S. Ecc. Mons. Bernard Tissier de Mallerais
della Fraternità Sacerdotale San Pio X


LA FEDE IN PERICOLO PER LA RAGIONE

ERMENEUTICA DI BENEDETTO XVI

CAPITOLO 3 - ITINERARIO TEOLOGICO DI JOSEPH RATZINGER

Questo studio è stato pubblicato sul n° 69 (estate 2009) della rivista Le Sel de la Terre - Intelligence de la foi -  Rivista trimestrale di dottrina tomista a servizio della Tradizione
La rivista, curata da Padri Domenicani collegati alla Fraternità Sacerdotale San Pio X, è una pubblicazione cattolica di scienze religiose e di cultura cristiana, posta  sotto il patronato di San Tommaso d’Aquino, in forza della sicurezza della dottrina e della chiarezza d’espressione del “Dottore Angelico”. Essa si colloca nel quadro della battaglia per la Tradizione iniziata da
Mons. Marcel Lefebvre e si presenta in maniera tale da potersi rivolgere ad ogni cattolico che voglia approfondire la propria fede.


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Capitolo 3
Itinerario teologico di Joseph Ratzinger

L’itinerario filosofico di Joseph Ratzinger è dunque un vicolo cieco, poiché egli abbandona la strada della filosofia dell’essere. Riesce l’itinerario teologico dello stesso Ratzinger ad uscirne? Riesce a trovare una via che conduca all’Essere primo, alle sue infinite perfezioni, ai suoi misteri soprannaturali?
Per rispondere a queste domande occorre innanzi  tutto collocare il professore di teologia di Tubinga nel quadro della teologia tedesca, dipendente dalla celebre scuola di teologia dell’università del luogo.

La Tradizione vivente, Rivelazione continua, secondo la scuola di Tubinga

Secondo il fondatore della scuola cattolica di Tubinga, Johann Sebastian von Drey (1777-1853), il divenire storico si spiega con un principio vitale spirituale:

Ciò che raccoglie le diverse epoche storiche in un tutto unito o le separa invece le une dalle altre, è un certo spirito che, in un dato tempo, chiude il divenire storico in una unità piena di vita: è lo Zeitgeist, lo spirito del tempo.
[Questo spirito è costruttore:] agendo con l’uscita da sé, attira tutto intorno a sé come un centro col cerchio, che riduce le opposizioni e riorganizza secondo se stesso ciò che gli è conforme (60).

La parentela di questo pensiero con quello di Dilthey è evidente, ma per Drey, lo Zeitgeist non è altro che lo spirito di Cristo. La fede del teologo trasfigura il naturalismo del filosofo.
Nella sua Apologetik (1838), Drey spiega che l’evoluzione è necessaria al cristianesimo, sia come fenomeno storico, sia come Rivelazione. Ecco come Geiselmann riassume Drey:

La Rivelazione cristiana è vita, originariamente vita divina, una vita che, senza interruzione, a partire dal suo nocciolo originario, cresce fino alla sua pienezza nella Chiesa universale. Vita divina ininterrotta, la Rivelazione non è un dono compiuto, depositato per così dire nella culla della Chiesa e trasmesso da mani umane. La Rivelazione, come ogni vita, si muove e continua da se stessa (61).
Il suo movimento è un auto-movimento, grazie al momento di forza spirituale che l’abita fin dall’origine, e cioè la forza propria e l’azione stessa di Dio, il quale, senza fallo, continua ad agire e a condurre a compimento la sua opera (62).
(su)

Rivelazione, Tradizione vivente ed evoluzione del dogma

Questa idea della Rivelazione che «appariva ora non più semplicemente come la comunicazione di alcune verità alla ragione, ma come l’agire storico di Dio, in cui la Verità si svela gradatamente (63)», diventerà la tesi su San Bonaventura presentata per l’abilitazione all’insegnamento universitario statale da Joseph Ratzinger nel 1956.  L‘autore sosteneva che il Dottore serafico avesse visto nella Rivelazione, non un insieme di verità, ma un atto (cosa che non è esclusa), e che «del concetto di “rivelazione” fa sempre parte anche il soggetto ricevente (64)»: dunque la Chiesa fa parte del concetto di Rivelazione, cioè parte della Rivelazione stessa. Parimenti, il candidato all’abilitazione sosteneva che «alla Scrittura è legato il soggetto comprendente, la Chiesa, e con ciò è già dato anche il senso essenziale della tradizione (65)». E Joseph Ratzinger racconta onestamente che il suo relatore, il professore Michael Schmaus, « non vedeva affatto in queste tesi una fedele ripresa del pensiero di Bonaventura […] ma un pericoloso modernismo, che doveva condurre verso la soggettivizzazione del concetto di rivelazione (66)».

