S. Ecc. Mons. Bernard Tissier de Mallerais
della Fraternità Sacerdotale San Pio X


LA FEDE IN PERICOLO PER LA RAGIONE

ERMENEUTICA DI BENEDETTO XVI

EPILOGO - ERMENEUTICA DEI FINI ULTIMI

Questo studio è stato pubblicato sul n° 69 (estate 2009) della rivista Le Sel de la Terre - Intelligence de la foi -  Rivista trimestrale di dottrina tomista a servizio della Tradizione
La rivista, curata da Padri Domenicani collegati alla Fraternità Sacerdotale San Pio X, è una pubblicazione cattolica di scienze religiose e di cultura cristiana, posta  sotto il patronato di San Tommaso d’Aquino, in forza della sicurezza della dottrina e della chiarezza d’espressione del “Dottore Angelico”. Essa si colloca nel quadro della battaglia per la Tradizione iniziata da
Mons. Marcel Lefebvre e si presenta in maniera tale da potersi rivolgere ad ogni cattolico che voglia approfondire la propria fede.


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Lo studio in formato pdf

 

Epilogo
Ermeneutica dei fini ultimi

Quarant’anni separano Foi chrétienne [Introduzione al cristianesimo] di Joseph Ratzinger e Spes salvi di Benedetto XVI (enciclica del 30 novembre 2007). Il pontefice teologo ha ritrattato le sue opinione del passato? Ha cambiato metodo?

Ritrattazioni

Sì, Benedetto XVI sembra aver cambiato la sua opinione sulla redenzione e sulla passione di Cristo:

L'uomo ha per Dio un valore così grande da essersi Egli stesso fatto uomo per poter com-patire con l'uomo, in modo molto reale, in carne e sangue, come ci viene dimostrato nel racconto della Passione di Gesù. [Spes salvi, n° 39]
In fin dei conti, questa sporcizia è già stata bruciata nella Passione di Cristo. [Spes salvi, n° 47]

«L'Oriente non conosce una sofferenza purificatrice ed espiatrice delle anime nell’“aldilà”» (n° 48), dice Benedetto XVI, a significare che invece l’Occidente la conosce benissimo.
Ma ecco che l’offerta delle pene quotidiane, che raccomanda nella Spes salvi, è vista da lui più come una compassione che come un’espiazione propriamente detta, che avrebbe invece un aspetto «malsano»:

Faceva parte di una forma di devozione, oggi forse meno praticata, ma non molto tempo fa ancora assai diffusa, il pensiero di poter «offrire» le piccole fatiche del quotidiano, […] conferendo così ad esse un senso. In questa devozione c’erano senz’altro cose esagerate e forse anche malsane, ma bisogna domandarsi se non vi era contenuto in qualche modo qualcosa di essenziale che potrebbe essere di aiuto. Che cosa vuol dire «offrire»? Queste persone erano convinte di poter inserire nel grande com-patire di Cristo le loro piccole fatiche, che entravano così a far parte in qualche modo del tesoro di compassione di cui il genere umano ha bisogno. In questa maniera anche le piccole seccature del quotidiano potrebbero acquistare un senso e contribuire all’economia del bene, dell’amore tra gli uomini. Forse dovremmo davvero chiederci se una tale cosa non potrebbe ridiventare una prospettiva sensata anche per noi. [Spes salvi, n° 40]

La timidezza di questo «forse» e l’evidente nostalgia per queste pratiche imperfette non fanno che rafforzare l’evidenza del cambiamento di religione: l’offerta delle pene non è più riparatrice né espiatoria, poiché questo era esagerato e malsano; essa è solo una preoccupazione compassionevole, un senso di solidarietà, cioè una fraterna partecipazione alle sofferenze degli uomini, cosa di cui l’umanità ha bisogno per uscire dalla solitudine della mancanza d’amore. È solo a titolo di solidarietà che la nuova religione «potrebbe forse» recuperare questa offerta delle pene, così debitamente rivedute e corrette da una nuova «corretta ermeneutica».
Voler fuggire o sopprimere la sofferenza, aggiunge Benedetto XVI, significa «sprofondare in una esistenza vuota» in cui si trova «l’oscura sensazione della mancanza di senso e della solitudine»:

Non è lo scansare la sofferenza, la fuga davanti al dolore, che guarisce l’uomo, ma la capacità di accettare la tribolazione e in essa di maturare, di trovare senso mediante l’unione con Cristo, che ha sofferto con infinito amore [Spes salvi, n° 37].

