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La bottiglia e il vino decima parte di Francesco Gisci Prima parte Seconda parte Terza parte Quarta parte Quinta parte Sesta parte Settima parte Ottava parte Nona parte Decima parte Nel magistero di Sua
Eccellenza Mons. Williamson ampio spazio ha avuto la condanna della
rivoluzione umanista e la confutazione della sua logica che ha spianato
la strada alla Religione dell’uomo istituita mediante il Concilio
Vaticano II quando, anche in seno alla Chiesa, gli uomini hanno
spodestato Dio, centrando, in ultima analisi, la religione sull’uomo (1).
Ora, attraverso gli errori di Abelardo, dei suoi successori ed esegeti, possiamo capire da un punto di vista logico e psicologico, secondo un’accezione teoretica, cioè razionale, oggi si direbbe cognitiva (2), in che modo l’uomo centra la propria vita su se stesso anziché su Dio, “creando” la realtà, manipolando la Verità anziché sottomettersi rispettosamente ad essa. Dati alla mano, attraverso le principali opere di logica del bretone, la Logica ingredientibus e la Logica nostrorum petitioni sociorum, vediamo alcuni dei suoi errori che si sono riverberati ed esasperati fino ai giorni nostri. Abelardo formulò le sue teorie a partire dalle opere logiche di Aristotele il quale avrebbe impostato l’Analitica svincolandola da ogni interpretazione metafisica. Che è ciò che tutt’oggi pensano i fautori della logistica moderna. Ma Aristotele non poteva pensarla così. Le opere dell’Organon non solo non escludono la metafisica, ma la presuppongono, non fosse altro che fu lo Stagirita stesso a sistematizzarla scientificamente. Abelardo, buttandola in caciara, ha dato il via, in tempi non sospetti, alla rivoluzione antropocentrica che passando per Kant (1724-1804) è arrivata fino ad Heidegger (1889-1976). Sebbene la fede di Abelardo non poggiasse sulla morale come per Kant, e sebbene Heidegger volesse ricucire la frattura immaginifica tra soggetto ed oggetto inventata dall’idealista prussiano, e rifiutasse l’idea che la verità possa essere stabilita solo da un punto di vista logico-linguistico, tutti e tre condividono l’intossicazione soggettivista che ha pervertito irrimediabilmente la mente dell’uomo: sebbene tutti e tre vogliano «fondare la verità sul rapporto con le cose stesse, partendo da esse, […], [essi risolvono] il problema della verità non partendo dal modo di essere di ciò intorno a cui si discorre, bensì dal modo di essere di chi discorre. […]. Il modo di essere delle cose è sempre interpretato relativamente a quello di chi le comprende e interpreta. In tal maniera il modo di essere delle cose potrà essere interpretato solo in base al modo di essere dell’uomo, nell’orizzonte della sua temporalità e storicità» (3). Per spiegare e comprendere le teorie contorte e distorte di Abelardo è utile valutare anche la sua concezione psicologica che è caratterizzata da una sensibilità “moderna” e teorica, anticipatrice della psicologia empirica o sperimentale (4) che assolutizza il dato soggettivo e fenomenico, che riduce la conoscenza ad una contraffatta produzione del soggetto pensante (le rappresentazioni), che distorce il reale e naturale rapporto tra soggetto ed oggetto e che conduce alla follia, per cui non si è più coscienti di se stessi né certi dell’esistenza della realtà esterna. Come vedremo, il linguaggio teoretico di Abelardo è solo nominalmente (potremmo dire nominalisticamente) ancorato a quello dell’antica tradizione razionale e realista greca che con Socrate, Platone e Aristotele, aveva mondato le potenzialità conoscitive umane dagli elementi spuri, gnostici e mitologici su cui si erano costituite le civiltà babeliche dalla valle del Nilo al mar Cinese. Ecco una raccolta dei deliri (e relativi commenti) del proto-illuminista e «più celebre logico d’Europa e paladino della ragione sull’autorità» (5) del suo tempo. Partendo da un condivisibile passo delle Istitutiones Grammaticae di Prisciano (VI secolo d.C.) secondo cui «alle forme di genere e di specie delle cose, che sono costituite nella mente divina intellegibilmente prima ancora che si facciano avanti nei corpi, possono appartenere anche le caratteristiche con le quali si fanno conoscere i generi e le specie delle cose di natura» (6), Abelardo commentava: «quindi