Ora, quest’idea della Rivelazione come intervento divino nella storia, e che non è chiusa con la morte dell’ultimo Apostolo, ma continua nella Chiesa che ne è il soggetto recettore, era già stata riprovata, dopo Drey e prima di Loisy, dal magistero romano: la Rivelazione non è qualsiasi intervento divino, ma solo una locuzione di Dio, «locutio Dei (67) », non a tutta la Chiesa, ma agli «uomini santi di Dio» (I Pt 1, 21), i profeti e gli Apostoli; essa ha un contenuto di verità che «è completo con gli Apostoli (68); essa non è perfettibile (69) , ma è un «deposito divino» affidato al magistero della Chiesa «perché la custodisca santamente e l’esponga fedelmente (70
La «Rivelazione trasmessa agli apostoli, cioè il deposito della fede (71)» conosce tuttavia un progresso, non certo nel suo contenuto, di cui gli Apostoli hanno ricevuto la pienezza insieme alla pienezza della sua intelligenza (72), ma nella sua esplicitazione, tramite una «interpretazione più ampia (73)» o una migliore «distinzione (74)», cioè con un passaggio dall’implicito all’esplicito (75) dello stesso deposito della fede chiuso alla morte dell’ultimo Apostolo.
Certo, Dio continua ad intervenire nella storia umana: la conversione dell’imperatore Costantino, l’evangelizzazione dell’America, il pontificato di San Pio X, sono delle pietre miliari tra tante altre dell’azione provvidenziale di Dio, ma esse non hanno valore di Rivelazione divina. È in questo che occorre fare un’importante distinzione: la Rivelazione progressiva di Dio è innegabile nel vecchio Testamento ed anche nel nuovo fino alla morte di San Giovanni. A quel punto la Rivelazione pubblica è chiusa. Né Dio né alcuno potranno aggiungervi checchessia, come dice San Giovanni nell’Apocalisse:

Dichiaro a chiunque ascolta le parole profetiche di questo libro: a chi vi aggiungerà qualche cosa, Dio gli farà cadere addosso i flagelli descritti in questo libro; e chi toglierà qualche parola di questo libro profetico, Dio lo priverà dell’albero della vita e della città santa, descritti in questo libro [Ap. 22,18-19].

Senza dubbio, come dice San Tommaso: «in ogni epoca non mancano mai nella Chiesa uomini pieni dello spirito di profezia, non certo per porre una nuova dottrina della fede, ma per la direzione degli atti umani (76)». E questi sono i soggetti e gli strumenti delle rivelazioni private. Se dunque si pensa che la Rivelazione pubblica continui nella Chiesa per il carisma profetico dei suoi membri o della gerarchia, si cade nell’errore. Qui come altrove, San Tommaso è una guida sicura. Parlando del vecchio Testamento, egli insegna che vi è stato effettivamente un aumento degli articoli di fede, non quanto alla sostanza, ma quanto all’esplicitazione:

Perciò si deve concludere che quanto alla sostanza degli articoli di fede non c’è stato nessuno sviluppo nel corso dei tempi: poiché i Padri posteriori credettero tutte le verità che erano contenute, sebbene implicitamente, nella fede dei loro antenati. Invece quanto all'esplicitazione il numero degli articoli ebbe un aumento: poiché i Padri posteriori conobbero esplicitamente cose che i primitivi non avevano conosciuto in maniera esplicita. Infatti così Dio parlò a Mosè: «Io sono il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe: ma non manifestai loro il mio nome di Adonai». E l'Apostolo scrive: «Nelle altre età non fu conosciuto il mistero di Cristo dai figli degli uomini, così come ora è stato rivelato ai santi suoi Apostoli e profeti (Ef. 3, 5)» (77).

E non vi è parità, ma solo analogia tra i tempi della Rivelazione e i tempi della Chiesa, tra la Rivelazione progressiva, da un lato, e lo sviluppo progressivo del dogma cristiano, dall’altro. È così che bisogna interpretare San Bonaventura. Fino a Cristo e agli Apostoli, è la stessa Rivelazione che si è sviluppata passando dall’implicito all’esplicito; dopo gli Apostoli, conclusasi la Rivelazione, si sono sviluppate, passando dall’implicito all’esplicito, la sua intelligenza, la sua applicazione e la sua proposizione da parte della Chiesa.
Si potrebbe riassumere così in latino: Ante Christum, creverunt articula fidei quia magis ac magis explicite a Deo revelata sunt; post Christum vero et apostolos, creverunt quidem articula fidei quia magis ac magis explicite tradita sunt ab Ecclesia (78).
(su)

La Tradizione, lettura vivente della Bibbia

Lo storicismo del concetto di Tradizione in Joseph Ratzinger presuppone il suo soggettivismo. Il mistero di Dio non è un oggetto, è una persona, è un Io che parla a un Tu. L’Io che parla è percepito solo tramite un Tu che ascolta. Questa relazione è inscritta nella nozione di Tradizione. Ne consegue che la Tradizione non è altro che la lettura vivente della Scrittura:

Se ne deduce, di conseguenza, che non può esistere un mero sola scriptura (solamente attraverso la scrittura), che alla Scrittura è legato il soggetto comprendente, la Chiesa, e con ciò è già dato anche il senso essenziale della tradizione (79).

