IL  MOTU PROPRIO
SUMMORUM PONTIFICUM CURA
compie un anno

Le obiezioni
Premessa
Introduzione alle obiezioni
Traditio sconosciuta e oggi recuperata
Mancata partecipazione attiva dei fedeli, oggi recuperata
Tradizione statica e… tradizione vivente: preludio alla libertà religiosa
Dalla lex credendi alla lex vivendi
Dalla povertà del vecchio alla ricchezza del nuovo lezionario
Dall'“azione della grazia” di Dio all'“azione di grazie” verso Dio
Dal “timore di Dio” al protagonismo umano
La vessata questio dell'Oremus et pro perfidis Iudaeis


Il numero del giornale in formato pdf
L'articolo “Le obiezioni” in formato pdf

Presentazione
Le premesse
Una curiosa lettura del Breve esame critico
1988-2008 - un anniversario nell'annivesario
Il testo del Motu Proprio: considerazioni e commenti
Ci fu abrogazione ?
La lettera di accompagnamento: considerazioni e commenti
Le reazioni
Le obiezioni
L'applicazione
Le prospettive
Ultima ora
Appendice - Canon Missae
Appendice - Ritus romanus e Ritus modernus
Luoghi e orari della S. Messa
Istruzioni per l'uso



 
La dialettica è la base del vivere civile, si dice, e i cattolici moderni, civilissimi, non potevano essere di meno in questa occasione della pubblicazione del Motu Proprio Summorum Pontificum cura. 
Il Motu Proprio era stato solo appena annunciato, quando sono fioccati centinaia di interventi. Certi volti a sottolineare la volontà del Papa a richiamarsi alla millenaria Tradizione cattolica, finalmente!
Certi altri pronti a dimostrare che si trattava di un nuovo gesto ecumenico (!!!), dettato dalla volontà di raggiungere la più ampia unità nella Chiesa cattolica. 
Tanti mossi dalla preoccupazione di una svolta conservatrice contraria allo spirito del Concilio, tanti altri infine allarmati dal pericolo di una fantomatica restaurazione che avrebbe riportato la Chiesa a secoli addietro.
E siccome la dialettica va a braccetto con la democrazia, subito vi sono stati di quelli che hanno lanciato perfino le raccolte di firme: fermate il Papa! Demos vult!

Certo, questi ultimi hanno fatto un buco nell’acqua, riscuotendo più sberleffi che consensi, ma la via era stata indicata. 
Ed ecco allora gli intellettuali e i sapienti in abito ecclesiastico mettersi a scrivere dappertutto, rilasciare interviste e dichiarazioni: il Papa sbaglia! Attenzione al rischio di involuzione! Il Motu Proprio è un clamoroso errore!
Subito sono state diffuse diecine di migliaia di copie di libelli zeppi di puntualizzazioni e di discettazioni supposte dotte.

Quello che colpisce in tutto questo trambusto è che, in ultima analisi, preti, vescovi, cardinali e presunti liturgisti e teologi, hanno puntato il dito non tanto contro il Motu Proprio, quanto contro la liturgia tradizionale. 
Le obiezioni, infatti, hanno riguardato non tanto il testo del Motu Proprio, quanto i testi dei libri liturgici tradizionali, quegli stessi che la Chiesa ha usato per quasi duemila anni, inevitabilmente messi a confronto con i moderni libri liturgici riformati: questi ultimi fedeli alla Tradizione, i primi da secoli infedeli.

Non ce n’era bisogno, ma la pubblicazione del Motu Proprio ha costretto molti a venire allo scoperto, rivelando quanto astio continuino a covare costoro contro la Chiesa di ieri e di sempre e contro la liturgia dei Padri  e degli Apostoli. 
Si è arrivati perfino al ridicolo di un noto cardinale in pensione (meno male!) che non ha saputo resistere alla tentazione di sputare nel piatto in cui ha spudoratamente mangiato per 55 anni: “non posso non risentire quel senso di chiuso che emanava dall’insieme di quel tipo di vita cristiana così come allora si viveva, dove il fedele con fatica trovava quel respiro di libertà e di responsabilità da vivere in prima persona ”, confessava il noto Carlo Maria Martini il 29.7.2007.
Poverino! Chissà quanto avrà sofferto per il lezzo e per la muffa, questo moderno gesuita illuminato dalla luce del Concilio!

Ma non ci occuperemo di costoro, in questa occasione, cercheremo di andare al nocciolo della questione, tralasciando certe miserie umane, fin troppo ordinarie e scontate.

 

Premessa

A mo’ di premessa, segnaliamo che qualche mese fa, i Paolini, tanto per non smentire se stessi e la loro fama di preti all’avanguardia, sul loro giornaletto spudoratamente chiamato Jesus, hanno pubblicato un “dossier” in cui si affrontavano le questioni sollevate dall’entrata in vigore del Motu Proprio. 
In verità, soprattutto per il modesto taglio giornalistico dello stesso giornaletto, la più parte di questo dossier era composta da roba vecchia e da luoghi comuni alquanto superati. 
Spiccavano, un elenco di prelati italiani contrari al Motu Proprio, già noti, peraltro, per le loro posizioni da “comune” sessantottarda, e due informative sulle moderne pruderie gallicane e teutoniche di tanti vescovi conciliari francesi e germanici che si riempiono la bocca di aggiornamento e comunione, ma si dimenticano di ricordare anche a loro stessi che i loro seminari sono ormai vuoti.
Poveretti!

Nella informativa dedicata alla Francia, un tal Pisarra non ha resistito alla tentazione di denigrare chi ha sentito il bisogno di rimanere fedele alla Chiesa di sempre, e usando la nota tecnica bolscevica cita, tra i cattivi, il compianto fondatore del monastero benedettino di Le Barroux, dom Gérard Calvet (? 28.2.2008), apostrofandolo con l’espressione “di sinistra memoria”. 
Ridicolo, certo, ma soprattutto, come si dice, ognuno sbandiera ciò che ha. 
Semmai dom Gérard potrebbe essere ricordato come “destro” o “diritto”, del tutto coerentemente col suo essere un abate benedettino, mentre il “sinistro” è proprio il povero Pisarra, che, dopo questa sparata da quattro soldi, possiamo a ragione definire “sinistro figuro”.

Lo stile è sempre lo stesso! Cose vecchie, dicevamo.
L’altra informativa relativa alla Germania e all’Austria, infatti, parla di commistione tra Messa tridentina, estrema destra e cattolici nostalgici del nazismo. 
Niente di meno! 
E anche qui niente di nuovo: non sei d’accordo con me? … Fascista!

Puerile, ma ancora efficace, soprattutto negli ambienti frequentati dai moderni cattolici adulti che si beano nel rivoltarsi in mezzo al sudiciume della pseudo cultura moderna, arrancando, sempre in retroguardia, dietro alle “magnifiche sorti e progressive … del secolo superbo e sciocco”, come si era già accorto il Leopardi nel lontano 1836.

La cosa buffa è che nello stesso numero del giornaletto dei Paolini (n° 5, 2008), cogliendo qua e là, troviamo anche altre cose che aiutano a capire con chi abbiamo a che fare. 
E dire che si dovrebbe trattare di “cattolici”! 
Misteri del post-concilio!

Parlando del Brasile, per esempio (pp. 80-83), si legge: 

Nata negli anni ’60 … la Tdl [Teologia della liberazione] era cresciuta nella resistenza alle dittature militari, quindi aveva subito la persecuzione politica e la censura ecclesiale…”, oggi, viva più che mai, si presenta con una “ armatura etica e culturale … formata … da tre grandi correnti sociopolitiche nate in questa regione: le Ceb [Comunità Ecclesiali di Base] legate alla Teologia della liberazione, l’insurrezione indigena portatrice di una cosmovisione diversa da quella occidentale e il guevarismo ispiratore della militanza rivoluzionaria”.
Caspita! Che splendida notizia per l’edificazione del lettore cattolico! 

Chissà quante grazie riescono a meritarsi i fedeli che leggono queste gratuite amenità! 
Manca solo il Crocifisso e Nostro Signore, ma questa per i Paolini è solo una bazzecola.

E ancora.

La teologia della liberazione ha avuto il coraggio di invitare i popoli a superare l’idea di un cristianesimo concepito come un compendio di devozioni e dogmi più o meno sublimi, e di invitarli a riscoprire la centralità di Gesù e in particolare le sue preferenze e la sua prassi. L’invito resta valido”.
Caspita! Che profondità di pensiero!
E dire che istrioni e blasfemi come costoro si piccano di scrivere e di pubblicare considerazioni sulla liturgia tradizionale della Chiesa Cattolica!

Si dice in genere: senza pudore! E qui è il caso di aggiungere: non c’è più religione!

Ma non è finita qui.

A pag. 89 troviamo una breve nota di un tale Giannino Piana che oltre ad aver fatto il docente un po’ dappertutto, discettando di teologia morale, di etica teologica e via professorando, sarebbe anche un prete.
Sotto il titolo: “Marx non è morto e le sue denunce sono ancora attuali”, egli scrive: “ La denuncia di Marx suona perciò ancor oggi come un monito che deve essere assolutamente ascoltato, se è vero che dalla qualità dell’attività lavorativa dipende, in larga misura, la qualità della vita umana, e dunque il livello di umanizzazione proprio di una società”.

Che belle parole cattoliche!

No, non si tratta di un vecchio ingenuo trinariciuto dalle irrefrenabili sollecitazioni inguinali, si tratta di un prete che dovrebbe aver letto la Rerum Novarum di Leone XIII (1891), e che invece pare che la sera prima di addormentarsi raccomandi la sua anima a san Carlo Marx di Treviri e a san Federico Engels di Barmen recitando fedelmente il loro splendido MANIFEST DER COMMUNISTISCHEN PARTEI.

Sarcasmo? Macché! 
Pietà e commiserazione per questi poveri sbandati a cui la moderna Chiesa conciliare permette perfino di insegnare.
E sono in tanti, purtroppo, e sono ovunque, in tutte le chiese, negli oratori, nei conventi, nelle facoltà teologiche, nei seminari, negli Istituti Superiori di scienze religiose. 

E sono dappertutto a insegnare cose come queste (“Il Sessantotto,  40 anni dopo: quale eredità per la Chiesa?”, pag. 19): “ Per la Chiesa, erano gli anni effervescenti, un po’ anarchici, ma pieni di slancio, del post-Concilio, del suo diritto-dovere di partecipare, secondo i vari carismi, alla vita del corpo ecclesiale”. 
Ha ragione l’autrice, teologa e professoressa di morale, Maria Cristina Bartolomei, e i frutti si vedono: sono i cattivi maestri come quelli che scrivono su Jesus con i soldi dei fiduciosi fedeli che continuano a fidarsi di questi falsi preti e di queste false educatrici. 

Ma, il Signore, si dice, non paga solo il Sabato. A ognuno il suo giorno!

Noi possiamo solo ricordare quello che dicevamo prima: costoro, come gli untori, spargono a piene mani ciò che hanno in proprio, e disgrazia vuole che, non essendo cattolici, distribuiscano solo sovversione, utile per la demolizione della Chiesa Cattolica. La colpa è della Gerarchia che continua ad alimentare, a sostenere e a finanziare questi covi anticattolici, zeppi di individui che sognano e perseguono una Chiesa del tutto diversa da quella istituita da Nostro Signore.

Introduzione alle obiezioni

Ci siamo un po’ dilungati con queste citazioni, ma ci è sembrato opportuno inquadrare in qualche modo il pulpito da cui viene la predica alla liturgia tradizionale. Come abbiamo detto prima, infatti, le obiezioni sono rivolte alla liturgia tradizionale, piuttosto che al Motu Proprio.

È quanto si può constatare aprendo il fascicolo monografico intitolato “Celebrare con il Messale di San Pio V” e approntato dalla Rivista Liturgica (2008, fascicolo 1, gennaio-febbraio, Edizioni Messaggero, Padova), uno dei tanti frutti del Concilio che si presenta a chierici e laici come l’unica vera fonte di informazione e di formazione liturgica.

