Messa tradizionale.
Se la Fraternità San Pio X avesse concluso l’accordo con la
Santa Sede, oggi tutta la Chiesa, in gran parte delle sue diocesi, vivrebbe
l’esperienza della Tradizione; e i fedeli cattolici ad essa legati si troverebbero
a poter scegliere liberamente il loro Pastore tra un Vescovo diocesano
di spirito moderno e un Amministratore Apostolico di spirito tradizionale.
Qualcuno ha paragonato la situazione di Campos a quella in cui si trovano
altre Chiese particolari di rito bizantino. Sostenendo che in fondo si
tratta di una prassi normale che non cambia nulla dello stato attuale della
Chiesa.
Né, tampoco, la situazione di Campos può essere paragonata
a quella della diocesi di Milano, per esempio, in cui si officia col rito
ambrosiano. Anche in questo caso si tratta sempre di un rito diverso da
quello romano.
Si potrebbe ancora obiettare che, in ogni caso, resta l’aspetto canonico da tenere presente: infatti l’Amministrazione Apostolica San Giovanni Maria Vianney di Campos, e domani l’Amministrazione Apostolica Personale e mondiale San Pio X, sono erette con uno specifico decreto che, per ciò stesso, ne fa dei casi particolari non estensibili a piacimento di questo o di quel gruppo di fedeli. Questo è vero. Nulla infatti è cambiato, purtroppo, del potere giurisdizionale
dei Vescovi diocesani.
Tuttavia, se questo è vero dal punto di vista formale, poiché i fedeli non potrebbero avvalersi di una precisa disposizione della Chiesa, non è piú vero dal punto di vista sostanziale. A partire dal 1984 l’applicazione dell’“indulto” è stata ignorata dalla maggior parte dei Vescovi sia perché dipendeva dalla loro “discrezionalità”, sia perché lasciava ai Vescovi la possibilità di giudicare la richiesta della S. Messa tradizionale come una esigenza fondata su una liturgia che il Papa aveva abolita: una sorta di richiesta ingiustificata e quasi “provocatoria”. Quando nel 1988 il Santo Padre stabilí che i Vescovi dovessero rispettare la sensibilità dei fedeli legati alla liturgia tradizionale, ritenendo superato il problema della supposta abolizione di questa liturgia, i Vescovi continuarono a ignorare la disposizione del Papa e a maltrattare la sensibilità dei fedeli, trincerandosi dietro la necessità pastorale: non era opportuno che in seno alla propria diocesi si costituisse un gruppo apertamente e pubblicamente legato alla liturgia tradizionale, la cosa poteva arrecare nocumento alla tranquilla vita della diocesi. Quando nel 1999 la Congregazione per il Culto Divino precisò che, di fatto, la liturgia tradizionale non era stata mai abolita e che anzi lo stesso “indulto” era stato superato perché nelle diocesi della Chiesa si potevano amministrare tutti i Sacramenti col rito di San Pio V, a norma dello stesso Diritto Canonico: i Vescovi finirono col trincerarsi dietro il loro potere giurisdi-zionale esclusivo in campo liturgico, sostenendo che, nonostante il disposto della Congregazione per il Culto Divino, i soli a poter legiferare nella propria diocesi in questo campo erano loro, pertanto non avrebbero permesso che si restaurasse una liturgia che la Chiesa aveva già abbandonato definitivamente da trent’anni. Con l’erezione della Amministrazione Apostolica di Campos, tutte
queste scusanti pretestuose e infondate, non possono piú sussistere,
poiché la Chiesa Cattolica di rito romano ha ripristinato a tutti
gli effetti la liturgia preconciliare, e se formalmente questo è
avvenuto in un caso particolare, moralmente e dal punto di vista della
pratica della fede il fatto nuovo non riguarda solo certi fedeli brasiliani,
ma tutta la Chiesa: dal Papa che ha voluto la restaurazione ai Cardinali
che hanno pubblicamente ordinato un Vescovo col rito di San Pio V; dai
Vescovi brasiliani ai Vescovi di tutto il mondo che dovranno ospitare i
sacerdoti e i Vescovi della nuova Amministrazione Apostolica lasciando
che officino esclusivamente col rito tradizionale; dai seminaristi che
possono scegliere di frequentare il seminario dell’Amministrazione Apostolica
ricevendo una istruzione dottrinale e liturgica preconciliare ai semplici
fedeli di tutto il mondo cattolico che potranno chiedersi legittimamente
perché il ripristino della liturgia tradizionale nella Chiesa debba
essere ignorato dai proprii Pastori.
Dopo l’erezione dell’Amministrazione Apostolica di Campos, un Vescovo
che si ponesse in contraddizione con questa decisione della Chiesa, che
considerasse ancora abolita la liturgia tradizionale, che allontanasse
le richieste dei fedeli legati alla Tradizione come inopportune e dannose
per la Chiesa: dimostrerebbe non piú insensibilità nei confronti
dei fedeli, ma opposizione nei confronti di Roma; e, dal punto di vista
religioso e morale, si comporterebbe come uno scismatico, considerandosi
capo di una chiesa diversa dalla Chiesa Cattolica Apostolica Romana.
In che modo i fedeli affidati alla sua cura pastorale avrebbero il diritto di reagire?Solo la liberalizzazione della S. Messa di San Pio V sarebbe in grado di rispondere adeguatamente a questi interrogativi. Nell’attesa, i fedeli legati alla Tradizione hanno il dovere di usare
al meglio questa nuova possibilità voluta espressamente dal Santo
Padre, ricordando che la Chiesa è governata certo col Codice di
Diritto Canonico, ma è retta essenzialmente dalla Fede, dalla dottrina
e dalla morale, le quali non sono i frutti, ma il fondamento stesso del
diritto; non esse dipendono dal diritto, ma è il diritto che scaturisce
da esse.
Preghiamo la santa Vergine perché ci assista tutti, dal Santo Padre all’ultimo fedele, in quest’opera di recupero del preziosissimo e insostituibile tesoro liturgico e dottrinale della Sposa immacolata di Cristo. CC
(marzo 2003)
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