Questo ha bisogno di essere spiegato. Secondo il pensiero idealista, la cosa bruta è innocua, è l’oggetto (cioè la cosa pensata) che è conosciuto. Per Kant, il soggetto fa parte dell’oggetto e gli impone le sue categorie a priori, il suo colore. Per Husserl, l’oggetto pensato è il semplice correlato del soggetto pensante, indipendentemente dalla cosa. Joseph Ratzinger vedrebbe un applicazione di questo idealismo nella Scrittura e nella Tradizione: la Scrittura bruta è inintelligibile, essa dev’essere compresa dal soggetto Chiesa, che è il suo correlato e che l’interpreta alla sua maniera; in questo senso, « non può esistere un mero sola scriptura», contrariamente a ciò che pretendeva Lutero con la sua «sola scriptura».
In effetti, Joseph Ratzinger qui si ispira a Martin Buber (80), secondo cui l’essenza del decalogo è un “rivolgersi a”: il rivolgersi dell’Io divino al Tu umano: «Non avrai altri dei di fronte a me…» (Es 20, 3). Il lettore della Bibbia rivive l’esperienza dell’essere interpellato. In questo senso, non vi è mai della sola scriptura, poiché vi è sempre l’interpellato, oggi la Chiesa.
Quello che c’è di vero è che è la Chiesa che dà l’interpretazione autentica della Bibbia. Ma questo non perché essa ne è «il soggetto che comprende», ma perché è il soggetto che ne giudica: il soggetto a cui «compete giudicare del vero senso e dell’interpretazione delle sacre Scritture (81)». E per esprimere questo giudizio, la Chiesa attinge ad un’altra fonte della fede: la Tradizione, e cioè le verità di fede e di costume raccolte dagli Apostoli dalla bocca dello stesso Cristo o per ispirazione dello Spirito Santo, e che, trasmesse quasi di mano in mano, sono giunte senza alterazione da loro a noi (82). I testimoni della Tradizione sono i santi Padri, la liturgia, il magistero sparso e unanime dei vescovi e il magistero dei concilii e dei papi. Tutte queste voci si susseguono, ma la Tradizione è immutabile nella sua essenza.
Proprio perché immutabile essa può essere una regola per la fede, poiché le regole elastiche non sono regole. Quindi, è perché è immutabile che la Tradizione è una regola d’interpretazione della Bibbia; così che non si tratta di una lettura attuale della Bibbia differente da quella di ieri e che farebbe subire alla Scrittura «un processo di rilettura e di amplificazione», come pretende Benedetto XVI (83).
Immutabile in se stessa, la Tradizione progredisce nell’esplicitazione. Ecco una verità che il Concilio Vaticano II, nella sua costituzione Dei verbum sulla Rivelazione divina, ha occultato adducendo un progresso storico della Tradizione nella «percezione» e nell’«intelligenza» delle cose rivelate da Dio, ed una «tensione incessante della Chiesa verso la pienezza della verità divina», cose assolutamente impossibili, come ho già dimostrato. Cito:

Questa Tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo: cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la contemplazione e lo studio dei credenti che le meditano in cuor loro (cfr. Lc 2, 19 e 51), sia con la intelligenza data da una più profonda esperienza delle cose spirituali, sia per la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità. Così la Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio. [Dei verbum, n° 8]

Ho già lasciato capire come il progresso dottrinale in esplicitazione sia inversamente proporzionale al progresso in intelligenza profonda, che non esiste assolutamente perché, come dice San Tommaso:

Ora, gli Apostoli furono pienamente istruiti sui misteri: poiché come dice la Glossa su quel detto paolino (Romani 8, 23), “noi stessi che abbiamo le primizie dello Spirito”, “come li ebbero prima del tempo, così li ebbero anche più abbondantemente degli altri”. […] Perciò quelli che furono più vicini a Cristo, cioè S. Giovanni Battista prima, e gli Apostoli dopo, conobbero maggiormente i misteri della fede (84).

Chi, nella Chiesa, potrà superare gli Apostoli nell’intelligenza della fede? È fatale che questa intelligenza in profondità sia decresciuta nei loro successori, anche se dottori della fede e provvisti del carisma della verità, fatte salve quelle luci che furono i dottori della Chiesa. Questo sano realismo è stato sostituito, in Concilio, con l’illusione del progresso necessario verso una pretesa pienezza, che apparteneva invece solo agli Apostoli.
(su)

La dottrina della fede, esperienza su Dio

Non è solo l’idea di Tradizione, ma anche quella di Rivelazione che Joseph Ratzinger rivisita alla luce sia dell’idealismo, sia del personalismo.
Riguardo alla Rivelazione, considerata come in qualche modo attuale, Joseph Ratzinger ritiene che «del concetto di “rivelazione” fa sempre parte anche il soggetto ricevente (85)». L’autore suppone, a torto, che il soggetto recettore sia il credente, o la Chiesa, e non i soli Apostoli; cadendo in un errore protestante.
Riguardo alla teologia, Joseph Ratzinger ritiene che «non esiste la pura ed assoluta oggettività», sia in fisica, sia in teologia. Come in fisica «entra e s’impegna anche l’osservatore stesso» e «nella risposta è sempre incluso anche un brandello della domanda e dello stesso richiedente», così in teologia «colui che s’impegna nell’esperimento della fede ottiene poi una risposta che non rispecchia soltanto Dio, ma anche una parte del suo interrogativo, comunicandogli qualche conoscenza di Dio attraverso la breccia incisa nel suo animo (86)».
Riguardo alla fede stessa, Joseph Ratzinger assicura che la pura oggettività non è ugualmente possibile:

Pertanto, ogni qual volta ci si imbatte in una risposta spassionatamente oggettiva, in un asserto che si erge definitivamente al di sopra di ogni prevenzione pietistica esprimendosi in modo piattamente positivo e scientifico, bisogna dire che il suo portavoce è caduto in un autoinganno. Questo tipo di oggettività è costituzionalmente interdetto all’uomo. Egli non può esistere e tantomeno indagare da semplice e freddo osservatore. Chi cerca a tutti i costi di essere un mero osservatore, non impara nulla. Anche quella realtà che si chiama “Dio” può entrare nel raggio visivo solo di colui che si impegna di persona nell’esperimento da fare con Dio: in quell’esperimento che noi chiamiamo fede. Solo impegnandovisi, s’impara e si prova qualcosa; solo prendendo direttamente parte all’esperimento ci si premura d’indagare, e solo chi cerca e interroga riceve una risposta (87).

