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Le premesse


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Presentazione
Le premesse
Una curiosa lettura del Breve esame critico
1988-2008 - un anniversario nell'annivesario
Il testo del Motu Proprio: considerazioni e commenti
Ci fu abrogazione ?
La lettera di accompagnamento: considerazioni e commenti
Le reazioni
Le obiezioni
L'applicazione
Le prospettive
Ultima ora
Appendice - Canon Missae
Appendice - Ritus romanus e Ritus modernus
Luoghi e orari della S. Messa
Istruzioni per l'uso


In quella mattina del 20 settembre 1870, orsono 138 anni, si verificò uno di quegli eventi che lasciano tracce storiche indelebili, ma tante volte mal comprese.
Con l’ipocrita scusa della necessità di difendere il Papa, il piemontese Savoia rompeva gli indugi e, da fedele cattolico, costringeva il Papa Pio IX a rinchiudersi in Castel Sant’Angelo in stato di cattività, per le gloriose sorti del neonato Regno d’Italia.
Nessuna meraviglia per l’ipocrisia e la falsità dei novelli re “cattolici” d’Italia, si era da poco consumata l’infamia di Gaeta, infatti.
La storia va avanti, si dice, non si può fermare il progresso: l’Italia non avrebbe potuto non avere Roma come capitale.
Più che una valenza politica, però, l’occupazione di Roma da parte delle truppe piemontesi ebbe una valenza metastorica:  segnò una tappa importante nella lunga lotta contro la Chiesa e la Religione iniziatasi almeno sei secoli prima. Da Filippo il Bello a Lutero, da Enrico VIII alla loggia di Londra, dalla rivoluzione francese alla breccia di Porta Pia, corre un unico filo conduttore: la sovversione della vita degli uomini in chiave ateista, l’imperio assoluto dell’uomo e il rifiuto accanito di Dio, con l’inevitabile implicazione della lotta alla Chiesa: prove tecniche per l’avvento dell’Anticristo.
È sintomatico come ancora oggi le massonerie italiche festeggino quel famoso 20 settembre come l’inizio di un’era di giustizia e di pace. 

In effetti, la breccia aperta nelle mura della Roma papale simboleggia un ben più grave squarcio che quel 20 settembre si aprì nelle strutture di difesa del depositum fidei.
L’8 dicembre 1869 era iniziata in Vaticano la prima sessione del ventesimo Concilio Ecumenico voluto dal Papa Pio IX per fissare dei punti fermi circa gli sviluppi delle ideologie moderne tutte volte a sovvertire la Religione, a distruggere la Chiesa e a sconvolgere definitivamente la condotta di vita degli uomini.
Pio IX voleva completare e definire in maniera formale il lavoro già iniziato di condanna delle moderne tendenze sovversive diventate virulente anche all’interno della Chiesa. Si trattava di un lavoro indispensabile per l’avvenire del cattolicesimo e per l’avvenire del popolo cristiano, e non solo.
Fu per una casuale coincidenza che nemmeno un anno dopo si pensò di occupare Roma manu militari ? Come spinti da chissà quale improrogabile stato di necessità politica ? 
Con la scusa della politica, in effetti, si fece fronte a ben altra necessità: impedire che i pronunciamenti dottrinali del Concilio Vaticano I potessero innescare un clamoroso e imprevedibile processo di rallentamento della montante marea distruttiva che ha prodotto ciò che oggi abbiamo sotto gli occhi.
Non ci riferiamo solo al mondo cosiddetto laico, con quello che è riuscito a produrre in un secolo e mezzo in termini di distruzione fisica e morale in campo planetario, ma abbiamo in vista soprattutto il mondo religioso con le sue devastanti derive da cui proviene lo sfacelo dottrinale, liturgico e pastorale che oggi ben conosciamo. 
Il lavoro di messa a punto formale dei richiami della Chiesa non poté essere fatto e le forze sovversive operanti dentro la compagine cattolica ebbero mano libera: soprattutto poterono tessere indisturbati la ragnatela idonea a preparare la sovversione della dottrina e della morale cattoliche.

Quando, nei primi anni del XX secolo, San Pio X provò a porre un freno allo sfacelo, battendosi soprattutto contro il cosiddetto “modernismo” diffusosi come la peste tra i cattolici chierici e laici, la forza della sua azione e la determinazione usata rivelarono che il cancro aveva  già aggredito l’organismo ecclesiale in maniera particolarmente virulenta e diffusa.
In questo senso è davvero istruttiva l’attenta lettura della famosa enciclica Pascendi dominici gregis, che ha compiuto cent’anni nel 2007. Lì il Papa mette a fuoco uno status complessivo del pensiero cattolico moderno che, paradossalmente, sembra basato su osservazioni condotte negli ultimi nostri anni.
Non furono pochi i tentativi di riprendere i lavori del Concilio Vaticano I, ma, significativamente, si ritenne sempre che fosse ormai cosa pericolosa, poiché si correva il rischio di innescare incontrollabili derive che avrebbero prodotto immensi disastri.
L’ultimo tentativo fu effettuato dallo stesso Pio XII, ma anche a lui i cardinali consigliarono di evitare un così grave rischio.

