S. Ecc. Mons. Bernard Tissier de Mallerais
della Fraternità Sacerdotale San Pio X


LA FEDE IN PERICOLO PER LA RAGIONE

ERMENEUTICA DI BENEDETTO XVI

CAPITOLO 5 - ERMENEUTICA DEI TRE GRANDI DOGMI CRISTIANI


Questo studio è stato pubblicato sul n° 69 (estate 2009) della rivista Le Sel de la Terre - Intelligence de la foi -  Rivista trimestrale di dottrina tomista a servizio della Tradizione
La rivista, curata da Padri Domenicani collegati alla Fraternità Sacerdotale San Pio X, è una pubblicazione cattolica di scienze religiose e di cultura cristiana, posta  sotto il patronato di San Tommaso d’Aquino, in forza della sicurezza della dottrina e della chiarezza d’espressione del “Dottore Angelico”. Essa si colloca nel quadro della battaglia per la Tradizione iniziata da
Mons. Marcel Lefebvre e si presenta in maniera tale da potersi rivolgere ad ogni cattolico che voglia approfondire la propria fede.


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La traduzione e l'impaginazione sono nostre
Lo studio in formato pdf 

L’equivoco della ricerca perpetua della verità
Il dogma dell’incarnazione, rivisitato con l’esistenzialismo di Heidegger
Il dogma della redenzione rivisto dall’esistenzialismo cristiano
La soddisfazione, delicatezza della misericordia divina
Una negazione peggiore di quella di Lutero
Il peccato esistenzialista
Il sacerdozio ridotto a potere d’insegnamento

Lasciamo adesso il dominio dell’esegesi ed entriamo in quello più vasto della teologia e della spiegazione teologica del dogma. Secondo Sant’Anselmo (1033-1109), la teologia è la fede in cerca di intelligenza, fides quaerens intellectum. Può essa dare ai nostri moderni una moderna intelligenza dei dogmi? Sì, risponde Joseph Ratzinger, «una risposta che non rispecchia soltanto Dio, ma anche una parte del suo [dell’interrogante] interrogativo [moderno], comunicandogli qualche conoscenza di Dio attraverso la breccia incisa nel suo animo [moderno] (121). Ecco subito la prova moderna di rifrazione del divino attraverso l’umano, tentata dal teologo di Tubinga sui dogmi della Trinità, dell’incarnazione e della redenzione.

Il dogma della Trinità rivisto attraverso il personalismo

«Sforzo di interpretazione positiva [del mistero]». Questo il titolo, mentre la tesi proposta si presenta così: «Tesi II: Il paradosso “una essentia in tres personae” sta in funzione del concetto di persona».
Ci si avverte, quindi, che ci muoviamo verso una spiegazione del dogma tributario di una filosofia particolare e non del dogma che padroneggia ed utilizza la filosofia dell’essere. E l’autore prosegue: «e [il paradosso] va inteso come un’implicanza intrinseca di tale concetto (122)».
Ed ecco il ragionamento:

- Secondo il filosofo cristiano della fine dell’antichità, Boezio (470-525), la persona è la sostanza individuale di una natura razionale. Da allora, confessare Dio come essere personale e come tre persone significa confessare un sussistente in tre sostanze.
- Antitesi: ma questa affermazione immobilista e sostanzialista della persona genera col suo stesso assoluto, necessariamente, il suo contrario. Secondo Max Scheler (1874-1928), la persona è l’unità concreta dell’essere nei suoi atti, ed essa raggiunge il suo valore supremo nell’amore di altre persone, cioè nella condivisione del vissuto dell’altro: questa intersoggettività aiuta infatti la persona a giungere all’obiettività su se stessa. Karol Wojtyla, discepolo di Scheler, vede il proprio della persona nel tessuto delle relazioni di comunione (Teilhabe) che la relaziona con altri, e la perfezione della persona negli atti di comunione del vissuto. Parimenti, per Martin Buber, la verità ultima dell’umano si trova nella relazione «Io-Tu».
- Sintesi: la veduta immobilista e ontologista della persona non è conforme all’esperienza moderna, né ai suoi modi di investigazione, che vedono la persona, non come l’essere distinto, ma come l’essere-verso.
… riconoscere Dio in quanto persona, implica necessariamente che bisogna riconoscerlo come relazione, come loquela, come ubertosità. L’elemento assolutamente unico, privo di relazioni e refrattario a qualsiasi rapporto, non potrebbe mai essere una persona. Non esiste persona come entità singola a sé stante. Lo si deduce dalle parole stesse da cui è nato il concetto di “persona”, ove balza subito in primo piano: il termine greco “prosopon” significa letteralmente “sguardo”, che, unito alla particella “pros” (= verso), include la correlazione come qualcosa di costitutivo. Lo stesso fenomeno si rileva dal termine latino “persona”: il “suonare attraverso”; anche qui, la preposizione “per” (= attraverso, in mezzo) esprime correlazione, stavolta intesa come rapporto d’intesa verbale. Per dirla in altro modo: se l’Assoluto è una persona, non è affatto un’entità isolata da tutto il resto; sicché il superamento del singolare risulta necessariamente incluso nel concetto di persona (123).

Certo, l’autore sottolinea che il termine persona si applica a Dio solo per una analogia che rispetti «che la fisionomia personale di Dio è infinitamente superiore alla strutturazione personale umana» (p. 115) [p. 137]. Ma io noto che secondo il ragionamento di questo teologo, la trinità delle persone (o almeno la loro pluralità) si dimostrerebbe a partire dalla personalità di Dio. Ora, che Dio sia un essere personale è una verità della semplice ragione naturale. Dunque la pluralità delle persone divine si dimostrerebbe con la ragione naturale: cosa che è impossibile ed eretica.
Questo pasticcio fu evitato da San Tommaso. Per lui, le persone divine come relazioni sono il culmine, non il punto di partenza, del suo trattato sulla Trinità. Nella sua Summa Theologiae, il santo dottore parte dall’unità divina e, basandosi sui dati della fede, stabilisce che in Dio vi è una prima processione immanente, una processione intellettuale, quella del Verbo. Poi, per analogia con l’anima umana creata a immagine di Dio, in cui vi è una processione immanente d’amore, il santo dottore deduce che tutto porta a pensare che lo Spirito Santo proceda dal Padre e dal Verbo secondo una processione d’amore. In seguito, egli deduce che in Dio vi sono delle relazioni reali, sussistenti (124) e distinte: la paternità, la filiazione e la spirazione; e conclude che queste tre relazioni costituiscono le tre persone divine insegnateci dalla Rivelazione: infatti, egli spiega, il nome di persona significa distinzione, ora in Dio vi è distinzione solo per le relazioni d’origine, dunque le tre persone sono queste tre relazioni sussistenti (125). Questa singolare deduzione si muove interamente nella fede, parte da una verità di fede, le processioni, per giungere a chiarire un’altra verità di fede: le tre persone.
Il buon esito della filosofia della persona come sostanza, in San Tommaso, e il fallimento della filosofia della persona come relazione, in Benedetto, confermano la verità della prima e la falsità della seconda. Che peccato che il giovane Ratzinger si sia allontanato da San Tommaso nei suoi studi da seminarista, come egli stesso racconta:

… anche se il personalismo, nel mio caso, si legò quasi da sé con il pensiero di Agostino che, nelle Confessioni, mi venne incontro con tutta la sua passionalità e profondità umane. Ebbi, invece, delle difficoltà nell’accesso al pensiero di Tommaso d’Aquino, la cui logica cristallina mi pareva troppo chiusa in se stessa, troppo impersonale e preconfezionata (126).

Il fatto è che, in effetti, San Tommaso affronta molte più questioni che il suo maestro Sant’Agostino, e a differenza di questi le pone in ordine cristallino e con risposte cristalline su tutte. Joseph Ratzinger preferiva fermarsi alle questioni e ricercare continuamente altre risposte meno cristalline.
(su)

L’equivoco della ricerca perpetua della verità

Joseph Ratzinger ha spiegato il suo amore per Sant’Agostino, nato dalle sue letture da seminarista:

Inoltre, fin dall’inizio – dice a Peter Seewald – mi ha molto interessato Sant’Agostino, anche come contrappeso a Tommaso d’Aquino […] Quello che allora mi colpiva di più non era tanto […] ma la freschezza e la vivacità del suo pensiero. La scolastica ha la sua grandezza, ma in essa tutto è molto impersonale. C’è bisogno di un po’ di tempo prima di riuscire a entrare in essa e riconoscere la sua tensione interiore. In Agostino, al contrario, è sempre esplicitamente presente l’uomo passionale, sofferente, interrogante, con cui ci si può identificare (127).

Se San Tommaso è il genio della sintesi, il suo amato maestro Sant’Agostino è il genio dell’analisi. Una sintesi è sempre più arida di un’analisi, e la ricerca è più attraente per l’attrattiva dell’incognito e della scoperta scontata. Henri-Irénée Marrou, un altro appassionato di Sant’Agostino, descrive bene l’andamento molto vivace del pensiero del grande dottore:

[Più che la sua memoria dotata di innumerevoli tesori] occorre celebrare la potenza del suo genio speculativo, che sa cogliere dove qua e là c’è un problema, lo sa porre, vi si applica, l’approfondisce, ne affronta una ad una le difficoltà che via via sorgono, senza dichiararsi soddisfatto troppo presto. È uno spettacolo commovente vedere questo grande pensiero farsi largo ed esprimersi stentatamente con immensi sforzi (128).

Ma la Chiesa, dichiarando San Tommaso suo «dottore comune», invita i suoi figli a non fermarsi alla ricerca continua, ma a giungere alla sintesi, a costo di qualunque sforzo. Proprio lo sforzo a cui sembra aver rinunciato Joseph Ratzinger, la cui fede e la cui teologia sono caratterizzate, come nei novatori, non dalla stabilità dell’assenso, ma dalla mobilità della perpetua ricerca. Anch’egli sembra aver sofferto della malattia di tutti quei filosofi che, sollevando il divenire al di sopra dell’essere, il dubbio incessante al di sopra della certezza, la ricerca al di sopra del possesso, trovano il loro paradigma in Gotthold Lessing (1729-1781), poeta e filosofo scettico tedesco, adepto dei Lumi, che in un celebre passo diceva:

Non la verità di cui un uomo è o crede di essere in possesso, ma il sincero sforzo per giungervi, determina il valore del singolo. Infatti, le sue forze conseguono un miglioramento non in virtù del possesso della verità, ma della sua ricerca e soltanto in questo consiste il sempre crescente perfezionamento umano. Il possesso rende quieti, pigri e presuntuosi... 
  Se Dio tenesse nella sua mano destra tutta la verità e nella sinistra il solo eterno impulso verso la verità, seppur con la condizione di dover andar errando per l’eternità, e mi dicesse: scegli!, io mi precipiterei umilmente alla sua sinistra e direi: «Concedimi questa, o Padre! La verità pura è soltanto per te!» (LESSING, Sämtliche Schriften, X, 206, citato in Will and Areil Durant, The Story of Civilization, X, Rousseau and Revolution, Simon and Schuster, New York, 1967, p. 512) [G. E. LESSING, Religione e libertà, a cura di G. Ghia, Morcelliana, Brescia 2000, p. 33].

Al posto dell’umiltà, quale raffinato orgoglio! Il soggetto che preferisce se stesso all’oggetto. Siamo in pieno soggettivismo e questo è inconciliabile con la religione, che richiede la sottomissione della creatura al Creatore. Non v’è qualcosa di quest’orgoglio nell’infatuazione di Joseph Ratzinger per il personalismo e il suo richiamo, e nel disgusto cha ha per la filosofia tomista e le sue semplici adesioni?
(su)

Il dogma dell’incarnazione, rivisitato con l’esistenzialismo di Heidegger

La «rifrazione del divino attraverso l’umano» viene poi cercata da Joseph Ratzinger nel dogma dell’incarnazione, rivisto alla luce dell’esistenzialismo. Si serve della filosofia esistenzialista, mutua il processo d’immanenza e pratica il metodo dello storicismo. Il principio d’immanenza dice che l’oggetto della fede viene dal nostro intimo, mentre il metodo dello storicismo dice che vi è una rilettura necessaria del dogma.
Ecco come si presenta il dogma dell’incarnazione secondo il teologo Joseph Ratzinger, nel suo libro Foi chétienne… del 1968 [Introduzione al cristianesimo], attraverso lo schema: tesi, antitesi, sintesi.