Ma qual è questo «senso»? Perché Cristo ha sofferto? Benedetto XVI su questo tace. – Gesù Cristo ha sofferto per espiare i nostri peccati: ecco ciò che la nuova religione rigetta; essa esclude assolutamente il tesoro dei meriti e delle soddisfazioni sovrabbondanti di Cristo.
In fondo, Benedetto XVI non manifesta alcun pentimento, egli continua a non accettare il mistero della redenzione, il mistero del riscatto tramite la sofferenza. Le esigenze della giustizia divina gli fanno sempre paura; egli è vittima dell’emotività dei suoi tempi. E questa emotività passa per progresso, il quale dovrebbe condurre la dottrina della fede a «nuove sintesi», come diceva il Concilio:

Così il genere umano passa da una concezione piuttosto statica dell’ordine delle cose a una concezione più dinamica ed evolutiva. Ciò favorisce il sorgere di un formidabile complesso di nuovi problemi, che stimola ad analisi e a sintesi nuove. [Gaudium et spes, n° 5, § 2].

Con questo la Chiesa apriva ufficialmente al marxismo. Ed è in ossequio a questo spirito del Concilio che i teologi di punta abbracciarono l’evoluzionismo di Teilhard de Chardin e rilessero in chiave esistenziale il mistero della redenzione. Fu così che il vescovo di Metz, Paul Schmitt, osò dichiarare a Saint-Avold, nel settembre 1967:

Il mutamento della civiltà che noi viviamo comporta dei cambiamenti non solo nel nostro comportamento, ma anche nella concezione che abbiamo tanto della creazione quanto della salvezza apportata da Gesù Cristo (211).

E il vescovo di Arras, Gérard Huyghe, in quanto lettore e discepolo del Joseph Ratzinger di Foi chrétienne [Introduzione al cristianesimo], nella catechesi collettiva intitolata Des Évêques disent la foi de l’Église, del 1978, osava scrivere:

Non bisogna sbagliare porta per entrare nel mistero della sofferenza di Gesù. Talvolta si presenta questo mistero come un semplice (e spaventoso) intervento giuridico. Dio (il Padre!), avendo subito col peccato dell’uomo un’offesa infinita (perché?), non avrebbe accettato di perdonarlo se non dopo una «soddisfazione» (che parola orribile) infinita. [segue una citazione da la Foi chrétienne: Dio poteva esigere la morte di suo Figlio?]. Dio non vuole la morte di alcuno, né come castigo, né come mezzo di riscatto. Che la morte sia entrata nel mondo a causa del peccato, è cosa che non attiene a Dio.
Vi è una sola porta per aprirlo, una sola chiave: l’amore. Così, possiamo scartare ogni spiegazione della passione in cui Cristo non sarebbe profondamente solidale con la condizione umana […], con la condizione dell’uomo disgraziato. […] Questo amore raggiunge l’uomo, ogni qualsivoglia uomo, foss’anche un carnefice, e cambia radicalmente il suo destino. Se non si usa la chiave dell’amore si contraddice il giusto significato, la sensibilità retta e spontanea: come aprirsi a un Dio che non è Padre, che non ama, a un Moloch che aspetta la sua razione di sangue, di sofferenze e di vittime? (212).

Così l’ermeneutica praticata da Joseph Ratzinger ha avvelenato la catechesi della redenzione. Basta vedere come un vescovo tedesco, Mons. Zollitsch, predichi ancora nel maggio 2009, in un programma televisivo, la redenzione come divina solidarietà con l’umanità infelice e ferita (213). Una settimana più tardi, egli si produce in una ritrattazione nel bollettino diocesano. Ma Benedetto XVI, invece, non s’è mai pentito.
(su)

Il limbo rivisitato dall’ermeneutica

Abbiamo visto che l’interpretazione o hermeneia dei Padri presta alla fede lo strumento della filosofia dell’essere, senza introdurre a fianco della fede opinioni filosofiche o altro. Al contrario, l’ermeneutica moderna invoca i sentimenti: essa pone in antitesi alla fede tradizionale l’impressione sentimentale dell’epoca contemporanea e ne deduce delle «sintesi nuove».
Il limbo ne è la vittima. La dottrina comune della Chiesa, non definita, certo, ma comunemente ammessa, insegna che anime dei bambini morti senza battesimo, a causa del peccato originale da cui non sono state purificate, sono private della visione beatifica di Dio, ma, in forza dell’assenza in loro di ogni peccato personale, sono esentate dal fuoco dell’inferno e poste in uno stato o luogo chiamato limbo.
Ora, ecco il punto di partenza del ragionamento ermeneutico:

I genitori [dei bambini morti senza battesimo] provano un grande dolore e un senso di colpa […] trovano sempre più difficile accettare che Dio sia giusto e misericordioso se poi esclude dalla felicità eterna i bambini, siano essi cristiani o meno [sic], che non hanno peccati personali (214).

La premessa sentimentale si amplifica in un’asserzione teologica che cerca la sua giustificazione in un testo scritturale citato fuori dal suo contesto:

Dove ha abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia! [Rm 5, 20] Così proclama la Scrittura, ma il concetto di limbo sembra limitare questa sovrabbondanza. [n° 91].

Che ne è qui degli altri testi scritturali che affermano, ad rem, l’universalità del peccato originale e la necessità del battesimo per la salvezza?

Se la necessità del Battesimo è de fide, devono invece essere interpretati la tradizione e i documenti del Magistero che ne hanno riaffermato la necessità. [n° 7]
Risulta quindi necessaria una riflessione ermeneutica su come i testimoni della Tradizione [sic] (i Padri della Chiesa, il Magistero, i teologi) hanno letto e utilizzato i testi e le dottrine della Bibbia con riferimento al tema qui trattato. [n° 10]

In altre parole, l’hermeneia tradizionale è troppo semplicista, essa ha dedotto troppo rudemente il limbo dall’asserzione che solo il battesimo cancella il peccato originale. Ad essa bisogna preferirle l’ermeneutica nella quale la reazione alla parola di Dio del soggetto credente del XXI secolo, la sua «nuova riflessione» e il suo nuovo «rapporto vitale» con essa sfociano in una «sintesi di fedeltà e di dinamismo» che sarà la «giusta interpretazione» (si veda il discorso del 22 dicembre 2005).
In tal modo l’ermeneutica purifica l’hermeneia dalla sua primitiva ingenuità e l’arricchisce con i valori delle sue reazioni emotive – di cui si sforza di trovare un eco nella Bibbia citandone dei testi tratti fuori dal loro contesto: una vergogna! – Ecco perché lo statuto della ragione non è del tutto identico nella lettura tomista della Rivelazione e nella sua rilettura ermeneutica. Nella prima, la ragione, purificata da ogni soggettività, è un puro strumento dell’esplicitazione della fede; nella seconda, la ragione, impregnata di soggettività, si pone come sodale della fede e le impone le sue fisime. Al posto di lenti d’ingrandimento, l’ermeneutica preconizza lenti affumicate e deformanti.
Ora, la forma di queste lenti, la loro tinta, la fisima di questa ragione sono fatalmente la forma, la tinta e la fisima dominanti all’epoca. Questa fisima contemporanea non è né la scienza, né lo scientismo, è il sentimentalismo.
O teologi che distorcete i testi, spiriti falsi pieni d’astuzia, emotivi nemici della verità, grondanti di sentimenti e aridi di fede! Voi rileggete e rivisitate la Tradizione della Chiesa con i vostri odierni pregiudizi e dichiarate a voce alta che questa revisione riscoprirebbe «il patrimonio più profondo della Chiesa». Mentre invece, dalla Tradizione della Chiesa, dalla sua pratica costante e dal suo insegnamento immutabile dovreste trarre i principi primi e con essi condannare i vostri odierni pregiudizi.
(su)

La morte, un rimedio

Tradizionalmente, la morte è la separazione dell’anima dal corpo e la fine della vita sulla terra: essa è il più grande male temporale, quello che è più da temere. La morte non è contro natura, poiché ogni essere composto è scindibile e Dio preservava dalla morte i nostri progenitori, nel paradiso terrestre, solo per un gratuito dono preternaturale. Ma essa è di fatto la pena per il peccato: «ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando ne mangiassi, certamente moriresti» (Gn 2 17).
Questa visione della morte dev’essere rivisitata tramite l’esistenzialismo. Un sermone di Sant’Ambrogio, il suo solo sermone esistenzialista, cade a proposito:

È vero che la morte non faceva parte della natura, ma fu resa realtà di natura; infatti Dio da principio non stabilì la morte, ma la diede quale rimedio [...] A causa della trasgressione, la vita degli uomini cominciò ad essere miserevole nella fatica quotidiana e nel pianto insopportabile. Doveva essere posto un termine al male, affinché la morte restituisse ciò che la vita aveva perduto (215).