Inaspettatamente,  nel 1959, il nuovo Papa Giovanni XXIII annunciò ai cardinali che voleva convocare nuovamente il Concilio. Che cosa era accaduto ?
Era giunto a maturazione il processo di scivolamento della compagine cattolica su posizioni che molti non ritenevano più in contraddizione con la dottrina della Chiesa. Pur mantenendo fermi certi insegnamenti, si era giunti alla deviante convinzione che tante concezioni moderne potessero convivere con essi.
In questo senso è parecchio indicativo il discorso di apertura del Concilio Vaticano II pronunciato, l’11 ottobre del 1962, da Giovanni XXIII.
Il Papa disse: “ non senza offesa per le Nostre orecchie, ci vengano riferite le voci di alcuni… Nelle attuali condizioni della società umana essi non sono capaci di vedere altro che rovine e guai… A Noi sembra di dover risolutamente dissentire da codesti profeti di sventura, che annunziano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo ”. 

È evidente che egli riteneva superati tutti i moniti e le condanne che i suoi predecessori avevano avanzato fino ad allora sulla base del pesante progressivo peggioramento della condotta di vita dell’umanità. E si deve pensare che fosse anche convinto che il mondo fosse avviato verso un’era di felicità, poiché continuò dicendo: “ la Chiesa si accrescerà, come speriamo, di ricchezze spirituali e, attingendovi il vigore di nuove energie, guarderà con sicurezza ai tempi futuri. Infatti, introducendo opportuni emendamenti ed avviando saggiamente un impegno di reciproco aiuto, la Chiesa otterrà che gli uomini, le famiglie, le nazioni rivolgano davvero le menti alle realtà soprannaturali. ” 
E tutto questo si sarebbe verificato perché la Chiesa sarebbe stata “ illuminata dalla luce di questo Concilio”.

E Giovanni XXIII diede prova di voler anticipare subito questo andamento felice, prima ancora che il Concilio portasse l’illuminazione, inaugurando una linea di condotta coerente con tanto ottimismo: “ Non c’è nessun tempo in cui la Chiesa non si sia opposta a questi errori; spesso li ha anche condannati, e talvolta con la massima severità. Quanto al tempo presente, la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore ”. 

In una concezione siffatta il mondo viene visto e valutato come se avesse raggiunta una apprezzabile condizione qualitativa, tale da far pensare ad un rinvio sine die della “catastrofica e disdicevole” fine del mondo. Strana concezione per un pastore d’ànime che dovrebbe avere il preciso dovere di ricordare alle sue pecorelle: “Vigilate dunque, poiché non sapete quando il padrone di casa ritornerà”.

Siamo negli anni ’60 ed è inevitabile ricordare che fu proprio in quegli anni che si diffusero le fantasie e le utopie ottimistiche, sentite così impellenti e così vicine e possibili da condurre tanti giovani suggestionati dai cattivi maestri ai comportamenti più sconsiderati e talvolta criminali. Sono gli anni della droga e della trasgressione a tutti i costi, sono gli anni del nichilismo e del terrorismo, sono gli anni del sesso libero e del femminismo: gli anni della corsa al galoppo verso la dissoluzione.
E il Papa sembrò soggiacere anche lui a questa ubriacatura planetaria. Egli convocò il Concilio pateticamente convinto che si sarebbe concluso in pochi mesi. Non si doveva forse mettere a punto solo la pastorale, senza minimamente toccare la dottrina ?
Giovanni XXIII era talmente lontano dalle preoccupazioni proprie dei suoi predecessori che volle sancire anche formalmente l’abbandono della linea del Vaticano I e nel 1960 ne decretò la definitiva conclusione. 
A parte l’aspetto meramente regolamentare, non si chiudeva un concilio, si chiudeva un’epoca, si poneva fine ad un tempo della Chiesa, abbandonando ogni “velleità” magistrale e ogni “discutibile” istanza di correzione e di aiuto delle ànime dei fedeli. D’altronde, Giovanni XXIII era convinto che i tempi fossero decisamente cambiati, secondo lui ormai si viveva in un mondo in cui “ la dottrina cattolica, …, seppure tra difficoltà e controversie, è divenuta patrimonio comune degli uomini ”.

