S. Ecc. Mons. Bernard Tissier de Mallerais
della Fraternità Sacerdotale San Pio X


LA FEDE IN PERICOLO PER LA RAGIONE

ERMENEUTICA DI BENEDETTO XVI

CAPITOLO 2 - ITINERARIO FILOSOFICO DI JOSEPH RATZINGER

Questo studio è stato pubblicato sul n° 69 (estate 2009) della rivista Le Sel de la Terre - Intelligence de la foi -  Rivista trimestrale di dottrina tomista a servizio della Tradizione
La rivista, curata da Padri Domenicani collegati alla Fraternità Sacerdotale San Pio X, è una pubblicazione cattolica di scienze religiose e di cultura cristiana, posta  sotto il patronato di San Tommaso d’Aquino, in forza della sicurezza della dottrina e della chiarezza d’espressione del “Dottore Angelico”. Essa si colloca nel quadro della battaglia per la Tradizione iniziata da
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Lo studio in formato pdf


Da Kant a Heidegger: itinerario intellettuale di un seminarista

Qual è dunque questa «forma di ragione dominante» che ha sedotto il giovane Ratzinger ed ha sfidato la sua fede, sebbene abbia dovuto sforzarsi di conciliarle eroicamente? Così come l’ha studiata da giovane chierico, essa parte dall’agnosticismo di Emmanuel Kant (1724-1804).
Per il filosofo di Koenigsberg, le nostre idee generali non fondano la loro necessità sulla natura delle cose, che è inconoscibile, ma sulla sola ragione e le sue «categorie a priori» innate di sostanza, causalità, ecc. Solo la ragione dà la sua struttura e la sua intelligibilità al reale.

Noi delle cose conosciamo a priori [cioè in modo necessario], solo quello che noi stessi vi mettiamo [afferma Kant (26)].

La moderna scienza fisica seguiva già con frutto questo idealismo, sostenendo che la natura del mondo fisico resta opaca alla ragione e che noi possiamo solo ricavarne delle rappresentazioni matematiche e simboliche, con delle ipotesi scientifiche, opere della ragione, che costringono la natura a comparire davanti al suo tribunale per costringerla, con la sperimentazione, a confermare l’a priori del giudice. Una volta confermata, l’ipotesi viene dichiarata teoria scientifica, ma non per questo essa non continua ad essere un’ipotesi provvisoria e sempre perfettibile.
Kant vuole applicare questo razionalismo alla conoscenza delle operazioni della stessa intelligenza sui dati della conoscenza sensibile. È il nostro intelletto, egli dice, che applica alle cose le sue categorie a priori.
Egli non vede che gli esseri reali più immediatamente percepiti dall’intelligenza, come lo stesso essere, o la sostanza o l’essenza di una cosa, sono invece intelligibili con la semplice astrazione che ne opera l’intelletto a partire dai dati dell’esperienza sensibile. In particolare, il primo conosciuto dalla nostra intelligenza è l’essere delle cose sensibili:

Ciò che è concepito per primo dall’intelligenza è l’essente; poiché ogni cosa è suscettibile di essere conosciuta secondo ciò che essa è in atto […]. È per questo che l’oggetto proprio dell’intelligenza è l’essente; che è dunque il primo intelligibile, come il suono è il primo oggetto dell’udito (27).

E su questo apprendimento dell’essere si fonda la conoscenza naturale dei principi primi: l’essere non è il non-essere; tutto ciò che avviene ha una causa; ogni agente agisce per uno scopo; ogni natura è fatta per qualcosa, ecc.
Al contrario, le conseguenze della non conoscenza o agnosticismo kantiano sono catastrofiche: l’essere in quanto essere è inconoscibile; l’analogia dell’essere è indecifrabile, il principio di causalità non ha alcun valore metafisico; dunque non si può provare l’esistenza di Dio a partire dalle cose del mondo, ed una qualunque analogia tra la creatura e il Creatore è inconoscibile, cioè blasfema.
(su)

L’agnosticismo kantiano, padre del modernismo

Ne consegue che la ragione non può conoscere né l’esistenza né le perfezioni di Dio. Tale agnosticismo quindi incappa in questo rimprovero della Sapienza:

Davvero stolti per natura tutti gli uomini che vivevano nell'ignoranza di Dio, e dai beni visibili non riconobbero colui che è, non riconobbero l'artefice, pur considerandone le opere (28).