giustamente i concetti sono ascritti alla mente divina e non a quella umana come per astrazione, poiché gli uomini, che solo attraverso la sensibilità conoscono le cose, a malapena o niente affatto si elevano in questo modo alla semplice intelligenza, e la sensibilità esteriore degli accidenti impedisce loro di concepire in modo puro le nature delle cose. Invece Dio, al quale sono accessibili di per sé tutte le cose che Lui ha create, e che aveva conosciuto ancor prima che esse esistessero, distingue i singoli status tra loro senza che la sensibilità sia di impedimento a Lui, che solo ne ha avuto la vera intelligenza. Agli uomini invece, relativamente a ciò che non avevano toccato coi sensi, capita di avere più opinione che concetto, come apprendiamo dalla stessa esperienza» (7). E ancora: «certamente questa opinione è imputata a Platone, che attribuisce i generi e le specie, e le concezioni di tale natura, al nous, cioè alla mente divina, forse per il fatto che Dio aveva in mente le forme esemplari, a somiglianza delle quali è stato detto che poi ha creato le cose stesse che sono chiamate con i nomi di genere e specie» (8). Abelardo dunque era a conoscenza della natura ante rem degli universali, ma, ostinatamente, la rifiutava. Il suo spirito di “indipendenza” gli precluse l’accettazione di quanto era già stato rivelato a Mosè millenni prima, e che già i Padri avevano successivamente commentato, ovvero che l’uomo fu creato ad immagine e somiglianza della S.S. Trinità, dove l’immagine si riferisce alla facoltà intellettiva, che appartiene in grado assoluto alla mente divina, di cui anche l’uomo è stato limitatamente dotato, in virtù della sua composizione ilemorfica di materia e forma razionale. Facoltà che si dimostra a partire dalla capacità umana di conoscere oggettivamente le realtà intellegibili del creato, a partire dal quale può risalire alla conoscenza razionale del suo Creatore per «adorarlo in spirito e verità» (9) mediante le virtù teologali. Dunque la posizione secondo cui i concetti universali non sono umanamente conoscibili, ha inevitabilmente condotto Abelardo verso una concezione nominalistica che attribuisce la reale esistenza solo alle cose individuali e la nega a quelle universali (nihil est praeter individuum): «quando sento la parola “Socrate” mi sorge nell’animo una certa “forma” che esprime la similitudine di una certa persona. Dunque attraverso questo vocabolo, cioè “Socrate”, che genera nell’animo la “forma” propria di uno solo, è identificata e determinata una certa cosa, mentre attraverso “uomo”, il cui concetto si poggia sulla “forma” comune a tutti, la stessa comunanza è così confusa che non comprendiamo quale “forma” sia tra tutte. Dunque “uomo” non significa propriamente né Socrate né un altro uomo singolo, dato che in forza del nome non viene identificato nessuno, anche se si nominano i singoli. Invece “Socrate” o qualsivoglia nome singolare è in grado non solo di nominare, ma anche di determinare il soggetto» (10). Per legittimare la propria teoria Abelardo inventa la nozione di status che sostituisce la sostanza e l’essenza delle cose, e con la quale intende il fatto di essere delle cose: «con lo status di uomo intendiamo solo il fatto di essere uomo, che non è una cosa, ma ciò che abbiamo chiamato “causa di imposizione comune” del medesimo nome ai singoli uomini, secondo la quale gli stessi convengono l’uno con l’altro […] e che non è una essenza» (11), «una non-res» (12). «Per quanto riguarda la causa communi impositionis, i singoli uomini distinti l’uno dall’altro, pur differendo nelle proprietà tanto per le essenze quanto per le forme, tuttavia convengono in ciò, cioè nel fatto che sono uomini. Non dico all’“uomo”, giacché nessuna cosa è “uomo” se non è separata (individua), ma convengono nell’essere uomo» (13). Alla domanda su «che cosa debba essere detto propriamente universale e cosa singolare, cioè particolare ed individuale, […] benché molti applichino queste differenti definizioni a realtà diverse, cioè alcuni alle cose (res), mentre altri ai concetti (intellectus) e altri ancora ai termini (sermones)» (14), «dal momento che Aristotele pone come universale l’essere detto del soggetto, propriamente dimostra che gli universali sono detti, e [solo] ai termini è adatto