Si obietta che, se per avere la fede, la persona deve impegnarsi «nell’esperimento da fare con Dio», molti pochi cristiani avranno la fede. La fede, adesione dell’intelligenza al mistero divino, è una cosa, una cosa richiesta per la salvezza, ma la vita della fede, ex fide come dice San Paolo, è cosa auspicabile, normale, ma non ugualmente necessaria, e in ogni caso l’esperienza di Dio non è richiesta.
Ma, soprattutto, se si definisce la fede tramite «l’esperimento da fare con Dio», si rinnova l’eresia modernista, che consacra come vere tutte le religioni, poiché tutte pretendono di avere qualche esperienza autentica del divino (88) .
Riguardo, infine, al magistero della Chiesa, anche sulle sue decisioni Joseph Ratzinger ha una visione dialettica o, diciamo così, dialogante, secondo lui esse devono essere delle risposte alle domande del credente o il risultato della sua sperimentazione su Dio:

Perfino le formule dogmatiche – tanto per fare un esempio la famosa «una sola essenza in tre persone» - includono questa rifrazione della componente umana. Nel caso nostro esse rispecchiano l’uomo della remota antichità, che indaga ed esperimenta con le categorie della più vetusta filosofia, derivando da esse l’impostazione del suo interrogativo (89).

Dirò subito due parole sul substrato kantiano di questa problematica.
Come il fisico, diceva Kant prima di Claude Bernard, seleziona i fenomeni e li sottomette all’esperienza che ha concepito razionalmente, per ottenerne una risposta che confermi l’a priori della sua teoria, così il filosofo deve interrogare i fenomeni – oggetti di esperienza spontanea – applicando loro le categorie a priori del suo intelletto – essi diventano oggetti pensati -, per verificare la loro pertinenza.
In tal modo, ogni scienza sarebbe necessariamente un riflesso, non solo delle cose come ci appaiono (i fenomeni), ma anche dello spirito che impone loro i suoi modi di rappresentazione (90).
Infatti, si può ammettere che il lungo e difficile adattamento dei concetti al dogma, per esprimerlo adeguatamente, sia una sorta di sperimentazione praticata dalla Chiesa. Ma, così facendo, non è Dio, né il suo mistero, ad essere messi in questione, ma i concetti umani. Non è la ragione – antica o medievale – che «sperimenta su Dio», ma la fede divina che «sperimenta sulla ragione».
Ciò posto, resta il problema fondamentale: la nostra intelligenza ci permette di cogliere o no l’essere delle cose? La verità è oggettiva? Vi è una filosofia del reale? I concetti scelti e perfezionati dalla fede sono dei concetti di una particolare filosofia: platonica, aristotelica, tomista, kantiana, personalista? O sono semplicemente i concetti della più elementare filosofia dell’essere, quella del senso comune?
Qui, per senso comune intendo l’esercizio spontaneo dell’intelligenza, che coglie l’essere delle cose dalla realtà naturale, per trovarvi alcune cause ad alcuni principi. Per esempio, la ragione afferma spontaneamente che al di là del divenire di una realtà, vi è in essa qualcosa che rimane (principio di sostanza). O anche: ogni agente agisce per un fine (principio di finalità).
A queste domande ho già tratteggiato prima la risposta, ma occorre dimostrarla.
(su)

