S. Ecc. Mons. Bernard Tissier de Mallerais
della Fraternità Sacerdotale San Pio X


LA FEDE IN PERICOLO PER LA RAGIONE

ERMENEUTICA DI BENEDETTO XVI

CAPITOLO 1 - ERMENEUTICA DELLA CONTINUITA'

Questo studio è stato pubblicato sul n° 69 (estate 2009) della rivista Le Sel de la Terre - Intelligence de la foi -  Rivista trimestrale di dottrina tomista a servizio della Tradizione
La rivista, curata da Padri Domenicani collegati alla Fraternità Sacerdotale San Pio X, è una pubblicazione cattolica di scienze religiose e di cultura cristiana, posta  sotto il patronato di San Tommaso d’Aquino, in forza della sicurezza della dottrina e della chiarezza d’espressione del “Dottore Angelico”. Essa si colloca nel quadro della battaglia per la Tradizione iniziata da
Mons. Marcel Lefebvre e si presenta in maniera tale da potersi rivolgere ad ogni cattolico che voglia approfondire la propria fede.


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Capitolo 1

Ermeneutica della continuità



Fede cristiana ieri e oggi: il «perché» dell’ermeneutica

«Cos’è che è costitutivo della fede oggi?». È questa la domanda che si poneva Joseph Ratzinger nel 1973, all’interno di un gruppo di discussione ecumenica, e che pone come primo interrogativo nel suo libro Les principes de la théologie catholique (8). «La domanda è mal posta – precisa - sarebbe più corretto chiedersi che cos’è che, dal crollo del passato, rimane ancora oggi come elemento costitutivo». Il crollo è scientifico, politico, morale, perfino religioso. Bisogna ammettere una filosofia della storia che accolga come pertinenti le rotture del pensiero, perché ogni tesi possiederebbe un senso come fosse un momento del tutto? Così, per parafrasare Ratzinger, «l’interpretazione tomista del fatto cristiano, come quella kantiana, avrebbero ciascuna la sua verità nella loro epoca storica, ma rimarrebbero vere solo abbandonandole quando abbiano compiuto la loro ora, per includerle in un tutto che si costruisce nella novità».
Joseph Ratzinger sembra scartare questo metodo dialettico, perché esso sfocia proprio in una nuova verità. Non bisogna fare una sintesi degli inconciliabili, ma ricercare quale continuità esista tra loro. Ricerchiamo quindi qual è la permanenza della fede cristiana nelle fluttuazioni delle filosofie che hanno voluto esprimerla. È questo il tema dell’opera del professore di Tubinga, Foi chrétienne hier et aujourd’hui, [Introduzione al Cristianesimo] (9).
Poiché la ragione sembra evolvere a seconda delle diverse filosofie, e la fede in passato si è adattata ad una tale evoluzione, i rapporti fra la fede e la ragione dovrebbero essere rivisti periodicamente allo scopo di poter sempre esprimere la fede costante con i concetti dell’uomo contemporaneo. Questa revisione è il frutto dell’ermeneutica.
(su)

La fede in pericolo per la filosofia

Quando San Giovanni, e lo Spirito Santo che lo ispira, scelgono la parola Verbo, in greco Logos, per indicare la persona del Figlio nella Santissima Trinità, quel termine, fino a quel momento, è quanto mai equivoco. Esso indica comunemente il discorso formulato. Eraclito, seicento anni prima di Giovanni, parla di un logos che misura tutte le cose, ma si tratta del fuoco che riscalda e consuma tutto. Gli stoici utilizzano questo termine per significare l’intelligenza delle cose, la loro ragione seminale (logos spermatikos), che si confonde con il principio immanente dell’organizzazione dell’universo. Infine, Filone (13 a. C. – 54 d. C.), ebreo praticante ed ellenista di Alessandria, vede nel logos il supremo intelligibile che ordina l’universo, ma molto inferiore al Dio inconoscibile, quello di Abramo e di Mosè.