E poiché l’analogia con Dio è impossibile, parimenti le analogie rivelate che ci svelano i suoi misteri soprannaturali sono delle metafore; così ogni parola di Dio non può essere che allegoria e inversamente ogni discorso umano su Dio non può essere che mitologia. Si tratta dello stesso principio del modernismo condannato da San Pio X un secolo più tardi: i fatti evangelici derivano da affabulazioni e i dogmi da una trasfigurazione della realtà in funzione dei bisogni religiosi. I dogmi hanno un senso pratico e morale che corrisponde ai nostri bisogni religiosi, il loro senso intellettuale è derivato e subordinato. Il loro principio generatore è interiore all’uomo, è il principio di immanenza (29). Per esempio, già per Kant la Trinità simboleggia l’unione in un solo essere delle tre qualità di bontà, santità e giustizia; il Figlio di Dio incarnato non è un essere soprannaturale, ma un ideale morale, quello dell’uomo eroico (30). Così che i dogmi non sarebbero che dei simboli degli stati d’animo.
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L’autonomia della ragion pratica, madre dei Diritti dell’uomo senza Dio

D’altra parte, in morale, secondo il senso comune, la natura umana e le sue operazioni naturali sono definite dai loro fini, esattamente come la natura e i modi di operare della lavandaia sono definiti dal suo scopo. Ora, Kant ricusa lo stesso principio di finalità e quindi la conoscenza della nostra natura. Egli ignora che questa natura è fatta per la felicità e che la vera felicità consiste nel vedere Dio, che è il Sommo Bene. Inoltre, egli nega l’analogia tra il bene sensibile, oggetto del desiderio, e il bene morale, fine della volontà secondo la filosofia perenne. La nozione di bene non si acquisisce a partire dall’esperienza sensibile e l’esistenza del Sommo Bene è inconoscibile. Che cos’è allora la moralità? Per Kant, l’atto buono non è quello che ha un oggetto e un fine conformi alla natura umana (inconoscibile) e che ordina da sé l’uomo ad un fine ultimo, ma è l’agire indipendentemente da ogni oggetto e da ogni fine, per puro dovere, è la pura buona volontà:

Ciò che permette che la buona volontà sia tale – egli dice – non sono le sue opere o i suoi successi, non è l’attitudine a raggiungere tale o tal’altro scopo propostosi, è solamente il volere, vale a dire che essa è buona di per sé
(31).


Si tratta proprio del rifiuto della causa finale, della negazione del bene come fine dei nostri atti, dell’esclusione di Dio Sommo Bene e sommo legislatore. Si tratta della proclamazione dell’«autonomia della ragion pratica», della teoria tedesca dei francesi Diritti dell’uomo del 1789. È l’uomo che prende il posto di Dio.
La virtù kantiana consiste nell’agire per «mantenere la dignità dell’umanità nella propria persona (32)». E siccome una tale virtù, quasi stoica, non coincide in terra con la felicità, egli postula l’esistenza di un Dio rimuneratore nell’al di là, un Deus ex machina provvisorio e ipotetico di cui «non si potrebbe dire che esista al di fuori del pensiero razionale dell’uomo (33)».
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Riconciliare i Lumi e il cristianesimo

Anche se sembra riprovare una tale «religione entro i limiti della sola ragione», Joseph Ratzinger ammira Kant, il filosofo dei Lumi per eccellenza. Egli saluta «l’enorme sforzo» di chi ha saputo «cogliere la categoria del bene» - è il colmo!-. Egli proclama l’attualità dei Lumi, nel suo discorso a Subiaco, il 1 aprile 2005, un mese prima di diventare papa. Egli parla dell’attuale cultura dei Lumi, come di quella dei diritti della libertà, di cui enumera i principali, aggiungendo:

- «È evidente che questo canone della cultura illuminista, tutt’altro che definitivo, contiene valori importanti dei quali noi, proprio come cristiani, non vogliamo e non possiamo fare a meno; […] … indubbiamente si è arrivati a delle acquisizioni importanti che possono pretendere una validità generale: l’acquisizione che la religione non può essere imposta dallo Stato, ma che può essere accolta soltanto nella libertà; il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo uguali per tutti; la separazione dei poteri e il controllo del potere.».


- Ma, obietta nondimeno Joseph Ratzinger, questa cultura illuminista è una cultura laica, senza Dio, antimetafisica perché positivista e basata su un’autolimitazione della ragion pratica, in cui «l’uomo non ammette più alcuna istanza morale al di fuori dei suoi calcoli». Di conseguenza, «ci sono anche diritti dell’uomo contrastanti, come per esempio nel caso del contrasto tra la voglia di libertà della donna e il diritto alla vita del nascituro. […] Una confusa ideologia della libertà conduce ad un dogmatismo che si sta rivelando sempre più ostile verso la libertà» (34). Per la sua assolutezza, «questa cultura illuminista radicale» si oppone alla cultura cristiana (35).