Senso comune, filosofia dell’essere e formule dogmatiche

Per limitarci al dogma della Trinità divina, il mistero principale consiste nella conciliazione dell’unità divina con la distinzione reale delle tre Persone divine. Esaminiamo i concetti che hanno espresso sempre meglio la misteriosa antinomia.
La confessione di fede nella sua semplicità primitiva è la seguente: « Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, e in Gesù Cristo suo unico Figlio, e nello Spirito Santo». Essa esprime il mistero chiaramente, ma ancora imperfettamente. Le eresie dei primi tre secoli si sono allontanate dal senso vero di questa formula, sia negando la distinzione reale dei Tre (Sabellio), sia negando la divinità del Figlio (Ario) o dello Spirito Santo (Macedonio), sia, all’opposto, professando tre dei (triteismo). Quest’ultimo errore fu condannato nel 262 con una lettera del papa Dionisio (91).
Il concilio di Nicea (325) precisò il dogma contro gli ariani, non solo in forma negativa, con un anátema, ma anche in forma positiva, ampliando il simbolo apostolico con lo sviluppo dell’idea di filiazione e di generazione: «Gesù Cristo Figlio di Dio, nato unigenito dal Padre, cioè dalla sostanza del Padre, […] nato non fatto, di una sola sostanza con il Padre [NdT: nel testo francese: generato non creato, consustanziale al Padre: vedi nota] (92)». Qui compare la nozione di «sostanza», che rientra nel dominio del senso comune, ma anche il giudizio di «consustanziale» (homoousios), che supera già l’espressione che il senso comune può usare per la comune divinità del Padre e del Figlio.
Più tardi, il primo concilio di Costantinopoli (381) preciserà la divinità dello Spirito Santo. In seguito, il secondo concilio di Costantinopoli (553) preciserà a sua volta che «una sola divinità da adorarsi in tre sussistenze [ipostasi] o persone (93)». Si tratta di un anátema, che determina positivamente ciò che bisogna credere. Oltre ai termini astratti di natura e di sostanza («mian physin ètoi ousian: una sola natura o sostanza»), la formula utilizza i termini concreti di sussistenza [ipostasi] e di persona («en trisin hypostasesin ègoun prosôpois: in tre sussistenze [ipostasi] o persone»), di cui il primo «sussistenza [ipostasi]», è già una nozione filosofica elaborata, poiché la si distingue precisamente da «sostanza» (ousia).
In seguito, l’XI concilio particolare di Toledo (675) distinse le persone divine le une dalle altre, nel fatto che sono chiamate relativamente le une rispetto alle altre: «Per il nome delle persone però, che esprime una relazione, il Padre è in riferimento al Figlio, il Figlio al Padre e lo Spirito Santo ad ambedue: sebbene in vista della loro relazione vengano chiamate tre persone, tuttavia esse sono, crediamo, una sola natura o sostanza (94)». È ormai di fede che in Dio vi sono tre relazioni reali che caratterizzano e numerano le persone.
Al concilio di Lione (1274) si definì, con il Filioque, la processione dello Spirito Santo a partire dal Padre e dal Figlio (Dz 463) [DS 853]. Nel 1441, il concilio di Firenze, nel suo decreto sui Giacobiti, fornì l’ultima espressione del progresso dogmatico sulla Trinità: vi è una distinzione delle persone per la loro relazione d’origine; la loro unità è totale «dove non si opponga la relazione (95)»; lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio come da un solo principio; e le persone sono presenti le une nelle altre (circumsessione) (Dz 703-704) [DS 1330-1331]. È evidente che le nozioni di «denominazione relativa», di «opposizione di relazione», di «principio senza principio», di «principio del principio» e di «principio unico», superano il livello del senso comune e denotano una filosofia, una filosofia elaborata, ma una filosofia che non è una filosofia che si possa chiamare particolare.
Molto più tardi, la Chiesa, per bocca di Pio IX, condannerà, nel 1857, la spiegazione della Trinità proposta da Anton Günther (1783-1863). Questi affermava che essendo la persona «la coscienza dell’io», occorreva reinterpretare le due processioni divine del verbo e dell’amore come tre processioni intellettuali: coscienza di sé pensante, coscienza di sé pensata e coscienza della correlazione tra le due. Si tratta di un Husserl ante litteram. Pio IX dichiarò questa spiegazione aberrante, che «di molto si allontana dalla fede cattolica e dalla sana spiegazione dell’unità della sostanza divina» (Dz 1655) [DS 2828]. L’atto di Pio IX contiene un’approvazione implicita della definizione della persona data da Boezio (470-525): «la persona è la sostanza individuale di una natura razionale», una definizione che oltrepassa il senso comune e che è coerente con la filosofia dell’essere, in opposizione con la filosofia personalista che confonde personalità metafisica e personalità psicologica.
Io concluderò così, con il padre Réginald Garrigou-Lagrange:
-    Le formule dogmatiche elaborate dalla Chiesa contengono dei concetti che superano il senso comune.
-    Queste formule e concetti appartengono alla filosofia dell’essere, che sostiene che l’intelligenza conosce primariamente l’essere e non il suo atto.
-    Queste concezioni sono quanto meno accessibili al senso comune, per il tanto che esso è la filosofia dell’essere allo stato rudimentale.
-    Questo significa che i concetti delle formule dogmatiche appartengono alla filosofia dell’essere, che è il momento scientifico del senso comune.
-    Ne consegue, e questo è verificato dai fatti, che le filosofie idealiste, che rigettano la filosofia dell’essere, si allontanano dal senso comune e diventano inadatte ad esprimere il dogma.
-    Infine, la filosofia dell’essere, atta ad esprimere il dogma, non è una «filosofia particolare», né un sistema, ma la filosofia di sempre, la philosophia perennis, per citare Gottfried Wilhelm Leibiniz (1646-1716), la filosofia ereditata da Platone ed Aristotele.
Ecco una bella testimonianza resa a questa filosofia dell’essere da Henri Bergson (1859-1941), il quale, senza essere tomista, non per questo ignorava i grandi Greci e San Tommaso:
Dell’immenso edificio da loro costruito resta una solida impalcatura e questa impalcatura segna le grandi linee di una metafisica che è, crediamo, la metafisica naturale dell’intelligenza umana (96).
-    La ragione ultima dell’attitudine della filosofia dell’essere a sviluppare i dogmi sta nella loro prestabilita armonia, come ha dimostrato Newman.
(su)

Il potere d’assimilazione, motore del progresso dottrinale, secondo Newman

Fu John Henry Newman (1801-1890) che per primo considerò un motore di sviluppo dottrinale nell’assimilazione, da parte della dottrina cattolica, di elementi estranei alla Rivelazione, e cioè dei principi filosofici. Ma, idealista, egli vedeva in questa assimilazione un segno generale di un corretto progresso delle idee:

Fatti e opinioni che fino ad allora erano stati considerati sotto altri rapporti, ed erano stati raccolti attorno ad altri centri, sono ormai gradualmente attratti da una nuova influenza e sottomessi ad un nuovo imperio. Sono modificati, ripensati, accantonati, secondo il caso. Un nuovo elemento d’ordine e di composizione è sopraggiunto tra di essi; e la sua esistenza è provata da una capacità d’espansione, senza né disordine né dissoluzione.
Il processo di prelievo, di conservazione, di assimilazione, di bonifica, di fusione, un potere unitivo, è l’essenza di uno sviluppo fecondo e ne è il terzo segno distintivo (97).