l’essere detti ed essere predicati» (15). E ancora: «Aristotele, capostipite dei peripatetici, attraverso la definizione di universale che pone, insinua chiaramente quando afferma: l’universale è ciò che è nato per essere predicato dei molti. Ovvero che si guadagna ciò dalla sua stessa genesi, cioè dalla sua istituzione (istituto). Cos’altro è infatti la genesi dei termini o dei nomi, se non l’istituzione da parte degli uomini? […]. Infatti è evidente che lo status della pietra può essere conferito solamente dalla sostanza divina, mentre lo status dell’immagine (16) può essere formato dalla imitazione degli uomini. Così dunque diciamo che i termini sono universali, potendo per loro genesi, cioè per l’istituzione degli uomini, essere predicati dei molti» (17). Ricapitolando, poiché gli universali non avrebbero un fondamento reale, Abelardo trova la ragione del loro significato nella causa communi impositionis che giustifica la liceità di indicare con la stessa parola una pluralità di individui dotati di uno stesso status. Se, ad esempio, è possibile chiamare “uomo”, come specie, ogni singola persona, è perché tutti i singoli uomini hanno in comune il fatto di essere uomini, senza che la parola “uomo” implichi qualcosa che l’uomo partecipi o una sostanza reale comune in ciascuno. Reinterpretando e stravolgendo il pensiero teoretico degli antichi, Abelardo dice: «coloro che sono incappati in questa incertezza è a causa delle locuzioni filosofiche che erano di questo tipo: animale è genere, uomo è universale, uomo è specie. E considerano questi nomi, animale e uomo in un significato proprio e abituale, ignorando che i filosofi avevano traslato questi nomi a significare in questo senso: animale è genere, cioè questo termine animale o questo nome animale è genere» (18). Poiché l’universalità non può essere attribuita alle cose, dovrà essere attribuita solo alle parole. Se allora i concetti universali non hanno alcun valore ontologico e gnoseologico, è legittimo domandarsi quale sia la l’utilità degli universali. La risposta ci rivela la concezione psicologica e cognitiva del bretone. «L’imposizione degli universali portò non poca utilità. Se infatti volessimo mostrare che in ogni uomo sia presente o assente qualcosa, non potremmo farlo attraverso i nomi particolari, tanto per la loro instabilità […] quanto per la loro infinità, poiché, come testimonia Platone, sugli infiniti non si ha alcuna dottrina certa. Si sono dovuti allora trovare (inventio) gli universali, perché facessero ciò che i nomi singolari non avevano potuto fare» (19) «fornendo dottrina e certezza» (20). Dopo aver svuotato gli universali di ogni realtà, Abelardo assegna loro una “natura” convenzionale e un valore di ordine pratico: «per l’infinità e la incostanza degli individui esistenti si ricorre con più esattezza e comodità ai nomi universali se si vuole estendere la predicazione a tutti i singoli» (21). Per quanto riguarda la sua teoria psicologica, ecco qui brevemente la sua concezione: «l’intelletto, non avendo bisogno di uno strumento corporeo, così non è necessario che il suo soggetto abbia un corpo nel quale sia immesso, ma è contenuto dalla similitudine della cosa che la stessa anima produce per sé, e alla quale dirige l’azione della propria intelligenza. […]. Ma come la sensibilità non è la cosa sentita nella quale è diretta, così neppure l’intelletto è la forma della cosa che concepisce, bensì è una certa azione dell’anima, per cui essa è detta intelligente; la forma nella quale è diretta è invece una cosa immaginaria e fittizia, che l’anima realizza per sé, quando e quale vuole…» (22). Qui, nuovamente, si abbatte la furia rivoluzionaria e prometeica di Abelardo che, come uno scolaro viziato e annoiato, impugna concetti delicatissimi, in questo caso la forma, violentandoli con tribale ferocia. Abelardo da fenomenista e nominalista quale era, riteneva la forma (così come la specie, la natura delle cose (23) … e i concetti naturali in generale) un prodotto artefatto del pensiero dell’uomo. Che tale concezione sia irreale, lo dimostrano, anche oggi, le scienze cognitive, applicate sia in biologia che in informatica, che si sono nuovamente liberate dalle rozze concezioni materialistiche (24) e considerano pacifica l’esistenza immateriale