IL MOTU PROPRIO
“ SUMMORUM PONTIFICUM CURA”
compie un anno
Appendice
Canon Missae
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“Canon Missae” dell'Appendice in formato pdf
Presentazione
Le premesse
Una curiosa lettura del Breve
esame critico
1988-2008 - un anniversario nell'annivesario
Il testo del Motu Proprio: considerazioni
e commenti
Ci fu abrogazione ?
La lettera di accompagnamento: considerazioni
e commenti
Le reazioni
Le obiezioni
L'applicazione
Le prospettive
Ultima ora
Appendice - Canon Missae
Appendice - Ritus romanus e Ritus modernus
Luoghi e orari della S. Messa
Istruzioni per l'uso
Appendice
Riteniamo utile presentare infine due importanti testimonianze
di quegli infausti anni ‘70, che permettono di far comprendere come la
“Battaglia per la Tradizione” fosse fin dall’inizio, non solo ben fondata,
ma soprattutto legittima e del tutto conforme alla
Tradizione bimillenaria della Santa Chiesa.
Gli articoli che presentiamo furono pubblicati in
due dei notiziari che con grandi sacrifici i fedeli tradizionali approntavano
e distribuivano in tutto il mondo, nel tentativo di frenare la deriva modernista
e anticattolica che come un ciclone imperversò a partire dal Concilio
Vaticano II.
Canon Missae
Articolo del compianto don Giuseppe Pace,
pubblicato nel notiziario della sezione Una Voce Torino
(Notizie, n° 23, 1978)
Don Giuseppe Pace, Salesiano, morì il 2 novembre del 2000.
Fu uno di quei sacerdoti che si rifiutò di accettare la rivoluzione
liturgica e dottrinale imposta a partire dal Concilio.
Per questo venne emarginato e vessato dalla Diocesi di Torino, che
lo costrinse a celebrare la S. Messa tradizionale quasi in clandestinità.
Scrisse alcune centinaia di articoli sulla base dei suoi studi di liturgia
e di storia della Chiesa, a sostegno della “Battaglia per la Tradizione”. |
l La Tradizione precede, ingloba e supera la Scrittura
C’era la Chiesa e la Messa, e gli Evangelisti non c’erano
ancora. La Chiesa era già largamente diffusa nell’Impero, e gli
Evangeli non erano stati ancora scritti. Con la Chiesa era largamente diffusa
anche la celebrazione della S. Messa, prima che la narrazione dell’Ultima
Cena venisse descritta dagli Evangelisti sinottici e da San Paolo. Con
la S. Messa era necessariamente diffuso anche il Canone; diffuso, ma ben
presto circondato dal più alto segreto a scanso di interpretazioni
erronee e di reazioni inconsulte da parte di quei pagani che avrebbero
potuto imputare ai Cristiani il delitto di compiere dei sacrifici umani,
e il delitto di antropofagia.
Se questo rito non è descritto né per
esteso né in modo uniforme negli Evangeli sinottici e nella Prima
Lettera ai Corinti, pur essendo ormai pratica diffusa in tutta la Chiesa
e sostanzialmente tale e quale in tutta la medesima, pare lecito attribuire
tale reticenza nello svelare il rito eucaristico agli stessi catecumeni.
La Chiesa non ricavò il Canone della Messa dalla
descrizione dell’Ultina Cena quale leggiamo nei Sinottici e nella Prima
ai Corinti. Viceversa furono gli Evangelisti a raccogliere nei Sinottici
un’eco parziale ed attutita del Canon Missae. Anche per quanto riguarda
la S. Messa, la Tradizione precede la Scrittura, prepossiede quanto in
parte verrà messo per iscritto nella Scrittura, e possiede ben più
di quanto verrà menzionato dalla Scrittura. Anche per quanto
riguarda la S. Messa, la Scrittura non ci conserva che una parte modesta
della tradizione liturgica della Chiesa delle origini. Solo accettando
il postulato gratuito protestantico, che fa della Scrittura la base esaustiva
della Fede, e perciò anche della liturgia, si può pretendere
di ritoccare la liturgia tradizionale per uniformarla alla Scrittura.