E Newman dà un esempio, un esempio unico di tale feconda assimilazione: l’assimilazione da parte della teologia cattolica del principio filosofico di causalità strumentale. Questa assimilazione, egli dice, deriva da una antecedente affinità tra la verità rivelata e il principio di realtà naturale.

Se un’idea diviene più volentieri coalescente con queste o con quelle, ciò indica, non che sia stata indebitamente influenzata e cioè corrotta da esse, ma che tra loro vi è un’affinità antecedente. Qui, quantomeno, si deve ammettere che quando il Vangelo parla di una virtù proveniente da Nostro Signore (Lc 6, 19) o di una guarigione da lui operata con del fango che ha umettato con le sue labbra (Gv 9, 6), tali fatti presentano degli esempi, non di perversione del cristianesimo, ma della sua affinità con delle nozioni che gli sono esteriori (98).

Questo testo considerevole permette di evocare la fecondità dell’assimilazione del principio di causalità strumentale da parte della dottrina cristiana: si pensi all’efficienza della grazia della santa umanità di Gesù, strumento della sua divinità, prima nella sua passione, poi nella Messa e nei sacramenti, come la insegna San Tommaso e come la utilizza il concilio di Trento per definire l’azione ex opere operato dei sacramenti (99).
Si pensi, di contro, alla sterilità a cui si è condannato il protestantesimo rifiutando questa assimilazione: Cristo che dovrebbe essere la sola causa della grazia senza alcuno strumento né mediazione. Proprio come il Concilio Vaticano II si è insterilito rifiutando, nel 1963, su consiglio degli esperti Rahner e Ratzinger, di proclamare la Santa Vergine «mediatrice di tutte le grazie», perché, dicevano costoro, da un tale titolo «deriverebbe un male inimmaginabile dal punto di vista ecumenico» (100).
Al contrario, nel cattolicesimo, il principio di causalità strumentale è stato rivelatore di molteplici aspetti del dogma cristiano, i quali, senza di esso, sarebbero rimasti velati nella profondità del mistero e sarebbero sfuggiti alla conoscenza esplicita della fede.
Indubbiamente, l’assimilazione dei principi filosofici da parte del dogma o della teologia non ha niente a che vedere con la crescita degli esseri viventi per via del nutrimento, vale a dire per assimilazione spontanea! Il progresso si produce tramite la comparazione di una proposizione di fede (quel tale miracolo di Gesù) con un enunciato della ragione (la causalità strumentale) che gli presta la sua modesta luce, così da trarne una conclusione teologica che aiuterà a precisare il dogma. Nel progresso della scienza della fede, la premessa di ragione è solo uno strumento della premessa della fede, un ausilio della fede, per attualizzare ciò che in essa esiste allo stato virtuale o, se si vuole, già allo stato attuale implicito – non mi addentrerò nell’arcano di questa distinzione. Quello che è importante comprendere è che la verità di ragione non viene inclusa nella fede, ma viene da essa «assimilata» solo in quanto strumento d’investigazione e di precisazione.
Ma ciò che importa per noi è la ragione ultima di questa armonia prestabilita fra dogma e filosofia. È attraverso i nostri concetti, ancorati alla filosofia dell’essere, che l’intelletto coglie l’essere delle cose e, per analogia, può conoscere qualcosa dell’Essere primo, Dio. E noi constatiamo con ammirazione che ciò che la filosofia dell’essere ci dice delle perfezioni dell’Essere primo concorda perfettamente con ciò che ci svela la Rivelazione. Nel contempo, ciò che in Dio supera la capacità di ogni intelletto creato e che ci viene rivelato soprannaturalmente, è espresso in linguaggio umano e può essere sviluppato con i concetti della filosofia dell’essere.
L’attitudine di questa filosofia ad esprimere e a far progredire il dogma è indice della sua verità. Per contro, l’inattitudine delle filosofie idealiste a far questo è indice della loro falsità.
(su)

Lungi dall’asservirsi ai nostri concetti, la Rivelazione li giudica e li utilizza

Se la filosofia dell’essere ha potuto esprimere e sviluppare il dogma è anche perché, e bisogna sottolinearlo, il dogma o la Rivelazione ne hanno giudicato e purificato i concetti, estraendoli dalle filosofie particolari di cui potevano essere divenuti schiavi, come nel neoplatonismo, per farne dei concetti teologici, i concetti della filosofia dell’essere diventano la filosofia della Chiesa.
La Chiesa, nel suo dogma, non si sottomette mai ad una filosofia particolare o a ciò che Benedetto XVI chiama: «la forma di ragione dominante» in una data epoca. Tutta l’opera di San Tommaso d’Aquino è consistita nel purificare Aristotele dai suoi cattivi interpreti arabi, nell’aggiungervi degli elementi del platonismo, nel correggerlo anche alla luce della Rivelazione, per farne lo strumento di pregio della teologia e del dogma.
Alcuni eccellenti autori precisano meglio questa conclusione.