Difatti, l’Ecclesiastico (Siracide) afferma: «meglio la morte che una vita amara, il riposo eterno che una malattia cronaca» (Sir 30,17). – Riposo eterno che occorre che sia meritato, poiché il suo nemico, come per la vita, è il peccato.
E Benedetto XVI sottolinea il paradosso esistenzialista della morte:

Da una parte, non vogliamo morire; […]. Dall’altra, tuttavia, non desideriamo neppure di continuare ad esistere illimitatamente e anche la terra non è stata creata con questa prospettiva [Spes salvi, n° 11].

Io direi che questo paradosso non esiste. Posto che non insorgano grandi infermità, quale uomo non desidera continuare a vivere? Il paradosso è falso perché omette di ricordare che la morte è il salario del peccato: «stipendium enim peccati mors» (Rm 6, 23). Certo, è più positivo vedere la morte come il rimedio alla nostra temporalità, piuttosto che come una sanzione alla nostra malizia. La religione viene così resa più accettabile alla nostra fragile generazione. Ma perché nasconderci che Gesù, con la croce, ha fatto della morte un rimedio vero: l’espiazione del peccato?
(su)

La vita eterna, immersione nell’amore

La vita eterna, insegna Benedetto XVI, non è «una vita interminabile», idea «che fa paura»; essa è, come dice Sant’Agostino, «la vita beata». E in che consiste?

Sarebbe - spiega Benedetto XVI - il momento dell'immergersi nell’oceano dell’infinito amore, nel quale il tempo – il prima e il dopo – non esiste più. […] un sempre nuovo immergersi nella vastità dell’essere, mentre siamo semplicemente sopraffatti dalla gioia [Spes salvi, n° 12].

Perché questo condizionale «sarebbe»? Che cos’è quest’«oceano dell’infinito amore»? Che cos’è questa «vastità dell’essere»? Non si rimane molto rassicurati da queste immagini, né dalla loro dimensione. È solo nella pagina seguente che apprendiamo che il cielo consiste nel «vivere con Dio per sempre». – È vero che la vita eterna, cominciata in terra per la grazia santificante, è una vita con Dio, ma in che consiste la differenza in cielo? Solo nel «per sempre»?
Benedetto XVI non è in grado, se non di dare una definizione del cielo, almeno di darne una descrizione esatta! Perché ci tace che la vita in cielo è la visione di Dio stesso, la visione de visu di Dio, Dio visto faccia a faccia, «facie ad faciem» (1 Cor 13, 12), cioè senza intermediari creati? È San Giovanni, l’Apostolo dell’amore, che insegna: «Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è» (1 Gv 3, 2). San Paolo spiega che alla fede, conoscenza «come in uno specchio, in maniera confusa» (1 Cor 13, 12), succederà la visione immediata di Dio. È questa visione che beatificherà l’anima dell’eletto.
Forse che questa visione è troppo precisa per lo spirito di Benedetto XVI, recalcitrante ad ogni definizione? In ogni caso, il Pontefice precisa una condizione preliminare della vita beata: il non vivere isolati dagli altri, come indicato da Henri de Lubac, dice lui. Basandosi sui Padri, Lubac avrebbe provato che «la salvezza è stata sempre considerata come una realtà comunitaria» (Spes salvi, n° 14).

Essa [la vita beata] presuppone, appunto, l’esodo dalla prigionia del proprio «io», perché solo nell’apertura di questo soggetto universale [gli altri] si apre anche lo sguardo sulla fonte della gioia, sull’amore stesso – su Dio (Spes salvi, n° 14).
(su)

La salvezza collettiva secondo Henri de Lubac

Il teologo francese apprezzato in Spes salvi ha in effetti reinterpretato il dogma «fuori dalla Chiesa non v’è salvezza», invocando una salvezza collettiva: non v’è salvezza per l’individuo senza una comunità di salvezza. Cosa che sarebbe del tutto tradizionale, se non fosse che tutto si limiterebbe a questo. Non sarebbe necessario che ciascuno degli infedeli entri un bel giorno nel seno della Chiesa, basterebbe che tutti e ciascuno facciano parte dell’umanità che è sulla strada dell’unità grazie al cristianesimo:

In che modo, dunque, vi sarebbe una salvezza per i membri se per assurdo il corpo non fosse anch’esso salvo? Ma la salvezza per questo corpo – per l’umanità – consiste nel ricevere la forma di Cristo, e questo si fa solo per mezzo della Chiesa cattolica. […] Non è essa, infine, cha ha il compito di realizzare l’unificazione spirituale di tutti gli uomini, nei termini in cui essi vi si prestano? Così, questa Chiesa, che come corpo invisibile di Cristo si identifica con la salvezza finale, in quanto istituzione visibile e storica è il mezzo provvidenziale di questa salvezza. «Solo in essa si rifà e si ricrea il genere umano» (Sant’Agostino, ep. 118, n° 33, PL 33, 448) (216).

Sant’Agostino, però, non parla di unità del genere umano, ma della sua ricreazione, il che non è una semplice sfumatura. Significa forse che il Padre de Lubac ritiene che sia più facile imprimere la forma di Cristo nell’insieme dell’umanità, piuttosto che imprimerla col battesimo in ognuna dei miliardi di anime da salvare? Sarebbe una brillante soluzione platonica.
Un’altra soluzione, più elegante, è proposta dal sulfureo gesuita: ciascuno dei miliardi di esseri umani ha avuto ed ha ancora il suo ruolo nella preparazione evangelica dei secoli, malgrado il brancolare «di ricerche, di penose elaborazioni, di parziali anticipazioni, di giuste scoperte naturali e di soluzioni ancora imperfette» (p. 172). Queste pietre viventi dell’impalcatura per l’edificazione del corpo di Cristo non saranno rigettate «una volta ultimato l’edificio» (p. 172):

Provvidenzialmente indispensabili per l’edificazione del Corpo di Cristo, gli «infedeli» devono beneficiare a loro modo degli scambi vitali di questo Corpo. Per un’estensione del dogma della comunione dei santi, sembra dunque giusto pensare che, benché essi non siano di per sé posti nelle condizioni normali per la salvezza, potranno nondimeno ottenere questa salvezza in virtù dei legami misteriosi che li uniscono ai fedeli. In breve, essi potranno essere salvati perché fanno parte integrante dell’umanità che sarà salvata (217).

Questo non è più platonismo, è fantateologia: all’immaginaria preparazione evangelica nel paganesimo si attribuisce una virtù meritoria della grazia in favore degli oscuri artigiani di questa preparazione. Ma la ricompensa di un’immaginaria elaborazione potrà essere altro che una grazia altrettanto immaginaria?
La preoccupazione sentimentale di allargare la porta della salvezza, perché la Chiesa diviene piccolo gregge, fa vagabondare la ragione nell’immaginario. Un tentativo simile è fatto da Benedetto XVI per accorciare le pene del purgatorio. Vediamo.
(su)

Il purgatorio accorciato

Benedetto XVI accoglie l’«idea vetero-giudaica della condizione intermedia  [tra morte e resurrezione]» uno stato in cui le anime «non si trovano semplicemente in una sorta di custodia provvisoria, ma subiscono già una punizione,  […] o invece godono già di forme provvisorie di beatitudine» (Spes salvi, n° 45).
Questo equivale, molto semplicemente, a ripetere l’errore di papa Giovanni XXII, condannato ex cathedra dal suo successore Benedetto XII, che definì che le anime dei giusti «subito dopo la loro morte, e la purificazione di cui si è detto in coloro che erano bisognosi di tale purificazione […], furono, sono e saranno in cielo, nel Regno dei cieli e nel celeste paradiso, con Cristo, associate alla compagnia degli angeli santi» (218).

E infine - prosegue Benedetto XVI - non manca il pensiero che in questo stato siano possibili anche purificazioni e guarigioni, che rendono l’anima matura per la comunione con Dio. La Chiesa primitiva ha ripreso tali concezioni, dalle quali poi, nella Chiesa occidentale [cioè nella Chiesa cattolica], si è sviluppata man mano la dottrina del purgatorio [Spes salvi, n° 45].