Giovanni s’impossessa del termine greco. Egli lo strappa, per così dire, a coloro che l’hanno usato per ignoranza o per sbaglio. Fin dalle prime parole del prologo del suo Vangelo, egli gli dà, gli rende piuttosto, il suo significato assoluto. Questo è il Figlio eterno di Dio, che è la sua parola, il suo Logos, il suo Verbo. E questo Verbo si è incarnato […]. Così, la Rivelazione fatta ai Giudei si sforza, fin dall’inizio, di esprimersi con il linguaggio della filosofia greca, ma senza farle alcuna concessione (10).

In tal modo la fede si esprime con concetti umani: è la Scrittura ispirata; si spiega con concetti umani: è la teologia, scienza della fede; si definisce infine con concetti umani: è il dogma. Tutti questi concetti sono d’origine volgare o filosofica, ma vengono usati dalla fede solo dopo essere stati decantati e purificati da ogni traccia filosofica originaria indesiderabile.
A prezzo di quali esitazioni e di quali fatiche i Padri e i primi concilii si sono decisi, di fronte alle eresie, ad impiegare dei termini filosofici e a coniare nuove formule di fede per precisare il dato rivelato! L’impiego di termini filosofici come ousia (sostanza), ipostasi, prosopon (persona), per esprimere il mistero della Santissima Trinità e dell’incarnazione, si è accompagnato ad un necessario «processo di purificazione e di ridefinizione» dei concetti da essi espressi.

È solo dopo essere stati avulsi dal loro contesto filosofico e modificati con una maturazione profonda, poi talvolta prima condannati, a causa del loro tenore inadeguato (monarchia, persona, consustanziale), quindi intesi correttamente, infine ammessi e dichiarati applicabili (ma solo analogicamente), che questi concetti sono potuti diventare portatori della nuova consistenza della fede cristiana (11).

Questi fatti dimostrano che, lungi dall’esprimersi per mezzo della filosofia dell’epoca, la fede deve astrarsi dalle false filosofie e forgiare i suoi concetti propri. Ma tale astrarsi da ogni filosofia, lascia permanere il semplice «senso comune»? Con il Padre Garrigou-Lagrange, risponderò più avanti a questa domanda, dimostrando come i dogmi si esprimano col linguaggio della filosofia dell’essere che è semplicemente il momento scientifico del senso comune.
(su)

L’ermeneutica alla scuola dei Padri della Chiesa

È con la stessa ripugnanza che i concilii acconsentirono ad aggiungere delle precisazioni al simbolo della fede del concilio di Nicea (325) che sembrava avere difficoltà ad escludere ogni eresia. Il concilio di Calcedonia (451), per contrastare l’eresia monofisita, si decise a procedere ad una definizione (horos) della fede, una novità. Poco dopo (458), i vescovi conclusero che Calcedonia costituiva «una più ampia interpretazione» di Nicea. Il termine interpretazione (hermeneia) è utilizzato anche da Sant’Ilario (De synodis, 91) quando parla dei Padri che, dopo Nicea, hanno «interpretato religiosamente la proprietà del consustanziale». Non si trattò di una rilettura, né di una revisione del simbolo di Nicea, ma di una spiegazione più dettagliata. È quindi questo il senso dell’hermeneia realizzata da Calcedonia. Più tardi, Vigilio di Tapso, di fronte all’apparire delle nuove eresie, affermerà la necessità di «giungere a nuovi decreti che siano in grado tuttavia di far rimanere intatto ciò che i precedenti concilii avevano definito contro gli eretici (12)». Poi, Massimo il Confessore dichiarerà che i Padri di Costantinopoli hanno solo confermato la fede di Nicea contro coloro che cercavano di cambiarne il significato: per Massimo, Cristo sussistente «in due nature» non è «un’altra professione di fede» (allon pisteos symbolon), ma solo una più penetrante  (tranountes) visione di Nicea, la quale, per mezzo di interpretazioni e di elaborazioni ulteriori (epexegoumenoi kai epexergazomenoi), dovrà continuare ad essere difesa contro le interpretazioni deformanti (13).
In questo modo, in relazione sia al suo fine sia alla sua forma, viene precisata l’ermeneutica (hermeneia) che i Padri praticano nei confronti del magistero anteriore.
Quanto al fine, non si tratta di adattarsi ad una mentalità moderna, ma di combattere questa mentalità moderna e di neutralizzare l’impronta delle filosofie moderne sulla fede (in effetti è proprio degli eretici ricondurre la fede a delle speculazioni filosofiche moderne che la corrompono). Non si tratta affatto di assolvere gli antichi eretici in nome di una migliore comprensione delle formule cattoliche che li hanno condannati!
Quanto alla forma, non si tratta di proporre i principi moderni in nome della fede, ma di condannarli in nome di questa stessa fede inalterata.
Insomma, l’ermeneutica revisionista di Joseph Ratzinger è estranea al pensiero dei Padri. È dunque opportuno rivederla radicalmente.
(su)