della forma (che, un po’ grossolanamente, chiamano informazione) che è inevitabilmente irriducibile a qualcosa di materiale (25). Ovviamente non dobbiamo illuderci che la scienza teorica moderna possa fare autocritica e rivedere tutti i propri presupposti convenzionali ed arbitrari: ogni passo indietro della sovversione mira a compiere un salto in avanti. Infatti se le scienze cognitive applicate alle biotecnologie stanno riscoprendo la reale natura del nostro pensiero è al solo perverso scopo di “impiantarlo” in una realtà artificiale (cosa ovviamente impossibile (26)), che sostituisce all’autentico e reale timore di Dio, l’illusoria “singolarità tecnologica”, la divinità del trans e post umano. La recente Teoria dell’informazione (27)) che studia l’organizzazione della materia e la capacità di produrre ordine e attuare delle potenzialità, considera l’informazione ciò che organizza un’entità complessa anche di tipo biologico, un principio che organizza e dà forma alla materia, rendendola qualcosa di specifico. Laddove la forma aristotelica è la struttura essenziale di un essere, che attua la sua natura, l’informazione, in ambito informatico, è intesa come la struttura di dati che descrive e dirige il funzionamento di un sistema. Ma non solo. Infatti l’informazione oltre ad organizzare un oggetto esterno che studiamo, essa definisce e struttura anche il nostro concetto mentale relativo all’ente esterno a noi, cioè la sua essenza. La apprehensio, ovvero l’apprensione, è collegata alla facoltà di astrazione della mente umana: l’intelletto, a partire dai sensi, è capace di estrarre dalle realtà materiali extramentali l’informazione immateriale strutturante delle cose, di apprenderla, ovvero di afferrarla. La stessa informazione quando viene appresa, organizza anche il nostro concetto mentale, informando la nostra mente, rendendo presente in essa la forma/informazione immateriale delle cose (28). La forma ha un ruolo attivo tanto nella struttura dell’essere delle cose, quanto nella struttura del pensiero. Così come quando siamo vigili, i nostri organi sensibili si attivano involontariamente quando si presentano oggetti nelle nostre vicinanze, allo stesso modo fa l’intelletto che spontaneamente riceve e apprende informazioni immateriali delle cose che ci consentono, ad esempio, di stabilire una prima interazione non solo istintiva, come farebbero gli animali, ma anche razionale. Secondo Abelardo i concetti sono sempre singolari, così come lo sono le essenze. In quest’ottica fenomenica, che riduce l’esistenza delle cose alla mera loro percezione, il processo conoscitivo si esaurisce nello studio delle rappresentazioni delle cose generate dal pensiero individuale che non trascendono mai la sensibilità e l’individualità, non potendo, così, mai raggiungere la cosa in sé, la loro essenza (29). Per questo motivo è stato considerato concettualista: «il concetto che la mente contempla è per Abelardo una imago, un figmentum [finzione]» (30). Ma il concetto non è una semplice immagine o segno, perché non si limita a rimandare a qualcosa che è altro da sé, ovvero la forma immateriale che informa e struttura la cosa extramentale, ma contiene ciò che significa e che informa il pensiero consentendogli di conoscere realmente ed essenzialmente la cosa e la sua natura. La dottrina fenomenica considera, invece, il concetto come un semplice indicatore della cosa, una parola senza reale contenuto, cancellando, se mai fosse possibile, la vera realtà del concetto/forma/informazione che attua tanto le cose quanto il pensiero. «Il suo sforzo non è insomma rivolto a costruire una metafisica [che gli consenta di risalire la struttura ontologica del reale], ma ad interpretare la realtà sia delle cose sia del linguaggio così come esse appaiono, senza problematizzare l’apparenza» (31). Un vero e proprio proto-kantiano. Il riduzionismo logico e psicologico di Abelardo ha come conseguenza la sopravvalutazione dell’elemento linguistico e semantico: «all’interno della tradizionale triade composta da parole [linguaggio] – concetti [pensiero] – cose [realtà], egli sostituisce i concetti con la significatio» (32). Per Abelardo significare è un termine che ha due valenze: da un lato corrisponde al “generare un concetto”, dall’altro consiste nel