- Tesi: il filosofo Boezio, alla fine dell’antichità, ha definito la persona, la persona umana, come «la sostanza individuale di una natura razionale», permettendo di sviluppare il dogma delle due nature di Gesù Cristo in una sola persona, definito dal concilio di Calcedonia nel 451. Questa la tesi, che è un classico. Boezio, filosofo cristiano, ha chiarito la nozione di persona ed ha aiutato a sviluppare il dogma di Calcedonia. Benissimo.
- Antitesi: oggi, Boezio è superato da Martin Heidegger, esistenzialista tedesco, che vede nella persona «l’autosuperamento», come cosa più conforme all’esperienza, piuttosto che il sussistente di una natura razionale. Egli preferisce l’autosuperamento. Noi realizziamo la nostra persona superando noi stessi, ecco la definizione di persona di Heidegger.
- Sintesi: l’Uomo-Dio, di cui professiamo la divinità nel Credo, non ha più bisogno, logicamente, di essere considerato come Dio fatto uomo. Egli è l’uomo che «si erge infinitamente alto sopra se stesso; e di conseguenza è tanto più uomo, quanto meno è chiuso in se stesso… […] il vero uomo è proprio colui che è svincolato al massimo, colui che non solo sfiora l’infinito – l’Infinito! -, ma fa tutt’uno con esso: Gesù Cristo (129)». Lo ripeto: bisogna credere nella divinità di Gesù Cristo, ma, è logicamente implicito, che non v’è più bisogno di considerarlo come Dio fatto uomo. No. Occorre considerare invece che, tendendo infinitamente al di là di se stesso, Gesù si sia totalmente superato e, con questo, veramente trovato. Egli è uno con l’Infinito: Gesù Cristo. Il che significa che è l’uomo che si supera, che si auto-realizza e che diviene divino. Ecco quindi il mistero dell’incarnazione reinterpretato alla luce dell’esistenzialismo e insieme dello storicismo.
Una conseguenza logica di questa rilettura dell’incarnazione potrebbe essere che la Santa Vergine non sia più la Madre di Dio fatto uomo, ma solo la madre di un uomo che diventa divino. E si rischia di cadere nell’eresia di Nestorio, condannata nel 425 dal concilio di Efeso in questi termini:

Se qualcuno non confessa che l’Emmanuele è Dio nel vero senso della parola, e che perciò la Santa Vergine è Madre di Dio perché ha generato secondo la carne il Verbo che è da Dio, sia anátema [DS 252].

Si dice che Boezio sia superato e che bisogna preferirgli Heidegger perché l’esperienza di Boezio sarebbe superata; l’esperienza di Martin Heidegger definisce «un nuovo rapporto vitale» con la persona e corrisponde ai nostri problemi attuali, ai nostri attuali problemi psicologici: come vincere l’egoismo? L’egoismo lo si vince con l’auto-superamento. Gesù Cristo ha vinto l’egoismo, radicalmente, superando infinitamente se stesso, unendosi all’infinito.
A me sembra, quanto meno, che l’incarnazione sia soprattutto l’abbassamento del Figlio di Dio, a voler credere a San Paolo: « Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana…» (Fil. 2, 6-7). Evidentemente, agli occhi dei moderni, l’auto-superamento è più meritevole della spoliazione. Comunque, la vera valorizzazione dell’uomo tramite l’incarnazione è precisata dai Padri: «Dio s’è fatto uomo perché l’uomo diventi Dio», e cioè sia divinizzato dalla grazia santificante.
Henri de Lubac, vent’anni prima di Joseph Ratzinger, aveva già tentato una reinterpretazione personalista e umanista dell’incarnazione, ma con la persona come «coscienza di sé»:

Con Cristo la persona è adulta, l’uomo emerge definitivamente dall’universo, prende piena coscienza di sé. Ormai, più che il grido trionfale: Agnosce o cristiane dignitatem tuam [Riconosci, o cristiano, la tua dignità] (San Leone Magno), sarà possibile celebrare la dignità dell’uomo: dignitatem conditionis humanae [la dignità della condizione umana]. Il precetto del saggio: «Conosci te stesso», riveste un nuovo significato. Ogni uomo, dicendo «io», pronuncia qualcosa di assoluto, di definitivo (130).

Così l’incarnazione del Figlio di Dio diventa il piedistallo dell’orgoglio umano. La persona assoluta, indipendentemente dai suoi atti, senza considerazione per la sua virtù o per i suoi vizi, a prescindere dalla sua restaurazione o meno nell’ordine soprannaturale, vedrebbe la sua inammissibile dignità magnificata dal Dio fatto uomo. Ecco un bell’esempio della «svolta umanista» o «antropologica» della teologia, operata da Karl Rahner in Germania e da Henri de Lubac in Francia.
L’antropologismo teologico di Joseph Ratzinger è molto vicino a tutto questo: al posto della persona come coscienza di sé, egli opta per la persona come auto-superamento.
Ma, per questo autore, la «comprensione cosciente della verità espressa» dal dogma si persegue con una nuova comprensione del dogma della redenzione.
(su)

Il dogma della redenzione rivisto dall’esistenzialismo cristiano

Fu Gabriel Marcel (1889-1973) lo strumento di questa revisione. Secondo questo filosofo francese, esistenzialista cristiano, il disinteresse e la disponibilità senza condizioni dell’uno verso l’altro fa acquisire al nostro io tutta la sua densità ontologica. In questo, Marcel è discepolo di Scheler e vicino a Buber.
Secondo Marcel, la dedizione, col suo assoluto, svela la persona dell’Essere assoluto che è Dio,  solo capace di spiegare questa esperienza garantendone il valore (131). Ne consegue che Cristo, col dono della sua vita per gli uomini, è l’emblema di questo dono di sé rivelatore di Dio.
La struttura dialettica del ragionamento è quella di Joseph Ratzinger nel suo Foi chrétienne hier et aujourd’hui [Introduzione al cristianesimo]. Riassumo il procedimento del pensiero del teologo di Tubinga: sempre seguendo lo schema «tesi, antitesi, sintesi».