Per far capire che non esageriamo, richiamiamo subito l’attenzione proprio sul titolo del fascicolo.
Esso si presenta subdolamente come fosse un manualetto per aiutare a celebrare la S. Messa tradizionale, e perfidia vuole che in copertina sia messo in risalto il nome di San Pio V. Ebbene, non solo questo “San” della copertina non lo si ritrova più in alcuna pagina dell’interno, dove il santo papa diventa solo Pio V, ma ogni pagina di questo fascicolo è una requisitoria contro la S. Messa che la Chiesa ha celebrato da sempre. 

I maliziosi non siamo noi, ma i redattori di questa subdola rivista.
Citiamo questo fascicolo perché è di esso che ci serviremo per considerare le obiezioni di cui dicevamo all’inizio, tenuto conto che è una sorta di compendio di tutte le cose che sono state scritte sull’argomento, quindi più facile da consultare in un colpo solo, e che si tratta di 11 “studi” preceduti da un editoriale e seguiti da un piccolo dossier che parla delle liturgie papali, con l’immancabile Piero Marini che il Papa ha fatto bene a rimuovere da capo dell’Ufficio delle celebrazioni liturgiche del Sommo Pontefice: non se ne poteva più!
Il tutto scritto da altrettanti professori in liturgia, tutti preti e tutti modernisti, impossibile da confondere con dei giornalistini da quotidiano o da rotocalco.

Eh, già! Perché i professori, loro,sono dei veri competenti, altroché! 
Sentiamo quindi il dovere di presentarli.
Manlio Sodi, salesiano, docente, Università Pontificia Salesiana, Roma, Direttore della stessa Rivista Liturgica. 
Enrico Cattaneo, gesuita, docente, Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, Napoli. 
Cosimo Semeraro, salesiano, docente, Università Pontificia Salesiana, Roma. Giovanni di Napoli, Laureana Cilento (SA). 
Pietro Sorci, francescano, Presidente della Commissione liturgica della Diocesi di Palermo. 
Carlo Cibien, paolino, docente, vice direttore editoriale della Editrice San Paolo, Cinisello Balsamo (MI). Felice Rainoldi, docente, Maestro di Cappella del Duomo di Como. 
Paolo Tomatis, docente, Facoltà teologica di Torino. 
Maurizio Barba, docente, Pontificio Istituto Liturgico Sant’Anselmo, Roma. 
Angelo Lameri, docente, Pontificia Università Lateranense, Roma. 
Piergiorgio Gianazza, salesiano, missionario, Gerusalemme.

Fatte le dovute presentazioni, incominciamo a leggere questo sacro testo. 

Per avere un primo quadro di riferimento, cogliamo alcuni elementi salienti dell’editoriale con cui si presenta il fascicolo.

Dice l’editorialista: “ Non intendiamo riferirci al Motu Proprio, ma a quella schiera di nuovi “esperti” in liturgia che si sono improvvisamente autoproclamati specialisti… e ufficiali interpreti… […] individui che scrivono o parlano solo perché dispongono di un canale divulgativo… […] paladini e fautori di un ritorno al passato… dimostrando una mancata comprensione… dei saggissimi intenti del concilio Vaticano II attuati dalla riforma liturgica da esso sancita. Il presente fascicolo è dedicato soprattutto a queste persone”.
La citazione è lunga, ma è talmente illuminante che ci è sembrato doveroso far capire di che tempra sono questi professori.
Disgraziatamente per loro, non si rendono conto di non essere sempre in cattedra, con davanti gli alunni giocoforza indociliti e sottomessi, e credono di poter trattare gli altri da imbecilli e da malfattori “solo perché dispongono di un canale divulgativo” profumatamente foraggiato con i soldi dei fedeli, chierici e laici, a cui in tanti anni sono riusciti ad imporre i loro libelli.
Tralasciamo le tante scorrette asserzioni che seguono questo superbo incipit, e andiamo veloci alla motivazione: “ In tale contesto appare il presente fascicolo che alcuni penseranno predisposto sull’onda dell’attualità e con spirito di rivalsa o con atteggiamento di contrapposizione. In verità il Consiglio di redazione studiò questo tema e ne approvò il progetto in tempi non sospetti, ovvero già nei primi giorni del giugno 2006”.

Che dire?
Il professore mette le mani avanti (excusatio non petita…) perché sa bene che il livore trasuda da ogni frase del suo editoriale, e prova a schermirsi. 
Poveretto, che attacco di bile con la pubblicazione del Motu Proprio!
Anzi, il copioso e continuo versamento dalla vescicola biliare si produsse in costoro fin dalle prime notizie sulla pubblicazione del Motu Proprio… proprio da quel maggio 2006 che il professore vorrebbe spacciare per “tempi non sospetti”. 
Altro che non sospetti! 
Tempi criminali, furono! 
E il Consiglio di redazione si riunì in fretta e furia per preparare la controffensiva.

Detto questo, ci corre l’obbligo di avanzare da subito le nostre scuse, perché, per quello che scriveremo, con l’infondata pretesa di chiosare quanto contenuto nel fascicolo, siamo impossibilitati a presentarci con “ competenza dimostrata autorevolmente, con studi e pubblicazioni ” (p. 11), come pretende il professore, che dichiara di non essere disposto ad alcun dibattito con chi non possedesse questi requisiti e vantasse solo “ una saccenza acquisita al mercato della cronaca o esibita in vista di promozioni” (p. 11).

Caro professore, ma chi vorrebbe mai dibattere con Lei?!
Noi, per esempio, chiediamo, umilmente: “ è concesso ai semplici fedeli, che hanno imparato a leggere e a scrivere e che ogni tanto riescono ad afferrare il significato di quanto autorevolmente scritto da Lei… è concesso fare qualche considerazione sulla base del Catechismo della Chiesa Cattolica, per esempio? O questi semplici fedeli, prima di permettersi di fare qualche ingenuo appunto, devono andare a scuola da Lei?!” 
Perché non vorremmo mai essere tacciati di “saccenza acquisita”, come fosse una sindrome infettiva, per il fatto che siamo incapaci di esprimerci con tanta spocchia e con così velenosa supponenza.
Veda, caro professore, purtroppo per Lei, noi non apparteniamo a nessuna delle due categorie a cui apparterrebbero, secondo Lei, i “ soggetti che auspicano un “ritorno” alle precedenti forme celebrative”, e cioè: “ quella di coloro che coltivano un estetismo elitario o che hanno bisogno di assecondare il loro mondo emotivo…” (p. 11) e “ quella di coloro che amano immergersi, spesso in modo non riflesso, in quel clima quasi da new age in cui l’esoterismo misterico, l’aura del sacrale, il coinvolgimento del sentimento offrono possibilità comunicative e relazionali più coinvolgenti di quelle garantite dalle attuali prassi celebrative”  (p. 12). 
Purtroppo, caro professore, noi siamo dei semplici fedeli cattolici, perfino tanto stupidotti da non riuscire a cogliere bene il senso delle sue summenzionate elucubrazioni freudiane. 
Noi, caro professore, non soffriamo di alcuna turba, noi, grazie a Dio, 
noi andiamo a Messa e preghiamo, come ci hanno insegnato i nostri padri e i nostri buoni curati.

E dopo aver fatto le dovute presentazioni entriamo nel merito di queste obiezioni.

Traditio sconosciuta e oggi recuperata.
Con il Missale del Vaticano II avviene il recupero di quella parte della traditio che era rimasta sconosciuta alla Commissione che elaborò il Messale di Pio V.
È quello che si legge nell’editoriale e che, in definitiva, ripete una sorta di slogan propagandistico nato a partire dal Concilio Vaticano II.
Il Messale e l’intera liturgia tradizionale sconoscevano parte della Tradizione. 
Ohibò!!!

L’autore dice di non temere di essere smentito, e noi lo rassicuriamo. 
Non è nostra intenzione, infatti, smentirlo, diciamo solo che siamo esterrefatti, perché se è vero, come è vero e come sanno i veri professori, che il Messale di San Pio V, che era il Messale della Curia Romana, risale a San Gregorio, a Papa Gelasio e a San Pietro, si resta impietriti al cospetto di tanta sfrontatezza.
Alla leggenda del Vaticano II che recupera la Tradizione dei primi secoli del Cristianesimo non ci credono più neanche i bambini, perché hanno imparato a leggere… a leggere perfino gli studi che riconosciuti storici della liturgia, che non si potranno mai leggere su Rivista Liturgica, hanno prodotto proprio dai tempi del Vaticano II. 
Il pregiudizio illuminista è duro a morire: i nostri padri non sapevano niente, oggi sì che sappiamo tutto (sic!).
Resta solo un’alternativa: o l’affermazione è falsa e tendenziosa o la Chiesa per duemila anni ha raccontato frottole!
In realtà, è stata inventata questa leggenda per giustificare il vizietto di cogliere qua e là da antichi documenti quello che fa comodo per perseguire rivoluzionariamente la demolizione della liturgia tradizionale.

A leggere queste cose si ha la sensazione che chi le scrive ritenga i suoi lettori dei minorati mentali. 

Ora, solo per fare qualche esempio, tutti sanno che la liturgia ortodossa ha mantenuto fino ai nostri giorni i caratteri salienti della liturgia antica, caratteri che risalgono ai Padri della Chiesa. Non c’è quindi bisogno di andare alla Università Pontificia Salesiana per sapere come celebrano gli ortodossi, che usano la liturgia antica. Basta andare in una chiesa di rito orientale, come ce ne sono soprattutto a Roma e nel Sud d’Italia.
Ebbene, al momento della consacrazione, il celebrante si ritira nel sacro Vima, o santuario, il diacono chiude le sacre Porte dell’iconostasi e la consacrazione si svolge lontano dagli occhi dei fedeli. In questa liturgia è palese, è tangibile il senso del Mistero ineffabile che con essa si compie. 

Ora, guarda caso, anche nelle chiese d’Occidente un tempo vi era l’iconostasi o le tendine che si chiudevano intorno all’altare. 
Come mai questa antica tradizione liturgica non è stata “recuperata” dai riformatori conciliari e post-conciliari ed è stato invece introdotto il trasferimento dell’altare a ridosso della navata, se non al centro, demolendo perfino le balaustre e imponendo al celebrante rivolto al popolo di recitare tutto a voce alta come fosse un comizio elettorale?
È più che evidente che il modello non fu tratto dalla Tradizione, ma dalla riforma protestante, dove l’altare non esiste più, come non esiste più il mistero, la transustanziazione, la S. Messa. Ma bisognava nasconderlo ai fedeli, e quindi si sono usati gli antichi documenti per far dir loro quello che faceva comodo.

Ciò che indigna è che, ancora oggi, questi falsi cattolici pretendono di dare lezioni di Tradizione dopo averla volutamente demonizzata e dopo aver tentato di demolirla. 
E indigna di più che tutto questo sia stato fatto e si continui a fare col consenso, se non con l’iniziativa, dei papi.
Esempi come questi ne potremmo fare a diecine, basta ricordare l’incredibile introduzione della Comunione sulla mano, per giustificare la quale si scomoda sempre un testo di san Cirillo di Gerusalemme, che riporta una particolare soluzione contingente, nascondendo dolosamente diecine di altri testi e disconoscendo duemila anni di liturgia occidentale.
Anche qui, basterebbe andare in qualche chiesa ortodossa e vedere i fedeli che, da duemila anni, ricevono la comunione direttamente in bocca, addirittura con un cucchiaino, e rimangono con la bocca aperta e con le mani incrociate sul petto fintanto che il sacerdote non lo abbia ritirato.
Siamo noi i fissati o è la liturgia moderna che ha volutamente tradito la Tradizione e la Chiesa?

