La bottiglia e il vino

undicesima e ultima parte




Qual è dunque il valore degli universali ? Appartengono all’ambito della filosofia del linguaggio o della logica? E se appartengono all’ambito della logica, devono considerarsi dei concetti convenzionali o naturali? Ovvero, sono concetti posti e generati dall’uomo, o appresi e ricavati dalla realtà? E se sono ricavati, da quale tipo di realtà? Domande che rivelano un’impostazione realista, direbbero i nominalisti ribelli ad ogni sorta di determinazione la quale con la “violenza” del buon senso ferisce la prometeica auto-determinazione non si sa bene più di chi, bramando loro il fluido e, oramai, etereo, e “intelligentemente” dematerializzato, indistinto.

Il problema degli universali (o dello statuto degli intellegibili) fu focalizzato per la prima volta dal filosofo e astrologo, di origine fenicia, Porfirio (1), nato a Tiro, nell’attuale Libano, nel 233/234 d.C. Durante la sua iniziale fase di formazione si dedicò agli insani studi e culti ermetici e caldaici. A trent’anni si trasferì a Roma dove assimilò le dottrine neoplatoniche del maestro emanatista (2Plotino (204-270). Agli antipodi della più tarda scuola nominalistica, i successori di Plotino estremizzarono la posizione realista, di stampo panteista, sostenendo «l’anteriorità degli intellegibili rispetto alla “intelligenza divina”» (3). Nonostante ciò, Porfirio ebbe il merito di essere «stato il primo a scrivere sistematicamente dei commentari agli scritti di entrambi i filosofi [Platone e Aristotele], con lo specifico intento di mostrare la fondamentale unità delle due filosofie» (4).
Questo orientamento fu emulato anche da Sant’Agostino d’Ipponia (5) (354-430). Qualche anno prima di morire partecipò come perito (6) al Consilium Principis (302-303), tenutosi a Nicomedia, vicino a Bisanzio, in cui si riunirono tutti gli uomini di cultura pagana, per affrontare la questione dei Cristiani.
La lunga discussione preparò la violentissima persecuzione voluta da Diocleziano.