- A partire da Sant’Anselmo (1033-1109), la pietà cristiana vede nella croce un sacrificio espiatorio. Ma si tratta di una pietà dolorista. Del resto, il nuovo Testamento non dice che l’uomo si riconcilia con Dio, ma che Dio riconcilia l’uomo (2 Cor. 5, 18; Col. 1, 22) offrendogli il suo amore. Che Dio esiga da suo Figlio «un sacrificio umano» è una crudeltà che non è conforme al «messaggio d’amore» del nuovo Testamento (132).
- Ma questa negazione, nel suo assoluto, genera la sua contraddizione (antitesi): tutta una serie di testi neo-testamentari (1 Pt 2, 24; Col 1, 13-14; 1 Gv 1, 7; 1 Gv 2, 2) affermano una soddisfazione ed una sostituzione della pena offerte da Gesù al posto nostro a Dio Padre, «sicché sembra proprio tornare alla ribalta tutto quanto abbiamo testé spazzato via (133)».
- Dunque (sintesi), sulla croce Gesù si è proprio sostituito a noi, non per saldare un debito, né per soffrire una pena, ma per amare al posto nostro, per «svolgere una funzione vicaria» per «rappresentarci» (p. 202) [p. 233]. Cosicché, la tesi, arricchita dall’antitesi, viene riproposta nella sintesi.

Notiamo che qui, come nella dialettica di G. W. F. Hegel (1770-1831), la tesi e l’antitesi, benché contraddittorie, facciano entrambe parte della verità. L’antitesi non è una semplice obiezione che si risolve con la sua eliminazione o col trattenerne la parte di verità, no, è una verità contraddittoria che si risolve con la sua integrazione (134). Di modo che la verità, ed anche la verità di fede, è soggetta ad una evoluzione continua e indefinita: ad ogni sintesi lo spirito umano troverà sempre una nuova antitesi da opporre, tale da operare delle «sintesi nuove» (Gaudium et spes, n° 5, §3). Il risultato per la redenzione è che «il sacrificio cristiano non è altro che l’esodo della “funzione vicaria”, che abbandona tutta se stessa, realizzato in pieno nell’uomo che è integralmente “esodo”, auto-superamento dell’amore (135)».
Occorre dunque fare una «rilettura» del nuovo Testamento (Benedetto XVI, primo messaggio del 20 aprile 2005, n° 3 – Cappella Sistina) conformemente alla sensibilità moderna e al modo di investigazione e di formulazione esistenzialiste, come si esige da «una nuova riflessione su di essa [una determinata verità] e un nuovo rapporto vitale con essa» (Benedetto XVI, discorso del 22 dicembre 2005). Al termine di questo «processo di rilettura e di amplificazione delle parole», la passione di Gesù Cristo non opera più la nostra salvezza sotto forma di merito, né sotto forma di soddisfazione, né sotto forma di sacrificio, né come causa efficiente (136), ma per l’esemplarità dell’assoluto dono si sé (idea platonica?) e per l’attrazione dell’amore offerto, un modo di causalità che J. G. Fitche riteneva «spirituale», irriducibile all’efficienza e alla finalità.

Con questa variazione di rotta nell’idea di espiazione, che viene a spostare addirittura l’asse dell’impostazione religiosa in genere, nel cristianesimo anche il culto e l’intera esistenza ricevono un nuovo indirizzo (137).

Tutto questo è stato professato nel 1967, stampato nel 1968 e realizzato in seguito nel 1969 con la nuova Messa, il nuovo sacerdozio, il nuovo cristianesimo senza nemici, senza combattimento, senza riparazione, senza rinuncia, senza sacrificio, senza propiziazione.
(su)

La soddisfazione, delicatezza della misericordia divina

E tuttavia, è vero che la carità è l’anima della passione redentrice di Gesù. Ma Joseph Ratzinger pecca di angelismo mettendo tra parentesi, con una epoché degna di Husserl, la realtà delle sofferenze di Cristo e il loro ruolo nella redenzione. Eppure, non è Isaia che descrive Cristo come «…uomo dei dolori […] percosso da Dio e umiliato… trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità», e aggiunge che «Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui, per le sue piaghe noi siamo stati guariti» (Is 53, 3-5) ?
Nel peccato, spiega San Tommaso, vi è un elemento formale, l’aversio a Deo (l’allontanarsi da Dio), e un elemento materiale, la conversio ad creaturam (il volgersi alla creatura e l’aderire ad essa in maniera disordinata). La carità e l’obbedienza con le quali Gesù offre le sue sofferenze, compensano, con una sovrabbondante soddisfazione, l’aversio a Deo di tutta l’umanità; ma quanto all’adesione alla creatura, al suo disordine non si può riparare se non con una pena volontariamente subita: è la soddisfazione penale di Gesù, offerta a Dio suo Padre al posto nostro e da cui traggono il loro valore tutte le nostre soddisfazioni (138).
Dunque, lungi dall’aver soppresso ogni offerta di soddisfazione a Dio per l’uomo, il Redentore è stato, dice San Tommaso, il nostro «soddisfattore», di cui offriamo il sacrificio nell’eucarestia. In tal modo l’uomo è messo in condizione di riscattarsi da se stesso. In quest’opera, dice San Leone Magno (139), Dio fa insieme giustizia e misericordia. Dio strappa l’uomo dalla schiavitù del demonio, non con un atto della sua sola potenza, ma con un’opera di equità, e cioè di compensazione. Da parte di Dio, dice San Tommaso, vi è una più grande misericordia nell’offrire all’uomo la possibilità di riscattarsi, di quanta ve ne sia nel riscattarlo con il semplice «condono (140)» della pena, senza esigere alcuna compensazione. Questo concorre alla dignità dell’uomo di potersi riscattare (141). Certo, non perché l’uomo si riscatta da se stesso, ma perché egli riceve da Dio quello che gli renderà. Ciò che noi offriamo a Dio è sempre «de tuis donis, ac datis» («delle cose che ci hai donate e date» – Canone Romano, Anámnesi). E anche se il nostro dono non procura niente a Dio, che non ha bisogno dei nostri beni (Sal 15, 2) per essere infinitamente felice, esso è quanto meno dovuto a Dio a rigore di giustizia – e non solo per una giustizia «metaforica (142)» che è il buon ordine interiore delle nostre facoltà – come nostro contributo alla riparazione dell’ordine violato dal peccato. Vi è in queste verità una metafisica sublime rifiutata da Joseph Ratzinger, che invece nella croce vede solo l’amore. In nome della fede, dobbiamo rigettare questa smaterializzazione della croce.
(su)