Mancata partecipazione attiva dei fedeli, 
oggi recuperata.
Una delle idee guida della riforma è stata la “partecipazione attiva” dei fedeli: per raggiungere questo scopo sono state abolite le “barriere” linguistiche, con l’uso delle lingue parlate, e anche molte “barriere” architettoniche, per favorire la dimensione assembleare e comunitaria. (in nota: Prima del concilio il concetto di “partecipazione attiva” era inteso da molti in senso restrittivo, come un fatto di adesione puramente interiore.)
È ciò che si legge a pag. 20, dove Enrico Cattaneo spiega che la traditio liturgica è uno strumento vivo.
Per capire bene quello che vuol dire quest’altro professore, bisogna leggere ciò che scrive prima: “ La riforma liturgica promossa dal concilio Vaticano II non è consistita in qualche piccolo ritocco, ma è stata profonda e ampia: ha coinvolto tutti i sacramenti, a cominciare dalla celebrazione eucaristica; ha toccato il Messale, il Lezionario, l’anno liturgico, il santorale, la liturgia delle ore”.

Tre semplici considerazioni.
Prima: se si è trattato di questo, ed è vero, qualcuno ci dovrebbe spiegare come si possa parlare di “recupero” della Tradizione o addirittura, come fa il Cattaneo, di riforma “inserita nel solco dell’autentica tradizione” (p. 20). 
Delle due l’una: o non capiamo niente noi o sono confusi costoro, per non dire peggio. 
Anche un bambino comprende che cambiare tutto significa semplicemente abbandonare tutto quello che c’era prima, sostituendolo con qualcosa di diverso. Si potrebbe trattare di qualcosa di simile, ma certo di diverso da prima. E siccome stiamo parlando di liturgia e non di carciofi, una liturgia diversa da quella che la Chiesa ha usato per duemila anni non potrà mai dirsi inserita nel solco della Tradizione. Semmai si tratterà di una liturgia simile, proprio com’è il caso della liturgia riformata che, per ciò stesso, non è più la liturgia della bimillenaria Chiesa Cattolica, ma la liturgia della neonata Chiesa conciliare, chiaramente mutuata da Lutero e soci, di cui tutto si può dire tranne che fossero cattolici e amanti della Chiesa.
A noi la cosa puzza alquanto di eterodossia. 
Se invece per costoro va tutto bene: contenti loro! Ma non ci chiedano di condividere le loro contraddizioni.

Seconda: aver “toccato” il Messale, il Lezionario, l’anno liturgico, il santorale, la liturgia delle ore, significa aver toccato tutta la liturgia, e per far questo era necessario mettere mano alla stessa teologia ad essa sottesa, mettere mano alla dottrina, e a niente vale l’uso di eufemismi come “una rinnovata ecclesiologia” che, ci si dice, avrebbe richiesto tale sconquasso (p. 19). Dietro la “ecclesiologia” da rinnovare, in realtà vi era e vi è il cambiamento della teologia, della liturgia e della dottrina della Chiesa, realizzate tutte con lo stesso sistema: cambiamo tutto per mantenerci nel “solco dell’autentica tradizione”!.

Terza: per quale incredibile arcano, realizzare “una delle idee guida della riforma… la “partecipazione attiva” dei fedeli”, richiedeva il cambiamento totale della liturgia? 
È questo uno di quei punti controversi emersi nel Concilio ed esplosi nel post-concilio, che ancora oggi non hanno trovato una messa a fuoco almeno decente.
Spesso si continua a discutere se con la liturgia tradizionale vi fosse più o meno partecipazione attiva dei fedeli, o se la partecipazione che permette la liturgia riformata sia più o meno attiva. 
Lo sbaglio sta proprio in questo approccio quantitativo. 
In realtà la partecipazione attiva dei fedeli non ha niente a che vedere con la liturgia: mentre questa attiene a Dio e interpella il celebrante in quanto strumento da Dio stesso voluto così com’è, la partecipazione attiva attiene ai fedeli, alla loro sensibilità e alla loro struttura interiore in quanto uomini. 
La liturgia non è quella che è e che dev’essere per la partecipazione dei fedeli, sia essa attiva o no.
La liturgia è qualcosa che viene da Dio e che si estrinseca in mezzo ai fedeli da sé stessa, in totale autosufficienza. 
Una S. Messa celebrata dal solo celebrante per la salvezza delle anime, per i vivi e per i morti, per i presenti e per gli assenti, è di per sé tale indipendentemente dal fatto che ci siamo o meno dei fedeli. 
Di partecipazione non se ne parla neanche! 

Il vero celebrante, il Sacrificatore e il Sacrificato, il Sacerdote e la Vittima, è   lo stesso Signore Nostro Gesù Cristo, che non ha certo bisogno dell’aiuto dei fedeli per operare il Mistero ineffabile della riattualizzazione del Sacrificio della Croce.
La liturgia eucaristica, che è il fondamento della vita della Chiesa, non è celebrata dai fedeli, né dal celebrante, sia esso un sacerdote cattolico o un prete moderno, essa è di natura divina ed è celebrata da Dio stesso. 
Tutto quello che possono apportare gli uomini è solo manchevolezza ed errore. 
È per questo che la Chiesa ha sempre preteso che nella liturgia non intervenisse alcuna iniziativa personale, neanche dei papi, figuriamoci dei fedeli.
Parlare quindi di partecipazione attiva dei fedeli è quanto meno confusionario e fuorviante, ed è sicuramente strumentale: funzionale alla “moderna ecclesiologia”.

Ben altro è il discorso se per “partecipazione attiva” si intende, com’è stato sempre, la migliore cosciente disposizione personale di ogni fedele che si viene a trovare al cospetto del compimento dei Divini Misteri.
La migliore cosciente disposizione mentale, psicologica, intellettuale e corporale. 
Il fedele si deve sentire coinvolto nell’opera di salvezza attuata da Dio stesso e deve disporsi ad imitazione degli Angeli e dei Santi che partecipano dal Cielo alla divina liturgia terrena: in totale raccoglimento e in completa adorazione, ripetendo con le labbra, con la mente e col cuore: SANTO, SANTO, SANTO…………

Questa è la vera partecipazione attiva dei fedeli, l’unica che abbia un senso al cospetto del Mistero Eucaristico. Tutto il resto è presunzione umana, cerebralismo, vano attivismo, distrazione e, in ultima analisi, indurimento del cuore.
D’altronde, perché allora togliere le balaustre dalle chiese, abolire gli inginocchiatoi, demolire gli altari, approntare tavole da pranzo, bandire il silenzio, ridurre quasi a niente i segni di croce, introdurre la lingua che si parla ogni giorno, intercalare il rito della celebrazione eucaristica con ricorrenti verbose e inutili spiegazioni, celebrare con gli occhi negli occhi, volgere le spalle alla Croce e spesso al tabernacolo col Santissimo dentro, circondare l’altare di chierici e ancor più di laici, affollare il presbiterio di donne, aumentare le letture, dilatare gli interventi personali e di gruppo,… perché…perché tutto questo: se non per coinvolgere emotivamente ed esteriormente i fedeli, se non per volgarizzare ed umanizzare al massimo la Divina Liturgia, così da mettere al centro della celebrazione l’uomo?

Con la moderna liturgia riformata si è voluto trasformare la Divina Liturgia in mera azione umana che prometeicamente parteciperebbe all’azione di Dio. 
Una balla colossale, peraltro impossibile anche solo dal punto di vista lessicale. 
I fedeli semmai possono “collaborare” con l’azione di Dio, possono cioè compiere quanto compete loro nei limiti umani che sono loro propri, e questo possono farlo correttamente solo se si uniformano agli insegnamenti di Dio, se seguono gli insegnamenti che il Signore Gesù ha consegnato agli Apostoli e questi alla Chiesa, ai papi, ai vescovi: da duemila anni fa fino al Concilio, a partire dal quale si è preteso di “rinnovare”, di cambiare tutto.
Aspettiamo ancora di leggere i telegrammi urgenti fatti recapitare a Paolo VI da Dio in persona, con le istruzioni per trasformare la S. Messa di San Pietro nella “cena” di Lutero.

Per ultimo, su questa incredibile fandonia della moderna “partecipazione attiva dei fedeli” facciamo notare un’altra clamorosa contraddizione.
Nello stesso fascicolo (pp. 182-183), a proposito del colpo di mano dell’onnipotente cerimoniere di Giovanni Paolo II, il noto Marini Piero (da non confondere con l’attuale mons. Guido Marini, che è persona seria) che nel 2006-2007 fece pubblicare provocatoriamente dei libri sulle “sue” liturgie papali, con il risaputo intento di condizionare il neo eletto Benedetto XVI, si legge: “ Similmente hanno una loro peculiarità le celebrazioni presiedute [!?] dal papa: in quanto vescovo di Roma e pastore della Chiesa universale, esse riguardano la Chiesa romana e le Chiese sparse su tutta la terra, in Occidente come in Oriente. Sono celebrazioni uniche per l’unicità del ministero petrino… […] A tale unicità di ministero corrisponde la cattolicità del popolo di Dio… Attorno al ministero liturgico del papa si raccoglie “tutto” il popolo a lui affidato: quello della Chiesa di Roma e dell’intera Chiesa cattolica…”.

Se non abbiamo preso un abbaglio, qui si dice che le celebrazioni papali sono “esemplari” per tutta la chiesa: basta guardare ad esse per apprendere come celebra la Chiesa.
Guardiamo, quindi, tenendo fermo, in questa occasione, il punto di vista della “partecipazione attiva dei fedeli”.
Il luogo della celebrazione: tolto il caso particolare di piazza San Pietro, che può essere considerata un prolungamento della Basilica, troviamo sempre spazi indifferenziati e non qualificati, perfino gli stadi.
Fedeli presenti: fino a centinaia di migliaia accalcati in modo tale che gli unici che riescono a seguire la celebrazione sono le solite centinaia di preti seduti a ridosso della barriera.
Concentrazione: quando non imperversano i mille rumori che attorniano la spianata, a far caciara bastano le centinaia di migliaia di brusii che si alzano dalla folla fluttuante che, con in testa i preti (appunto!), si prodiga per fotografare e filmare l’oceanico spettacolo.
Accompagnamento della celebrazione: con l’aiuto degli amplificatori si può sentire la voce del celebrante, e con lo stesso aiuto si tramuta la parola in rumore e si determina l’effetto eco.
Assenso agli oremus: quando l’ultimo fedele dice amen, il primo ha già finito da un pezzo.
Comunione: centinaia di preti distribuiscono le particole a migliaia di fedeli, e mentre cento assumono il Corpo di Cristo, i rimanenti comunicati riprendono a chiacchierare tra loro tra il chiacchiericcio della folla oceanica. Per un lasso interminabile di tempo la Messa va in “intervallo”, con regolare accompagnamento di musica di sottofondo.
E ci fermiamo qui, per non farla troppo lunga. Ma tanto basta per far capire come nel corso di questa celebrazione “esemplare” per la Chiesa tutta, “in Occidente come in Oriente”, di “partecipazione attiva dei fedeli” non v’è neanche l’ombra.

Impossibilità tecnica si dirà!
Ma se questa è la Messa del Papa, quale esempio essa può dare e ha dato dell’importanza della “partecipazione attiva dei fedeli”?
La verità è che questa strombazzata partecipazione è una scusa, una scusa per celebrare la Messa moderna anni luce lontani dalla Tradizione e da Dio.
Nelle Messe parrocchiali si attua la partecipazione creativa che vede al centro i cosiddetti animatori liturgici protagonisti come attori sul palcoscenico. 
Nelle Messe papali si attua la trasposizione clericale dell’ultima moda sociologica delle adunate di massa, dirette discendenti delle adunate oceaniche messe in scena dal mondo laico nella prima metà del novecento.
Nelle prime si dà la stura all’hybris di pochi, nelle seconde si acconsente all’hybris incontrollata e incontrollabile della massa. Con pesanti ripercussioni psichiche in entrambi i casi.
Detto questo ci chiediamo: è questa l’idea guida della riforma liturgica attuata a partire dal Concilio per mantenersi nel solco dell’autentica Tradizione?
No, grazie: preferiamo le vecchie Sante Messe dei nostri nonni, magari con qualche S. Rosario in più, ma senza porcherie acquistate fresche fresche al supermercato del villaggio globale.