Il progresso omogeneo dei dogmi

Si deve a San Vincenzo di Lerino l’aver insegnato, nel 434, lo sviluppo omogeneo del dogma, in termini di esplicitazione e non di mutazione:

È proprio del progresso che ogni cosa venga amplificata in se stessa; del cambiamento, invece, è proprio che ogni cosa venga trasformata in un’altra […] Allorché qualche parte del germe primordiale finisce col crescere nel corso dei tempi, si gioisca e lo si coltivi con cura, ma non si cambi alcunché della natura del germe: vi si aggiunga, certo, l’aspetto, la forma, la distinzione, ma che resti identica la natura di ogni genere (14).

Nello stesso senso, Pio IX, nel 1854, citava lo stesso Vincenzo di Lerino nella bolla di definizione dell’Immacolata Concezione, e parlando delle «dottrine a lei affidate» diceva che la Chiesa «cerca di limare e di affinare quelle antiche dottrine della divina rivelazione, in modo che ricevano chiarezza, luce e precisione. Così, mentre conservano la loro pienezza, la loro integrità e il loro carattere, si sviluppano soltanto secondo la loro propria natura, ossia nello stesso pensiero, nello stesso senso» [DS 2802].
In questo progresso per distinzione, i dogmi non progrediscono in profondità – una profondità di cui gli Apostoli hanno già ricevuto la pienezza – né in verità, cioè nel loro adeguamento al frammento di mistero che Dio ha rivelato. Il progresso ricercato dalla teologia e dal magistero è quello di un’espressione più accurata del mistero divino com’esso è, immutabile come è immutabile Iddio. I concetti, sempre imperfetti, potranno sempre essere precisati, ma non saranno mai superati. La formula dogmatica non ha dunque niente a che vedere con la reazione vitale del soggetto credente, né da essa ha alcunché da guadagnare, ma piuttosto tutto da perdere. Al contrario, è questo soggetto che deve annullarsi e sparire davanti al contenuto oggettivo del dogma.
(su)