Una negazione peggiore di quella di Lutero

L’errore dei neo modernisti non consiste nell’affermare il primato della carità nella redenzione, San Tommaso l’ha già fatto prima di loro, ma sta nell’eresia che consiste nel negare che la redenzione sia un atto di giustizia.
Si consideri la negazione di Joseph Ratzinger:

Per molti cristiani, e specialmente per quelli che conoscono la fede solo piuttosto da lontano, le cose stanno come se la croce andasse vista inserita in un meccanismo, costituito dal diritto offeso e riparato. Sarebbe la forma in cui la giustizia di Dio infinitamente lesa verrebbe nuovamente placata da un’infinita espiazione. Sicché la vicenda della croce appare all’uomo come l’espressione di un atteggiamento che poggia su un esatto conguaglio tra dare e avere; ma nello stesso tempo si ha la sensazione che questo conguaglio si basi per altro su un piedistallo fittizio. Di conseguenza, si dà segretamente con la mano sinistra ciò che poi si ritoglie solennemente con la destra. Col risultato che la “infinita espiazione” su cui Dio sembra reggersi, si presenta in una luce doppiamente sinistra. Da molti libri di devozione, s’infiltra così nella coscienza proprio l’idea che la fede cristiana nella croce immagini un Dio la cui spietata giustizia abbia preteso un sacrificio umano, l’immolazione del suo stesso Figlio. Per cui si volgono con terrore le spalle ad una giustizia la cui tenebrosa ira rende inattendibile il messaggio d’amore (143).

Ma la serie di negazioni non è finita, essa continua con accanimento contro la soddisfazione di Gesù Cristo e contro l’offerta che di essa noi rinnoviamo nella Messa:

Non è l’uomo che si accosta a Dio tributandogli un dono compensatore (144).

Essa [la croce] non ha affatto l’aspetto di una prestazione propiziatrice che l’umanità offre allo sdegnato Iddio (145). [Che ne è, con queste negazioni, della natura propiziatoria del sacrificio della Messa?].

Nella sfera cristiana, l’adorazione si estrinseca in primo luogo nel ricevere con animo grato l’azione salvifica di Dio. [Che ne è della Messa rinnovamento sacramentale dell’azione salvifica del Calvario?] […] In questa cerimonia cultuale non si offrono a Dio tributi umani, ma si porta invece l’uomo a lasciarsi inondare di doni; noi non glorifichiamo Dio offrendogli qualcosa di presumibilmente nostro – quasi che ciò non fosse già per principio suo! – bensì facendoci regalare qualcosa… […] Il sacrificio cristiano non consiste in un dare a Dio ciò che Egli non avrebbe senza di noi (146).

…donando e sacrificando se stesso. Egli strappò di mano agli uomini le offerte sacrificali, sostituendovi la sua personalità, il suo stesso “io” donato in olocausto (147).

Se tuttavia nel nostro testo si afferma ancora che Gesù ha operato la redenzione col suo sangue (Eb 9, 12), questo sangue non va inteso come un dono materiale, come un mezzo espiativo da misurarsi quantitativamente, […] …l’essenza del culto cristiano non sta nell’offerta di cose, […] Il culto cristiano… si esplica nella nuova forma di funzione vicaria inclusa in quest’amore: nel fatto che egli [Cristo] s’è incaricato di rappresentarci e noi ci lasciamo impersonare da lui. Esso comporta pure che noi ci decidiamo una buona volta ad accantonare i nostri conati di auto-giustificazione (148).

In queste ripetute negazioni di Joseph Ratzinger vi è la riproposizione dell’eresia protestane: ha fatto tutto Gesù, l’uomo non deve fare e non deve offrire niente per la sua redenzione. Così, il sacrificio della Messa è reso superfluo, esso attenta all’opera della croce, è solo un’«adorazione (149)». In che modo quindi può ancora essere un sacrificio propiziatorio?
Ora, a questa eresia se ne aggiunge un’altra: la negazione della virtù espiatoria e soddisfattoria dello stesso sacrificio della croce. Questa negazione costituisce un’eresia peggiore di quella di Lutero. Almeno Lutero credeva nell’espiazione del Calvario. Ecco la sua professione di fede:

Io credo che Gesù Cristo, vero Dio, generato dal Padre nell'eternità, e anche vero uomo, nato da Maria Vergine, sia il mio Signore, che me perduto e dannato, ha redento, acquistato, guadagnato da tutti i peccati, dalla morte e dalla potenza del diavolo, non con oro o argento, ma col suo santo prezioso sangue e con il suo innocente soffrire e morire; affinché io sia Suo e viva nel Suo regno ai Suoi cenni e Gli serva con giustizia, innocenza e beatitudine in eterno, come Egli è risuscitato dalla morte, vive e regna in eterno. Questa è la verità (150).

Chi dei due è cristiano? Chi afferma con una forte ispirazione l’efficacia delle sofferenze e del sangue di Cristo per riscattarci, o chi la nega? Chi è il cristiano? Colui che confessa, con San Tommaso, l’espiazione, la soddisfazione, il merito e l’efficacia della passione di Cristo, o colui che, ispirato dall’esistenzialismo, nega queste cose?
Vero è che Joseph Ratzinger riconosce in Gesù sulla croce il dono della sua propria persona e l’amore compensatore, ma perché rifiuta di ammettere le verità complementari? Perché professa delle verità diminuite? Perché la giustizia divina non piace all’uomo moderno. In fondo, Gadamer ha ragione: esattamente come lo storico che vuole riscrivere la storia, il teologo che vuole ripensare la sua fede è sempre complice dei suoi pregiudizi.
L’ambizione dell’ermeneutica di arricchire la verità religiosa e di ingenerare il suo progresso attraverso la sua rilettura filosofica è dunque uno scacco clamoroso. Essa giunge ben presto ad un impoverimento, che è un’eresia (151). Questo tentativo era già stato stigmatizzato da Pio IX nel 1846, in questi termini:

Contro siffatto delirare possiamo ben ridire la parola con cui Tertulliano rimproverava i filosofi della sua età, “che fecero il Cristianesimo Stoico, o Platonico, o Dialettico” (152).