Furono queste le basi su cui si innestò lo svolgimento del Concilio Vaticano II. Non rientra nel nostro scopo attuale ricordare come si svolse il Concilio [si può dare un occhiata all'interessante cronologia del Concilio, da noi riportata: Il Concilio giorno per giorno], ma dobbiamo richiamare l’attenzione sul fatto che il primo atto dei Padri conciliari fu di respingere gli schemi di discussione fatti approntare proprio dallo stesso Giovanni XXIII. Usando la colpevole acquiescenza del Papa e facendo leva sul suo ottimismo, i Padri conciliari si sentirono autorizzati a realizzare un totale sovvertimento dell’impostazione magisteriale della Chiesa, adottando come criterio guida il tabù moderno della necessità e del valore primario del cambiamento e dell’aggiornamento. 
Dal varco aperto dall’interruzione del Concilio Vaticano I, erano passati all’interno della Chiesa tutti quegli elementi sovversivi che nel corso del Concilio Vaticano II produrranno ciò che qualche anno dopo Paolo VI chiamerà “il fumo di Satana”.  E Paolo VI conosceva bene la materia.
Si sentì il bisogno di allontanarsi dal passato della Chiesa e si finì inevitabilmente col realizzare l’allontanamento dalla Tradizione cattolica.
Nel contempo, com’era inevitabile, non si poteva anche solo trascurare la Tradizione senza che si instaurasse un clima di confusione, di contraddizione e di continuo equivoco. 

Fu in questo contesto e con questo clima, che il Concilio Vaticano II produsse il suo primo documento: Sacrosanctum Concilium, la costituzione conciliare sulla liturgia. 
A prima vista potrebbe apparire strano che il lavoro dei Padri conciliari si concentrasse innanzi tutto sulla questione della liturgia. In effetti, inizialmente, com’era logico e basilare, si sarebbe dovuto discutere di questioni dottrinali, ma i quattro schemi predisposti in questo senso vennero scartati. I Padri conciliari portatori del nuovo ad ogni costo conseguirono la seconda vittoria.
Perché la liturgia ?
Perché la liturgia della Chiesa è il fulcro intorno a cui ruota tutta la vita dei fedeli, tutta la pratica della fede, tutta la catechesi e la pastorale, in definitiva la stessa vita della Chiesa.
Cambia la liturgia e cambierai la vita cattolica, cambierai la fede.

Ovviamente, però, non si poteva distruggere tout court il Culto della Chiesa, risalente a Cristo stesso, né si può pensare che i Padri conciliari fossero giunti a tal punto di accecamento. È qui che, allora, entrano in giuoco la confusione, la contraddizione e il continuo equivoco di cui dicevamo prima.
Per moto incosciente, i Padri conciliari si diedero ad approntare un documento che “sembrava” mantenere l’impianto della liturgia usata da sempre dalla Chiesa, introducendo solo delle messe a punto, delle raccomandazioni, degli adattamenti. Ma se si legge la Sacrosanctum Concilium ci si rende conto che è zeppa di cose non dette e di formulazioni equivoche. Ciò che di accettabile vi è in essa finisce con l’essere sommerso da tutta una serie di porte aperte a qualsiasi variazione imprevista.
Una tecnica ineccepibile, di grande efficacia: in tal modo il vero lavoro di aggiornamento si sarebbe potuto fare dopo l’approvazione del documento; e così avvenne. Ed è per questo che ancora oggi abbiamo da un lato la Sacrosanctum Concilium e dall’altro la liturgia riformata. Paradossale equivoco che continua a dividere liturgisti, canonisti e teologi sul vero significato del Concilio e sulla reale valenza delle applicazioni che lo hanno seguito.

Non è un caso che il primo atto conseguente all’approvazione della Sacrosanctum Concilium fu la costituzione del famoso Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia, che aveva il compito di realizzare le variazioni proposte dal documento.
Ebbene, chi componeva questo Consilium ?
Ce lo spiega il Cardinale Antonelli, uno dei suoi componenti, ritenuto un esperto in materia (Riportiamo brani del diario del Cardinale, pubblicati nel libro di Nicola Gianpietro, O. F. M. Cap., Il Card. Ferdinando Antonelli e gli sviluppi della riforma liturgica dal 1948 al 1970, Studia Anselmiana, Roma, 1998, pp. 416): “ Ho l’impressione però che il corpo giudicante, che in questo caso erano i 35 Padri del Consilium presenti, non fossero all’altezza ” (p. 237); “ nel Consilium ci sono pochi Vescovi che abbiano una preparazione liturgica specifica, pochissimi che siano veri teologi. La carenza piú acuta in tutto il Consilium è quella dei teologi. Si direbbe che siano stati esclusi ” (p. 257); “ Quello che però è triste […] è un dato di fondo, un atteggiamento mentale, una posizione prestabilita, e cioè che molti di coloro che hanno influsso nella riforma, […], ed altri, non hanno alcun amore, alcuna venerazione per ciò che ci è stato tramandato. Hanno in partenza disistima contro tutto ciò che c’è attualmente. Una mentalità negativa ingiusta e dannosa. Purtroppo anche il Papa Paolo VI è un po’ da quella parte. Avranno tutti le migliori intenzioni, ma con questa mentalità sono portati a demolire non a restaurare ” (p. 258).