Ritorno all’oggettività dei Padri e dei concilii

Lungi dal dover rivestire via via le successive forme temporanee della soggettività umana, lo sforzo dogmatico è un lavoro perseverante di oggettivazione della verità rivelata, sulla base dei dati della Scrittura e della Tradizione. Si tratta di un lavoro di epurazione dal soggettivo a favore di un’oggettività la più perfetta possibile. Questo lavoro di purificazione non è primariamente un’asportazione dell’eterogeneo per ritrovare l’omogeneo, foss’anche a fronte delle eresie e delle deviazioni dottrinali. L’operazione essenziale dello sviluppo dogmatico è uno sforzo di raccolta di ciò che è disperso, di condensazione del diffuso, di eliminazione delle metafore per quanto possibile, di purificazione delle analogie per renderle proprie. Il consustanziale di Nicea e la transustanziazione di Trento appartengono a queste riduzioni riuscite.
Fatalmente, la riduzione dogmatica si allontana dalla profondità scritturale: il consustanziale non avrà mai la profondità di una parola di Gesù come questa: «Chi vede me, vede il Padre» (Gv 14, 9). In questa parola: quale apertura su un insondabile abisso! Quale fonte di domande interminabili! Quale spazio per la contemplazione! E tuttavia, che progresso in precisione nel consustanziale! Quale fontana di deduzioni teologiche! Ecco qua, mi sembra, tutto il problema gnoseologico di Joseph Ratzinger: combattuto fra i dogmi che deve mantenere con un’assoluta stabilità e la ricerca curiosa del suo spirito mobile, Joseph Ratzinger non riesce a conciliare i due poli della sua fede (15).
Quando l’affermazione dell’«io» verrà meno davanti a «Lui»?
(su)

Nuova riflessione per un nuovo rapporto vitale?

È questo annullamento del soggetto credente che rifiuta energicamente Benedetto XVI. Per lui, l’evoluzione della formulazione della fede non consiste nella ricerca della migliore precisione, ma nella necessità di proporre una formula nuova e adattata. È la novità per la novità. E l’adattamento è un adattamento al credente, non un adattamento al mistero. Tutto ciò trova riscontro nel sillogismo
di Giovanni XXIII, che presenta il programma del Vaticano II nel suo discorso d’apertura:

Al presente bisogna invece che in questi nostri tempi l’intero insegnamento cristiano sia sottoposto da tutti a nuovo esame, con animo sereno e pacato, senza nulla togliervi, in quella maniera accurata di pensare e di formulare le parole che risalta soprattutto negli atti dei Concili di Trento e Vaticano I; occorre che la stessa dottrina sia esaminata più largamente e più a fondo e gli animi ne siano più pienamente imbevuti e informati, come auspicano ardentemente tutti i sinceri fautori della verità cristiana, cattolica, apostolica; occorre che questa dottrina certa ed immutabile, alla quale si deve prestare un assenso fedele, sia approfondita ed esposta secondo quanto è richiesto dai nostri tempi. Altro è infatti il deposito della Fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione. Va data grande importanza a questo metodo e, se è necessario, applicato con pazienza; si dovrà cioè adottare quella forma di esposizione che più corrisponda al magistero, la cui indole è prevalentemente pastorale (16).

Fu proprio questo il compito del Concilio, dice Benedetto XVI: la riformulazione moderna della fede; secondo un metodo moderno e seguendo i principi moderni, dunque secondo un metodo nuovo e dei principi nuovi. Poiché vi è sempre da una parte il metodo e dall’altra i principi. Applicare questo metodo e adottare questi principi sarebbe ancora, dopo quarant’anni, il compito della Chiesa:

È chiaro che questo impegno di esprimere in modo nuovo una determinata verità esige una nuova riflessione su di essa e un nuovo rapporto vitale con essa; è chiaro pure che la nuova parola può maturare soltanto se nasce da una comprensione (Verstehen) consapevole della verità espressa e che, d’altra parte, la riflessione sulla fede esige anche che si viva questa fede (17).