Nihil novi sub sole (niente di nuovo sotto il sole, Eccli 1,10).
Ma questo nuovo cristianesimo, in ultima analisi, poggia su una misconoscenza della giustizia divina e su una riduzione esistenzialista del peccato.
Ed è quello che dobbiamo esaminare per andare più a fondo nelle cose.
(su)

Il peccato esistenzialista

Un neo cristianesimo stoico o platonico è un cristianesimo epurato dal peccato. Il linguaggio di Joseph Ratzinger è sintomatico: Cristo non ha riconciliato il peccatore, ma l’uomo. Del resto, nel suo Foi chrétienne… [Introduzione al Cristianesimo] quasi mai l’autore pronuncia la parola peccato, salvo nell’articolo del Credo «Credo nella remissione dei peccati», appena menzionato e commentato in mezza pagina (p. 240) [p. 276]. La sola menzione seria del peccato l’abbiamo quando Joseph Ratzinger espone la dottrina di Sant’Anselmo sulla soddisfazione vicaria di Cristo:

Per colpa del peccato dell’uomo, che è stato un atto di ribellione contro Dio, l’ordine della giustizia è stato infinitamente sovvertito e Dio infinitamente offeso. Dietro questa concezione – commenta Ratzinger – sta l’idea che la misura dell’offesa si valuti badando all’offeso: le conseguenze sono ben differenti, si dice, se io offendo un accattone o invece il presidente della repubblica. L’offesa assume un peso diverso, a seconda di chi ne è la vittima. Siccome Dio è infinito, anche l’offesa a lui fatta dall’umanità col peccato riveste un peso infinito. Ora, il diritto in tal modo violato deve venir risarcito, perché Iddio è il Dio dell’ordine e della giustizia, anzi, la giustizia per antonomasia (153).

Da qui, se Dio vuole che l’umanità colpevole ripari essa stessa al peccato, la necessità di un capo che offra a nome di tutta l’umanità una soddisfazione che, vista la dignità della sua vita, avrà un valore infinito e costituirà quindi una compensazione sufficiente: solo la vita dell’Uomo-Dio avrà questa virtù (154).
Ora, Joseph Ratzinger, pur riconoscendo che «in questa teoria [sic] siano contenuti decisivi spunti biblici ed umani» e che essa «andrà pur sempre tenuta in considerazione» (p. 157) [p. 184], accusa Sant’Anselmo di schematizzare e di alterare le prospettive e di finire col «mettere in una luce sinistra l’immagine di Dio» (p. 158) [p. 185]. No, egli dice, Cristo non è il soddisfattore che per gli uomini si fa carico del debito del peccato; egli è il dono gratuito del suo Io «per» gli uomini:

…la vocazione [è] una sua chiamata ad essere per gli altri. Essa infatti è una vocazione a quel “per”, in cui l’uomo s’abbandona con animo sollevato, cessa di aggrapparsi convulsamente a se stesso, ed osa spiccare quel balzo verso l’Infinito, unicamente rischiando il quale riesce a raggiungere se stesso (155).

Non si potrebbe trattare «d’un’opera staccata da lui stesso» che Gesù Cristo dovrebbe compiere, né «d’una prestazione tassativamente richiesta da Dio» al suo Figlio incarnato; no, Gesù di Nazareth è semplicemente «l’uomo esemplare» che col suo esempio aiuta l’uomo a «staccarsi da sé» e per ciò stesso a «raggiungere davvero se stesso» (pp. 158-159) [pp. 185-186].
In una tale teoria, cosa diventa il peccato? È «l’incapacità d’amare (156)», l’egoismo, il ripiegamento su se stesso. Il colpevole è l’uomo distorto (p. 198) [p. 229] dalla «pacchiana soddisfazione del mero vivacchiare» (p. 240) [p. 276], quello che «si abbandona passivamente alla corrente dei suoi impulsi naturali» (p. 241) [p. 277]. La redenzione consiste nel fatto che Gesù trascina l’uomo ad uscire da sé, a vincere l’egoismo, a raddrizzarsi: «La sua giustizia è grazia: è giustizia attiva che raddrizza l’uomo distorto, riportandolo allo stato lineare, giustificandolo» (p. 198) [p. 229].
È esatto che la giustizia di Cristo raddrizza il peccatore, corregge il disordine del peccato, libera la carità nell’amore per Dio e per il prossimo: «O Dio … infondi nei nostri cuori la tenerezza del tuo amore, affinché, amandoti in tutto e sopra tutto […] (157). Ma è questo che intende Joseph Ratzinger?
Comunque sia, egli tace questa verità capitale: il peccato è innanzi tutto formalmente una insubordinazione dell’uomo alla legge di Dio, una rottura dell’ordinamento dell’uomo a Dio. Questo primario ordinamento, realizzato con la grazia santificante, era la fonte della sottomissione delle potenze inferiori dell’anima alla ragione, e questo duplice ordinamento, esteriore ed interiore, costituiva la giustizia originaria, che andò perduta col peccato originale. Questo fece perdere all’uomo la grazia santificante ed inflisse alla sua natura la quadruplice ferita dell’ignoranza, della malizia, della debolezza e della concupiscenza (158), ferita che rimane perfino dopo il battesimo.
Ora, dal momento che l’intera natura umana, comune a tutti gli uomini, era ridotta spoglia del dono gratuito della grazia e ferita nelle sue facoltà naturali, bisognava che il Redentore ponesse un atto che, non limitandosi a toccare ogni uomo nel corso dei secoli, abbracciasse d’un sol colpo tutta l’umanità. Il che non era possibile con la sola forza dell’esempio o dell’attrazione, ma doveva realizzarsi per la virtù della soddisfazione e del riscatto, che sono atti di natura giuridica.
Come ho già detto, secondo San Leone e San Tommaso, Dio avrebbe potuto risanare l’umanità col semplice condono del suo debito, con una amnistia generale; ma l’uomo sarebbe presto ricaduto nel peccato e la cosa non sarebbe servita a niente! La prudenza di Dio, invece, e la sua libera volontà, scelsero un piano più oneroso per Dio e più onorevole e vantaggioso per l’uomo .
Questo piano dalla saggezza insondabile previde che il Figlio di Dio fatto uomo soffrisse la passione e la morte in croce, tale da offrire una soddisfazione perfetta e sovrabbondante alla giustizia di Dio e da meritare per tutti gli uomini la grazia del perdono, a causa della dignità della sua vita, che era quella dell’Uomo-Dio, dell’immensità della carità con la quale soffriva, e della universalità delle sofferenze che accettava (vedi: SAN TOMMASO, III, q. 48, a. 2). E dai meriti e dalle soddisfazioni di Cristo derivassero il valore meritorio e soddisfattorio delle buone opere – atti di carità e sacrifici – dei cristiani; così che in Gesù Cristo, uno di noi, l’umanità si rialzasse e, aggiungendo i suoi travagli a quelli del suo capo, cooperasse attivamente alla propria rigenerazione. «Grazie a Dio per questo suo ineffabile dono!» (2 Cor 9, 15).
Lungi quindi dal presentare una «luce sinistra», la cura di Dio per il nostro riscatto tramite noi stessi, in virtù dei meriti e delle soddisfazioni di Gesù Cristo, è la prova di un accurato rispetto di Dio per la sua creatura e la dimostrazione di una superiore misericordia.
Ecco un mistero che Joseph Ratzinger non sembra abbia assimilato! Come mai? Si è costretti a domandarsi se egli non abbia perduto il senso del peccato, il senso di Dio, di Dio di infinita maestà. Ha dimenticato il «dimitte nobis debita nostra» del Pater noster (Mt 6, 12) ? Non ammette il debito infinito contratto verso Dio per un solo peccato mortale? Non comprende la cura di Dio perché i peccatori gli offrano una riparazione infinita? Peraltro, per lui l’inferno non è una punizione inflitta da Dio, ma solo l’esito dell’amore rifiutato, «una solitudine in cui non entra più la parola dell’amore (159)». La religione di Joseph Ratzinger è ridotta. Il peccato non è più un debito, ma una mancanza: è il peccato esistenzialista.
Ora, dichiara Joseph Ratzinger, «Con questa inversione di rotta nell’idea dell’espiazione […] nel cristianesimo anche il culto e l’intera esistenza ricevono un nuovo indirizzo (160)».
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Il sacerdozio ridotto a potere d’insegnamento