Tradizione statica e … tradizione vivente: 
preludio alla “libertà religiosa”
A partire da questi rapidi accenni, si può vedere come la tradizione liturgica non è statica, ma è viva, e quindi suscettibile di “sviluppo” e di “adattamento”. Come la tradizione dottrinale (lex credendi) comporta uno sviluppo del dogma, sempre però in eodem sensu eademque sententia, così la tradizione liturgica (lex orandi) registra una pluralità e un arricchimento di forme, sempre però nel solco della tradizione. … Da qui anche i grandi momenti di “riforma” liturgica (gregoriana, tridentina, Vaticano II)…
È quanto scrive sempre Cattaneo a pag. 31.
Ci troviamo di fronte al tentativo di giuocare con le parole: etichettando tutto col termine “riforma” si vorrebbe far credere che ciò che è avvenuto col Vaticano II è simile a quello che fece San Gregorio o dispose il Concilio di Trento e attuò San Pio V. 
L’affermazione è chiaramente falsa e tendenziosa e ne abbiamo già parlato prima leggendo l’Editoriale.
Intanto c’è da dire che c’è riforma e riforma, e poi né San Gregorio, né il Concilio di Trento, né tampoco San Pio X il secolo scorso, hanno introdotto niente di anche lontanamente simile a tutti i cambiamenti accennati dal Vaticano II e inventati da Paolo VI. 
Cattaneo parla di “sviluppo” e di “adattamento” e ci sembra che, se l’italiano non è un’opinione, questi due termini non possono neanche accostarsi al termine “cambiamento”. Il Vaticano II ha innescato e prodotto un totale cambiamento, un vero e proprio sconvolgimento della liturgia, come mai era accaduto in Occidente, né mai è accaduto in Oriente. La Chiesa non ha mai conosciuto “momenti di riforma”, si è solo limitata, in ossequio alla Tradizione Apostolica, che viene direttamente da Nostro Signore, ad attuare quegli adattamenti richiesti dalle esigenze dei luoghi e dei tempi in cui via via ha diffuso il Vangelo. E questo, badando bene a tenere ferma la gerarchia dei valori, subordinando tali esigenze alla intrinseca natura della liturgia cattolica. 
Se, nei primi secoli, si fosse invertito, come ha fatto il Vaticano II, tale gerarchia di valori, si sarebbe prodotta da subito una liturgia “inculturata” nel mondo pagano con i suoi riti e le sue sensibilità. 
Fu il mondo pagano, invece, ad essere trasformato dalla liturgia cattolica.

Le uniche volte in cui si sono verificate delle “riforme” nella Chiesa è stato in occasione delle rivolte ereticali e ultimamente in occasione della riforma “protestante”, appunto!
Confessiamo che non abbiamo difficoltà a riconoscere che il Vaticano II abbia prodotto una vera e propria “riforma”, ma questa non può essere spacciata per “sviluppo” e “adattamento” della liturgia tradizionale. 
Se fosse così la resistenza contro il Novus Ordo sarebbe una mera presunzione e una vera e propria rivolta contro la Chiesa, gli ultimi 40 anni invece dimostrano che così non è… anzi! Lo stesso Motu Proprio del Papa sarebbe un abuso inaccettabile, perfino se lo si volesse leggere alla sola luce della “conservazione del patrimonio”, cosa che in sé stessa è una non giustificazione.

Detto questo veniamo all’espressione “la tradizione liturgica… è viva”, espressione sorella gemella dello slogan conciliare “tradizione vivente”.
Altre volte abbiamo avuto modo di esaminare questa infelice ed equivoca espressione. 
Qui ci limiteremo a ricordare, molto semplicemente, che fino al Vaticano II la millenaria tradizione liturgica cattolica era viva e vegeta, così com’era, e nessuno sentiva il bisogno di radicali cambiamenti. Gli stessi Padri del Concilio, papa in testa, la praticarono perfino con tanto di compiacimento per l’uso di sovrastrutture molte volte superflue o anacronistiche, come il chilometrico strascico di cinquecentesca memoria del papa e dei cardinali. Lo stesso compiacimento estetico che affligge ancora oggi tanti chierici fino in alto loco e che tanti laici superficiali scambiano per atteggiamento tradizionale, disconoscendo che la Tradizione non è un atteggiamento. 

A noi semplici fedeli risulta che la vitalità della Tradizione non può essere intesa, come fa il Cattaneo, come fosse continuamente cangiante, sempre bisognosa di continui cambiamenti, anzi, è proprio quando si operano i “cambiamenti”, le “riforme”, che la cosa esistente fino allora muore, viene uccisa, per far posto al nuovo, per assumere una nuova “forma”, cioè una connotazione essenzialmente diversa dalla precedente. Siamo convinti che, in definitiva, con l’espressione “liturgia viva” o “tradizione vivente” si voglia spacciare la morte continua della liturgia apostolica, via via rimpiazzata, o riformata che dir si voglia, sulla base delle mutevoli esigenze meramente umane.

Per farci capire meglio facciamo l’esempio del latino. E ci riferiamo, non tanto alla liturgia cattolica e alla S. Messa, ma all’accezione corrente di “lingua morta”, idiotamente usata, contro ogni evidenza, da tutti coloro che avevano e hanno a cuore la distruzione di ogni vestigio della cultura e della civiltà cristiane occidentali.
Fu proprio negli anni ’60 che venne abolito l’insegnamento del latino nelle scuole pubbliche: a che serve una lingua morta?
Poco importò che quella lingua morta fosse ancora viva in tutte le lingue neo-latine, appunto, e perfino nelle lingue anglosassoni, poco importò che migliaia di studiosi si servissero correntemente del latino, non solo per “usarlo” linguisticamente, ma addirittura parlandolo per capirsi più immediatamente tra di loro, com’era il caso dei chierici, per esempio. Niente da fare… il latino andava bandito, per poter bandire ciò che ancora rimaneva della civiltà occidentale e, diciamolo!, della rimanente Cristianità.
L’odiata Cristianità di cui si doveva far perdere anche il ricordo perché bisognava portare a termine la “riforma”, bisognava introdurre anche nella Chiesa la nuova concezione agnostica, vitalista e psicanalitica del mondo e dell’uomo.
Fu in quegli stessi anni ’60 che i Padri conciliari si convinsero che non c’era di meglio da fare che ciò che facevano gli “altri”: seguire la moda. Poveri cari… e si diedero da fare per contribuire nell’opera di demolizione del supposto “vecchio”,  producendo nei documenti conciliari quegli squarci da cui poi sono passati il bando del latino, perfino nei seminari, e il famoso “fumo di Satana” percepito dallo stesso Paolo VI .
E Satana, che non è un fesso o un moderno prete gesuita, e aveva già previsto il contraccolpo, e cioè la rivalutazione odierna del latino e della liturgia tradizionale, fin da quegli anni preparò il terreno perché latino e liturgia tradizionale venissero oggi positivamente visti come dei patrimoni irrinunciabili, come dei tesori inestimabili che non devono andare perduti, che vanno difesi e salvaguardati: …esattamente come nei musei, nelle pinacoteche, e… ultimamente nella Curia Romana e nei giornaletti come questo dei Paolini che stiamo esaminando.
No! Grazie! La liturgia tradizionale o è opera di Dio, e come tale indispensabile per il bene della Chiesa e quindi impossibile da relegare in una splendida dorata bacheca, o è una questione di gusto e di sensibilità umane, tale che può essere “cambiata” con la liturgia “riformata”, fabbricata a tavolino per godere conformisticamente nel mondo e col mondo.

Per finire, veniamo all’altro slogan figlio della “tradizione vivente”: “lo sviluppo del dogma”, buttato lì dal Cattaneo come fosse un dato più che scontato.
Cos’è un dogma? E, soprattutto, che cos’è il dogma per i cattolici?
È un’asserzione derivata direttamente dalla Rivelazione, un punto fermo della dottrina cattolica, un elemento dottrinale definitivo, spesso derivato, nella sua formulazione, dalla necessità di porre fine ad una serie di controverse interpretazioni del dato rivelato e che, una volta definito, fissato, formulato, comporta la distinzione tra coloro che lo accettano e lo credono, i credenti, e coloro che non lo accettano e non lo credono, i miscredenti.
Ebbene, quali immaginari “sviluppi” possono sopraggiungere una volta fissato il dogma? 
Nessuno! … pena il suo “cambiamento”!

Facciamo un esempio. Se Nostro Signore è vero Dio e vero Uomo, di quali sviluppi si può parlare, se non che è sempre vero Dio e vero Uomo?
Anche solo invertendo i termini dell’espressione, così che si potrebbe dire che è vero Uomo e vero Dio, si commetterebbe uno stravolgimento del dogma: non dichiarando più con esattezza la verità che Nostro Signore è primariamente Dio e secondariamente si è fatto Uomo per la nostra salvezza.

Altra cosa è affermare che tutti i dogmi possono essere espressi, presentati, descritti, spiegati, fin dove è possibile, in modo diverso e con parole ed accostamenti diversi: dagli approfondimenti teologici alle spiegazioni del catechismo per fanciulli. Ma questo non può essere presentato come “sviluppo del dogma”, poiché, nonostante l’apparente giustificazione etimologica, peraltro oggi quasi sempre disconosciuta o distorta, ormai per sviluppo s’intende “adeguamento” e conformazione al mondo.
È esattamente quello che è accaduto col Vaticano II.

Facciamo l’esempio della “libertà religiosa”.
La Rivelazione di Gesù Cristo è l’unica vera religione, l’unico vero legame tra Dio e gli uomini, l’unica che si possa e che si debba predicare e praticare in ossequio alla volontà del Creatore. Che questa unica vera religione debba necessariamente godere nel mondo della libertà di essere predicata e praticata è cosa che anche un bambino capisce col più elementare buon senso. Dire che questa libertà della religione cattolica è un diritto è cosa quindi ovvia. 
Ma non si può fare i furbi e parlare di “libertà religiosa”, sottintendendo questa prima e finendo col sostenere che tutte le religioni o supposte tali “debbano” godere della stessa libertà come fossero tutte vere religioni e tutte uguali tra loro, fatta salva l’ipocrisia che la cattolica sarebbe più uguale delle altre.
Piangere dopo, lamentando l’insorgere dell’indifferentismo religioso come fosse colpa dei cattivi maestri e dimenticando che, in ambito cattolico, la fonte da cui sono sgorgati copiosi l’indifferentismo lamentato da Benedetto XVI e la stessa apostasia silenziosa di cui parlava Giovanni paolo II, è il Vaticano II, così bene coniugato e predicato dai moderni teologi e liturgisti, … lamentarsi dopo è cosa davvero stupefacente.
E potremmo continuare così ricordando l’ecumenismo intercristiano e interreligioso, la conduzione collegiale della Chiesa, l’infallibilità papale ex cathedra, l’Uni-Trinità di Dio, la storicità dei Vangeli, la realtà della Resurrezione, la Presenza Reale nelle Specie Eucaristiche, la Salvezza per molti e non per tutti…
Il fatto è che se si crede nello “sviluppo del dogma”, bisogna giocoforza accettare la mutazione del dogma, il cambiamento della Religione, la fine del Cattolicesimo, e a nulla valgono gli incisi, che di fatto sono degli specchietti per le allodole, del tipo: eodem sensu eademque sententia (nel medesimo senso e secondo la medesima interpretazione).

Dalla lex credendi alla lex vivendi
Una volta che la Chiesa è giunta alla codificazione di uno stadio del Messale, non si ferma alla formulazione sic et simpliciter, ma pur ritenendola una conquista, l’adatta e la sviluppa lungo il tempo per rispondere alle più diverse esigenze dell’evangelizzazione, della pastorale e della spiritualità ( = lex vivendi ), sempre nella salvaguardia della lex credendi.