Ecco tutta la rivoluzione del magistero operata dal Concilio. La preoccupazione del soggetto della fede che supplisce alla preoccupazione per l’oggetto della fede. Invece di cercare semplicemente di precisare ed esplicitare il dogma, il nuovo magistero cercherà di riformularlo e di adattarlo. Invece di adattare l’uomo a Dio, vuole adattare Dio all’uomo. Non si ha allora un magistero sovvertito, un contro-magistero?
(su)

Il metodo: l’ermeneutica storicista di Dilthey

Dove trovare il metodo per questa rilettura adattata dei dogmi? Occorre fare intervenire un filosofo tedesco che ha influito sulla teologia tedesca e di cui si trova il segno in Joseph Ratzinger: Wilhelm Dilthey (1833-1911), il padre dell’ermeneutica e dello storicismo.
L’ermeneutica, come abbiamo visto, è l’arte di interpretare i fatti o i documenti.
Lo storicismo vuole considerare il ruolo della storia nella verità. Per Dilthey, come per Schelling ed Hegel, che erano degli idealisti, la verità si comprende solo nella sua storia. Ma, mentre per Schelling ed Hegel la verità si sviluppa da se stessa secondo un processo dialettico ben noto, per Dilthey invece occorre fare una distinzione:
-    Nelle scienze fisiche lo sviluppo consiste nell’esplicare (Erklären), e questa è una funzione puramente razionale.
-    Nelle scienze umane, invece, la verità progredisce per comprensione (Verstehen), e questo include le potenze appetitive dell’anima. In tal modo, la verità si sviluppa secondo il processo di reazione vitale del soggetto nei confronti dell’oggetto, secondo il rapporto di reazione vitale tra lo storico, che si china su dei fatti storici, e l’impatto della storia.
In tal modo, la ricchezza emotiva dello storico va ad arricchire l’oggetto studiato. Il soggetto entra nell’oggetto, fa parte dell’oggetto. La storia si carica dell’energia emotiva dei lettori, tale che i giudizi sul passato sono continuamente colorati dalle reazioni vitali dello storico o del lettore. Ora, è al termine di ogni epoca che appare pienamente il senso di questa stessa epoca, sottolinea Dilthey, e questo è molto vero; così che ad ogni termine suddetto occorre procedere ad una nuova revisione.
Applichiamo tutto questo: la data del 1962, quella dell’inizio del Concilio Vaticano II, sembrava il termine di un’epoca moderna, e quindi si potevano – e si dovevano – rivisitare, riguardare tutti i fatti storici, i giudizi del passato, specialmente sulla religione, per trarne i fatti significativi e i principi permanenti, non senza colorarli a nuovo con le preoccupazioni e le emozioni del presente.
In questo senso, Hans Georg Gadamer (nato nel 1900) ritiene che la vera conoscenza storica non consiste, per l’interprete, nel volersi disfare dei suoi pregiudizi – sarebbe il peggiore dei pregiudizi – ma nel prenderne coscienza e nel trovarne dei migliori. Non si tratta di un circolo vizioso, dicono gli ermeneuti, ma di un sano realismo che si chiama «il circolo ermeneutico».
Applicata alla fede, questa prospettiva purifica necessariamente il passato da ciò che s’era aggiunto in maniera provvisoria al nocciolo della fede, e questa revisione, questa retrospettiva, aggrega necessariamente alla verità i coloriti delle preoccupazioni del presente. Vi è dunque un duplice processo: da una parte la rilettura del passato che consiste nella purificazione del passato, uno sfrondamento dalle sue sovrapposizioni parassitarie, una messa in evidenza dei suoi presupposti impliciti, una presa di coscienza delle sue circostanze passeggere, una tenuta in conto delle reazioni emotive del passato o delle filosofie del passato; dall’altra, deve esserci un arricchimento dei fatti e delle idee storiche per mezzo della reazione vitale attuale, che dipende dalle nuove circostanze dell’epoca attuale, nonché dalla mentalità e dunque dalla filosofia attuali.
È proprio a questa ermeneutica che l’esperto del Concilio, Joseph Ratzinger, invitava l’assemblea in vista della redazione dello «schema XIII» che doveva diventare la Gaudium et spes, in un articolo scritto prima della quarta sessione del Concilio. Ciò che egli diceva dei principi della morale vale anche per il dogma:
Le formulazioni dell’etica cristiana, che devono poter raggiungere l’uomo reale, quello che vive nel suo tempo, rivestono necessariamente la colorazione del suo tempo. Il problema generale, cioè il fatto che la verità è formulabile solo storicamente, si pone per l’etica con una acutezza particolare. Dove si ferma il condizionamento temporale e dove comincia il permanente, al fine di poter ritagliare e far risaltare come si deve il primo per procurare lo spazio vitale al secondo? Ecco una questione che non si può mai fissare in anticipo senza equivoci: in effetti, nessuna epoca può distinguere ciò che permane se non dal suo proprio punto di vista passeggero. Per riconoscerlo e praticarlo, dunque, occorrerà condurre sempre una nuova lotta. Poste tutte queste difficoltà, non bisognerà attendersi troppo dal testo conciliare su questa materia (18).
(su)