A questo nuovo culto corrisponderà una nuova Messa.
Conformemente alla richiesta di Dom Odo Casel, monaco benedettino di Maria Laach, la Messa diventa la celebrazione comune della fede. Non più una cosa offerta a Dio, non più un’azione separata da quella del popolo, ma un’azione di comunione interpersonale; un’esperienza comune della fede, la celebrazione delle gesta di Gesù. «Si tratta solo di far memoria», dice il Messale portatile dei fedeli francofoni del 1972.
Parallelamente, secondo Joseph Ratzinger, il sacerdozio «ha superato il livello della polemica» che, al concilio di Trento, aveva ristretto la visione del sacerdozio vedendo nel sacerdote solo un puro sacrificatore (sessione XXIII, decreto sul sacramento dell’ordine). Il concilio di Trento aveva ristretto la visione globale del sacerdozio, il Vaticano II ha ampliato le prospettive. Joseph Ratzinger dice:

Il Vaticano II, invece, ha superato il livello della polemica e ha tracciato un quadro positivo completo della posizione della Chiesa sul sacerdozio, in cui sono state anche accolte le richieste della Riforma (161).

Che si legga bene: le richieste della «Riforma» protestante, che vedeva il sacerdote come l’uomo della parola di Dio, della predicazione del Vangelo, punto e basta.
In tal  modo, dunque, continua Joseph Ratzinger:

La totalità del problema del sacerdozio si riduce in ultima analisi alla questione del potere d’insegnamento nella Chiesa in maniera generale (162).

Quindi egli riduce tutto il sacerdozio al potere d’insegnamento nella Chiesa. Egli non arriva a negare il sacrificio, dice semplicemente: «Tutto si riduce al potere d’insegnamento nella Chiesa». Logicamente, anche l’offerta della Messa da parte de sacerdote all’altare dev’essere riletta in una prospettiva d’insegnamento della parola di Dio. Occorre rivisitare il sacerdozio, e anche il sacrificio, e anche la consacrazione: non si tratta che della celebrazione delle gesta di Cristo, la sua incarnazione, la sua passione, la sua risurrezione, la sua ascensione, vissute in comune sotto la presidenza del sacerdote, come pretende Dom Casel. Si è rivisitato il sacerdozio. Il sacerdote è diventato l’animatore della celebrazione e del vissuto comunitario della fede.
Questa è solo una parentesi, per mostrare come le idee esistenzialiste e personaliste di Joseph Ratzinger, del 1967, sulla redenzione e sul sacerdote, cioè su Cristo Sacerdote, siano state effettivamente applicate, nel 1969, nella nuova Messa.
Ma questo nuovo cristianesimo finisce col rivestire necessariamente una forma sociale, da un lato nella società spirituale, la Chiesa, dall’altro nella città temporale. Che ne sarà allora dell’ecclesiologia, che cosa diventerà il Cristo Re?