Sono questi i signori che hanno composto il nuovo Messale Romano, che Paolo VI ha promulgato e che la Chiesa usa da 38 anni. 

Roba da pazzi. 
Se non fosse che si tratta della cruda realtà.

Eppure, se a prima vista può sembrare tutto grottesco, occorre considerare che era inevitabile commissionare a degli incompetenti la nuova liturgia, diversamente non si sarebbe potuto realizzare la demolizione della liturgia cattolica.
Solo così è stato possibile realizzare l’incredibile.
A titolo d’esempio ricordiamo che non è scritto da nessuna parte che si dovessero girare gli altari, si dovessero ricollocare i tabernacoli, si dovessero usare sempre le lingue volgari, si dovesse celebrare tutto a voce alta, si dovessero usare solo canzonette moderne, in poche parole, insomma, che si dovesse abolire la vecchia liturgia e se ne dovesse elaborare una nuova. Non vi è un solo rigo della Sacrosanctum Concilium che parli di questo. Eppure è stato fatto, eppure Paolo VI ha promulgato, imposto, raccomandato e subito celebrato questa nuovissima liturgia contraria a quella della Chiesa e agli stessi dettami del Concilio.
E questo è potuto accadere proprio in forza della confusione, della contraddizione e dell’equivoco che hanno caratterizzato i lavori del Concilio e i documenti del Concilio.

A questo punto, però, occorre considerare che se questo è potuto accadere e se è potuto accadere che i vescovi che avevano sottoscritto una cosa al Concilio, nel post-concilio ne abbiano fatta un’altra, è perché la compagine cattolica era permeata da qualcosa di sottile e inavvertito, una sorta di avvelenamento diffuso e latente.
Ciò spiega perché in questi quarant’anni si sia così diffuso l’abuso liturgico alla base e la sua successiva regolarizzazione al vertice. Spiega come sia stato possibile corrompere passo dopo passo tutta la vita liturgica della Chiesa e tutta la condotta religiosa dei fedeli. Spiega come sia possibile che dopo quarant’anni di sconvolgimenti e di sovvertimenti ci si fermi ancora a considerare che una cosa sarebbe il Concilio e un’altra la sua applicazione: il primo buono, la seconda tante volte cattiva, come se le due cose non fossero una cosa sola e, soprattutto, non fossero state generate dalla medesima istanza rivoluzionaria e antitradizionale e realizzate dalle stesse persone: i vescovi.

È a questo punto che si colloca quella sorta di timore diffuso che, negli ultimi anni, ha fatto dire a diversi prelati, compreso il Cardinale Ratzinger, che la crisi della Chiesa è stata generata dal mutamento della liturgia; e la prima constatazione che si ricava da queste dichiarazioni è che siamo ben lontani da quel roseo avvenire tanto superficialmente intravisto da Giovanni XXIII e da tanti distratti Padri conciliari. Altro che “ricchezze spirituali” per la Chiesa e “menti rivolti alle realtà soprannaturali” per gli uomini, le famiglie, le nazioni. “La luce del Concilio” non è riuscita ad illuminare un bel niente, e non è provocatorio chiedersi se non sia il caso di parlare di tenebre, invece che di luce.
In realtà, un certo disagio si era diffuso fin dall’inizio. Fu lo stesso Paolo VI a dichiarare: “Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza” (omelia del 29.6.1972). Ciò nonostante, dal 1972 ne sono passati di anni, eppure non è cambiata la percezione della crisi della Chiesa, né sono mai stati presi provvedimenti capaci di spingere in direzione della soluzione di questa crisi. E d’altronde, non è stato possibile fare alcunché di serio proprio in forza di quella confusione, di quella contraddizione e di quell’equivoco che sono stati il pane quotidiano dei Padri conciliari prima e dei vescovi e dei papi dopo.

In campo liturgico, in particolare, abbiamo assistito ad una sempre maggiore diffusione del disordine: dall’architettura sacra all’arredamento delle chiese, dalla celebrazione alla musica, dalla catechesi alla pastorale; e questo negli oratori, nelle parrocchie, nei santuari, nelle basiliche, nei seminari, nelle facoltà teologiche, per non parlare delle stesse liturgie papali.
Fin dal 1965, anno di chiusura del Concilio Vaticano II, chierici e laici avevano manifestato la loro contrarietà nei confronti delle variazioni apportate o da apportare alla liturgia della Chiesa. Si conoscevano peraltro fin dal 1963 la composizione, l’attività, le tendenze e i precisi orientamenti del famoso Consilium per la liturgia, non c’era nulla da inventarsi o da immaginare.
Quando nel 1967 venne sottoposta ai vescovi lo schema della nuova “Messa normativa”, perfino loro la respinsero. Ciò nonostante, due anni dopo, nel 1969, Paolo VI promulgò il Novus Ordo, che riproduceva sostanzialmente quello stesso schema rifiutato dai vescovi.
È dello stesso anno 1967 la costituzione della Federazione Internazionale Una Voce, avvenuta a Zurigo ad opera di laici federatisi per difendere la liturgia tradizionale della Chiesa.
Nel 1969 si manifestò la prima reazione eclatante di alcuni prelati: i Cardinali Ottaviani e Bacci presentarono a Paolo VI un “Breve esame critico del Novus Ordo Missae”, redatto da un certo numero di chierici e di laici ed in cui si affermava semplicemente che la nuova Messa era sostanzialmente ai limiti dell’eresia, pregiudizievole per la fede cattolica e pericolosa per i fedeli.
[circolano oggi, anche in ambienti che oggi si dicono sostenitori della S. Messa tradizionale, strane letture di questo “Breve esame”: si veda la nostra nota: Una curiosa lettura del Breve Esame Critico]
 