Benedetto XVI reclama la purificazione del passato della Chiesa

Per quanto incerta e provvisoria, questa purificazione del passato è proprio ciò che reclama Benedetto XVI per la Chiesa, ed è anche una costante della sua vita. Lo dice lui stesso:
… il mio intento di fondo, particolarmente durante il Concilio, è sempre stato quello di liberare dalle incrostazioni il vero nocciolo della fede, restituendogli energia e dinamismo. Questo impulso è la vera costante della mia vita (19).

Nel suo discorso del 22 dicembre 2005, Benedetto XVI enumera le purificazioni del passato operate dal Vaticano II e le giustifica rispetto al rimprovero di «discontinuità», invocando lo storicismo:

Innanzitutto occorreva definire in modo nuovo la relazione tra fede e scienze moderne […]. In secondo luogo, era da definire in modo nuovo il rapporto tra Chiesa e Stato moderno, che concedeva spazio a cittadini di varie religioni ed ideologie […]. Con ciò, in terzo luogo, era collegato in modo più generale il problema della tolleranza religiosa – una questione che richiedeva una nuova definizione del rapporto tra fede cristiana e religioni del mondo.
È chiaro – concede Benedetto XVI - che in tutti questi settori, che nel loro insieme formano un unico problema, poteva emergere una qualche forma di discontinuità e che, in un certo senso, si era manifestata di fatto una discontinuità, nella quale tuttavia, fatte le diverse distinzioni tra le concrete situazioni storiche e le loro esigenze, risultava non abbandonata la continuità nei principi.
In questo processo di novità nella continuità – si giustifica Benedetto XVI - dovevamo imparare a capire più concretamente di prima che le decisioni della Chiesa riguardanti cose contingenti – per esempio, certe forme concrete di liberalismo o di interpretazione liberale della Bibbia – dovevano necessariamente essere esse stesse contingenti, appunto perché riferite a una determinata realtà in se stessa mutevole. Bisognava imparare a riconoscere che, in tali decisioni, solo i principi esprimono l’aspetto duraturo, rimanendo nel sottofondo e motivando la decisione dal di dentro. Non sono invece ugualmente permanenti le forme concrete, che dipendono dalla situazione storica e possono quindi essere sottoposte a mutamenti.

Benedetto XVI chiarisce la sua giustificazione con l’esempio della libertà religiosa:
Il Concilio Vaticano II, con la nuova definizione del rapporto tra la fede della Chiesa e certi elementi essenziali del pensiero moderno, ha rivisto o anche corretto alcune decisioni storiche, ma in questa apparente discontinuità ha invece mantenuto ed approfondito la sua intima natura e la sua vera identità.
Il Concilio Vaticano II, riconoscendo e facendo suo con il Decreto sulla libertà religiosa un principio essenziale dello Stato moderno, ha ripreso nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa (20).
(su)