- Come superare questa opposizione? Ecco la sintesi.
Per un verso, è necessario che il cristianesimo, religione del logos, secondo la ragione, ritrovi le sue radici nell’originario «illuminismo filosofico» che fu la sua culla e che abbandonando i miti si volse alla ricerca della verità, del bene e dell’unico Dio. Così facendo, questo cristianesimo nascente «ha negato allo Stato il diritto di considerare la religione come una parte dell’ordinamento statale, postulando così la libertà della fede (36)».
Per l’altro verso, bisogna che la cultura illuminista ritorni alle sue radici cristiane. Ma sì: proclamando la dignità dell’uomo, verità cristiana: «l’illuminismo è di origine cristiana ed è nato non a caso proprio ed esclusivamente nell’ambito della fede cristiana». (sic).
Questo fu, del resto, sottolinea il futuro Benedetto XVI, il lavoro del Concilio, la sua intenzione fondamentale, esposta nella sua dichiarazione «sulla Chiesa nel mondo contemporaneo», la Gaudium et spes:

[Il Concilio] ha nuovamente evidenziato questa profonda corrispondenza tra cristianesimo ed illuminismo, cercando di arrivare ad una vera conciliazione tra Chiesa e modernità, che è il grande patrimonio da tutelare da entrambe le parti (37).

Per far questo, il futuro papa ritiene che Kant, malgrado il suo agnosticismo, possa essere tenuto in considerazione:
 
Kant aveva negato che Dio possa essere conoscibile nell’ambito della pura ragione, ma nello stesso tempo aveva rappresentato Dio, la libertà e l’immortalità come postulati della ragione pratica, senza la quale, coerentemente, per lui non era possibile alcun agire morale. La situazione odierna del mondo non ci fa forse pensare di nuovo che egli possa aver ragione? (38) .
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Alla ricerca di una nuova filosofia realista

A partire dal suo primo amore per Kant, mai rinnegato, l’itinerario intellettuale del giovane seminarista di Freising ha condotto Joseph Ratzinger alla moderna filosofia tedesca. È lui che lo racconta nelle sue memorie. Consigliato dal mio istitutore Alfred Läpple,

lessi i due volumi di Steinbüchel, dedicati alla fondazione filosofica della teologia morale, che erano appena apparsi in nuova edizione e vi trovai soprattutto un’eccellente introduzione al pensiero di Heidegger e Jasper, come anche alle filosofie di Nietzsche, Klages, Bergson. Ancora più importante fu un’altra opera di Steinbüchel, La svolta del pensiero: come si riteneva di poter constatare in fisica l'abbandono dell'immagine meccanicistica del mondo e una svolta verso una nuova apertura all’Ignoto e anche all’Ignoto conosciuto - Dio -, così si riteneva di poter osservare anche in filosofia un ritorno alla metafisica, che da Kant in avanti era stata ritenuta inadeguata.

Si sa che il fisico Werner Karl Heisenberg (1901-1976) ha elaborato nel 1927 una teoria sulla posizione statistica delle particelle atomiche e molecolari, nota col nome di «principio di indeterminazione». Nel 1963, il nostro professore di scienze fisiche a Parigi, il Signor Buisson, derideva il fatto che certi incauti filosofi pensassero di applicare questa teoria alla sostanza e alla natura, le quali ormai dovrebbero essere considerate come indeterminate e quindi instabili! È incredibile dover constatare come la confusione tra la sostanza e la quantità abbia potuto far perdere la testa agli pseudo-filosofi degli anni cinquanta e perfino agli pseudo-teologi.

Steinbüchel, che aveva iniziato il suo cammino con degli studi su Hegel e sul socialismo, presentava nel libro citato lo sviluppo, dovuto in particolare a Ferdinand Ebner, del personalismo che anche per lui era divenuto una svolta nel suo cammino culturale. L'incontro con il personalismo, che poi trovammo esplicitato con grande forza persuasiva nel grande pensatore ebreo Martin Buber, fu un evento che segnò profondamente il mio cammino spirituale, anche se il personalismo, nel mio caso, si legò quasi da sé con il pensiero di Agostino che, nelle Confessioni, mi venne incontro in tutta la sua passionalità e profondità umane (39).
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Ricaduta nell’idealismo: Husserl

La svolta del pensiero moderno comincia con la fenomenologia. Edmund Husserl (1859-1938), professore in diverse università tedesche, volle reagire all’idealismo di Kant e andare «alle cose in se stesse». Molto bene. Ma per cogliere le verità indubitabili egli pratica una sorta di metodica dubbia, l’«epochè», che in greco significa “sospensione del giudizio”, e «taccia di nullità» tutto ciò che non è «autentico». Egli non nega l’esistenza delle cose esteriori, ma le mette «tra parentesi»: così l’esperienza si vede «ridotta» a ciò che è «dato», a ciò che appare, a ciò che si manifesta «autenticamente». Ora, l’esigenza di questo procedimento conduce Husserl a professare provvisoriamente il contrario di ciò che si aspetta: il reale assoluto non è più la cosa esterna alla mente, ma il «dato», e cioè il vissuto dell’atto del mio guardare il mio oggetto mentale, nel quale io mi trovo preso a pensare qualcosa.