L’evento, minimizzato da Paolo VI e beffeggiato dal Consilium, venne seguito, l’anno successivo, nel 1970, dalla fondazione, in Svizzera, della Fraternità Sacerdotale San Pio X. Ancora un altro prelato: Mons. Marcel Lefebvre, già conosciuto come il principale oppositore in Concilio delle devianze dei novatori. Mons. Marcel Lefebvre, che fu anche Superiore dei Padri dello Spirito Santo e Arcivescovo di Dakar, incominciò con la fondazione di un seminario per la formazione di sacerdoti educati secondo l’abolita disciplina liturgica e dottrinale della Chiesa cattolica: con tanto di nulla osta delle autorità; ma il movimento di resistenza contro le innovazioni conciliari era così vasto e diffuso che, in poco tempo, egli divenne gioco forza il punto di riferimento di tutti i cattolici fedeli alla liturgia e alla dottrina di sempre della Chiesa.
Da quel momento in poi, la resistenza alla nuova liturgia si espresse in maniera organizzata.
Questo suscitò non poche reazioni violente, a partire dallo stesso Paolo VI.
Sostenere la necessità del mantenimento della liturgia che la Chiesa aveva usato per duemila anni, sostenere il mantenimento degli insegnamenti che la Chiesa aveva proposti fino ad allora, divenne un atto di lesa maestà, e la maestà era un’impasto di diritti dell’uomo, dignità umana, libertà religiosa, dialogo con chiunque, ecumenismo intercristiano e interreligioso, democrazia ecclesiale, liturgia para protestante, culto dell’uomo compendiato col culto di Dio.  Una miscela esplosiva. Risultato: lo svuotamento dei seminari, dei conventi e delle chiese.

La nuova liturgia dilagò come un’alluvione, producendo devastazioni irreparabili: a poco valsero i freni e i richiami alla prudenza. Ricordiamo, a titolo emblematico, la incredibile vicenda della Comunione sulla mano. Mai proposta eppure praticata, ripresa ed anche condannata, ma incontenibilmente diffusa, falsamente giustificata, sopportata e… infine approvata e regolamentata. Come dire che, a furia di insistere, il Diavolo è riuscito a farsi accettare dai capi della Chiesa, i quali, pensando colpevolmente di poterne contenere la corruttela, lo hanno fatto accomodare nel coro della cattedrale.

Intanto, contrariamente alle aspettative ottimistiche dei nuovi prelati, la resistenza dei fedeli tradizionali, chierici e laici, non solo continuò, ma assunse connotazioni sempre più ampie e consapevolezza sempre più profonda. I seminari tradizionali aumentarono e non riuscirono ad accogliere il gran numero dei postulanti. I centri di Messa tradizionale si moltiplicarono e si diffusero in tutto l’ecumene cattolico. 
Il numero dei fedeli si arricchì dell’arrivo di moltissimi giovani, superando di gran lunga la dipartita dei più anziani. 
Era questa la situazione al momento della nuova elezione di Giovanni Paolo II. Si pensò, allora, di mettere una pezza: nel 1984, dopo controverse consultazioni, il Papa decise di realizzare una timida apertura nei confronti dei fedeli tradizionali. Concesse ai vescovi la facoltà di autorizzare delle celebrazioni secondo il Vetus Ordo, dopo l’accertamento di certi requisiti.  È l’indulto, da molti percepito come un nuovo inizio: finalmente si sancisce la legittimità delle richieste sdegnosamente rigettate da Paolo VI. Ma se questo era l’intento del Papa, diversa era la determinazione dei vescovi: ancora la percezione della lesa maestà, e questa volta la maestà veniva impersonata dai vescovi stessi.
L’indulto non diede i frutti sperati, proprio per l’accanimento dei vescovi, ormai soggiacenti alle chimere moderniste, e l’accanimento contro la Tradizione assunse sempre più connotati parossistici. Di contro, la nuova liturgia produsse sempre più frutti avvelenati e sempre maggiore distacco dalla fede; mentre dosi sempre più massicce di sincretismo, di indifferentismo e di apostasia accorsero a colmare i vuoti prodotti dal continuo affievolirsi della dottrina.
Sono gli anni di Assisi, gli anni in cui si cedono le chiese ai non cattolici, gli anni in cui Cristo non lo si annuncia, ma lo si discute con chi lo disconosce, gli anni dell’aumento delle sette e dalla fuga in massa dalla Chiesa.