Sempre sull’onda dell’equivoco della “tradizione vivente”, ecco cosa scrive a pag. 56 Manlio Sodi, suo malgrado aiutandoci a capire meglio il senso di questa espressione e confermando l’esattezza di quanto abbiamo detto prima.
Questo moderno salesiano è uno di quelli che hanno subito redatto, stampato e diffuso un edificante libello contro il Motu Proprio appena uscito (Il Messale di Pio V. Perché la Messa in latino nel III millennio?, luglio 2007). 
A cura delle Edizioni Messaggero di Padova, le stesse che pubblicano la Rivista Liturgica, e al prezzo politico di 3 Euri e 50, il Sodi ci ammaestrò con la sua scienza presentandoci le stesse opinioni personali che ripropone qui.

La più illuminante di queste opinioni è la lex vivendi, a testimonianza dell’abuso del latino che fanno i professori per cercare di far passare per cose venerabili ed antiche le loro moderne concezioni illuministe.
Tralasciamo questo aspetto di portata psicanalitica, e riflettiamo su che cosa possa significare quest’espressione, lex vivendi, nel contesto di una frase come quella che abbiamo riportata.
La prima cosa che colpisce è quel sostantivo “conquista”, usato per inciso per indicare un supposto stadio del Messale. Qui è più che evidente che l’autore fa dire alla Chiesa quello che pensa lui stesso: la liturgia sarebbe una continua faticosa ricerca che ogni tanto sfocia in una “conquista”, esattamente come si abusa dire nel mondo moderno per i supposti diritti di questo e di quello. Compreso il fatto che una volta ottenuta la tal conquista, ecco proiettarsi eroicamente al raggiungimento della prossima, in una continua babelica opera di rifacimento di quanto “conquistato” prima.
Col permesso del professore, osiamo affermare che sarebbe più corretto parlare allora di frenesia irrefrenabile, se non di angoscia esistenziale. 

Ma, tant’è!
Cosa conquistava ogni tanto la Chiesa? … nientemeno che “uno stadio del Messale”! Una sorta di tappa lungo un percorso indefinito che partirebbe dal meno per avanzare verso il più, che partirebbe da zero per muoversi verso dieci, che partirebbe dal palo per dirigersi verso la meta, che partirebbe dalla periferia per giungere al centro.
Se questo non è illuminismo e anticattolicesimo!
La liturgia insegnata dal Signore Gesù ai suoi Apostoli sarebbe dunque il meno, sarebbe lo zero, sarebbe il palo, sarebbe la periferia, da cui si mossero gli Apostoli, i Santi e i papi per fare tappa nel gregoriano, poi nel tridentino e ultimamente nel Vaticano II, da cui partiranno i “sodi” lanciati freneticamente verso le immancabili tappe successive.
A parte la falsità, che abbiamo già segnalata, qui si tocca quasi con mano il fremito da onnipotenza che affligge questi moderni liturgisti.

Ed eccoci al secondo punto relativo a questa famosa lex vivendi che, stimolata dalle “più diverse esigenze dell’evangelizzazione, della pastorale e della spiritualità”, ovviamente moderne, dovrebbe comportare un continuo mutamento della liturgia cattolica, mutamento supposto arricchente e in “continuità con la Tradizione”. 
La verità è che, come è accaduto in questi 40 anni, nella mente di questi nuovi preti della nuova Chiesa conciliare la massima imperante è quella della vita che sarebbe un valore a sé. 
Non più la Religione come maestra di vita, ma la vita che fa la religione: la famosa “esperienza religiosa” che, protestanticamente, soppianta la Religione di Gesù Cristo. 
Fino al punto che si cambia tutto: dalla pastorale alla dottrina.

Ecco infatti che cosa sarebbe la S. Messa per il nostro salesiano.
…celebrare il memoriale della morte di Cristo è rendere presente nella vita del fedele l’effetto salvifico della sua Pasqua, perché anche la vita del fedele possa passare da situazioni di morte spirituale alla pienezza della vita in Dio” (p. 10 del succitato libello sodiano).
Si tratta di una spiegazione mutuata dalla concezione umanista e protestante di luterana memoria, dove manca del tutto l’elemento fondante della S. Messa e della stessa religione cattolica: la perenne attualizzazione del Sacrificio della Croce per la salvezza delle anime dei fedeli di Cristo
Con Sodi il Sacrificio del Signore è relegato a duemila anni fa e a partire da esso è possibile “rendere presente” solo il suo effetto salvifico, che, senza neanche accennare alla Grazia, non interesserebbe tanto l’anima e la vita futura, quanto il corpo e la psiche nella vita attuale.
Una nuova religione umana dell’uomo che si fa dio e che, come ricordava lo stesso Paolo VI nel discorso di chiusura del Vaticano II, il 7 dicembre 1965, s’incontra con la religione del Dio che si è fatto Uomo: in un incontro gioioso, diceva Paolo VI, perché “noi più di tutti siamo i cultori dell’uomo”, tanto che dal Concilio “si è riversata una corrente di affetto e di ammirazione sul mondo umano moderno”.
Con cotali “maestri”, non poteva capitare che questo: l’umanizzazione della Messa e l’abbandono della dimensione misterica, sacrificale, divina del Rito cattolico. Fino ad arrivare a precisazioni come questa: “…perché non si può attuare alcuna celebrazione dell’Eucarestia o di qualunque altro sacramento se prima l’assemblea non accoglie la proclamazione della Parola di Dio” (p. 12 del succitato libello sodiano).
Per carità cristiana evitiamo di tradurre in lingua comune il liturgese del Sodi, ma non possiamo esimerci dal far notare che in questa affermazione si finisce col sostenere che il fondamento del Sacrificio della S. Messa sarebbero le letture, magari fatte da qualche parrocchiano di passaggio!
Non esageriamo. Perché in questi 40 anni ci hanno ripetuto, in tutte le salse, che la Parola è talmente importante da meritare un posto a sé nella liturgia, tale da giungere necessariamente a parlare di due liturgie: la Liturgia della Parola e la Liturgia Eucaristica, la quale, apprendiamo adesso, non può neanche essere celebrata senza il presupposto della prima.
Esageriamo noi o siamo all’eresia gabellata per dottrina cattolica?

Questo è quanto ha prodotto e produce ancora la famosa lex vivendi
Altro che continuità con la Tradizione. 
Qui non si tratta neanche di mera ermeneutica della discontinuità, come pensa il Papa: qui si tratta di una chiesa e di una religione del tutto diverse dalla Chiesa e dalla Religione cattoliche.

Dalla povertà del vecchio alla ricchezza del nuovo lezionario.
Qui risiede una delle novità più eccellenti che arricchiscono l’odierna tradizione liturgica: l’organizzazione di un Lezionario come quello in uso nel rito romano dal 1969 in poi. Qui non siamo di fronte solo a un ampliamento del numero dei testi; prima ancora si tratta del recupero del rapporto ? sulla linea della tradizione già dei Padri della Chiesa ? tra la liturgia della Parola e quella eucaristica… Questa è la pagina più nuova del Missale del Vaticano II, ed è quella che maggiormente inciderà nella lex vivendi del popolo di Dio…


È sempre Manlio Sodi che scrive, a pag. 75, lui che insiste in tutti i suoi scritti sulla eccellenza del lezionario moderno. 
E dobbiamo riconoscere che ha ragione: si tratta di una notevole novità, atta a far comprendere lo scopo reale della liturgia riformata e la portata ecclesiale del totale rifacimento del Messale tradizionale.
Questa frase è anche illuminante per comprendere la mens dei riformatori.

Leggiamola attentamente.
La stessa scelta delle parole e la loro collocazione fa capire che abbiamo a che fare con dei veri e propri cultori del nuovo per il nuovo.
Novità”…, “eccellenza”…, “arricchimento”…, “ampliamento”… sono termini che servono a sostenere un’enfasi trionfalistica basata sulla compiacenza che finalmente è tutto più nuovo, più ampio, più ricco. Finalmente!

E a cosa serve tutto questo? A due cose essenziali: a ricucire l’immaginario strappo tra la liturgia della parola e la liturgia eucaristica, e a incidere sulla lex vivendi.
Lo dicevamo prima, ed ecco confermato che fu questa la priorità: mettere l’accento sulle letture, su quella parte della celebrazione che il Messale tradizionale ha sempre chiamato “parte istruttiva”.
Per far questo si è aumentato il numero delle letture nella Messa e si sono introdotte letture previe dappertutto, in tutti i Sacramenti, in tutta la liturgia. Tale che oggi si possa affermare che la liturgia tradizionale era “povera” di letture, il testo biblico era poco presente nelle celebrazioni liturgiche.

Nella nota 53 a p. 107, si precisa che “l’Antico Testamento nel lezionario del Messale piano [tradizionale] è presente per l’1%, mentre nel lezionario del Vaticano II è presente per il 14%; per il Nuovo Testamento la proporzione è del 17% rispetto al 71%”.
Si nota subito che il confronto tra Vetus e Novus si fonda essenzialmente su un dato quantitativo: poche letture, quindi povero il Vetus, molte letture, quindi ricco il Novus
Una sorta di conferma di come in seno alla Chiesa abbia finito col prevalere la concezione quantitativa che, di per sé, è un fattore meramente umano e volgarmente ordinario, tipico della civiltà moderna e del suo demoniaco culto del numero e della quantità. 
Non solo si sono aumentate le letture, ma non si è saputo resistere al fascino di questo culto e sono state aumentate le formule celebrative di tutti i Sacramenti e della Messa. Essendo concepita la liturgia come un fattore umano e non più divino, si sono inventate celebrazioni per chiunque, dai bambini agli invalidi, dagli eretici agli omosessuali. L’ossessione della “ricchezza” non si è fermata di fronte a niente… e ancora oggi l’andazzo continua.
E subito ci viene in mente il noto incitamento dello strillone del circo: “Venghino, Signori, venghino!… quante più persone entrano, tante più bestie si vedono!”.
 

E questo, oggi, permette di scrivere: “Esso [il Messale tradizionale] risulta notevolmente povero e monotono dal punto di vista biblico per i fedeli del nostro tempo, che, anche grazie al cammino ecumenico, ha riscoperto l’importanza della Bibbia e la rivelazione come storia della salvezza…” (p. 107, art. di Pietro Sorci).
Perbacco! … Parole sante!
Se non fosse che rivelano una incredibile cecità per un prete e la continua tendenza alla informazione capziosa dei fedeli, costantemente ritenuti dei minorati mentali.
Il Messale tradizionale sarebbe monotono perché ribadisce poche e scelte letture in un ciclo annuale che ricalca il ritmo celebrativo della liturgia apostolica, fissata sull’insegnamento dello stesso Signore Gesù. 
E visto che ci si riempie la bocca con la scusa “ecumenica”, ricordiamo che il ciclo annuale, ripetitivo e quindi monotono, non era esclusivo della “povera” liturgia tradizionale, ma con la stessa sinteticità e con la stessa essenzialità è stato da sempre il ritmo liturgico di tutte le culture del mondo, dai pagani ai Giudei, dagli animisti ai musulmani, in naturale aderenza con lo stesso ritmo della Creazione.
Solo un prete accecato dalla presunzione moderna può parlare di monotonia nelle cose di Dio: l’Immutabile, l’Eterno, l’infinitamente identico a Sé stesso.

E il lezionario tradizionale sarebbe monotono e povero per i fedeli che, ormai ecumenisti, hanno scoperto l’importanza della Bibbia.
Capperi! Che illuminazione!

Se non fosse che nel 1969, quando venne inventato di sana pianta il nuovo Messale col suo nuovo mirabolante lezionario, i fedeli cattolici non sapevano neanche che cosa fosse l’ecumenismo. Anzi, se ne avevano sentito parlare qualche volta è perché i papi lo avevano sempre condannato come contrario agli insegnamenti di Cristo e della Chiesa.
E oggi, questi subdoli professori ci vorrebbero far credere che l’ecumenismo traboccante dalle orecchie e dalle narici dei fedeli esigeva l’abbandono del povero monotono messale che la Chiesa aveva usato per duemila anni, pelo più, pelo meno.