Per la coscienza – dice Husserl - il dato resta essenzialmente quello che è, sia che l’oggetto esista oppure che esso sia solo immaginario o addirittura assurdo (40).
È chiaro, in ogni caso, che tutto ciò che è nel mondo delle cose, per principio non è per me che una realtà presunta. Al contrario, io stesso […] o se si vuole, l’attualità del mio vissuto, è una realtà assoluta. […] La coscienza, considerata nella sua purezza, dev’essere ritenuta un sistema d’essere chiuso in se stesso, un sistema assoluto (41).

Curiosamente, nella stessa epoca si ritrova nel modernismo lo stesso disinteresse per la realtà applicato alla religione: poco importa la realtà dei misteri della fede, l’importante è che essi esprimano i problemi e i bisogni religiosi del credente e l’aiutino a risolverli e a colmarli. Fu Alfred Loisy (1857-1940), esatto contemporaneo di Husserl, che sostenne questa «epochè» sui dogmi. Queste idee erano già nell’aria.
Con Husserl e la sua crisi estrema dell’idealismo, la «svolta del pensiero» evocata da Joseph Ratzinger era ancora problematica.
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L’esistenzialismo di Heidegger

Si comprende come l’esistenzialismo potesse costituire una boccata d’aria pura, l’esistenzialismo come quello di Heidegger, professore a Fribourg im Breisgau. Martin Heidegger (1889-1976) volle evitare la ricaduta di Husserl nell’idealismo e si applicò agli essenti, della cui esistenza siamo interpellati dal fatto che sono gettati nell’esistenza. Finalmente, direte voi, eccoci usciti dall’ideale e ritornati al reale! Eh, no! L’essente è soprattutto la persona e le condizioni generali della sua affermazione. Per l’esistenzialismo in generale, esistere è fare uscire se stesso da ciò che non si era, per mezzo della libera scelta di un destino; in questo senso, «l’esistenza precede l’essenza», il divenire precede l’essere. Definire la natura delle cose è fissismo. – L’agnosticismo kantiano è vivace! La differenza sta nel fatto che l’essere si definisce per la sua azione, come in Maurice Blondel (1861-1949).
Per Heidegger, il soggetto non è costituito staticamente, dalla sua natura, ma dal suo dinamismo, dai suoi rapporti con gli altri. Gettato nell’esistenza ed esposto alla brusca impressione «di trovarmi là» e al senso di «derelizione», io mi libero dalle mie angosce proiettandomi in avanti, accettando coraggiosamente il mio destino e prendendo la decisione di assumere il mio posto nel mondo, di «superarmi» dandomi agli altri che esistono con me e consentendo loro di essere autenticamente.
Joseph Ratzinger applicherà alla cristologia l’idea di auto superamento come compimento di sé: Cristo sarà l’uomo che si è pienamente superato, con l’unione ipostatica e anche, differentemente, con la croce.
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La filosofia dei valori di Max Scheler

Un altro discepolo di Husserl, Max Scheler (1874-1928), professore a Francoforte, è il fondatore della filosofia dei valori. Secondo questa teoria, la vita umana e comunitaria è diretta, non dai principi – che la ragione astrae dall’esperienza delle cose e che sono fondati sulla natura umana, le sue finalità e il suo Autore -, ma da uno stato d’animo, un senso della vita e dell’esistenza che è illuminato comunque da dei valori immutabili, trascendentali, che si impongono a priori (come direbbe Kant): libertà, persona, dignità, verità, giustizia, concordia, solidarietà. Si tratta di ideali, di idee forza che devono essere vissute nell’azione, nell’impegno a servizio degli altri, e con le quali tutti devono essere in comunione, seppure in maniera differente a seconda delle culture e delle religioni.
Il Concilio, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI sono imbevuti di questa filosofia dei valori.

In questa luce, il Concilio si propone innanzitutto di esprimere un giudizio su quei valori che oggi sono più stimati e di ricondurli alla loro divina sorgente. Questi valori infatti, in quanto procedono dall'ingegno umano che all'uomo è stato dato da Dio, sono in sé ottimi (42).