La tenacia dei cattolici tradizionali, intanto, continua a portare buoni frutti per la Chiesa. Tanto che si incomincia a parlare di ricucitura degli strappi. Vi sono alcuni tentativi, ma senza che si giunga mai alla conclusione.
L’ultimo, attuato nel 1988, si conclude malamente. I lanzichenecchi dell’antitradizione sono sempre all’erta. La necessità, per l’àmbito tradizionale, di dotarsi di nuovi vescovi per la propria sopravvivenza, per la cura delle anime e per il bene della Chiesa, viene negata. Mons. Lefebvre è costretto ad ordinare quattro vescovi senza il placet del Papa.
Inaudito, si dice, inconcepibile, si grida: vengano puniti severamente questi che insozzano la limpidezza ecclesiale tanto faticosamente realizzata in vent’anni di post-concilio ! E così fu: dopo anni di nobilissima giovannea misericordia ecco fulmineo il rigore che sacrosantamente colpisce i difensori della Tradizione Cattolica: scomunicati!

Un risultato lo si ottiene, però. Fino ad allora il fronte tradizionale aveva mantenuto una certa compattezza, nonostante le inevitabili sfumature dovute anche alle debolezze umane. La scomunica ottiene l’effetto di dividere questo fronte e di innescare un processo di parcellizzazione. Non solo nascono nuovi organismi ecclesiali, ma si differenziano le posizioni dei laici, col concorso della stanchezza e delle lusinghe.
Inizia una nuova strategia all’insegna del vecchio adagio “divide et impera”, ora il fronte tradizionale viene attaccato con argomentazioni pseudo-canoniche: lo scisma, l’illegittimità delle ordinazioni, la volontà di separazione. E tutti coloro che pensano di potersi sentire al riparo da tali accuse, per aver abbandonato il fronte comune, vengono strumentalmente emarginati dai vescovi e costretti dalla Curia Romana ad adottare il Novus Ordo.
Il concetto è semplice: l’uso del Vetus Ordo è una concessione straordinaria e transitoria che ha lo scopo di condurre i più restii all’accettazione totale del Concilio, della nuova pastorale, della nuova liturgia e della nuova dottrina. In una parola all’abbandono della fedeltà alla Tradizione.
È quanto si può leggere tra le righe del famoso Motu Proprio Ecclesia Dei Adflicta, del 2 luglio del 1988, del quale si dimentica sempre la prima parte, dove il Papa ribadisce che i fedeli tradizionali non sanno che cosa sia la Tradizione.

La seconda parte di questo Motu Proprio, quella più diffusamente conosciuta per la possibilità concessa ai fedeli di poter legittimamente fruire dell’uso della liturgia tradizionale, viene regolarmente misconosciuta, travisata, stravolta e ancora sdegnosamente respinta e disattesa dai vescovi .
Tutti sperano che, prima o poi, il “fenomeno tradizionale”si ridimensioni. La stessa Commissione Ecclesia Dei, istituita e incaricata di aver cura dei fedeli tradizionali, oltre a cercare di assolvere al suo dovere istituzionale di ricondurre all’ovile le pecorelle matte ancora irrequiete, e cioè di far loro accettare, non solo il Concilio, ma anche e soprattutto il suoi frutti, si industria in tutti i modi per avallare una lettura distorta e riduttiva dello stesso Motu Proprio di cui porta perfino il nome. Clamoroso il caso del suo Presidente, il Card. Mayer, che prima chiede ed ottiene dal Papa i necessari poteri per far fronte alle prevaricazioni dei vescovi e poi dichiara, anche per iscritto, di voler rinunciare ad esercitarli. 
Ancora la pratica disinvolta di quella confusione, di quella contraddizione e di quell’equivoco che abbiamo segnalato più volte.

Stiamo parlando di circa vent’anni fa.
In questi vent’anni il fronte tradizionale, seppur diviso, non si è disfatto, anzi si è rafforzato. Sono ampiamente aumentati i fedeli e le vocazioni. Perfino coloro che continuano a correre il rischio di essere assorbiti nel magma post-conciliare hanno dimostrato una vitalità ed una capacità di tenuta tali da far legittimamente pensare all’aiuto dello Spirito Santo. Mai trascurare la potenza della S. Messa di sempre quale veicolo della Grazia divina per la santificazione dei sacerdoti e dei fedeli.