Ma, insomma, cosa sarà mai questo stupefacente lezionario moderno che “rappresenta sicuramente lo sforzo più grande che sia mai stato fatto nella Chiesa per avvicinare la parola di Dio ai fedeli e i fedeli alla parola di Dio…”? (p. 101, art. di Pietro Sorci).
È il mezzo per ampliare nella celebrazione il tempo delle parole, spesso in libertà, a scapito del tempo della Consacrazione e dell’attualizzazione del Sacrificio. 
In altri termini, esso serve per ampliare nella celebrazione il tempo riservato agli uomini a scapito del tempo riservato a Dio.
Un’altra conferma del fatto che ci si è voluti staccare dalla Tradizione per scimmiottare il presuntuoso verbalismo dei protestatari, o protestanti che dir si voglia. 
È infatti per questo che ci si riempie la bocca di ecumenismo, in generale, per nascondere la pervicace voglia di connubio con gli eretici e gli anticattolici.
Chi abbia mai avuto la ventura di guardare alle celebrazioni protestanti, avrà avuto modo di notare che si tratta di una concione continua del predicatore, affiancata dalle cantilene dei fedeli, dove si fa “memoria” della Resurrezione del Signore Gesù come spunto per fare “comunione”. E la cosa fu ed è talmente auspicata dai moderni liturgisti, che hanno fatto e fanno di tutto per ridurre la S. Messa in mera assemblea del popolo (di Dio). 

E questa loro più grande aspirazione non sempre riescono a camuffarla, tanto che a pag. 107 si può leggere: “ … lo sforzo più grande che sia mai stato fatto nella Chiesa…… al punto che esso [il nuovo lezionario] costituisce oggetto di ammirazione e di imitazione da parte di molte Chiese protestanti”.
Che incredibile faccia tosta!

Qui si coglie anche la vena di provincialismo culturale che connota questi moderni liturgisti non più cattolici. Pur di piacere agli altri, sono diventati più realisti del re, come i cortigiani e i buffoni di corte: Ma non vedete quanto siamo bravi… ci ammirano e ci imitano… gli eretici… caspita!

E veniamo brevemente alle meraviglie di questo lezionario ammirato e imitato… dagli eretici.
Due sono gli elementi che lo contraddistinguono: il gran numero di letture per le Messe feriali e la sua distribuzione in un ciclo triennale.
Ci è sembrato di capire che tante letture servirebbero ad avvicinare la parola di Dio ai fedeli, supposti tenuti accuratamente lontani da essa fino al Vaticano II.
Che ti escogitano i nuovi maestri? 
L’aumento delle letture feriali, cioè l’aumento delle letture nelle Messe in cui sono presenti quattro gatti, contro gli otto della Messa domenicale. Quei quattro gatti che a Messa ci sono sempre e tre di essi “aiutano a celebrare”. 
Tralasciamo l’aspetto quantitativo e consideriamo che questi pochi fedeli, proprio per la loro assiduità, sono logicamente quelli che già a casa loro leggono la Bibbia, si abbeverano alla parola di Dio, e divorano perfino i giornaletti dei Paolini, pensando di ampliare la loro preparazione.
C’era bisogno per costoro di ampliare il lezionario? 
O dovremmo credere, come fossimo ciechi e sordi, che con la riforma liturgica sia esploso il numero dei fedeli presenti alle Messe feriali ?!
Misteri della nuova liturgia!

Ma, attenzione… ci si dirà…, il numero delle letture è aumentato seriamente nelle Domeniche e nelle Feste, proprio quando c’è il pieno dei fedeli!
E qui viene spontanea l’altra considerazione.

Proprio nelle Messe festive, per chi è appena praticante, si constata una contraddittoria distrazione dei fedeli proprio al momento delle letture. Il loro ampliamento non ha prodotto un maggiore interesse, ma una sorta di stanchezza, … per questi uomini del nostro tempo tutto il giorno bombardati da miliardi di parole, di suoni e di immagini. Entrando in Chiesa si aspetterebbero uno spazio diverso, un’atmosfera diversa dall’ordinarietà della vita quotidiana, un lasso di tempo capace di ricordare loro che nella vita c’è ben altro che il frastuono e la verbosità dei loro posti di lavoro e delle loro case zeppe di radio e televisione, un tempo e un luogo in grado di far vivere loro anche solo una piccola scintilla di eternità. Ed ecco che si ritrovano invece il prete e altri fedeli che dall’altare e dall’ambone non smettono mai di parlare, tanto che a volte, tra presentazione, spiegazione, letture, prediche, preghiere dei fedeli, avvisi e accessori vari, non riescono neanche a distinguere tra la Parola di Dio e le chiacchiere degli uomini.
Certo che poi si annoiano… anzi non vanno più neanche a Messa, come è inevitabilmente accaduto in questi gloriosi 40 anni.

Altro che istruzione, edificazione, consapevolezza e partecipazione attiva! 
Per di più, questa immaginifica e cervellotica istruzione moderna, per la mania di valutare la fede a peso, come le patate, è stata talmente ampliata che non entrava più in un ciclo annuale, e la si è distribuita in tre anni, inventando un ciclo triennale di letture incastonato in un ciclo annuale di celebrazioni.
Misteri della modernità! 
Dove si sovvertono perfino le più rudimentali nozioni di aritmetica e di geometria: come diavolo fa un ciclo di tre anni a entrare in un ciclo annuale? 
O noi siamo diventati scemi o qui c’è qualcosa che non va!

Tralasciamo l’aspetto ridicolo per cui i fedeli dovrebbero ricordarsi e tenere presenti fino al terzo anno le letture ascoltate il primo anno. È una cosa talmente risibile che solo dei professori che vivono fuori dal mondo potevano escogitare!
Quello che salta all’occhio è una cosa gravissima: la subdola macchinazione volta a distruggere il ritmo naturale e annuale della celebrazione. Dal momento che tra il Signore, la Sua Incarnazione, la Sua Passione e la Sua Resurrezione, da un lato, e la Messa, dall’altro, vi sarebbe solo un rapporto “mnemonico”: un dolce amorevole ricordo della Sua lontana esistenza terrena… in attesa della Sua venuta: è chiaro che il rinnovamento annuale del ciclo vitale, umano e sovraumano, il ritorno ritmico dell’intera storia della Nuova ed Eterna Alleanza, col Signore ogni giorno nuovamente sacrificato per la salvezza delle anime dei suoi fedeli e nuovamente presente per infondere la Sua Grazia nei cuori degli uomini di buona volontà… tutto questo non aveva più una grande importanza. Si poteva benissimo privilegiare l’istruzione a dispense dei fedeli, che è poi la cosa più importante, la cosa per cui il Padre ha mandato il Suo Unigenito a farsi carico dei peccati del mondo.

E le cose stanno proprio così, …non ci vengano a raccontare chiacchiere!
Lo sanno tutti che i nuovi preti della nuova Chiesa conciliare non credono più nella salvezza offerta dal Crocifisso a coloro che lo adorano in spirito e verità. Lo sanno tutti che loro credono che la venuta del Figlio di Dio avrebbe redento il mondo, tutto il mondo, tutti gli uomini, i credenti e i miscredenti, i buoni e i cattivi. Che bisogno c’è, quindi, di ritmi e di cicli, di rispondenza col Creato, di ossequio alla Tradizione, di sottomissione agli insegnamenti del Signore, da Lui trasmessi agli Apostoli e ai Padri della Chiesa?
A che serve tutto questo apparato, formalista e ingessato, appena ammissibile in tempi bui con i fedeli tenuti in non cale? 
Oggi, la priorità è l’istruzione, l’istruzione obbligatoria dei fedeli, fatta a dispense settimanali distribuite in tre anni dai moderni professori in liturgia che non riescono a staccarsi dai loro supponenti scranni accademici e non si curano di come vanno realmente le cose del mondo e, soprattutto, della Chiesa e dei fedeli.

Il colmo è che tutto questo non si è ritenuto saggio farlo proprio quando i fedeli non sapevano neanche leggere e non leggevano, quando si aveva ben presente la vera natura semplice dei fedeli, che non hanno bisogno di tante parole, ma di fede e adorazione. Lo si è fatto invece adesso, che tutti sanno leggere e, volendo, possono leggere quanto vogliono. Lo si è fatto adesso, che vi è una Bibbia in ogni casa, anche se spesso per fare bella figura nello scaffaletto del tinello. 
Si capisce anche da questo che si è trattato e si tratta di una scusa per protestantizzare la Chiesa, incuranti del fatto che, oggi, si trattano i fedeli peggio che se fossero analfabeti, e li si disgusta, poiché prima o poi essi si rendono conto di avere a che fare con professorini saccenti e presuntuosi, più innamorati di se stessi che della Chiesa e della loro missione pastorale.

È così che si svuotano le chiese! I fedeli sono semplici, ma non stupidi!

Dall’“azione della grazia” di Dio 
all’“azione di grazie” verso Dio
La logica propiziatoria, che soggiace all’impianto del Messale tridentino, non fa che ereditare e tramandare una pratica plurisecolare, coerente con uno sfondo culturale non ancora segnato dall’antropocentrismo della modernità: nonostante gli albori dell’umanesimo e del rinascimento, l’esperienza cristiana è ancora compresa e vissuta nella cornice di una concezione cosmologica e teologica penetrata dall’idea del divino come causa diretta di tutto ciò che accade ed esiste.


A conferma delle osservazioni da noi fatte prima, ecco una frase di Paolo Tomatis (p. 137), che delinea con sufficiente chiarezza che il passaggio dall’Antico Messale al nuovo si è reso necessario, non tanto per realizzare un inesistente recupero della Tradizione, quanto per annullare l’antica concezione teologica propiziatoria e far posto ad una concezione sentimentale umanista. 
In altre parole, per realizzare esattamente quello che abbiamo richiamato più volte prima: mettere al centro della S. Messa, e quindi al centro della vita della Chiesa, non più Dio, ma l’uomo.

Certo, questa osservazione del Tomatis sembra contraddire quanto sostenuto dai suoi colleghi, ma bisogna tenere presente due cose.
La prima, di tipo strutturale, che fa sì che le contraddizioni non turbino più come un tempo, quando dire che A è diversa da B significava che B non potrebbe mai essere A. Oggi questa logica elementare è stata ormai superata dall’umano, rinascimentale e illuminista convincimento che se A non è e non potrebbe mai essere B, ciò non impedisce che B, in qualche modo, dialogando e aprendo un dibattito, possa finire col non essere troppo diversa da A.
Sembra un giuoco di parole per liceali in vena di scherzare con l’insegnante di storia e filosofia, se non fosse che, purtroppo, è uno dei capisaldi della civiltà moderna, uno di quei veleni che hanno intossicato la Chiesa Cattolica fino a farle subire il Vaticano II, di cui il nostro professore tesse l’elogio.
La seconda, di tipo strumentale, che permette di poter sostenere che l’antica liturgia è stata totalmente capovolta, non per tradire la Tradizione Apostolica (!), ma per farla vivere ulteriormente nel mondo attuale in piena coerenza con la modernità, per niente preoccupati di relegare Dio in un angolo della vita dei fedeli. Un altro aspetto dell’incredibile giustificazione con cui si è prodotta la rivoluzione dottrinale e la riforma liturgica.

Qui si sostiene che la Chiesa, per secoli (una pratica plurisecolare) avrebbe fatto bene a mantenere il convincimento che al centro della speculazione teologica vi fosse l’onnipotenza e l’onniscienza di Dio, con il conseguente “orizzonte propiziatorio della Messa” e “la fede nella efficacia propiziatoria del sacrificio di Cristo e dell’eucaristia”, ma avrebbe fatto bene perché nei puerili tempi antichi non si conosceva ancora il valore primario dell’antropocentrismo. 
Oggi, dopo sei secoli di esaltazione dell’uomo, era inevitabile riformare la Chiesa e la Religione abbandonando l’affidamento a Dio e sostituendolo con la fiducia nella potenza umana sia nel bene sia nel male.
Da qui deriva, infatti, la inevitabile trasformazione della Eucarestia: da “azione della grazia di Dio” in “azione di grazie verso Dio”. 
Non opera di Dio nei confronti dell’uomo bisognoso della Sua Grazia, propiziata con la perenne attualizzazione del Sacrificio di Cristo, ma opera dell’uomo che rende grazie a Dio per la Sua infinita, incondizionata, indifferenziata bontà. 