Di fronte a questa eresia dello stato intermedio (miscuglio dello sheol vetero-giudaico e del limbo dei patriarchi) e a questa teoria di un’origine vetero-giudaica del purgatorio, Benedetto XVI propone un’alternativa moderna che, decisamente, gli piace di più:

Alcuni teologi recenti sono dell’avviso che il fuoco che brucia e insieme salva, sia Cristo stesso, Giudice e Salvatore. L’incontro con Lui è l’atto decisivo del Giudizio. Davanti al suo sguardo si fonde ogni falsità. È l’incontro con Lui che, bruciandoci, ci trasforma e ci libera per farci diventare veramente noi stessi [Spes salvi, n°47].

Non si tratta affatto di un debito rimanente da pagare, né di una pena temporale da purgare, si ignora di quale purificazione si tratterebbe: quella dal peccato? Comunque sia, qui si tratta di una liberazione per ridiventare se stessi: una trasformazione esistenzialista:

Il suo sguardo [di Cristo], il tocco del suo cuore ci risana mediante una trasformazione certamente dolorosa «come attraverso il fuoco» [come dice San Paolo: 1 Cor 3, 12-15]. È, tuttavia, un dolore beato, in cui il potere santo del suo amore ci penetra come fiamma [Spes salvi n° 47].

Io credevo che la sofferenza del purgatorio fosse prima di tutto una certa pena della dannazione: il ritardo all’accesso alla visione beatifica, e inoltre una pena del fuoco inflitta da Dio per purificare l’anima dai suoi legami disordinati con la creatura. Questa spiegazione, che concorda appieno con la natura del peccato – avversione a Dio e adesione alla creatura – è troppo chiara per Benedetto XVI? Il fatto è, molto semplicemente, che il fuoco dell’amore è più appagante, per consumare «la sporcizia» dell’anima, più di un fuoco inflitto dal supremo giudice! Il purgatorio diventa così assai simpatico, visto che lo stesso fuoco dell’amore vi consuma, come sulla terra, le brutture dell’anima. – E tuttavia i santi non sono dello stesso avviso, essi hanno la fede e sostengono, come Santa Teresa di Lisieux, che «il fuoco dell’amore è più santificante del fuoco del purgatorio»: il che significa che non si tratta dello stesso fuoco.
Certo, il vantaggio della teoria patrocinata dal Pontefice sta nel fatto che questa purificazione istantanea dovuta allo sguardo di Cristo, accorcia enormemente il purgatorio, agli occhi della nostra generazione tormentata. Ecco un cristianesimo comodo. Ecco una religione «più facile», come la concepiva un riformatore inglese. Ecco il «regno di Dio», direbbe Kant, «in cui la fede ecclesiastica viene superata e rimpiazzata dalla fede religiosa, vale a dire dalla semplice fede razionale (219)». Del resto, aggiunge Kant, «se il cristianesimo un giorno dovesse arrivare a non essere più degno di amore [...] allora il pensiero dominante degli uomini dovrebbe diventare quello di un rifiuto e di un’opposizione contro di esso (220)». (Testi citati in Spes salvi, n° 19, senza che il Pontefice precisi che Kant la giustifica e, per ciò stesso, la condanna).
Benedetto XVI, tuttavia, precisa qualcosa su questo momento del purgatorio:

È chiaro che la «durata» di questo bruciare che trasforma non la possiamo calcolare con le misure cronometriche di questo mondo. Il «momento» trasformatore di questo incontro sfugge al cronometraggio terreno – è tempo del cuore, tempo del «passaggio» alla comunione con Dio nel Corpo di Cristo [Spes salvi, n° 47].

Dunque, è confermato: il purgatorio è un momento, un passaggio. Non si tratta affatto di poter «restare in purgatorio fino alla fine del mondo», come aveva osato dire la Madonna a Lucia di Fatima, il 13 maggio 1917, a proposito di una certa Amelia (221). Decisamente, questa nuova religione è più rassicurante.
(su)

Un giudizio particolare umanista

Il Giudizio di Dio è speranza - afferma Benedetto XVI - sia perché è giustizia, sia perché è grazia. Se fosse soltanto grazia che rende irrilevante tutto ciò che è terreno, Dio resterebbe a noi debitore della risposta alla domanda circa la giustizia – domanda per noi decisiva davanti alla storia e a Dio stesso. Se fosse pura giustizia, potrebbe essere alla fine per tutti noi solo motivo di paura [Spes salvi, n° 47].

