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La bottiglia e il vino Nona parte di Francesco Gisci Prima parte Seconda parte Terza parte Quarta parte Quinta parte Sesta parte Settima parte Ottava parte Nona parte A questo punto è utile
trattare di un discepolo di Roscellino, Pietro Abelardo, insidioso
nominalista. Come nelle scienze naturali che «studiano le
grandezze, il movimento e il tempo» (1) della realtà
sensibile, e, soprattutto in biologia, anche in metafisica, in sede
“accademico-scientifica”, l’approccio dominante, sebbene meramente
teorico, è quello evoluzionista. Ed Abelardo è “una forma
di transizione” o “anello di congiunzione” alla base del “salto di
specie”. La logica di Abelardo ha cominciato la mutazione, e la
“liberazione” (leggi, il rifiuto), della conoscenza dalla specie
teoretica alla specie pratica e teorica, saperi “liberi ed
indipendenti”. Esponenti dell’Illuminismo e della successiva
“Restaurazione” considerarono Abelardo «uno degli emblemi del
“libero pensatore”, […] un illuminista, […] un genio rivoluzionario
cartesiano [sebbene abbia vissuto mezzo millennio prima], […]
meritevole di attenzione e stima per aver confrontato con le istanze
della ragione la mai contestata, o criticata, autorità
teologica, portando ad una sempre più profonda comprensione
delle stesse realtà teologiche che, grazie al suo metodo,
venivano assoggettate al criterio della “evidenza”: […] il pensiero
abelardiano fu una conquista tipica dello “spirito di
indipendenza”» (2). Abelardo fu tra i primi
autori medievali a studiare i problemi logici per sé
considerati, trattando la logica come una scienza autonoma. Ma
così come in sede biologica reale e non teorica, le mutazioni
portano alla degenerazione e alla morte (3), altrettanto (in
realtà, prima ancora) accade sul piano metafisico. L’evoluzione
per mutazione apportata da Abelardo è corrisposta alla comparsa
di un elemento che incrinato il sistema di cui fa parte, portandolo
alla corruzione. Ovviamente non esiste alcun “salto di specie” (4),
e il “progresso” del pensiero umano, all’alba del nuovo umanesimo,
è in realtà stata una involuzione frutto della parziale e
incompleta ricezione della conoscenza antica che non era ancora stata ri-scoperta. La ricezione della
sapienza degli Antichi Greci non fu uniforme nel tempo e nello spazio
in tutta la Christianitas.
Abelardo oltre a non poter conoscere la Metafisica di Aristotele,
rifiutò (oggi si direbbe “si liberò” da)
l’interpretazione neoplatonica (la prima forma di teologia Cristiana)
delle opere di logica dello Stagirita che, invece, erano in gran
parte diffuse. Inconveniente e problema che i nuovi umanisti,
consolidati i principi di secolarizzazione e immanentizzazione del
metodo teoretico, progressivamente snaturato a fatto culturale e
sostituito dal “neutrale e imparziale” riformato “metodo scientifico”, non
hanno mai sollevato e posto. Dal permanere di tale carenza avrebbe
avuto origine il progresso, come se ciò che può diventare
completo e perfezionabile, ovvero, la potenza, che è incompleta
e dunque imperfetta (5), fosse in atto, completo e
perfezionante (6). Quindi, non si trattò
assolutamente di sviluppo della logica, fondata sulla verità, ma
di una sua degenerazione. E ciò si evince (vedremo più
nel dettaglio nella prossima parte) dalla concezione semantica di
Abelardo: anziché considerare il linguaggio espressione dei
concetti attraverso i quali conoscere la realtà extramentale,
per il bretone il linguaggio ha «la capacità di generare
il concetto» (7). E «ben si capisce
l’enorme peso che il soggetto viene ad acquisire in una simile
prospettiva semantica» (8). Rispetto al rapporto tra