Mi sembra doveroso aggiungere: la comunità ecclesiale è ben conscia di non poter essere la sola promotrice di valori nella società civile. […] Parimenti, l’operosa partecipazione di tutti gli enti e movimenti ecclesiali alla vita del Paese, in un dialogo aperto con tutte le altre forze, garantisce alla società italiana un insostituibile contributo di alta ispirazione morale e civile (43).

Sarebbe assurdo voler ritornare indietro, ad un sistema di cristianità politica […]. Noi non pensiamo di imporre il cattolicesimo all’Occidente. Ma vogliamo che i valori fondamentali del cristianesimo e i valori liberali dominanti nel mondo odierno possano incontrarsi e fecondarsi a vicenda (44).

Questo significa sopprimere la causa finale e la causa efficiente dell’uomo e della società e costruire la politica sul formalismo kantiano.
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Personalismo e comunione delle persone

Scheler è l’autore di un esistenzialismo o personalismo cristiano. Sulla base della stessa confusione tra essere ed agire che è di Blondel e di Heidegger, Scheler afferma che l’«io» risulta dalla sintesi di tutti i miei fenomeni vitali di conoscenza, istinto, sentimento, passione, soprattutto amore, una sintesi che trascende ciascuno di questi fenomeni tramite un «inafferrabile più». In questo valore superiore si scopre la persona come «l’unità concreta dell’essere nei suoi atti». La persona esiste nei suoi atti.
L’amore fa raggiungere alla persona il suo «valore più elevato» nell’intersoggetività in cui l’amore partecipa del vissuto dell’altro e si fa solidale.
Il Concilio vi si ispirerà per dichiarare:

Questa similitudine manifesta che l’uomo, il quale in terra è la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stesso, non possa ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé (45).

Ecco una visione fenomenologica della carità, molto propria di Scheler. Ma il pericolo è di ridurre la redenzione ad un atto divino di solidarietà. Joseph Ratzinger cadrà in questa bizzarria. Max Scheler arriva ad affermare che Dio ha bisogno di comunicarsi ad altri, diversamente la solidarietà disinteressata che è propria dell’essenza dell’amore in Lui non sarebbe autentica. Joseph Ratzinger applicherà questi eccessi di intersoggettività alle processioni delle persone divine nella Santissima Trinità.
Secondo Scheler, la persona non è solo individuale e «irripetibile», ma anche plurale e comunicante. Appartiene alla sua essenza far parte di una comunità che è un Miterleben, un «vivere con», una comunione di esperienze.
Karol Wojtyla (1920-2005), il futuro Papa Giovanni Paolo II, si fa ardente discepolo di Scheler, di cui intende rimediare l’etica inesistente (46) senza correggerne la metafisica della persona. Per Wojtyla « la persona si realizza per la sua comunione (o partecipazione, comunicazione, Teilhabe) con altre persone (47) ». La persona è relazione o tessuto di relazioni.
Non è un nonsenso? Filosoficamente parlando, la persona è per eccellenza una sostanza e non un accidenti o una collezione di accidenti. «La persona è ciò che vi è di più perfetto in natura» spiega San Tommaso (48). È evidente che questo «di più perfetto» attiene al sussistere in se stesso e non in un altro. Si rivela dunque ben preziosa la definizione di persona data da Boezio e mantenuta da San Tommaso: «Hoc nomen persona significat subsistentem in aliqua natura intellectuali: il nome “persona” significa il sussistente di una natura intellettiva. (49
Ora, abbandonato questo sano realismo, ogni personalismo adotta la definizione relazionale della persona; e l’applicazione di questa definizione alla vita sociale sembra del tutto naturale: la comunione – dice Wojtyla – non è qualcosa che viene alla persona dal di fuori, ma è l’atto stesso della persona, che la dinamizza e che le rivela, nell’unità con l’altro, la sua interiorità di persona (50).
Il Concilio riprenderà quest’idea:

Dal carattere sociale dell'uomo appare evidente come il perfezionamento della persona umana e lo sviluppo della stessa società siano tra loro interdipendenti. Infatti, la persona umana, che di natura sua ha assolutamente bisogno d’una vita sociale, [inciso tomista…] è e deve essere principio, soggetto e fine di tutte le istituzioni sociali. Poiché la vita sociale non è qualcosa di esterno all’uomo, l’uomo cresce in tutte le sue capacità e può rispondere alla sua vocazione attraverso i rapporti con gli altri, la reciprocità dei servizi e il dialogo con i fratelli [Gaudium et spes, 25 §1].