comprendere, da parte di chi ascolta o chi legge, il concetto che si è voluto intendere. Il concetto sarebbe generato dai termini (sermones) la cui convenzionale istituzione (institutio) umana conferisce oggettività e universalità ai relativi concetti. Da ciò si deduce il de-grado aletico dei concetti nominalisticamente intesi, che sono il risultato di un consenso intersoggettivo (33), che sfocia inevitabilmente nel pragmatismo e utilitarismo la cui efficienza assorbe la domanda di verità e realtà facendole quasi scomparire. Il significato tende sempre di più ad essere definito come la potenzialità che un termine, convenzionalmente posto, ha di stimolare e produrre “intelletto”. «Il mondo del sermo influenza dunque, e modifica, quello dell’intellectus, e da tale dialettica è il mondo della res ad essere completamente escluso» (34). Nella prospettiva abelardiana e nominalistica, «il linguaggio [che è segno convenzionale] diviene uno strumento conoscitivo, quasi il mezzo con cui il pensiero può accedere alla realtà» (35). Ma questa è pura follia. Il concetto, o forma, non è generato dal termine: l’informazione è ricevuta nell’intelletto e lo informa, lo attua e lo rende edotto. Il termine o nome è invece un’espressione linguistica del concetto. Uno stesso concetto può avere più nomi, può essere pensato in lingue diverse o necessitare di una perifrasi per esprimerlo. Il linguaggio è un mero supporto materiale che è simbolico in virtù dell’informazione che trasporta. La logica e la filosofia del linguaggio sono due cose diverse. Il termine è il punto di arrivo finale di tutta l’operazione cognitiva, il prodotto del concetto, non viceversa. (Continua)
NOTE 1 - Cfr.: http://www.unavox.it/ArtDiversi/DIV3406_Williamson_Vaticano_ II_Religione_dell-uomo_Cap_I.html 2 - Ovvero, in ambito scientifico epistemologico, lo studio del pensiero come facoltà, soggetto, attività e operazione dell’intelletto; mentre il pensiero come prodotto dell’attività del soggetto, come pensato, è oggetto della logica. Esistono tre operazioni dell’intelletto che producono tre oggetti mentali. In primis abbiamo la simplex apprehensio, cioè la capacità del semplice apprendere immediato delle cose (l’esistenza di una cosa, se sia vivente o meno…) ricavandone delle informazioni, ovvero i (1) concetti (dal latino conceptus, concipĕre, cum-capĕre, comprehendĕre, vuol dire letteralmente concepito, questo termine sta a indicare qualcosa che nasce nella nostra mente, ma non per nostra volontà, ma che viene concepito ad opera della forma della realtà extramentale che attua l’intelletto). Poi abbiamo il giudizio che confronta due concetti, li unisce, con un’affermazione, o li divide, con una negazione, attribuendoli o meno come predicato ad un soggetto (l’uomo è un animale, il cavallo non è razionale). Il prodotto del giudizio si dice (2a) enunciazione se è un discorso mentale, o (2b) proposizione se è un’espressione vocale o scritta. Ed infine il ragionamento che connette diversi giudizi, perfeziona il concetto inziale ricavato dalla simplex apprehensio, e produce (3) un’argomentazione. cfr., A. Strumia, Percorsi interdisciplinari della logica, Edizioni Santa Croce, Roma, 2017. 3 - In introduzione a T. d’Aquino, Logica dell’enunciazione, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 1997, pp. 26-27. 4 - «Deve essere tenuta costantemente presente la differenza tra Psicologia sperimentale e Psicologia razionale. La prima è una scienza sperimentale e come tale ricerca per i fenomeni psichici le spiegazioni prossime immediatamente sufficienti, sotto forma specialmente di leggi, e si limita allo studio di tutto ciò che rientra in qualche modo nella vita conoscitiva ed affettiva; la seconda ricerca invece degli stessi fatti le cause ultime, assolutamente sufficienti, ricerca cioè che cosa si deve ammettere nel vivente e fuori di esso per dare una razionalizzazione completa dei fatti della vita. La Psicologia razionale si serve di quella sperimentale come di una delle fonti del proprio materiale e ne è un’interpretazione ulteriore e definitiva», in Guido Berghin-Rosè, Psicologia, in Elementi di filosofia, vol. IV, Edizioni Marietti, 1954, pp. 1-2. 5 - C. Chiurco, Abelardo, Edizione RCS MediaGroup, Milano, 2014, p. 9. 