Mi dispiace contraddire queste riflessioni che sembrano essere dettate dal buon senso. No, se la giustizia è desiderabile è perché essa ricompensa non il «terreno», ma i nostri meriti, cioè le nostre opere buone compiute in stato di grazia. Ma, Benedetto XVI è proprio al merito che non crede:

Il regno di Dio è un dono, e proprio per questo è grande e bello e costituisce la risposta alla speranza. E non possiamo – per usare la terminologia classica – «meritare» il cielo con le nostre opere. Esso è sempre più di quello che meritiamo, […] Tuttavia, con tutta la nostra consapevolezza del «plusvalore» del cielo, rimane anche sempre vero che il nostro agire non è indifferente davanti a Dio [Spes salvi, n° 35].

Ci si ricordi dell’anatema del concilio di Trento:
Se qualcuno afferma che […] con le buone opere da lui [l’uomo giustificato] compiute […] non merita realmente […] la vita eterna […]: sia anatema (222).

Del pari, se la giustizia divina del giudizio «ci fa paura» non è perché essa potrebbe essere «pura giustizia», ma perché può infliggerci delle pene, la pena eterna a coloro che muoiono in stato di peccato mortale e le pene del purgatorio per gli altri.
Ma tutte queste distinzioni superano Benedetto XVI, come vedremo ancora oltre; la sua teologia è ridotta e annebbiata, ai suoi occhi la distinzione tra naturale e soprannaturale è troppo forte e troppo chiara.
(su)

L’opzione fondamentale, economia del peccato mortale

Secondo la dottrina tradizionale della fede, infatti, l’anima perde la grazia santificante anche per un solo peccato mortale (DS 1544) e merita l’inferno eterno, mentre il peccato veniale comporta solo una pena temporale e può essere espiato con ogni opera buona.
Tuttavia, questa distinzione non è conforme al sentimento dei nostri contemporanei. (Di chi la colpa? – Del clero conciliare!). Essi ritengono che, a parte i criminali di guerra e gli autori dei genocidi, che hanno «vissuto nell’odio» e in cui «tutto è menzogna», e tolti i santi «che si sono lasciati penetrare totalmente da Dio» e hanno vissuto «totalmente aperti al prossimo», per il resto vi è « la normalità», quella della «gran parte degli uomini», e il bene e il male sono insieme presenti, con a volte il male più del bene. Ma, malgrado ciò:

… rimane presente nel più profondo della loro essenza un’ultima apertura interiore per la verità, per l’amore, per Dio. Nelle concrete scelte di vita, però, essa è ricoperta da sempre nuovi compromessi col male – molta sporcizia copre la purezza, di cui, tuttavia, è rimasta la sete e che, ciononostante, riemerge sempre di nuovo da tutta la bassezza e rimane presente nell’anima [Spes salvi, n° 46].

In questa teoria non v’è più l’uomo giusto, né l’uomo ingiusto (teologicamente), non vi è più lo stato di grazia, né lo stato di peccato mortale. Ogni peccato o stato di peccato lascia posto alla salvezza, posto che si conservi l’opzione fondamentale per Dio, con la «sete di purezza»,«l’apertura interiore per la verità, per l’amore, per Dio». In questo caso «l’esistenza cristiana» costruita su Gesù Cristo è un «fondamento [che] non ci può più essere sottratto» (n° 46). Una tale anima potrà essere salvata passando per il fuoco che consuma le opere cattive (n° 46; 1 Cor 3, 12).
In fin dei conti, Benedetto XVI ripropone l’errore protestante dell’«uomo ad un tempo giusto e peccatore». Egli ripropone così la teoria condannata
financo dal suo predecessore Giovanni Paolo II nell’enciclica Veritatis splendor (nn° 63-68): quella dell’opzione fondamentale buona, che impedirebbe che le particolari scelte peccaminose interrompano la relazione con Dio. Contro questo errore, Giovanni Paolo II riaffermava la distinzione tra peccato mortale e peccato veniale (VS 69-70). Decisamente la religione di Benedetto XVI è più comoda.
(su)

L’inferno, stato d’animo

«L’inferno sono gli altri», diceva Jean-Paul Sartre. Benedetto XVI capisce il contrario di questo egoismo diabolico. L’inferno è l’egoismo irrevocabile, quello delle persone che «hanno distrutto totalmente in se stesse il desiderio della verità e la disponibilità all’amore». Egli spiega che:

In simili individui non ci sarebbe più niente di rimediabile e la distruzione del bene sarebbe irrevocabile: è questo che si indica con la parola inferno [Spes salvi n° 45].