Vedremo più avanti l’applicazione di questo principio alla Chiesa e alla società politica: se la persona costituisce da se stessa la società, ne consegue che si possa far a meno della causa finale della società, a meno che non si faccia della persona il fine della società.
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Il dialogo «Io-Tu» secondo Martin Buber

Joseph Ratzinger ha raccontato come grazie alla lettura di Steinbüchel fece la conoscenza di Martin Buber: «L’incontro con il personalismo, che poi trovammo esplicitato con grande forza persuasiva nel grande pensatore ebreo Martin Buber, fu un evento che segnò profondamente il mio cammino spirituale (51)».
L’opera centrale di Martin Buber (1878-1965), Io e Tu (Ich und Du, 1923) colloca la relazione all’inizio dell’esistenza umana.
Questa relazione è sia un «io-esso», come nell’universo tecnico, sia un «io-tu». L’«io-esso», nelle relazioni umane, “cosifica” il prossimo, considerato come un puro oggetto o un semplice mezzo. Al contrario, l’«io-tu» instaura con l’altro una reciprocità, un dialogo, che mi pone e nel contempo pone l’altro come soggetto. Buber è il pensatore dell’intersoggettività. Se l’«io-esso» è necessario o utile per il funzionamento del mondo, solo l’«io-tu» libera la verità ultima dell’uomo e apre così una vera relazione tra l’uomo e Dio, il Tu eterno (52).
La relazione con l’altro, che attiene alla natura sociale dell’uomo, è importante, insieme con l’ascendente, l’autorità, l’influenza, la chiamata, l’invito, la risposta, l’obbedienza, ma il pericolo sta nel fare di questa relazione il fattore costitutivo della persona, quando invece essa è solo una delle sue perfezioni. Del resto, Buber non ha scoperto niente di nuovo in materia, poiché già Aristotele (384-322 a. C.) faceva dell’amicizia la virtù che completa la vita intellettuale e la felicità. Lui la definiva come «un mutuo amore fondato sulla comunicazione di qualche bene (53)», come la riporta San Tommaso (1225-1274) che, andando ben al di là di Buber, fa della carità (amore di Dio) una vera amicizia:

Ora, essendoci una certa comunanza dell’uomo con Dio, in quanto questi ci rende partecipi della sua beatitudine, è necessario che su questa comunicazione si fondi un’amicizia. E di questa compartecipazione così parla S. Paolo [1 Cor 1, 9]: «Fedele è Dio, dal quale siete stati chiamati alla comunione del Figlio suo». Ma l’amore che si fonda su questa comunicazione è la carità. Quindi è evidente che la carità è una certa amicizia dell’uomo con Dio (54).

Inoltre, nel dominio religioso, il pericolo è di confondere questa carità con la fede e di fare della fede in Dio un dialogo del credente con Dio che «l’interpella», prescindendo dal contenuto concettuale della fede, e cioè dalle verità che Dio ha rivelato – non a me, ma ai profeti e agli Apostoli – e che la Chiesa insegna. Basta vedere come lo stesso Buber confonda Rivelazione, esperienza, incontro, fede e relazione reciproca:

La Rivelazione è l’esperienza che si fonda sull’uomo in maniera inattesa […]. Questa esperienza è quella dell’incontro di un Tu eterno, un Tutt’Altro che si rivolge a me, che mi chiama per nome […]. L’immagine dell’incontro traduce […] con pertinenza l’essenza dell’esperienza religiosa. Il Tu come presenza agente e non oggettivabile mi viene incontro e attende da me l’instaurazione di una relazione reciproca nella fede (55).

C’è da sperare che Joseph Ratzinger non abbia fatto questa confusione tra fede, Rivelazione e relazione reciproca, e che non abbia trascurato il contenuto della fede, e cioè le verità rivelate. È quello che il seguito di questo mio lavoro cercherà di delucidare, prima attraverso l’itinerario teologico di Joseph Ratzinger, poi con lo studio più accurato della nozione di fede che il futuro Benedetto XVI ha sviluppato nel corso della sua carriera. Ma per intanto, soffermiamoci su un ultimo filosofo a cui si è interessato lo studente di Monaco.
(su)

L’«uscita da sé» secondo Karl Jasper

Come confessato da Joseph Ratzinger stesso, vi fu un altro esistenzialista e personalista, Jasper, che colpì il giovane filosofo di Freising.
Karl Jasper (1883-1969), professore ad Heidelberg, è considerato un esistenzialista e un personalista cristiano, benché non abbia saputo riflettere sulla personalità di Dio. Egli propone un’analogia naturale della carità verso il prossimo: la comunione. In effetti vi è poco di originale rispetto a Scheler e ad Heidegger. Egli mette in risalto l’esperienza della comunicazione amorosa, fatta di rispetto per la personalità misteriosa dell’«altro», che comunque si può toccare e a cui ci si vuol dare. Questa uscita da sé (Ek-Stase) verso l’altro fornirà a Joseph Ratzinger un substrato filosofico per le considerazioni sulla teologia mistica di Dionigi sull’amore estatico dell’anima per Dio, e per una nuova interpretazione dell’amore redentore di Cristo come «uscita da sé», ma in contrapposizione con il pessimismo di Heidegger per il quale l’«uscita da sé» è la soluzione all’angoscia dell’esistenza votata alla morte.