Solo una volta estratti dal loro sistema filosofico e modificati da una profonda maturazione, talvolta poi dapprima condannati a causa del loro tenore ancora inadeguato (monarchia, persona, consustanziale), quindi intesi correttamente e infine riconosciuti e definiti applicabili – ma solo analogicamente – che questi concetti sono potuti divenire portatori della nuova consistenza della fede cristiana (101).

È collocando nella luce della Rivelazione le nozioni elaborate dalla filosofia pagana che la Chiesa è rimasta fedele al Vangelo e ha fatto progredire la formulazione della fede (102). [E io aggiungo: Essa ha resistito agli attacchi di questa filosofia – ancora mal elaborata].

Lungi dal sottomettersi a questi concetti, la Chiesa si serve di essi, li utilizza come in ogni ambito il superiore utilizza l’inferiore, nel senso filosofico del termine, e cioè li ordina al proprio fine. La sopranatura utilizza la natura. Prima di servirsi di questi concetti e di questi termini, Cristo, tramite la Chiesa, li ha giudicati e approvati ad una luce tutta divina, che non ha per misura il tempo, ma l’immutabile eternità. Questi concetti, evidentemente inadeguati, potranno sempre essere precisati e non saranno mai superati.
Il dogma così definito non può lasciarsi assimilare da un pensiero umano in perpetua evoluzione, una tale assimilazione sarebbe solo una corruzione; al contrario è il dogma che vuole assimilare a sé questo pensiero umano che cambia senza posa perché muore tutti i giorni, e vuole farlo per comunicargli quaggiù qualcosa della vita immutabile di Dio. Il vero credente è colui la cui intelligenza è la più decisamente passiva nei confronti di Dio che la vivifica (103).

Alla luce della nostra analisi sul ruolo della filosofia dell’essere nello sviluppo del dogma, ruolo così bene precisato dai tre autori che ho appena citato, come appare difettosa e relativista l’idea che Benedetto XVI si fa dell’«incontro fra la fede e la filosofia»:

Quando nel XIII secolo, mediante filosofi ebrei ed arabi, il pensiero aristotelico entrò in contatto con la cristianità medievale formata nella tradizione platonica, e fede e ragione rischiarono di entrare in una contraddizione inconciliabile, fu soprattutto san Tommaso d'Aquino a mediare il nuovo incontro tra fede e filosofia aristotelica, mettendo così la fede in una relazione positiva con la forma di ragione dominante nel suo tempo (104).

Secondo Benedetto XVI, il compito assegnato al Concilio Vaticano II, secondo il programma tracciato da Giovanni XXIII, fu proprio quello di porre oggi la fede in una relazione positiva con la filosofia idealista moderna, per eliminare il deplorevole antagonismo fra fede e ragione moderna, e far compiere alla dottrina sacra un nuovo balzo in avanti. Ebbene, vediamo adesso come lo stesso Joseph Ratzinger, seguendo questo programma che era anche il suo, abbia usato queste filosofie «dominanti» degli anni ’50 per rileggere alcuni articoli del Credo e per esporre i tre grandi misteri della fede. Per prima cosa vediamo come l’esegeta ha commentato tre articoli del Credo, di cui due sono dei fatti evangelici.

(su)