Vi è un equivoco. Bisognerebbe precisare che colui che è in stato di peccato mortale si trova già nello stato di dannazione, ma questa dannazione è irrevocabile solo dopo la morte. È allora che si ha l’inferno, luogo e stato delle anime dannate, sia per la loro colpa sia per la sentenza del giusto giudice. Mancando questa distinzione si rimane nell’equivoco, mischiando lo stato di dannazione revocabile del peccatore e lo stato e il luogo di dannazione irrevocabile dell’inferno.
Non sapendo di che cosa si parla, si mette l’inferno al condizionale: esso «sarebbe» lo stato di un uomo irrimediabilmente chiuso alla verità e ripiegato su se stesso. Il che è inquietante per quegli egoisti che siamo noi tutti: ma chi è totalmente egoista? Insomma, chi può essere veramente all’inferno? E in ogni caso l’inferno è uno stato d’animo.

*

Frutto della sua ermeneutica, la religione di Benedetto XVI è una religione che si presenta come più amabile, ma è una religione al condizionale.
(su)
NOTE

211  - Bulletin officiel de l’évêché de Metz, 1 ottobre 1967, citato da Itinéraires, n° 118.
212  - Des Évêques disent la foi de l’Église, Paris, Cerf, 1978, pp. 229-230.
213  - Si veda la Mitteilungsblatt della Fraternità Sacerdotale San Pio X, Stuttgart (Germania), maggio 2009.
214  - La speranza della salvezza per i bambini che muoiono senza battesimo, Riflessione della Commissione Teologica Internazionale, pubblicata con l’autorizzazione orale di Benedetto XVI il 19 aprile 2007, n° 2.
215  - Homélie sur la mort de son frère Saturus [De excessu fratris sui Satyri], II, 47: CSEL 73, 274, citata da Benedetto XVI in Spes salvi, n°10.
216  - H. DE LUBAC, Catholicisme, les aspects sociaux du dogme, Cerf, 1938, pp. 164-165.
217  - H. DE LUBAC, Catholicisme, les aspects sociaux du dogme, Cerf, 1938, p. 173.
218  - Mox post mortem suam et purgationem praefatam in illis, qui purgazione huiusmodi indigebant […] fuerunt, sunt et erunt in coelo, coelorum regno et paradiso coelesti cum Christo, sanctorum angelorum consortio congregatae. (DS 1000).
219  - EMMANUEL KANT, La Victoire du principe bon sur le mauvais et la fondation d’un royaume de Dieu sur la terre (1792), in Oeuvres philosophiques, Gallimard, La Pléiade, t. 3, 2003, p. 140. [La vittoria del principio buono sul cattivo e la fondazione di un regno di Dio sulla terra, in La religione nei limiti della semplice ragione, ed. diverse].
220  - EMMANUEL KANT, Das Ende aller DingeLa fin de toutes choses (1795), in Oeuvres philosophiques, Gallimard, La Pléiade, t. 3, 2003, pp. 324-325. [La fine di tutte le cose, ed. diverse].
221  - Vedi: Lucie raconte Fatima, DDB-Résiac, 1981, p. 159.
222  - Concilio di Trento, sessione VI, cap. 16, can. 32, DS 1582.

(su)

Indice

Prefazione 
Introduzione


Cap. 1 -    Ermeneutica della continuità
Cap. 2 -    Itinerario filosofico di Joseph Ratzinger
Cap. 3 -    Itinerario teologico di Joseph Ratzinger
Cap. 4 -    Un’esegesi esistenzialista del Vangelo
Cap. 5 -    Ermeneutica dei tre grandi dogmi cristiani
Cap. 6 -    Personalismo ed ecclesiologia
Cap. 7 -    Il personalismo politico e sociale
Cap. 8 -    Cristo Re rivisto dal personalismo
Cap. 9 -    La fede personalista di Benedetto XVI
Cap. 10 -  Un supermodernismo scettico

Epilogo: Ermeneutica dei fini ultimi

Postfazione: Cristianesimo e Lumi

Ringraziamenti


febbraio 2011

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