Cristo, portando l’essere umano a Dio, lo porta anche alla salvezza. […] È un fatto spiccatamente “antropocentrico”, vale a dire centrato sull’uomo, proprio perché è stato un radicale teocentrismo, ossia una consegna incondizionata dell’“io”, e quindi dell’essenza dell’uomo, a Dio. Ora, siccome questo esodo dell’amore costituisce l’estasi [Ek-Stase] dell’uomo, vale a dire lo slancio con cui egli si proietta fuori di sé protendendosi infinitamente sopra se stesso, quasi strappandosi alla sua natura e librandosi arditamente alto, oltre tutte le sue apparenti possibilità d’impennata, proprio per questo motivo l’adorazione (sacrificio) è sempre simultaneamente anche croce, dolore, dissociazione, morte del granello di frumento, che solo morendo è in grado di portare frutto (56).

Non siamo di fronte ad una reinterpretazione personalista o esistenzialista della redenzione? La croce non sarebbe il supplizio di Gesù sul legno della croce; certo, non è, come in Heidegger, l’estensione nel futuro per sfuggire al presente, ma diventa l’estensione fuori di sé per mezzo dell’amore che «forza il terreno per sbocciare, crocifigge, lacera e fa male (57)». In questa prospettiva fatalmente naturalista, dov’è il peccato? Dov’è il riscatto?
Per uno spirito che cerca di conciliare la «ragione moderna» con la fede cristiana, il pericolo nel voler trovare, con Heidegger o Jasper, delle basi naturali ed esistenziali alle realtà soprannaturali, è di soccombere ad una tentazione troppo naturale: invece di un’analogia ascendente, attuare una riduzione discendente dei misteri soprannaturali. Non fu questo il procedimento delle eresie gnostiche?
D’altronde, Jasper eccelle nella bizzarria di confondere naturale e soprannaturale. Il suo metodo dei «paradossi» consiste nel trovare delle soluzioni soprannaturali per le apparenti contraddizioni dell’ordine naturale. Giovanni Paolo II sembra essere incappato in questa bizzarria nella sua enciclica del 6 agosto 1993 sulla norma della moralità: la sua lettera si presenta come la soluzione moderna di una antinomia moderna:

…come può l'obbedienza alle norme morali universali e immutabili rispettare l'unicità e l'irripetibilità della persona e non attentare alla sua libertà e dignità? (58)

La dignità è pensata in maniera personalista, come inviolabilità, e non in maniera tomista, come virtù. Da qui: a falso problema, falsa soluzione:
Cristo crocifisso rivela il senso autentico della libertà, lo vive in pienezza nel dono totale di sé [VS 85].
…il dono di sé nel servizio a Dio e ai fratelli. [realizza] la piena Rivelazione del vincolo indissolubile tra libertà e verità [VS 87].

Questo è vero a livello soprannaturale. Ma non è sproporzionato dare ad una questione filosofica una soluzione teologica soprannaturale: la croce? La vera soluzione dell’antinomia è tomista: la libertà è la facoltà di muoversi nel bene (59); ed è compito della legge morale indicare ciò che è bene, tutto qui.
Questa falsa antinomia rivela l’incapacità della filosofia soggettivista di formulare le domande vere. Come apprendere il mistero di Dio, se il primo oggetto dell’intelligenza non è l’essere, ma il soggetto pensante o il soggetto interpellato? Se la nozione di essere non permette di risalire, per analogia, dagli essere creati all’Essere supremo? Si è ripiegato sulla genesi immanente dei dogmi, secondo la teoria modernista condannata dalla Pascendi. Come cogliere la nozione del bene, la ratio boni, se il pensiero non può risalire per analogia dal bene sensibile al bene morale? Se l’intelligenza non conosce la natura umana e i suoi fini, e il fine ultimo? Alla morale della persona è
subentrata la morale del soggetto inviolabile o quella della relazione sussistente. Comunque la si guardi, si tratta di un vicolo cieco.
(su)