Nei precedenti articoli abbiamo fatto una breve e rapida presentazione degli autori che dall’antichità pagana a quella Cristiana hanno influito in modo determinante sulla considerazione degli universali o intellegibili, da un punto di vista logico, cognitivo e metafisico.
Tornando alla metafora de la bottiglia e il vino, abbiamo appreso talune condizioni attraverso cui la bottiglia (la ragione) può conservare e preservare al meglio il vino (la Fede).
Ma fino a che punto si può spingere la ragione nella ricerca delle risposte alle domande che l’uomo si pone da sempre? Semplice. Fintantoché non confonde i rapporti di causa ed effetto, e il fine con il mezzo.
E dunque, la ricerca della conoscenza dell’uomo in che rapporto si trova con le cose conoscibili, tanto sensibili quanto intellegibili?
Se è vero che in termini logici e temporali la domanda precede la risposta, in termini ontologici, di realtà, è vero il contrario. Le cose, ovvero tutto ciò che ha un essere determinato, esistono a prescindere dalle domande che l’uomo si pone. L’intelletto conosce solo conoscendo qualcosa, ed è solo dopo che l’intelletto può conoscere e riflettere su se stesso. Senza realtà esterna, non può esserci né conoscenza sensibile, né conoscenza intellegibile. Il pensiero dipende dalla realtà senza la quale non può attuarsi e poi trascenderla. E le risposte sono esaurienti ed esaustive, non tanto perché soddisfano la domanda, che può essere capziosa e ingannevole, ma soprattutto perché si adeguano alla realtà. E si ha conformità alla realtà, e dunque vera conoscenza, quando nell’intelletto, a partire dai sensi e dalle loro immagini, si fa presente la forma intellegibile delle cose. E come si fa a sapere se la forma intellegibile delle cose che apprendiamo è vera e reale? Quando sappiamo esprimerla nel modo meno impreciso, ambiguo ed equivoco possibile, ovvero, quando la forma intellegibile di cui siamo informati ed edotti, è espressa in modo perspicuo, evidente e non equivoco, a prescindere dalle distorsioni ideologiche di qualsiasi regime politico esistente.
Quindi il criterio della verità delle cose è la realtà delle cose, realtà che giudica la correttezza del pensiero, giammai il contrario. Ecco perché la verità è primariamente nelle cose e successivamente nel pensiero (eccezion fatta per l’intelletto divino creatore), perché le cose, che sono vere perché determinate in un certo modo e non in altro, altrimenti sarebbero qualcos’altro, sono conosciute in modo conforme a verità perché sono apprese, intese e non poste, secondo la loro natura reale. E non può esserci conoscenza da parte dell’uomo, se questi non riconosce, oltre che la realtà esterna, la realtà della verità che ha il primato sulla conoscenza, la quale può dirsi vera perché conforme alla verità della realtà. E se Tommaso d’Aquino aveva eretto un grande muro di cinta, fondato su ciò che è permanente, che delimitasse i confini tra superiore ed inferiore, tra Dio e l’uomo, tra Fede e ragione, un altro Tommaso, Tommaso da Kempis (1380-1471), monaco e mistico, vissuto circa duecento anni dopo l’Aquinate, allo stesso scopo ma con un diverso registro, rimproverava i nominalisti: «che ti serve saper discutere profondamente della Trinità, se non sei umile, e perciò alla Trinità tu dispiaci? Invero, non sono le profonde dissertazioni che fanno santo e giusto l’uomo; ma è la vita virtuosa che lo rende caro a Dio» (7).
E ancora: «a chi giova un’ampia e sottile discussione intorno a cose oscure e nascoste all’uomo, cose per le quali, anche se le avremo ignorate, non saremo tenuti responsabili, nel giudizio finale? Grande nostra stoltezza: trascurando ciò che ci è utile, anzi necessario, ci dedichiamo a cose che attirano la nostra curiosità e possono essere causa della nostra dannazione. Abbiamo occhi e non vediamo (Ger 5,21). Che c’importa de il problema dei generi e delle specie» (8)  se questo diventa lo strumento per abbattere il muro di cinta? «Datti pace da una smania eccessiva di sapere: in essa, infatti, non troverai che sviamento grande ed inganno» (9). «Non già che sia una colpa lo studio, e meno ancora la semplice conoscenza delle cose — la quale è, in se stessa, un ben ed è voluta da Dio –; ma è sempre cosa migliore una buona conoscenza di sé e una vita virtuosa. Infatti molti vanno spesso fuori della buona strada e non danno frutto alcuno, o scarso frutto, di bene, proprio perché si preoccupano più della loro scienza che della santità della loro vita. Che se la gente mettesse tanta attenzione nell’estirpare i vizi e nel coltivare le virtù, quanta ne mette nel sollevare sottili questioni filosofiche, non ci sarebbero tanti mali e tanti scandali tra la gente» (10). «Quanti uomini si preoccupano ben poco di servire Iddio, e si perdono a causa di un vano sapere ricercato nel mondo. Essi scelgono per sé la via della grandezza, piuttosto di quella dell’umiltà: perciò hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa (Rm 1, 21)» (11).
A cosa portano, dunque, le “minuziose e sofisticate” posizioni intellettuali soggettiviste, relativiste, scettiche che negano la capacità della ragione di intendere la reale ed oggettiva natura delle cose, e dunque di pensare in termini di verità? Alla realtà delle cose si sostituisce una certa loro rappresentazione, un surrogato arbitrario e convenzionale il cui criterio è un accordo tra gli interlocutori dotati di potere di “legiferare” (12) sulla determinazione delle cose: la verità diventa una rivoluzione (de)costruzione, da struttura a sovrastruttura. Ecco che si ha l’inversione della causa con l’effetto: il contingente fonda il necessario, la valutazione fonda il valore, il pensiero fonda la realtà che al pensiero deve adeguarsi. E se la realtà e la verità delle cose sono determinate e poste dal pensiero, la verità in quanto tale si svuota, non esiste più per quello che è. L’essere, ciò che di più vero esiste, diventa un mero artificio del pensiero e del suo volere. La conoscenza umana, anziché essere misurata dalla realtà ontologica delle cose, diventa criterio e misura della realtà e dell’essere. Dal primato della verità si passa al primato dell’attività conoscitiva libera da qualsiasi fondamento che non sia la propria autodistruttiva volontà. Tutto ciò posto, l’atto di Fede ed il suo contenuto sono impossibili, la bottiglia è infranta e il vino, inevitabilmente, si perde. «Veramente saggio e dotto di una dottrina impartita da Dio più che dagli uomini, è colui che stima tutte le cose per quello che sono, non per quello che se ne dice nei giudizi umani» (13).