[si veda la nostra nota che si sofferma su quest'aspetto, ricordando il ventennale del Motu Proprio Ecclesia Dei adflicta e delle ordinazioni eposcopali dei quatro nuovi vescovi della Fraternità san Pio X: 1988-2008: un anniversario nell'anniversario]
In particolare, negli ultimi 7 anni il Signore ha voluto che aumentasse a ritmo crescente perfino il numero dei fedeli, chierici e laici, che, attratti dalla liturgia tradizionale, non solo hanno finito con l’interessarsi anche alla dottrina tradizionale, ma hanno incominciato ad allontanarsi dagli insegnamenti conciliari e dalla liturgia che ne è scaturita.

Nel resto della Chiesa, invece, lo stato di crisi si è accentuato e soprattutto si è accentuato il fenomeno del sovvertimento della liturgia inevitabilmente accompagnato dall’accentuazione del distacco dagli insegnamenti della Chiesa.
In particolare si è diffusa una forma di apostasia strisciante che ha comportato il disconoscimento della Presenza Reale nella Messa, la relativizzazione storica della Persona del Figlio di Dio, l’accettazione della concezione evolutiva del dogma, la revisione dell’esperienza storica del cattolicesimo riletta alla luce della critica anticattolica e sulla base della predicazione atea e razionalista,  il cedimento alla malsana concezione del possibile dialogo e della possibile collaborazione tra la verità e l’errore.
Perfino lo stesso Giovanni Paolo II sentì il bisogno di interventi correttivi  soprattutto in campo liturgico: non fu un fatto ordinario la pubblicazione dell’enciclica Ecclesia de Eucharistia e della conseguente istruzione Redemptionis sacramentum. In fondo il Papa sapeva bene che se si voleva provare a raddrizzare qualcosa nella Chiesa occorreva partire dalla liturgia e dalla S. Messa.

È in questo contesto che si inserisce la pubblicazione del Motu Proprio Summorum Pontificum cura di S. S. Benedetto XVI.

I primi sentori si ebbero subito dopo l’avvenuta elezione. 
Il nome di Ratzinger portò subito in mente le note riflessioni da lui preparate e lette nel corso della Via Crucis dello stesso anno.

“ quante volte si abusa del santo sacramento della sua presenza, in quale vuoto e cattiveria del cuore spesso egli entra! Quante volte celebriamo soltanto noi stessi senza neanche renderci conto di lui! … Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui! … Tutto ciò è presente nella sua passione. Il tradimento dei discepoli, la ricezione indegna del suo Corpo e del suo Sangue è certamente il più grande dolore del Redentore, quello che gli trafigge il cuore. Non ci rimane altro che rivolgergli, dal più profondo dell’animo, il grido: Kyrie, eleison ”.
Riflessioni che stupirono molti e preoccuparono non pochi uomini di Chiesa. 
Riflessioni che, direttamente o indirettamente, possono considerarsi come fattori che concorsero a determinare le scelte che il Conclave fu chiamato ad operare proprio un mese dopo.
Ed un’altra avvisaglia si ebbe nello stesso anno, in quel famoso discorso che Benedetto XVI rivolse a dicembre alla Curia Romana. Discorso che a tutt’oggi molti considerano come programmatico del pontificato di Papa Ratzinger.
Per la prima volta dopo il Concilio Vaticano II un papa affermava apertamente che coloro che avevano inteso il Concilio come una rottura con la Tradizione avevano commesso un grosso errore.
Per quanto si voglia e si possa puntualizzare, nessun può mettere in dubbio che il richiamo di Benedetto XVI coinvolgesse inevitabilmente tutta la Chiesa, vescovi, cardinali e papi compresi. Comprese le dichiarazioni, i discorsi e i documenti, perché non è pensabile che Benedetto XVI si riferisse solo a qualche caso più o meno definito: questo non avrebbe meritato l’attenzione in un discorso come quello, tenuto conto della capitale importanza dell’argomento.
Si ebbe la percezione che forse si poteva aprire una nuova pagina.

Fino ad allora, per quarant’anni, non era mai stato possibile parlare criticamente del postconcilio, puntare il dito su quelli che abbiamo più volte chiamati “i frutti del Concilio”. Da quel 22 dicembre 2005, su questo nuovo filone “revisionista” si sono addirittura buttati a capofitto anche tanti insospettabili.
Ovviamente, il Papa non aveva inteso avanzare la benché minima critica al Concilio, di cui peraltro fu uno dei principali artefici, e tra le fila dei novatori. Tutt’altro: egli intese distinguere tra il dettato conciliare, considerato buono, e una cattiva interpretazione del Concilio. Solo quest’ultima andava riprovata.
Lo stesso Papa, però, sapeva bene che i “cattivi” interpreti del Concilio non erano dei personaggi capitati in chiesa per caso, e sapeva benissimo che stava proprio parlando con tanti di loro, in quel momento. Anche senza volerlo, quel discorso finiva con l’essere rivolto principalmente a quei cattivi interpreti del Concilio che in forza di tale mala interpretazione avevano redatto i nuovi documenti pastorali, liturgici e dottrinali. A quei cattivi interpreti del Concilio che in forza di tale mala interpretazione avevano redatto e promulgato le tre edizioni del nuovo Missale Romanum e i nuovi libri liturgici. A quei cattivi interpreti del Concilio che in forza di tale mala interpretazione avevano retto le sorti della Chiesa negli ultimi 40 anni.