Mysterium Fidei
Nel caso del rito eucaristico ? cerimonie e formula consacratorie
? la Scrittura ci offre ben quattro versioni diverse tra di loro. Anche
ammesso in teoria il postulato protestantico, secondo il quale la liturgia
non è lecita se non è desunta dalla Scrittura, in pratica
non lo si potrebbe applicare a questo caso, senza negare valore alla Scrittura
stessa in ben tre descrizioi che ci offre del rito eucaristico: dato che
una sola potrebbe essere quella storicamente esatta.
Viceversa non è lecito espungere dalla formula
consacratoria del Calice, quale troviamo nel Canone tradizionale apostolico,
l’inciso Mysterium Fidei, sotto pretesto che non viene riferito
dalla Scrittura, e che perciò non sia stato pronunciato da Gesù;
poiché la narrazione scritturistica dell’Ultima Cena è schematica,
riassuntiva, non esaustiva; e in San Giovanni, dove è più
diffusa, manca del tutto del rito eucaristico: Non per nulla Giovanni afferma
che ci vorrebbe un numero infinito di libri per dire tutto quello che Gesù
ha detto e ha fatto.
L’aver dislocato arbitrariamente detto inciso ? Mysterium
Fidei ? a dopo la duplice consacrazione, non solo offese e scandalizzò
molti fedeli, che a ragione consideravano le formule consacratorie tradizionali,
rimaste intatte per tanti secoli, tuttora intangibili, e perciò
sacrilego ogni attentato alla loro struttura; non solo sconvolse la prospettiva
del Canone, tutto orientato verso il Padre, e che l’acclamazione, imposta
come risposta al Mysterium Fidei, orienta invece verso il Figlio;
ma
induce i fedeli, che acclamano il Signore in attesa della sua venuta, a
ritenere che nonostante la duplice consacrazione non sia venuto di fatto,
e che le formule consacratorie abbiano un valore puramente commemorativo
di un fatto che già fu.
Senza aggiungere poi che nella versione in italiano ha
perduto il significato che ha in latino, per assumerne uno quanto mai discutibile.
In italiano infatti è stato tradotto con “Mistero della Fede”, invece
che “Mistero di Fede”. “Mistero della Fede” può significare che
la Fede è misteriosa, o che l’Eucarestia è uno dei misteri
della Fede; significati veri, ma diversi da quello che detto inciso propriamente
ha, e cioè che l’Eucarestia è il Mistero della Fede per eccellenza,
in quanto impegna la Fede in modo eminente.
Hunc praeclarum calicem
Ma vi è dell’altro da notare nelle manipolazioni
alle quali è stato sottoposto il Canone tradizionale. In esso infatti,
dopo la consacrazione del pane, si dice: accipiens et hunc praeclarum calicem.
Teologi e liturgisti conoscono e talora hanno fatto rimarcare ad altri
l’estrema importanza di quell’hunc. Contro coloro che ritengono la celebrazione
eucaristica puramente commemorativa di un fatto che fu, quell’hunc sta
a dichiarare invece che il calice posto sull’altare è numerice unus
et idem [uno solo e il medesimo] con quello che Gesù consacrò
nell’Ultima Cena, in quanto sotto le apparenze del vino consacrato è
presente quello stesso e identico Sacerdote eterno, quella stessa e identica
Vittima immolata una volta per sempre, in quello stesso e identico atto
sacrificale, inchoato nel Cenacolo ? anzi nel primo istante dell’Incarnazione
del Verbo ? e che sarebbe consumato sulla Croce, raggiungendo il non plus
ultra di perfezione anche nella sacra umanità del Verbo, ed in tale
suprema perfezione sarebbe stato sigillato dalla morte per l’eternità.
Ora, nella versione in italiano del Canone tradizionale,
quell’hunc non c’è più. Vi si legge infatti che Gesù
prese “il” calice; non vi si legge che Gesù preso “questo” calice.
Perché mai si è operato un tale mostruoso scempio? Perché
i fedeli capiscano? Che cosa? Che tra quanto operò il Signore
e quanto avviene nel rito eucaristico non c’è identità, in
quanto il Calice del rito eucaristico non è più quello del
Signore; e che perciò il rito eucaristico è solo commemorativo?
Sì, certo! Si vuol lasciar credere una tale eresia.
Si
quis dixerit Missae sacrificium esse… nudam commemorationem sacrificii
in cruce peracti… anàthema sit (Concilio di Trento, Canoni
sulla Messa, Can. 3).