Chiudo con le parole del Vescovo Williamson al quale lo studio in questi brevi articoli è dedicato: «l’uomo moderno sta distruggendo il buon senso, sta perdendo il contatto con la realtà. Non è in grado di pensare. Non è in grado di riconoscere la realtà. Vive a Disneyland, in un mondo fantastico in cui è in grado di cambiare tutto ciò che desidera: può “cambiare” la natura umana, può cambiare l’acqua, e con i suoi computer e la sua tecnologia può “fare” tutto ciò che vuole. Questo è l’uomo moderno. E se volete tornare alla realtà, mi chiederete: qual è la cura? La cura migliore è il Rosario. Pregate il Rosario e la Madre di Dio si prenderà cura del vostro senso della realtà, o vi restituirà il vostro senso della realtà, o ricostruirà il vostro senso della realtà. Recitate il Rosario. Potreste pensare che sia una risposta sorprendente. Potreste pensare che la risposta sia leggere San Tommaso d’Aquino. No, recitate il Rosario e la Madre di Dio vi manterrà nella realtà. Recitate i 15 Misteri ogni giorno. Questa è l’ultima parola».


NOTE

1 - Porfirio, Isagoge, Edizioni Rusconi Libri, Milano, 1995, pp. 51-53.
2 - Secondo l’emanatismo l’uomo è consustanziale a Dio: «Dio non trascende il mondo [e l’uomo], ma è immanente ad esso, e, di conseguenza, il mondo non è creato da Dio, ma è emanazione della sua sostanza. Il mondo [e l’uomo] è Dio stesso», in Cornelio Fabbro, Introduzione all’ateismo moderno, Edizioni Studium, Roma, 1961, p. 33.  
3 - Ibidem, Isagoge, p. 27.
4 - Ibidem, p. 11.
5 -
«Non mancarono uomini acutissimi e accortissimi a insegnare con le loro discussioni che Aristotele e Platone si accordano in maniera tale da sembrare in disaccordo agli incompetenti e ai meno attenti, per cui è stato depurato (con molti secoli, certo, e molte dispute), io credo, un solo sistema di filosofia verissima [quella dei due “mondi” (p. 281), per cui la realtà intellegibile è criterio e misura di quella sensibile]. Essa non è infatti una filosofia di questo mondo, che i nostri Testi Sacri giustamente esecrano, ma dell’altro intellegibile, al quale però codesta ragione finissima non avrebbe mai richiamato le anime accecate dalle tenebre multiformi dell’errore e imbrattate da spessissime lordure provenienti dal corpo, se il Sommo Dio, per misericordia, non avesse piegato e abbassato sino al corpo umano stesso l’autorità dell’Intelletto divino: spronate non solo dai Suoi precetti ma anche dalle Sue azioni, le anime avevano avuto la possibilità di tornare in loro stesse e di volgersi a guardare la patria [il Cielo] anche senza la contesa delle discussioni», in A. Agostino d’Ipponia, Contro gli accademici, Edizioni Bompiani, Milano, 2005, pp. 289-291..
6 - Porfirio scrisse un trattato palesemente diffamatorio e calunnioso, intitolato “Contro i Cristiani”.
7 - Tommaso da Kempis, Imitazione di Cristo, Edizioni Paoline, Milano, 2016, pp. 27-28.
8 - Ibidem, pp. 31-32.
9 - Ibidem, p. 29.
10 - Ibidem, pp. 33-34.
11 -
Ibidem, p. 35.
12 -
I governi, la comunità “scientifica”, i media, le associazioni culturali o think tank….
13 - Ibidem, p. 102.










 
ottobre 2025
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