La S. Messa non deve più essere considerata primariamente un atto divino col quale viene offerta all’uomo la possibilità di riconciliarsi con Dio, e in seguito al quale l’uomo dispone tutto sé stesso per meritarsi la Grazia di Dio, ringraziandolo anche per la bontà dimostratagli; a partire dal Concilio Vaticano II la S. Messa dev’essere considerata primariamente un’azione umana con la quale si ringrazia Dio di aver donato il Suo perdono e il Suo amore tramite il Sacrificio di Cristo avvenuto per tutti, e una volta per tutte, duemila anni fa su una collina dell’antica Gerusalemme. 
Questo ragionamento, affermatosi col Vaticano II e ribadito dal nostro professore, non annulla il senso espiatorio del Sacrificio Eucaristico, ma inverte la sua polarità: non più l’uomo che rende grazie in seguito alla gratuita effusione della Grazia divina, ma Dio che effonde la Sua Grazia in seguito alla irresistibile capacità evocativa dell’uomo.
Non più l’uomo che dipende dalla Bontà di Dio, ma Dio che è condizionato dal sentimento dell’uomo.
Se Dio è amore, non può negare il Suo amore agli uomini: tutti sono salvati per il semplice fatto che Dio non può negare la salvezza a nessuno.
 

L’intentio del Messale di Paolo VI appare in tutta la sua novità: all’accumulazione delle messe votive in prospettiva devozionale e propiziatoria, succede l’organizzazione delle messe ad diversa secondo la progressione delle intenzioni della preghiera universale dei fedeli… La novità sostanziale, a livello di struttura e di contenuti dei formulari, è la novità del concilio stesso: una rinnovata coscienza ecclesiologica, ispirata a Lumen gentium, una rinnovata antropologia teologica ispirata a Gaudium et spes” (p. 139).
È questa la chiave di volta della rivoluzione dottrinale e della conseguente riforma liturgica: “un cambiamento di registro nella teologia della preghiera, più attenta a valorizzare la mediazione e la responsabilità dell’uomo, e più riservata nell’attribuzione diretta a Dio degli eventi del mondo” (p. 140).
Noi non siamo dei professori, e rifuggiamo dall’aspirarvi ad esserlo se i professori sono questi, da semplici fedeli ci atteniamo a quanto ha sempre insegnato la Santa Chiesa: Se qualcuno dirà che il sacrificio della messa è solo un sacrificio di lode e di ringraziamento, o la semplice commemorazione del sacrificio offerto sulla croce, e non propiziatorio; o che giova solo a chi lo riceve; e che non si deve offrire per i vivi e per i morti, per i peccati, per le pene, per le soddisfazioni, e per altre necessità, sia anátema (Concilio di Trento, sessione XXII, 3).

Non possono esservi più dubbi sul fatto che l’avversione contro la liturgia tradizionale e il suo conseguente abbandono siano fondati sulla chiara volontà di trasformare la Chiesa e la Religione in qualcosa di diverso dal Cattolicesimo e di identico al movimento protestante, quello stesso che fino al Concilio Vaticano II era ritenuto oggetto di anátema. 
Oggi sotto questo anátema cade anche la liturgia riformata e la sua soggiacente “rinnovata coscienza ecclesiologica, ispirata a Lumen gentium”, insieme con la “rinnovata antropologia teologica ispirata a Gaudium et spes”.

Un’altra Chiesa! Altro che continuità nel solco della Tradizione!
Non è un caso che sono stati gli stessi teorici della nuova teologia a parlare per primi di “Chiesa conciliare”, per distinguerla dalla Chiesa tradizionale, dalla Chiesa Cattolica. 
Noi abbiamo solo la disgrazia di non poter rinunciare a dirci cattolici! 
E ne meniamo vanto!

Dal “timore di Dio” al protagonismo umano
…le benedictiones contenute nel Missale romanum siano prive di una “liturgia della Parola”, anche ridotta ai minimi termini, acquisizione della riforma liturgica conciliare, che struttura ogni rito di benedizione in due parti, dedicate rispettivamente alla proclamazione della parola di Dio e alla lode della sua bontà, a cui fa seguito l’implorazione dell’aiuto divino… sottraendo così il gesto e la preghiera a ogni interpretazione superstiziosa.
È quanto scrive a p. 152 Angelo Lameri, presentandoci un altro tassello del mosaico demolitore della liturgia e della devozione della Chiesa di sempre.
Questa frase è particolarmente illuminante circa il pregiudizio anticattolico dei modernisti.
La parola “cattolico” non significa “universale” solo in termini spaziali, tutto il mondo, ma anche in termini temporali, tutto il “secolo”. La Religione Cattolica è la Religione di Cristo, “nato dal Padre prima di tutti secoli”. Prima ancora che la Chiesa visibile fosse, il Cristianesimo è.
Questo vuol dire che la maturazione umana della percezione della Fede non si fonda nell’attualità e nel futuro, ma nell’antichità, fin dall’inizio dei tempi. Perdere di vista il passato equivale a perdere di vista il fondamento della Religione e della Fede. L’Incarnazione del Verbo è collocata nel passato, non nell’attualità, tanto più che essa dev’essere considerata esistente fin da prima che tutte le cose fossero fatte: è questa sua perennità che ne fonda la continua attualità, che sarebbe niente senza la prima.

Da qui si capisce come sia impossibile parlare del passato usando espressioni come “interpretazione superstiziosa del gesto e della preghiera”.
Il nostro professore ci spiega che un tempo, benedicendo senza la previa lettura di un brano della Scrittura, si aveva una percezione del rito come superstizione. 
Ma che bella pensata!

In realtà, quando si effettuava una benedizione si realizzava primariamente un atto di fiducia nei confronti di Dio e un’azione tangibile del rispetto per Lui e di quel timore di Dio senza il quale ogni atto umano è mera vanagloria. L’atteggiamento principale era il raccoglimento e il ricorso all’umiltà, ogni altra cosa poteva essere talmente distrattiva da permettere l’emergere del protagonismo umano. E se tutto questo era realizzato avendo in vista il tipo d’uomo di allora, non si capisce come oggi si possa pensare che non valga più: come se l’uomo moderno avesse raggiunto chissà quale maturità spirituale non più bisognosa dell’esercizio del raccoglimento e dell’umiltà. Tutto si può dire, tranne che la smisurata adozione della pratica della “parola” in ogni e qualsiasi occasione aiuti il raccoglimento e l’umiltà.

A questo punto, è inevitabile dare spazio ad una semplice considerazione di carattere storico religioso.
Quando, nel 70 d. C., l’ebraismo perse il Tempio e non fu più possibile adempiere alla prescrizione mosaica del sacrificio nel Sancta Sanctorum, si produsse una trasformazione che ridusse l’antica religione mosaica in un complesso di religiosità memoriale, dove l’unico retaggio era costituito dall’ossequio ai “rotoli della Legge”. Scomparvero i sacerdoti e rimasero i dottori, i rabbini. Scomparve la presenza della Shekina e il rapporto diretto con Dio e rimase il solo collegamento ideale.
Lo stesso accadde in Europa con la ribellione di Lutero. Rifiutato il Sacrificio e la Presenza Reale, rimase solo la predicazione che, inesorabilmente, costrinse questo nuovo approccio con Dio negli angusti confini del mero moralismo. Scomparsi i sacerdoti, rimasero i “pastori”, che si moltiplicarono a più non posso. Scomparso il diretto rapporto con Dio e con il Cristo presente sull’altare, rimase solo un collegamento intellettuale e parolaio.
Cosa sta accadendo alla Chiesa Cattolica da 40 anni? 
Quando si è preteso di passare dal Corpo Mistico al “popolo di Dio”? 
Quando alla centralità del Sacrificio si è preteso di “affiancare”, come in una sorta di sdoppiamento del fuoco, la paritetica centralità della “parola”?

Padre, mi benedica perché ho peccato.
Figliolo, …piano con i paroloni,… devi sapere che, a leggere la Bibbia, il peccato è una cosa complessa… bla, bla, bla…
[rumori fuori dal confessionale]
… hai capito figliuolo? … Figliuolo, mi ascolti?
[non ricevendo risposta, si alza e… il figliuolo non c’è più… è andato a cercare altrove la benedizione]

La vessata questio dell’oremus et pro perfidis Iudaeis
Preghiamo per gli ebrei: il Signore Dio nostro, che li scelse primi fra tutti gli uomini ad accogliere la sua parola, li aiuti a progredire sempre nell’amore del suo nome e nella fedeltà alla sua alleanza”.
Dio onnipotente ed eterno, che hai fatto le tue promesse ad Abramo e alla sua discendenza, ascolta la preghiera della tua Chiesa, perché il popolo primogenito della tua alleanza possa giungere alla pienezza della redenzione. Per Cristo nostro Signore”.


Questa, la poco nota preghiera per i Giudei presente tra le orazioni del Venerdì Santo del Messale moderno riformato, riportata a p. 157 del fascicolo che stiamo esaminando.
Questa preghiera è stata voluta da Paolo VI, perché si eliminasse quella usata dalla Chiesa per quindici secoli fino al Vaticano II. 
Giovanni XXIII, che era notoriamente un “buonista”, pur ritenendo di dover mantenere questa secolare invocazione della Chiesa, si fece scrupolo di eliminare dal testo gli aggettivi perfidis (Iudaeis) e (iudaicam) perfidiam, ritenuti offensivi dai Giudei con la motivazione che ormai i termini avevano assunto una connotazione eccessivamente spregiativa.

Per prima cosa, in relazione all’uso di questi aggettivi, occorre notare un’ingiustificata forzatura utilizzata a titolo strumentale.
Siccome si riteneva che i fedeli fossero così ottusi da non riuscire a cogliere il senso del latino “perfidis”, neanche dopo le ripetute spiegazioni dei loro curati e nonostante vi fossero in circolazione migliaia di Messali quotidiani per i fedeli, bilingue, che riportavano la rispondente traduzione italiana di “infedeli”, si disse che tale ottusità (lo si disse di fatto) andava equilibrata con l’abolizione in toto degli aggettivi incriminati. Addirittura, per non trovarsi in difficoltà nella traduzione dell’espressione “iudaicam perfidiam” si pensò bene di eliminare tutta l’espressione sostituendola con il semplice “Iudeos”. 
Toh! Così ci togliamo dalle peste!

Eh già! Perché in realtà, visto che il nazismo aveva fatto man bassa dei Giudei solo da poco tempo, sembrò giusto dar loro un formale contentino per non farli sentire oltremodo vessati!
Insomma, anche in quella occasione la moderna Gerarchia si piegò alle distorsioni moderne, sposando la causa ipocrita dei “poveretti gli Ebrei” e arrivando a modificare la sua millenaria liturgia sulla spinta del nazismo e del pianto giudaico.
Non bastava quello che per 10 anni aveva fatto la Chiesa per sottrarre migliaia e migliaia di essi dalle grinfie dei pagani nazisti, mettendo a repentaglio la vita di molti suoi chierici e laici.
Non bastava… bisognava adeguarsi ad ogni costo, e subito, all’ipocrisia moderna.

Ma Paolo VI e i suoi amici modernisti non si accontentarono, bisognava andare oltre, poiché in realtà quello a cui erano interessati non era tanto dimostrare una qualche attenzione per i Giudei vessati e perseguitati, quanto introdurre un profondo cambiamento nell’insegnamento cattolico.
Fu così che venne partorita la preghiera che abbiamo riportata prima.