Dove l’ermeneutica diventa una distorsione della storia

Che Benedetto XVI mi permetta di protestare contro questa distorsione della storia! I papi del XIX secolo hanno condannato la libertà religiosa, non solo a causa dell’indifferentismo dei suoi promotori, ma in se stessa:
-    perché non è un diritto naturale dell’uomo: essa non è un «proprium cuiuscumque hominis ius», dice Pio IX (21), e non è uno dei «iura quae homini natura dederit», dice Leone XIII (22);
-    e perché essa deriva da «un’idea del tutto falsa di Stato (23)», l’idea di uno Stato che non avrebbe il dovere di proteggere la vera religione contro la diffusione dell’errore religioso.
Questi due motivi di condanna sono assolutamente generali, essi derivano dalla verità di Cristo e dalla sua Chiesa, dal dovere che ha lo Stato di riconoscerla e dal dovere indiretto che ha di favorire la salvezza eterna dei cittadini, non, certo, costringendoli a credere anche se non vogliono, ma proteggendoli contro l’influenza dell’errore professato socialmente, tutte cose insegnate da Pio IX e Leone XIII.
Se oggi, col mutare delle circostanze, la pluralità religiosa richiede, in nome della prudenza politica, delle misure civili di tolleranza, e cioè di parità giuridica tra i diversi culti, non significa che, in nome della giustizia, potrebbe essere invocata la libertà religiosa come un diritto naturale della persona. Essa rimane un errore condannato. La dottrina della fede è immutabile, anche quando la sua applicazione integrale è impedita dalla malizia dei tempi. E il giorno in cui le circostanze ritornassero normali, quelle di una cristianità, dovrebbero attuarsi le stesse applicazioni pratiche di repressione dei falsi culti, come al tempo del Syllabus. Ricordiamoci che le circostanze che cambiano l’applicazione (circostanze consequentes) non toccano il tenore della dottrina.
Lo stesso dicasi per le circostanze che spingono il magistero a intervenire (circostanze antecedentes). Il fatto che la libertà religiosa, nel 1965, si collocasse in un contesto personalista, molto diverso dal contesto aggressivo in cui si esprimeva cent’anni prima, nel 1864, al tempo del Syllabus, non cambia la sua malizia intrinseca. Le circostanze del 1864 spinsero certo Pio IX ad agire, ma non toccarono affatto il tenore della condanna da lui emessa contro la libertà religiosa. Se nel 2017 spuntasse un nuovo Lutero, che non affiggerebbe più come nel 1517 le sue 95 tesi sulla porta della chiesa di Wittenberg, verrebbe condannato negli stessi termini di 500 anni prima (24) .
Respingiamo dunque l’equivoco tra decisione «circostanziale» e decisione prudenziale, provvisoria, fallibile, riformabile, correggibile, in materia di dottrina.
(su)

Un nuovo Tommaso d’Aquino

 Ne consegue che la purificazione del passato della Chiesa, la revisione di «certe decisioni storiche» della Chiesa, come le propone Benedetto XVI, sono false e artificiose. Vi è da temere che lo stesso valga per l’assimilazione delle filosofie del tempo da parte della dottrina della Chiesa, assimilazione promossa dallo stesso Benedetto XVI nel suo discorso alla Curia del 2005.
Benedetto XVI vi loda San Tommaso d’Aquino per avere, nel XIII secolo, conciliato e associato la fede e la nuova filosofia della sua epoca. Novello Tommaso d’Aquino, egli dice: ecco io vi propongo la teoria dell’alleanza che il Concilio ha tentato tra la fede e la ragione moderna. Sono io che riassumo.
Ma ecco le esatte parole del Papa:
Quando nel XIII secolo, mediante filosofi ebrei ed arabi, il pensiero aristotelico entrò in contatto con la cristianità medievale formata nella tradizione platonica, e fede e ragione rischiarono di entrare in una contraddizione inconciliabile, fu soprattutto san Tommaso d’Aquino a mediare il nuovo incontro tra fede e filosofia aristotelica, mettendo così la fede in una relazione positiva con la forma di ragione dominante nel suo tempo. […] … col Concilio Vaticano II arrivò l’ora in cui si richiedeva un ampio ripensamento. […] …se lo leggiamo e recepiamo guidati da una giusta ermeneutica, esso può essere e diventare sempre di più una grande forza per il sempre necessario rinnovamento della Chiesa (25).