NOTE

60  - JOSEF RUPERT GEISELMANN, Die katholische Tübinger Schule, Freiburg, Herder, 1964, p. 22.
61  - JOSEF RUPERT GEISELMANN, Die katholische Tübinger Schule, Freiburg, Herder, 1964, p. 36.
62  - DREY, Apologetik, I, pp. 377-378; – JOSEF RUPERT GEISELMANN, Die katholische Tübinger Schule, p. 36.
63  - J. RATZINGER, Ma Vie, souvenirs, 1927-1977, p.82 [La mia vita. Autobiografia, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1997, riedizione 2005, p. 70].
64  - J. RATZINGER, Ma Vie, souvenirs, 1927-1977, p.87 [La mia vita. Autobiografia, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1997, riedizione 2005, p. 74].
65  - J. RATZINGER, Ma Vie, souvenirs, 1927-1977, p.88 [La mia vita. Autobiografia, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1997, riedizione 2005, p. 75].
66  - J. RATZINGER, Ma Vie, souvenirs, 1927-1977, p.88 [La mia vita. Autobiografia, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1997, riedizione 2005, p. 75].
67  - PIO IX, anno 1846, Dz 1637 [DS 2778].
68  - SAN PIO X, decreto Lamentabili, anno 1907, Dz 2021 [DS 3401].
69  - Pio IX, Dz 1636 [DS 2777], VATICANO I, Dz 1800 [DS 3020].
70  - VATICANO I, Dz 1836 [DS 3070].
71  - VATICANO I, Dz 1836 [DS 3070].
72  - SAN TOMMASO, II II, q. 1, a 7, 4a ob. e ad 4.
73  - «Interpretatione latiori», «Lettera dei vescovi dopo il Concilio di Calcedonia», anno 458, in Acta conciliorum oecumenicorum, pubblicati da W. De Gruyter, 1936, 2, 5, 47. (Citato in MICHAEL FIEDROWICZ, Theologie der Kirchenväter, Herder, 2007, p. 355, nota 97.)
74  - SAN VINCENZO DI LERINO, Commonitorium primum, anno 434, n° 23, RJ 2174.
75  - SAN TOMMASO, I, q. 36, a 2, ad 2.
76  - SAN TOMMASO, II II, q. 174, a 6, ad 3.
77  - SAN TOMMASO, II II, q. 1, a 7.
78  - Prima di Cristo, gli articoli della fede sono aumentati poiché sono stati rivelati sempre più esplicitamente da Dio; dopo di Cristo e gli Apostoli, gli articoli della fede sono aumentati poiché sono stati trasmessi sempre più esplicitamente dalla Chiesa.
79  - J. RATZINGER, Ma Vie, souvenirs, 1927-1977, p. 88 [La mia vita. Autobiografia, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1997, riedizione 2005, pp. 74-75].
80  - Vedi: MARTIN BUBER, Moses, Oxford, East and West Library, 1946.
81  - Concilio di Trento, sessione IV, Dz 786 [DS 1507].
82  - Concilio di Trento, sessione IV, Dz 783 [DS 1501].
83  - BENEDETTO XVI, Jésus de Nazareth, Paris, Flammarion, 2007, avant-propos, p. 15. [Gesù di Nazareth, Rizzoli, Milano, 2007, Premessa, pp. 14-15].
84  - «Sed apostoli plenissime fuerunt instructi de mysteriis, acceperunt enim, sicut tempore prius, “ita et ceteris abundantius”, ut dicit Glossa, super illud Rom. VIII, 23, “nos ipsi primitias spiritus habentes”. […] Et ideo illi qui fuerunt propinquiores Christo vel ante, sicut Ioannes Baptista, vel post, sicut apostoli, plenius mysteria fidei cognoverunt.» (II II, q. 1, a. 7, arg. 4 e ad 4).
85  - J. RATZINGER, Ma Vie, souvenirs, 1927-1977, p. 87 [La mia vita. Autobiografia, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1997, riedizione 2005, p. 74].
86  - J. RATZINGER, Foi chrétienne hier et aujourd’hui, p. 111. [Introduzione al Cristianesimo, 1969, Queriniana, Brescia, nuova ed. 2000, p. 133-134].
87  - J. RATZINGER, Foi chrétienne hier et aujourd’hui, p. 110. [Introduzione al Cristianesimo, 1969, Queriniana, Brescia, nuova ed. 2000, p. 133].
88  - Vedi: Pascendi, n° 16, Dz 2082 [DS 3084].
89  - J. RATZINGER, Foi chrétienne hier et aujourd’hui, p. 111. [Introduzione al Cristianesimo, 1969, Queriniana, Brescia, nuova ed. 2000, p. 134-135].
90  - Vedi: KANT, Critique de la raison pure, prefazione alla 2a edizione, III, 10-14.
91  - Dz 48, DS 112.
92  - «Iesum Christum Filium Dei, natum ex Patre unigenitum, hoc est de substantia Patris […] natum non factum, unius substansiae cum patre» (Dz 54) [DS 125] [NdT: l’ultima parte di questa citazione latina riportata dall’A è: genitum non factum, consubstantialem Patri, per la quale egli rimanda al Dz 54; quella qui riportata è quella tratta dal DS 125, che risulta essere diversa].
93  - «unam deitatem in tribus subsistentiis sive personis adoraband» (Dz 213) [DS 421].
94  - «In relativis vero personarum nominibus Pater ad Filium, Filius ad Patrem, Sanctus Spiritus ad utroque refertur:  quae cum  relative tres personae dicantur, una tamen natura vel substantia creditur» (Dz 278) [DS 528].
95  - «ubi non obviat relationis oppositio» (Dz 703) [DS1330].
96  - HENRI BERGSON, L’Évolution créatrice, p. 352, citata da GARRIGOU LAGRANGE, Le sens commun, Paris, 1922, 7a ed., p. 92.
97  - JOHN HENRI NEWMAN, An Essay on the Development of Christian Doctrine, 1878, reprint University of Notre-Dame, Indiana, 2005, pp. 185-186.
98  - JOHN HENRI NEWMAN, An Essay on the Development of Christian Doctrine, 1878, reprint University of Notre-Dame, Indiana, 2005, p. 187.
99  - Concilio di Trento, sessione VII, can. 8, Dz 851 [DS 1608].
100  - RALPH WILTGEN, Le Rhin se jette dans le Tibre, Paris, Cèdre, 1975, p. 90 [Il Reno si getta nel Tevere]. Si veda anche: ABBÉ VICTOR ALAIN BERTO, lettera del 30 novembre 1963 a l’abbé B. pubblicata in Le Sel de la terre, n° 43, inverno 2002-2003, p. 29.
101  - MICHAEL FIEDROWICZ, Theologie der Kinchenväter, Herder, 2007, p. 340.
102  - ANDRÉ CLÉMENT, La Sagesse de Thomas d’Aquin, NEL, 1983, p. 42.
103  - P. RÉGINALD GARRIGOU-LAGRANGE O. P., Le Sens commun et les formules dogmatiques, Nouvelle Librairie National, 1922, pp. 358-359.
104  - BENEDETTO XVI, Discorso alla Curia del 22 dicembre 2005.




febbraio 2011

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