Fu verso la metà del 2006 che si incominciò a parlare con insistenza della possibilità che Benedetto XVI giungesse ad un’ampia concessione dell’uso del Messale tradizionale. 
Immancabilmente, furono avanzate le ipotesi più diverse e sorsero reazioni disparate. 

Certi ambienti conservatori, in un primo momento fecero finta di niente ricordando che c’era già l’indulto del 1988 e che bastava applicarlo meglio, poi, un po’ alla volta, incominciarono a scoprire, con toni perfino sostenuti, quelle stesse cose che i fedeli tradizionali dicevano da quarant’anni tra l’offesa e l’ostilità di tanti cattolici anche conservatori. 

Certi ambienti moderati, o pragmatici che dir si voglia, incominciarono a scoprire che in molte chiese si praticava una liturgia che era ai limiti dell’ortodossia, improvvisamente dimenticando che non si trattava che della pratica liturgica realizzata da loro stessi nei laboratori dei consigli pastorali, diocesani e parrocchiali.

Intendiamoci, niente da eccepire dal punto di vista dei risultati, come si sa: meglio tardi che mai. Salvo una certa riserva sulla formazione mentale di tanti che si spera, con l’aiuto di Dio, capiscano che occorre davvero voltare pagina.

Discorso diverso per gli ambienti modernisti, di vario calibro.
È innegabile che, rispetto ad altri, molti personaggi di questi ambienti hanno dimostrato una maggiore coerenza. In fondo essi hanno sempre creduto in una “nuova Chiesa” che recidesse i legami col passato, hanno sempre perseguito la cosiddetta “ecclesiologia rinnovata”, e il fulcro della loro rivoluzionaria concezione di Chiesa era proprio il continuo divenire della liturgia e della dottrina: “la Chiesa siamo noi” è stata una delle parole d’ordine di costoro. L’eventualità di una più libera pratica della liturgia di sempre li sconvolgeva. Per loro era come pretendere di poter fruttuosamente “dialogare” col mondo, col Papa seduto sulla sedia gestatoria con a fianco San Tommaso e San Domenico che lo assistono. 
Il colmo della barbarie e dell’oscurantismo clericale !

Era logico e ben comprensibile che tanti si ribellassero anche solo all’idea del migliore e più ampio uso della liturgia tradizionale; figuriamoci della liberalizzazione dell’uso della stessa liturgia.
Ancora coerentemente con tutto il post-concilio, era prevedibile che gridassero all’attentato al Concilio. Anche un bambino si rendeva conto che non era possibile raccontare adesso ai fedeli che tutto quello che era stato loro presentato come il frutto benefico e salutare del Concilio potesse mettersi minimamente in dubbio. Significava assestare al Concilio un colpo mortale. Tanto più che questo benedetto Concilio mostrava la corda già da alcuni anni. Mancava solo che si suggerisse ai fedeli che la nuova liturgia poteva anche essere affiancata e magari sostituita dalla vecchia: dopo quarant’anni di demonizzazione.
Costoro si sono industriati in tutti i modi per convincere il Papa che quella sua eventuale decisione non doveva essere presa e contemporaneamente hanno messo in essere tutti gli espedienti, teorici e pratici, per ridimensionare ed emendare l’eventuale testo in preparazione, hanno perfino usato la minaccia dello scisma, da buoni cattolici progressisti e rivoluzionari.

Grazie a Dio, Benedetto XVI, non solo ha preso la sua decisione, ma ha addirittura sorpreso tutti andando oltre ogni possibile previsione. Egli, di fatto, ha rinnovato il famoso indulto perpetuo concesso da San Pio V a tutti i sacerdoti cattolici con la bolla Quo primum tempore, con la quale,  il 19.7.1570, promulgò il Missale Romanum; indulto perpetuo che concedeva ai sacerdoti cattolici la facoltà di celebrare la S. Messa secondo il rito tradizionale, da sempre usato nella Curia Romana, anche contro il parere del proprio vescovo.
Egli ha dichiarato, in questo documento normativo per la Chiesa cattolica, che il Messale Romano in uso fino ai tempi del Concilio non è mai stato abrogato e quindi i sacerdoti cattolici hanno, ed hanno sempre avuto, il pieno diritto di usarlo: così che ogni proibizione attuata in questi anni, dai vescovi, dai cardinali e dai papi, è stata un abuso bello e buono.

Da adesso in poi potrebbe essere tutta un’altra storia.
Staremo a vedere.
 


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(Ottobre 2008)


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