Fede e ragione, Abelardo, sebbene affermasse «chiaramente che la
ragione, nell’ambito dell’indagine su Dio, può solo insegnare
cose verosimili e non vere, restava il fatto che egli intendesse
determinare razionalmente il più possibile i dogmi (la
Trinità su tutti), sottovalutando le enormi ripercussioni che il
praticare la dialettica in assoluta autonomia avrebbe inevitabilmente
avuto anche sulla Teologia» (9). Il suo motto, prototipo del
“dubbio metodico” cartesiano, era: «dubitando facciamo ricerca, e
ricercando raggiungiamo la verità» (10). Pietro
Abelardo «Nasce a Pallet, in Bretagna, nelle vicinanze di Nantes,
intorno al 1079. […]. A Loches ascolta le lezioni di Roscellino di
Compiègne. A Parigi apprende le dottrine di Guglielmo di
Champeaux. Subito in polemica con i suoi maestri a motivo
dell’originale presa di posizione su la
questione degli universali,
[…] si reca a Laon per studiare teologia con Anselmo, ma rimane deluso
dall’insegnamento dell’autorevole maestro e non nasconde il suo
disagio. […]. Chiamato a fare il precettore della giovane brillante e
dotata Eloisa, se ne innamora. La nascita di un figlio, il matrimonio
segreto, l’evirazione subita ad opera di sicari mandati dallo zio di
lei, segnano la fine del breve periodo di felicità. I due
abbracciano la vita religiosa: Eloisa entra nel monastero di
Argenteuil, Abelardo in quello di Saint-Denis [entrambi vicino Parigi].
[…]. Elabora la Teologia del Sommo
Bene con l’intenzione di confutare il triteismo di Roscellino,
ma alcune affermazioni erano destinate a suscitare sospetti di eresia e
a provocare l’intervento dell’autorità ecclesiastica: nel 1121
un sinodo convocato a Soissons condanna l’opera e confina Abelardo
nell’abbazia di San Medardo» (11). Il suo spirito inquieto e presuntuoso lo
accompagnò per tutta la vita: «accusato ancora una volta
di eresia, ebbe in questa occasione come avversario S. Bernardo di
Chiaravalle e fu chiamato a giudizio dal Concilio di Sens (giugno
1141). Fu invitato a sconfessare le proposizioni incriminate ed a
ritrattarsi. […]. Anche Papa Innocenzo II aveva confermato la sentenza
e la condanna. A Cluny fu accolto con bontà da Pietro il
Venerabile che riuscì a riconciliarlo con San Bernardo, ad
allontanargli dal capo gli effetti della condanna pontificia e ad
ispirargli una ritrattazione sinceramente Cattolica» (12). Muore nel
1142. Abelardo è sicuramente un precursore della
modernità intesa sia storicamente che da un punto di vista
categoriale, quale aberrazione
dell’intelletto.
Sicuramente, perché «è il primo nel medioevo a
considerare nettamente il valore “ideale” degli universali. […]. Esso non è
una cosa (res) [né corporea né incorporea], né una
[mera] parola (vox) [flatus vocis],
ma è un concetto (sermo),
[cioè termine significante]» (13). Il suo
non era un rozzo nominalismo
alla Roscellino, ma raffinatamente camuffato con categorie
aristoteliche di cui abusava equivocandole. Se la Congregazione di San
Mauro dell’Ordine di San Benedetto, nella sua monumentale opera La Storia letteraria della Francia
(1683-1749), descriveva Abelardo in questi termini: «sofista
orgoglioso, cattivo ragionatore, poeta mediocre, oratore senza forza,
erudito superficiale, teologo riprovato» (14), Abelardo
«si riteneva un auctor,
paragonandosi così a Boezio, Porfirio e Aristotele […] e
pretendeva non soltanto di affrontare gli scritti di questi autori, ma
addirittura di perfezionarli» (15) [sic!]. Alla luce della
più completa biblioteca dell’autore bretone, uno dei suoi
più noti esegeti ha scritto: «sul concetto di res, non è chiaro che cosa
intenda precisamente quando parla degli enti reali» (16).