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NOTE

121  - J. RATZINGER, Foi chrétienne hier et aujourd’hui, p. 111. [Introduzione al Cristianesimo, 1969, Queriniana, Brescia, nuova ed. 2000, p. 134].
122  - J. RATZINGER, Foi chrétienne hier et aujourd’hui, p. 113. [Introduzione al Cristianesimo, 1969, Queriniana, Brescia, nuova ed. 2000, p. 135 e 136].
123  - J. RATZINGER, Foi chrétienne hier et aujourd’hui, pp. 113-114. [Introduzione al Cristianesimo, 1969, Queriniana, Brescia, nuova ed. 2000, p. 136-137].
124  - SAN TOMMASO, I, q. 28, a 2.
125  - SAN TOMMASO, I, q. 29, a 4.
126 - J. RATZINGER, Ma Vie, souvenirs, 1927-1977, p. 52 [La mia vita. Autobiografia, Edizioni San Paolo, 1997, ristampa 2005, p. 44].
127  - J. RATZINGER, Le Sel de la terre, Flammarion-Cerf, 1997, pp. 60-61. [Il sale della terra. San Paolo, 2005, pp. 68-69.]
128  - H.-I. MARROU, Saint Augustin et l’augustinisme, Seuil, 1955, p. 62.
129  - J. RATZINGER, Foi chrétienne hier et aujourd’hui, p. 159. [Introduzione al Cristianesimo, 1969, Queriniana, Brescia, nuova ed. 2000, p. 186].
130  - H. DE LUBAC, Catholicisme, Paris, Cerf, 1954, pp. 264-265 [Cattolicismo. Aspetti sociali del dogma, Jaca Book, Milano, 1978/1992].
131  - Vedi: F.-J. THONNARD, Précis d’histoire de la philosophie, Desclée, 1966, pp. 1081-1082.
132  - J. RATZINGER, Foi chrétienne hier et aujourd’hui, p. 197-199. [Introduzione al Cristianesimo, 1969, Queriniana, Brescia, nuova ed. 2000, p. 227-230].
133  - J. RATZINGER, Foi chrétienne hier et aujourd’hui, p. 199. [Introduzione al Cristianesimo, 1969, Queriniana, Brescia, nuova ed. 2000, p. 230].
134  - Vedi: F.-J. THONNARD, Précis d’histoire de la philosophie, Desclée, 1966, pp. 676-677.
135  - J. RATZINGER, Foi chrétienne hier et aujourd’hui, p. 203. [Introduzione al Cristianesimo, 1969, Queriniana, Brescia, nuova ed. 2000, p. 234].
136  - Vedi: SAN TOMMASO, III, q. 48.
137  - J. RATZINGER, Foi chrétienne hier et aujourd’hui, p. 199. [Introduzione al Cristianesimo, 1969, Queriniana, Brescia, nuova ed. 2000, p. 229].
138  - Vedi: SAN TOMMASO, III, q. 1, a. 2, ad 2; q.48, a. 2 e 4.
139  - SAINT LÉON LE GRAND, Premiere et deuxiéme sermons pour Noël, Paris, Cerf, «Sources Chétiennes» n° 22 bis, 1964, p. 69 e p.p. 81-82. [SAN LEONE MAGNO, I sermoni del Natale, Edizioni Paoline, 2004].
140  - Dal latino «condono»: donare liberamente, senza chiedere nulla in cambio.
141  - Vedi: SAN TOMMASO, III, q. 46, a. 1, ad 3.
142  - Vedi: SAN TOMMASO, I-II, q. 113, a. 1.
143  - J. RATZINGER, Foi chrétienne hier et aujourd’hui, p. 197. [Introduzione al Cristianesimo, 1969, Queriniana, Brescia, nuova ed. 2000, p. 227-228].
144  - J. RATZINGER, Foi chrétienne hier et aujourd’hui, p. 197. [Introduzione al Cristianesimo, 1969, Queriniana, Brescia, nuova ed. 2000, p. 228].
145  - J. RATZINGER, Foi chrétienne hier et aujourd’hui, p. 198. [Introduzione al Cristianesimo, 1969, Queriniana, Brescia, nuova ed. 2000, p. 229].
146  - J. RATZINGER, Foi chrétienne hier et aujourd’hui, p. 199. [Introduzione al Cristianesimo, 1969, Queriniana, Brescia, nuova ed. 2000, p. 229].
147  - J. RATZINGER, Foi chrétienne hier et aujourd’hui, p. 201. [Introduzione al Cristianesimo, 1969, Queriniana, Brescia, nuova ed. 2000, p. 232].
148  - J. RATZINGER, Foi chrétienne hier et aujourd’hui, p. 202. [Introduzione al Cristianesimo, 1969, Queriniana, Brescia, nuova ed. 2000, pp. 232 e 233].
149  - J. RATZINGER, Foi chrétienne hier et aujourd’hui, p. 202 et 204. [Introduzione al Cristianesimo, 1969, Queriniana, Brescia, nuova ed. 2000, pp. 233 e 234].
150  - Le petit Catéchisme de Luther, citato da LOUIS BOUYER, Du Protestantisme a l’Église, 3° ed., Paris, Le Cerf, collection «Unam Sanctam», n° 27, 1959, p. 27 [Piccolo catechismo di Martin Lutero, ed. diverse, cap. II, art. II]
151  - «Eresia», dal greco haíresis, significa etimologicamente: diminuzione, scelta sottrattiva, preferenza, diminuzione.
152  - PIO IX, enciclica Qui Pluribus del 9 novembre 1846.
153  - J. RATZINGER, Foi chrétienne hier et aujourd’hui, p. 157. [Introduzione al Cristianesimo, 1969, Queriniana, Brescia, nuova ed. 2000, p. 183].
154  - Vedi: SAN TOMMASO, III, q. 1, a. 2, ad 2. San Tommaso d’Aquino mette a punto la dottrina che Sant’Anselmo ha proposto nel suo Cur Deus homo (Perché Dio [s’è fatto] uomo). Le critiche di J. Ratzinger contro Sant’Anselmo sono dirette in effetti contro lo stesso San Tommaso d’Aquino.
155  - J. RATZINGER, Foi chrétienne hier et aujourd’hui, p. 158. [Introduzione al Cristianesimo, 1969, Queriniana, Brescia, nuova ed. 2000, pp. 184-185].
156  - BENEDETTO XVI, enciclica Spes salvi, del 30 novembre 2007, n° 44.
157  - «Deus, … infúnde córdibus nostris tui amóris afféctum: ut te in ómnibus et super ómnia diligéntes […]» (Oratio della 5a Domenica dopo Pentecoste).
158  - Vedi: SAN TOMMASO, I-II, q. 85, a. 3.
159  - J. RATZINGER, Foi chrétienne hier et aujourd’hui, p. 212. [Introduzione al Cristianesimo, 1969, Queriniana, Brescia, nuova ed. 2000, p. 244].
160  - J. RATZINGER, Foi chrétienne hier et aujourd’hui, p. 199. [Introduzione al Cristianesimo, 1969, Queriniana, Brescia, nuova ed. 2000, p. 229].
161  - J. RATZINGER, Les Principes de la théologie, p. 279.
162  - J. RATZINGER, Les Principes de la théologie, p. 279.
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Indice

Prefazione 
Introduzione


Cap. 1 -    Ermeneutica della continuità
Cap. 2 -    Itinerario filosofico di Joseph Ratzinger
Cap. 3 -    Itinerario teologico di Joseph Ratzinger
Cap. 4 -    Un’esegesi esistenzialista del Vangelo
Cap. 5 -    Ermeneutica dei tre grandi dogmi cristiani
Cap. 6 -    Personalismo ed ecclesiologia
Cap. 7 -    Il personalismo politico e sociale
Cap. 8 -    Cristo Re rivisto dal personalismo
Cap. 9 -    La fede personalista di Benedetto XVI
Cap. 10 -  Un supermodernismo scettico

Epilogo: Ermeneutica dei fini ultimi

Postfazione: Cristianesimo e Lumi

Ringraziamenti


febbraio 2011

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