NOTE

26  - EMMANUEL KANT, Critique de la raison pure, prefazione alla 2a edizione, III, 13.
27  - «Primo in conceptione intellectus cadit ens; quia secundum hoc unumquodque cognoscibile est in quantum est actu; unde ens est proprium objectum intellectus, et sic est primum intelligibile, sicut sonus est primum audibile» (Summa Theologiae, I, q. 5, a. 2).
28  - Sapienza, 13, 1.
29  - SAN PIO X, enciclica Pascendi dominici gregis, n° 9 e 13, Dz 2076 e 2079 [DS 3479-3483].
30  - EMMANUEL KANT, La Religion dans les limites de la simple raison, (1773). [La religione entro i limiti della sola ragione].
31  - EMMANUEL KANT, Fondements de la metaphysique des moeurs (1785), Vrin (traduction Delbos), 1982, p. 81. [Fondazione della metafisica dei costumi].
32  - EMMANUEL KANT, Critique de la raison pratique (1788). Paris, PUF, 1965, pp. 92-93. [Critica della ragion pratica].
33  - EMMANUEL KANT, Opus postumum, Convolutm, VII. [Opus postumum, La Terza, Bari]
34  - J. RATZINGER, Conferenza a Subiaco, Documentation catholique, anno 2005, fuori serie, p. 121-122 [«Conferenza a Subiaco», 1 aprile 2005, contenuta in JOSEPH RATZINGER, L'Europa di Benedetto nella crisi delle culture, ed. Cantagalli, Siena, 2005.].
35  - J. Ratzinger , ibid.
36  - J. Ratzinger , ibid., p. 124.
37  - J. Ratzinger , ibid.
38  - J. Ratzinger , ibid., pp. 124-125
39  - J. RATZINGER, Ma vie, souvenirs, 1927-1977, Paris, Fayard, 1998, p. 52. [La mia vita. Autobiografia, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1997, riedizione 2005, pp. 43-44].
40  - HUSSERL, Recherches logiques, II, 2° parte, trad. H. Hélie, PUF, 1970, p. 151. [Ricerche logiche].
41  - HUSSERL, Idées directives, trad. Ricoeur, Gallimard, 1950, p. 164. [Idee direttrici].
42  - VATICANO II, Gaudium et spes, 11, § 2.
43  - GIOVANNI PAOLO II, Discorso rivolto al Presidente Bettino Craxi in occasione della ratifica del nuovo Concordato, 3 giugno 1985, 4 e 3.
44  - J. RATZINGER, Intervista al quotidiano Le Monde, 17 novembre 1992.
45  - VATICANO II, Gaudium et spes, 24, § 3.
46  - «Si in luce ambulamus – dice San Giovanni - societatem habemus ad invicem (se camminiamo nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri)» (I Gv. 1, 7); la società è questione di virtù.
47  - K. WOJTYLA, Person und Tat, Freiburg, Herder, 1981, ch. 7, n° 9, p. 311 e 341. [Persona e atto, Bompiani (Testi a fronte), 2001, pp. 679-684].
48  - «Persona est perfectissimum in natura». Summa Theologiae, I, q. 29, a. 3.
49  - Summa Theologiae, I, q. 39, a. 3, ob 4.
50  - ROCCO BUTTIGLIONE, La pensée de Karol Wojtyla, Communio-Fayard, 1984, p. 291. [Il pensiero di Karol Wojtyla. Jaca Book, Milano 1982].
51  - J. RATZINGER, Ma vie, souvenirs, 1927-1977, Paris, Fayard, 1998, p. 52. [La mia vita. Autobiografia, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1997, riedizione 2005, p. 44].
52  - Nostro compendio di G. BENSUSSAN, art. «Buber», in JEAN-FRANÇOIS MATTÉI, Encyclopédie philosophique universelle, Paris, PUF, 1972, t. 2, pp. 2301-2302.
53  - «Mutua amatio [quae] fundatur super aliqua communicatione», Summa Theologiae, II II, q. 23, a. 1.
54  - Summa Theologiae, II II, q. 23, a. 1.
55  - M. BUBER, Eclipse de Dieu, Paris, Nouvelle Cité, 1987, p. 35 [L’eclissi di Dio, Bagno a Ripoli, Passigli Editore, 2001]; citato da DANIEL TANGAY, Leo Strauss, une biographie intellectuelle, Paris, Livre de poche, p. 296.
56  - J. RATZINGER, Foi chrétienne hier et aujourd’hui, pp. 203-204. [Introduzione al Cristianesimo, 1969, Queriniana, Brescia, nuova ed. 2000, p. 234].
57  - J. RATZINGER, Foi chrétienne hier et aujourd’hui, p. 204. [Introduzione al Cristianesimo, 1969, Queriniana, Brescia, nuova ed. 2000, p. 234].
58  - GIOVANNI PAOLO II, Veritatis splendor, n° 85.
59  - LEONE XIII, Enciclica Libertas, 20 giugno 1888, n° 8.
(su)


febbraio 2011

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