Tralasciando il dibattito sulla datazione e coerenza degli scritti
logici di Abelardo (17), a noi interessano
esclusivamente le sue posizioni e soluzioni proposte sugli universali che, come “germi”, hanno
creato l’humus malsano su cui
si è sviluppata la paludosa fogna soggettivista, nelle
modalità sensista ed empirista, volgari e riduzioniste, e
kantiane e neokantiane, complesse ed infide. Nella “Età di
mezzo” «il problema degli
universali fu un vero e proprio campo di battaglia dove furono
chiamate a sfidarsi i migliori ingegni dopo un’accuratissima
preparazione» (18).
La posta in gioco era il dominio delle menti: da una parte si combatteva per preservare e conservare il pensiero naturale e razionale riconosciuto come imago Dei, dall’altra parte si combatteva per recidere, se mai fosse possibile, il legame necessario, ontologico, tra l’uomo e il suo Creatore, e “creare” un paradiso autosufficiente qui sulla terra, ovvero un inferno. Abelardo, con il suo malcelato nominalismo e individualismo, l’impossibilità di apprendere il noumeno al di là dei fenomeni, e dunque il suo relativismo, preludio a quello radicale e nichilista senza fondamento che si genera ogni qual volta si “uccide”, ovvero si rifiuta, Dio (il Fondamento), «si dimostrava critico e distruttivo verso quelle forme del sapere umano che aspirano a essere verità incontrovertibili, vale a dire la metafisica, e intento nel demolirle» (19). Il perbenista soggettivista e relativista suppone sciattamente che l’umiltà sia la virtù propria di chi rifiuta l’oggettività e assolutezza della Verità rendendola indistinta. Invece, è proprio il contrario: solo ammettendo che esiste una Verità extra mentale, oggettiva e assoluta, si può essere sufficientemente umili da servire il comando della ragione che alla Verità deve sottomettersi. Se, come Abelardo credeva, la logica era l’essenza della filosofia, allora essa diviene criterio di se stessa e, prometeicamente emancipata dalla Rivelazione e dalla sua Auctoritas divinamente istituita, fine a se stessa (20). Quale protervia… Infatti, se è vero che, «dato che nessuna conoscenza può fare a meno di determinati principi linguistici e argomentativi, ogni scienza ha strutturalmente bisogno della logica per potersi sviluppare e deve sottomettersi ai criteri logici di correttezza formale, per altro verso, proprio perché la logica ha come scopo principale quello di riflettere sugli ens rationis, essa, pur scoprendo alcune caratteristiche importanti dei linguaggi, non parla direttamente della realtà: per questo non è fine a se stessa, ma è sostanzialmente uno strumento degli altri campi conoscitivi» (21). Per concludere, «subordinando la metafisica alla logica non si dà soltanto perfetta parità tra ideale e reale, ma l’idea precede e causa il reale; il pensiero non è causato dalle cose ma viceversa le cose sono causate dal pensiero. […]. Pertanto la logica vale come regola del pensiero e non come regola dell’essere, e tuttavia ha una sua valenza metafisica, perché il pensiero è sempre pensiero dell’essere» (22). (Continua)