E se è scomunicato colui che accoglie una tale
enormità, non lo sarà a maggior ragione colui che la favorisce?
Allorquando si afferma che la riforma liturgica fu fatta
a che i fedeli capissero meglio la ricchezza e la profondità dei
misteri cristiani, non si dice la verità, che è un’altra,
e cioè che si è fatta la riforma liturgica a che gli eretici
non odano più nella liturgia cattolica proclamati, non vedano più
nella liturgia cattolica risplendere, non sentano più nella liturgia
cattolica celebrati quei dogmi che essi rifiutano. Insomma, per non offendere
le pupille degli eretici, assuefatti alle tenebre, si volle velare la luce
della fede anche ai cattolici. Per non offendere le talpe, si cercò
di spegnere il sole.
Qui… effundetur
Non ci si fermò lì. Nel Canone tradizionale
si parla di sangue qui… effundetur, “che verrà effuso”. Il
sacerdote, ripetendo detto verbo al futuro, si colloca nel Cenacolo, e
rappresenta Gesù consacrante nell’imminenza della sua passione cruenta:
ma prima della medesima. Nella traduzione in italiano, detto verbo al futuro
è stato tradotto con il participio passato “sparso”. In
tal modo il celebrante che lo pronuncia, viene collocato fuori dal Cenacolo,
e dopo la Passione cruenta del Signore, così che la sua celebrazione,
da azione in corso, che la morte di croce fisserà per l’eternità,
svanisce nella commemorazione di un fatto che fu e che non è più.
A giustificazione di una tale grave metamorfosi non si
può invocare neppure la Scrittura, poiché nei Sinottici il
verbo “viene versato”, oppure “è versato”, indica azione, sia pure
già iniziata, ma tuttora in corso e implicante un ulteriore svolgimento
nel futuro.
Pro multis
Non solo: nella formula consacratoria del Calice troviamo
un pro multis, in contrapposizione ad un omnes… bibite
ex eo omnes… effundetur pro multis.
Detta distinzione troviamo anche nel testo greco di San
Matteo (26, 28) e di San Marco (14, 24), dove pàntes sta
per “tutti”, e perì pollôn o ‘upèr pollôn
sta per pro multis.
Detta contrapposizione nella traduzione in volgare non
c’è più: vi si dice infatti: “… bevetene tutti… sparso
per tutti”.
Per giustificare detta sostituzione si adduce la ragione
che in aramaico e in ebraico, la lingua più probabilmente usata
da Gesù per quel sacro rito, siccome non c’è la parola “tutti”,
per dire “tutti” si dice “molti”; ma nelle lingue moderne,
dato che c’è in esse la parola “tutti”, questa va usata, se si vuole
dire quanto Gesù intese dire dicendo “molti”.
Detta ragione è falsa. Come in latino e in
greco, così anche in aramaico ed in ebraico c’è la parola
“tutti”, in contrapposizione alla parola “molti”. In aramaico “molti
si dice saggi’án, e “tutti” si dice kol o kollá
o anche kol bisrá, che significa “ogni carne”, cioè
“ogni uomo”. Ed in ebraico “molti” si dice rabbìm,
e “tutti” si dice kol o kol basár, cioè, come
in aramaico, “ogni carne”, “ogni uomo”.
Che se Gesù, per istituire il sacratissimo rito
dell’Eucarestia, usò la lingua sacra, cioè l’ebraico, allora
disse: …shetu (bevete) kullikém (tutti voi) mimmenah
(da esso) … hashafuk (che viene sparso) be ad (per) rabbìm
(molti).
Analogamente Gesù poté esprimersi anche
in aramaico, contrapponendo “tutti voi” a “molti”.
Perché dunque si è alterata la formula
consacratoria del Calice? Per insinuare l’errore di una salvezza, non solo
universale possibile, in quanto meritata dal divin Redentore, ma anche
universale de facto; il che equivale a negare la dottrina cattolica sull’inferno.
Una tale formula deturpata in senso ereticale sarà ancora valida?
Secondo San Tommaso tutta la formula Hic est enim
Calix Sanguinis mei, novi et aeterni Testamenti: Mysterium Fidei: Qui pro
vobis et pro multis effundetur in remissionem peccatorum è
necessaria ad validitatem. È ben vero che altri ritengono
sufficiente la prima frase Hic est enim Calix Sanguinis mei;
ma fino a quando la cosa è discussa da teologi dell’altezza di San
Tommaso, la questione resta dubbia.