In breve, San Tommaso non ha condannato l’aristotelismo, malgrado i suoi errori, ma ha saputo accoglierlo, purificarlo e fissarlo in «una relazione positiva con la fede». - Il che è molto esatto. – Ebbene, il Vaticano II ha fatto la stessa cosa, non ha condannato il personalismo, ma ha saputo riceverlo e, attuando qualche purificazione, ha messo « così la fede in una relazione positiva con la forma di ragione dominante» del XX secolo, integrando il personalismo nella visione della Chiesa. – Resta da capire se questa integrazione è possibile.

(su)

NOTE

8  - J. RATZINGER, Les principes de la théologie catholique, Téqui, 1982, p. 13.
9  - J. RATZINGER, Foi chrétienne hier et aujourd’hui, Cerf, 2005 (riedizione senza variazioni della 1a ed. del 1969) [J. RATZINGER, Introduzione al Cristianesimo, 1969, Queriniana, Brescia, nuova ed. 2000].
10  - ANDRÉ CLÉMENT, La sagesse de Thomas d’Aquin, NEL, 1983, pp. 33-34.
11  - MICHAEL FIEDROWICZ, Theologie der Kirchenväter, Grundlagen frühchristlicher Glaubenreflexion, Herder, 2007, p. 340.
12  - VIGILIO DI TAPSO, Contro Eutiche, 5, 2. [Morcelliana].
13  - MASSIMO IL CONFESSORE, opusc. 4, PG 91, 260; FIEDROWICZ, Theologie der Kirchenväte, pp. 356-357.
14  - SAN VINCENZO DI LERINO, Commonitorium, RJ 2173-2174.
15  - Vedi: J. RATZINGER, Ma Vie, souvenirs, 1927-1977, Paris, Fayard, 1998, pp. 43-44 [La mia vita. Autobiografia, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1997, riedizione 2005, p. 42].
16  - GIOVANNI XXIII, Gaudet Mater Ecclesiae, discorso di apertura del Concilio, dell’11 ottobre 1962, 6.5. Su questo si veda PAOLO PASQUALUCCI, «Vatican II et la  pensée moderne: Considérations à partir d’un célèbre propos de Jean XXIII», La Religion de Vatican II – Premier Symposium de Paris 4-6 octobre 2002, pp. 313-314.
17  - BENEDETTO XVI, Discorso alla Curia del 22 dicembre 2005.
18  - J. RATZINGER, Der Christ und die Welt von heute, in J. B. METZ, Weltverständnis im Glauben, Matthias Grünevald Verlag, Mainz, 1965, p. 145.
19  - J. RATZINGER, Le Sel de la terre, pp. 78-79. [J. Ratzinger, Il Sale della Terra, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2005, p. 91].
20  - BENEDETTO XVI, Discorso alla Curia del 22 dicembre 2005.
21  - «un diritto proprio di ogni uomo»: PIO IX, Enciclica Quanta cura, Dz 1690 [il testo dell’Enciclica è disponibile sul sito della Santa Sede].
22  - «diritti competenti direttamente all’uomo»: LEONE XIII, enciclica Libertas, Dz 1932 [DS 3252].
23  - PIO IX, enciclica Quanta cura, Dz 1690 [il testo dell’enciclica è disponibile sul sito della Santa Sede].
24  - Vedi: ABBÈ FRANÇOIS KNITTEL, «Benoît XVI: entretien sur Vatican II», in Courrier de Rome, Sì sì no no, n° 290, giugno 2006, p. 6.
25  - BENEDETTO XVI, Discorso alla Curia del 22 dicembre 2005.


febbraio 2011