Esaminiamola.
Subito si notano due cose: un’imprecisione storico-religiosa, quasi una forzatura per presentare i Giudei come il popolo della “parola”; e una reiterata smentita del millenario insegnamento cattolico.
L’imprecisione e la forzatura consistono nel sostenere che l’antico popolo ebraico sia stato scelto da Dio per accogliere la sua parola. Una cosa del genere, al tempo dell’antico popolo ebraico, avrebbe condotto dritto filato alla lapidazione. 
Anche i bambini imparano che Iddio scelse il popolo d’Israele per farne il Suo popolo, la Sua proprietà, il Suo lievito, fedele e sottomesso a Lui, l’Unico Vero Dio, e rifuggente i falsi dei e gli idoli del tempo. Se la chiamata di Abramo, con la conseguente designazione di Giacobbe, è il punto di partenza del popolo ebraico, da chi mai Paolo VI e soci hanno saputo dell’accoglienza della parola, soprattutto intesa alla maniera moderna?
Ma questo è l’aspetto meno importante della questione.

La cosa importante è che questa preghiera fissa una nuova teologia circa il senso dell’Alleanza tra Dio e gli uomini: scavalcando inopinatamente e in maniera eterodossa le stesse parole del Signore Gesù, ancora oggi ripetute dalla Chiesa nel momento fondante della sua stessa esistenza: la Consacrazione nella S. Messa. “Hic est enim Calix Sanguinis mei, novi et aeterni Testamenti”  “Poiché questo è il Calice del mio Sangue, della nuova ed eterna Alleanza”.
Non c’è bisogno di aver fatto chissà quali studi profondi per capire che quella istituita da Cristo è un’Alleanza nuova, che rinnovella l’antica Alleanza e la perpetua fino alla Parusia. La vecchia Alleanza non viene condannata e maledetta, ma è indubitabile che viene “rinnovata” da Dio stesso: l’Alleanza con Abramo e la sua discendenza, con Mosè, con Davide, con Salomone e con tutti i Profeti è perpetuata “Per Ipsum, et cum Ipso, et in Ipso”, “Per Cristo, con Cristo e in Cristo”, da allora, nel cenacolo, e fino alla fine dei tempi. E questo stesso Cristo da Ebreo si fa Romano, da Ebreo si fa Gentile, perché l’Alleanza col popolo ebraico giunga al suo compimento ultimo con la nuova Alleanza con tutti gli uomini di buona volontà di ogni popolo e di ogni nazione. Tutti  i Giudei che intesero rimanere fedeli all’Alleanza col Signore riconobbero il Messia e si sentirono parte della nuova Alleanza da Lui istituita, gli altri, che rifiutarono il Messia, per ciò stesso rifiutarono la nuova Alleanza e tradirono l’antica.
Questo è completamente smentito dalla moderna preghiera per i Giudei, e il colmo è che sono gli stessi Giudei moderni a non riconoscersi in questa preghiera, sostenendo che non avrebbero alcun bisogno della impetrazione dei seguaci del blasfemo Gesù di Nazaret. La loro coerenza, seppure fondata sull’errore, è del tutto comprensibile. Ciò che è incomprensibile e incredibile è la totale incoerenza della Chiesa moderna con se stessa e con lo stesso Signore Gesù.

Quando si afferma che il “popolo primogenito… possa giungere alla pienezza della redenzione”, si manifesta un convincimento che ha dell’incredibile. Se si auspica che questo popolo possa giungere alla pienezza è perché si riconosce che si trova già nella Redenzione, seppure non pienamente. Ma questo si potrebbe dire anche per i popoli cattolici, che non possono certo vantare il totale raggiungimento della Redenzione, tanto che hanno sempre bisogno della continua conversione ad Deum e della continua assistenza della Grazia che Iddio effonde copiosa là dove sovrabbonda il peccato, come insegna l’ebreo Paolo di Tarso.
Stando così le cose, questa preghiera sostiene che essere Giudei o essere Cattolici è la stessa identica cosa: tale da potersi chiedere perché Paolo VI non abbia conseguentemente sciolto la Chiesa… in fondo siamo tutti Giudei!
Per quanto possa sembrare provocatorio, e non lo è perché è solo un grido di dolore che sgorga irrefrenabile dal più profondo del cuore del seguace di Cristo, è questa la sconvolgente realtà di questa moderna preghiera che, anche a voler prendere per buoni tutti i distinguo possibili, comunque inaccettabili e infondati, determina nel convincimento dei fedeli una profonda e disastrosa confusione. Sull’onda di quello stesso indifferentismo che a parole si dice di voler condannare. 

Per ultimo è necessario soffermarsi brevemente sulla recente variante di questa preghiera, introdotta da Benedetto XVI, non nel Messale moderno, ma nel Messale tradizionale.
Si è ritenuto che la modifica di Giovanni XXIII, il cosiddetto “papa buono”, non fosse buona, o quanto meno sufficiente.
Ovviamente, questo era ritenuto dai Giudei moderni, e la Gerarchia, ancora affetta dal complesso di inferiorità nei confronti di tutto ciò che è acattolico e anticattolico, è caduta nuovamente  nella trappola.
Meglio aggiustare ancora questa famosa preghiera… per favore… basta che la finiamo con questa millenaria polemica!
Poveri Santi Pietro e Paolo! Chissà cosa avrebbero da dire loro: Ebrei seguaci di Cristo e di Dio, martirizzati in Nomine Eius!

Ed ecco il nuovo testo.
Preghiamo per gli Ebrei. Il Signore Dio Nostro illumini i loro cuori perché riconoscano Gesù Cristo Salvatore di tutti gli uomini. 
Dio Onnipotente ed eterno, Tu che vuoi che tutti gli uomini si salvino e giungano alla conoscenza della verità, concedi propizio che, entrando la pienezza dei popoli nella tua Chiesa, tutto Israele sia salvo.

Da confrontare col testo emendato da Giovanni XXIII: 
Preghiamo anche per gli Ebrei, affinché Dio nostro Signore tolga il velo dai loro cuori e riconoscano anch’essi Gesù Cristo, Signore Nostro.
Dio onnipotente ed eterno, che non ricusi la tua misericordia neppure agli Ebrei, degnati esaudire le preghiere che Ti rivolgiamo per questo popolo cieco, affinché, riconoscendo la luce della tua verità, che è il Cristo, siano liberati dalle loro tenebre.

Possiamo vedere che nella nuova versione la prima parte esortativa non è diversa dalla precedente, se non per la “tenebra dei loro cuori” che diventa il “velo dai loro cuori”. Una forma edulcorata per dire che i loro cuori sono comunque lontani dal vedere la luce.
Nella preghiera vera e propria, invece, oltre alla scomparsa delle ribadite tenebre in cui si trovano i Giudei, si supplica il Signore di far entrare anche loro nella Chiesa, al pari di tutti i popoli.
Da un punto di vista sostanziale le differenze sono minime: i Giudei giustamente rimangono sempre il popolo che non riesce a vedere la verità, che continua a rifiutarsi di riconoscere la verità di Dio, che è il Cristo. 
Dal punto di vista formale, invece, vi è una grande differenza, poiché, mentre nella preghiera tradizionale si pregava il Signore in modo speciale per i Giudei, tenuti in particolare considerazione dalla Chiesa proprio per l’essere il popolo dell’antica Alleanza, in questa nuova essi non sono più oggetto di considerazione particolare, della speciale attenzione della Chiesa: ma sono visti come un popolo qualsiasi.

Una particolare sfumatura va notata. 
In questa nuova preghiera si dice “entrando la pienezza dei popoli nella tua Chiesa, tutto Israele sia salvo”. 
È possibile considerare che qui sembra si sia voluto affermare che vi sarebbe una qualche identità tra la “pienezza dei popoli” che si salvano entrando nella Chiesa e “tutto Israele”.
Questa sfumatura, mentre da un lato sottolinea che il popolo ebraico non avrebbe niente di speciale, contrariamente a quanto ha sempre ritenuto la Chiesa, introduce l’idea che “tutto Israele” sia, in definitiva, l’umanità intera, seppur redenta. 
Ora, mentre si può convenire che in linea di principio il nuovo Israele di Dio non è che tutta l’umanità redenta, si deve parimenti tenere fermo che, in linea di fatto, il nuovo Israele è la Chiesa di Cristo, e cioè l’insieme degli uomini di ogni popolo e nazione che, come dice il Prologo del Vangelo di Giovanni, “non da sangue, né da volere di carne, né da voler di uomo, ma da Dio sono nati”, gli uomini che “Lo accolsero” e lo accolgono e che hanno creduto e credono “nel Suo Nome” e che per questo hanno ricevuto e ricevono da Cristo il “potere di diventare figli di Dio”.
Tale sfumatura rivela la totale aderenza alla nuova teologia della salvezza “per tutti”, confermando la confusione da essa generata.
Vuoi vedere che è proprio per questo che, nonostante lo smisurato ampliamento delle letture, si sia giunti ad abolire proprio la lettura di questo passo del Vangelo che accompagnava il congedo dei fedeli ad ogni S. Messa?
Misteri della moderna liturgia riformata!

Detto questo, ci stiamo ancora chiedendo perché si è sentito il bisogno di modificare, seppure parzialmente, la millenaria preghiera della Chiesa. La risposta è una sola, praticamente suggerita dalla premura con cui lo stesso Segretario di Stato nel luglio del 2007, col Motu Proprio ancora caldo, si affrettò a dichiarare: “È vero, nel messale del 1962 si prega per la conversione degli ebrei. Ciò ha suscitato qualche polemica. In effetti, si potrebbe studiare l’eliminazione della preghiera, prevista nella messa in latino, disponendo che si preghi sempre secondo la formula introdotta da Paolo VI” (Corriere della sera, 19.7.07).

In effetti, grazie a Dio, questo non è avvenuto (il Segretario di Stato prese allora un’altra cantonata), ma è questa la mens del cambiamento.
La Chiesa fa una cosa che sa essere giusta, secondo gli insegnamenti del Signore, ma poi, pressata dalle polemiche, e in questo caso anche dalle polemiche dei Giudei, cambia ciò che ha fatto, trascurando l’insegnamento e compiacendo i polemisti.

La cosa buffa è che Benedetto XVI, ritenendo che la Chiesa non possa seriamente e fondatamente abolire la millenaria preghiera tradizionale, sostituendola con l’eterodossa preghiera di Paolo VI, pensò che si potesse fare qualche ritocco, come aveva  già fatto Giovanni XXIII: la risposta dei Giudei fu violenta e rancorosa: ah, sì… non ci volete ascoltare… da oggi niente più ecumenismo!
Minaccia terribile per la nuova chiesa conciliare, tutta protesa non tanto ad evangelizzare, quando a mediare: a mediare l’insegnamento di Cristo con le pretese di chiunque, a mediare la Verità con l’errore.

Una vecchia storia, in fondo, sintetizzata nel famoso aneddoto del cardinale Consalvi, segretario di Stato di Pio VII. 
Quando gli riferirono che: “Napoleone intende distruggere la Chiesa”. Rispose: “Impossibile… non siamo riusciti noi preti a distruggerla, non ci riuscirà neanche lui”.

ET EGO DICO TIBI, QUIA TU ES PETRUS, ET SUPER HANC PETRAM AEDIFICABO ECCLESIAM MEAM, ET PORTAE INFERI NON PRAEVALEBUNT ADVERSUS EAM.
E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. 

I lettori ci scusino: … dimenticavamo di ricordare che la Messa moderna di cui abbiamo parlato in queste  pagine è la ormai famosa “ forma ordinaria ” del Rito Romano, secondo quanto afferma il Motu Proprio. 
Saremo forse irriverenti, ma a noi viene subito in mente il noto… lapsus freudiano.
Qualcuno ha fatto caso che il termine “ordinaria” contiene anche l’accezione di “dozzinale” ?
Povera Messa !?… No, piuttosto… poveri cattolici!
 


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L'articolo “Le obiezioni” in formato pdf

(Ottobre 2008)


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