NOTE 1 - Aristotele, Fisica, III-4, vol. I, Edizione Mondadori, Milano, 2008, pag. 115. 2 - P. Abelardo, I commenti all’Isagoge di Porfirio, Edizioni Mimesis, Milano, 2022, pp. 144-145. 3 - L’analogia è pertinente, tanto nelle premesse quanto nelle conclusioni: «come si è visto, tutti i casi sperimentalmente osservati di mutazioni comportano la perdita di informazione nel gene interessato e la perdita di funzionalità nella proteina per cui il gene codifica. […]. Anche le mutazioni, come meccanismo ragionevole per spiegare la diversità della vita appartiene all’ambito del mito piuttosto che a quello della scienza e la ricerca scientifica rimarrà ostacolata finché la falsa idea delle mutazioni come meccanismo adeguato per far progredire l’evoluzione continuerà a regnare incontrastata», in Kolbe Center, Ritorno alle origini, vol. I, Edizioni Radio Spada, Teramo, 2023, pp. 208-209. Ma, essendo di dura cervice, l’evoluzionista risponderà: evidentemente mutazioni utili ci devono essere, altrimenti non ci sarebbe l’evoluzione. 4 - «Non si può ammettere, come fanno gli evoluzionisti, un passaggio graduale dall’una all’altra condizione. Se questo fosse realmente avvenuto, infatti, dovremmo accettare che, gli “anelli di congiunzione” fra Rettili e Mammiferi non furono in grado né di udire, né di aprire e chiudere la bocca senza difficoltà; mentre è evidente che animali di tale genere sarebbero stati eliminati dalla selezione naturale», in G. Sermonti, R. Fondi, Dopo Darwin, Edizioni Rusconi, Milano, 1980, pp. 267-268. Purtroppo sul piano teoretico, tali mostruosità e aberrazioni si sono verificate e sono state ideologicamente imposte. 5 - Nel caso di Abelardo la sua conoscenza accidentale (logica) dei rapporti tra realtà, pensiero e linguaggio. 6 - Ovvero la conoscenza tanto accidentale (logica) quanto sostanziale (ontologica) dei rapporti di cui sopra, già raggiunta dagli antichi, specialmente da Aristotele, e definitivamente ultimata dal Doctor Angelicus. 7 - Ibidem, I commenti all’Isagoge di Porfirio, p. 117.. 8 - C. A. Testi, La Logica di Tommaso d’Aquino: dimostrazione, induzione e metafisica, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 2018, p. 24. 9 - C. Chiurco, Abelardo, Edizione RCS MediaGroup, Milano, 2014, p. 34. 10 - Ibidem, p. 12. 11 - S. P. Bonanni, Abelardo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2003, pp. 7-8. 12 - Enciclopedia Cattolica, vol. 1, voce Abelardo, Editore Sansoni, Città del Vaticano, 1948, pp. 62-63. 13 - Ibidem. 14 - https://archive.org/details/histoirelittra12riveuoft/page/148/mode/2up, p. 148. 15 - Ibidem, I commenti all’Isagoge di Porfirio, p. 56. 16 - Ibidem, p. 151. 17 - «Le opere filosofiche di Abelardo presentano una duplice difficoltà. Una, intrinseca, è dovuta all’oggettiva sottigliezza delle argomentazioni, ricche di termini tratti dal vocabolario tecnico della logica medievale, cui peraltro l’autore non esita a conferire sfumature di volta in volta diverse e personali; l’altra, estrinseca, è dovuta al fatto che Abelardo tendeva a rielaborare molte volte i suoi testi, sì che della stessa opera si possono trovare fino a quattro o cinque redazioni successive (il che, a sua volta, comporta non indifferenti problemi con la datazione degli scritti)», in ibidem, Abelardo, 2014, pp. 34-35. 18 - Ibidem, I commenti all’Isagoge di Porfirio, pp. 17-18. 19 - Ibidem, Abelardo, 2014, p. 33. 20 - «Inoltre, applicando senza mediazioni l’argomentazione dialettica al testo sacro, questo diviene una pura allegoria (il Paradiso in realtà sono le anime buone, l’inferno è una generalizzata infelicità dello spirito…), finendo con l’essere di fatto ricondotto a una “normalità” di significato da cui la trascendenza e l’atto di Fede sono esclusi», in Ibidem, Abelardo, 2014, p. 33-34.v. 21 - Ibidem, La Logica di Tommaso d’Aquino: dimostrazione, induzione e metafisica, pp. 15-16.. 22 - B. Mondin, Logica, Semantica, Gnoseologia, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 2008, pp. 44-45. |