Ora, nell’amministrazione e nella preparazione dei Sacramenti
non vige il probabilismo. Non si può perciò usare una materia
o una formula dalla validità disputata. L’uso della medesima è
gravemente illecito. Si dirà che essendo usata dalla maggioranza
dei sacerdoti, ed essendo impossibile un errore universale, resta dimostrata
valida almeno indirettamente. Si risponde che al tempo di Ario l’eresia,
pur essendo estesa forse ancor più che l’uso odierno di detta formula,
non divenne verità; e la verità continuò a sussistere
solo grazie al piccolo gregge dei perseguitati dalla stragrande maggioranza
dei vescovi di quei tempi.
Anàthema sit!
A riguardo del Canon Missae, negli atti del Concilio
dogmatico ed infallibile di Trento, si legge: “Siccome le cose sante
vanno amministrate santamente, e siccome di tutte le cose sante la più
santa è il sacrificio [della Messa]; la Chiesa cattolica,
affinché venga offerto e ricevuto degnamente e riverentemente, molti
secoli addietro istituì il Sacro Canone, talmente immune da qualsivoglia
errore, che nulla in esso si contiene che non olezzi al massimo di santità
e di pietà, che non elevi a Dio le menti degli offerenti. È
infatti costituito da una parte dalle parole stesse del Signore e dall’altra
parte dalle tradizioni degli Apostoli e dalle pie istituzioni di santi
Pontefici” (Concilio di Trento, Decreto sulla Messa, cap. 4).
Perciò: “Se qualcuno dirà che il Canone
della Messa contiene degli errori e perciò dev’essere abrogato,
sia scomunicato” (Concilio di Trento, Canoni sulla Messa, Can 6).
Da ciò appare chiara la duplice intenzione del
Concilio di Trento: quella di vietare sotto minaccia di scomunica l’abrogazione
del Canone tradizionale, e quella di proteggerlo da ogni manipolazione;
cioè, positivamente, quella di imporre, sotto pena di scomunica
a chi non lo facesse, l’uso del Canone tradizionale, e quella di
imporre l’uso pratico di detto Canone inalterato. Insomma, il Concilio
di Trento colpisce di scomunica colui che nella celebrazione della Messa
usa una qualche altra prece eucaristica al posto del Canone tradizionale,
che in tal modo abroga in pratica, anche se lascia intatto in qualche libro
liturgico.
Se una tale conclusione fosse sbagliata, gradiremmo
che ce ne venisse indicato il perché. A noi pare infatti che il
Canone tradizionale, canonizzato a Trento, non lo si possa scanonizzare,
cioè togliere dall’uso liturgico, senza incorrere nella sanzione
comminata a Trento a quello stesso che si limitasse a dirlo difettoso e
abrogabile.
Analogamente alla canonizzazione dei Santi, anche la
canonizzazione, ad opera di un Concilio dogmatico ed infallibile, di un
tale Canone, non è revocabile.
L’obbligo grave per tutti i celebranti di fare uso del
Canone tradizionale, tale quale fu prima della recente riforma, a noi pare
indubitabile.
Si dirà che ogni papa può disfare quanto
qualche altro papa può aver fatto.
Non sempre, come nel caso della canonizzazione di un
Santo, come nel caso della definizione di un dogma. Quanto al Canone
tradizionale, canonizzato dal Concilio dogmatico infallibile di Trento,
non poté certo essere scanonizzato dal Concilio pastorale non infallibile
Vaticano II; il quale viceversa ha confermato la Messa tradizionale
e con essa innanzi tutto il Canone della medesima. Per scanonizzarlo,
o almeno per abrogare il Canone citato, Paolo VI avrebbe dovuto compiere
un atto formalmente equivalente a quello compiuto dal Concilio di Trento
e da Pio IV, che approvò infallibilmente i canoni di detto Concilio
per l’argomento di cui stiamo trattando; e con tutti i requisiti che ne
garantiscano l’infallibilità. Tanto Paolo VI non ha fatto, e riteniamo
che in forza della provvidenza speciale che veglia su di lui e sulla Chiesa,
neppure lo attenterà.
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(Ottobre 2008)
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