6 - P. Abelardo, Logica ingredientibus, in I commenti all’Isagoge di Porfirio, Edizioni Mimesis, Sesto San Giovanni, 2022, Logica ingredientibus, p. 427. 7 - Ibidem, Logica ingredientibus, p. 427. 8 - P. Abelardo, Logica nostrorum petitioni sociorum, in I commenti all’Isagoge di Porfirio, Edizioni Mimesis, Sesto San Giovanni, 2022, pp. 641-642. 9 - Il Vangelo secondo Giovanni, 4, 24, in La Sacra Bibbia, tradotta e commentata da A. Martini, M. Sales e G. Girotti, Edizioni Effedieffe, Proceno, 2014-2021, p. 41. 10 - Ibidem, Logica ingredientibus, p. 426. 11 - Ibidem, Logica ingredientibus, p. 423. 12 - Ibidem, I commenti all’Isagoge di Porfirio, p. 162. 13 - Ibidem, Logica ingredientibus, p. 422. 14 - Ibidem, Logica nostrorum petitioni sociorum, p. 640. 15 - Ibidem, Logica nostrorum petitioni sociorum, p. 643. 16 - In questo caso per immagine si intende la rappresentazione, non razionale, persistente nell’anima dei dati sensibili percepiti. 17 - Ibidem, Logica nostrorum petitioni sociorum, p. 654. 18 - Ibidem, Logica nostrorum petitioni sociorum, p. 658. 19 - Ibidem, Logica nostrorum petitioni sociorum, p. 667. 20 - Ibidem, Logica nostrorum petitioni sociorum, p. 668. 21 - Ibidem, La logica di Abelardo, p. 70. 22 - Ibidem, Logica ingredientibus, p. 424. 23 - «Per mostrare la natura di tutti i leoni, può essere utilizzata una raffigurazione che non è propria di nessuno di loro», in ibidem, Logica ingredientibus, p. 426. 24 - «La maggior parte dei filosofi più antichi ritenne che fossero principi di tutte le cose soltanto quelli che rientrano in una specie materiale», in Aristotele, Metafisica, I, 3, Edizioni Mondadori, Milano, 2008, p. 668. 25 - Immateriale non vuol dire necessariamente spirituale che è anche per sé sussistente, ovvero che può esistere da solo: immateriale è un’informazione che ha sempre bisogno di un supporto materiale e che può esistere comunque in una maniera non riducibile al principio materiale stesso (come dicevano gli antichi, il sinolo di materia e forma). 26 - http://www.unavox.it/ArtDiversi/DIV6429_Gisci_I-l_padre_dell-IA_e_Hume_prima.html 27 - Cfr. Alberto Sturmia, Dalla filosofia della scienza alla filosofia nella scienza, e, Percorsi interdisciplinari della logica, Edizioni Santa Croce, Roma, 2017. 28 - «L’uomo quando conosce, riceve la forma dell’oggetto conosciuto psicologicamente o logicamente nel suo intelletto, se si tratta di conoscenza razionale, o nei suoi sensi, se si tratta di conoscenza sensibile, pur mantenendo e senza perdere la sua forma di uomo. Inoltre, il conoscente riceve il conosciuto come l’atto riceve l’atto e non come, nelle realtà puramente materiali, la potenza riceve l’atto. Per esempio, il legno riceve la forma di statua e poi corrompendosi quella di segatura, mentre l’uomo o l’animale, quando conoscono ricevono la forma dell’oggetto conosciuto (intellettualmente per l’uomo, e solo sensibilmente per l’animale), che resta quel che è come pure il soggetto conoscente resta se stesso», in C. Nitoglia, Commento alle XXIV Tesi del Tomismo, Edizioni Effedieffe, Viterbo, 2015, pp. 114-115. 29 - Il concetto naturale, che si distingue da quello artificiale, si definisce come immagine somigliante di una cosa espressa nella mente. Immagine somigliante non va intesa, razionalisticamente, come rappresentazione o copia. Il concetto non è una fotografia, una copia di quello che c’è fuori, come se ci fosse uno schermo che si frappone tra noi e le cose esterne, tale per cui possiamo conoscere solo ciò che vediamo sullo schermo, ovvero le nostre rappresentazioni, e mai potremmo raggiungere la realtà. L’immagine è somigliante nel senso che è la stessa forma ma che esiste realmente in una modalità totalmente immateriale nella mente, mentre esiste in un supporto materiale nella cosa [sinolo]. Cfr.: http://www.unavox.it/Documenti/Doc1480_Williamson_10_settembre_2022.html 30 - Ibidem, La logica di Abelardo, p. 77. 31 - Ibidem, La psicologia di Abelardo…, p. 77. 32 - Ibidem, I commenti all’Isagoge di Porfirio, pp. 154-155. 33 - La filosofia del linguaggio di Habermas (1929-) è sicuramente debitrice di quella di Abelardo. 34 - Ibidem, La psicologia di Abelardo…, p. 88. 35 - C. A. Testi, La Logica di Tommaso d’Aquino: dimostrazione, induzione e metafisica, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 2018, p. 23. |